di Fabrizio Casari

Dopo l’ultimatum UE di una settimana, tempo nel quale verranno presentate le nuove sanzioni occidentali contro Mosca, a far crescere notevolmente la tensione politica e militare tra Russia e Nato, arriva puntuale il premier britannico Cameron, che in una intervista al Financial Times informa dell’intenzione di attivare una forza militare a comando britannico che comprenderebbe militari di Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Estonia, Lettonia e Lituania (il Canada si sarebbe detto disponibile).

Una forza di spedizione congiunta denominata JEF, dotata di unità terrestri, aeree e navali forte di diecimila uomini. Si muoverebbe continuamente ai confini sud-orientali russi e, seppur in funzione di deterrenza e come segnale di disponibilità alla risposta rapida, utilizzerebbe proprio l’assenza di stanzialità e basi fisse per evitare la violazione degli accordi tra Nato e Mosca in ordine all’equilibrio di forze in Europa.

Difficile credere che questo schieramento possa impensierire Mosca sotto il profilo militare, dal momento che la sproporzione di forze è tale da non essere messa in discussione da questa nuova creatura militare partorita dal sempre gravido ventre degli Stranamore occidentali. E’ invece plausibile che l’iniziativa intenda mettere di fronte al fatto compiuto Germania e Italia, che continuano a chiedere una soluzione negoziata. L’operazione Nato, voluta da Obama e attuata da Cameron, sembra destinata a rassicurare i paesi dell’Est che continuano a chiedere con cadenza quotidiana soldi e guerra per rinsaldare le rispettive gang di mafiosi al potere.

Non gli si può concedere una guerra termonucleare globale per difendere Kiev ma si può far finta di non limitarsi alla guerra delle sanzioni economiche. Il messaggio è comunque indirizzato anche a Mosca, indicando la disponibilità ad alzare ulteriormente l’asticella del confronto militare alle sue frontiere utilizzando i paria ex Patto di Varsavia.

Si tratterà di vedere se e come il dispositivo pensato da Cameron potrà concretizzarsi e quale sarà la risposta di Mosca, che riafferma con Putin l’intenzione di non farsi accerchiare e di garantire alle regioni che vogliono continuare ad essere legate alla Russia tutto l’appoggio necessario. Ma volendo scongiurare una escalation militare, al momento la questione delle sanzioni occidentali e delle contro sanzioni russe rappresentano il cuore del conflitto, essendo la soluzione politica, la grande assente dalla discussione europea, ancorché l’unica soluzione possibile. E sono quindi le sanzioni il terreno dove si misureranno le contraddizioni europee nella prossima settimana.

Nonostante la questua quotidiana di Kiev e degli altri paesi dell’Est, il danno per l’Europa è decisamente elevato. Secondo alcune stime indipendenti il complessivo danno possibile per l’Occidente con la guerra economica alla Russia è di 1200 miliardi di Euro, 190 dei quali a carico della sola Germania. Solo per quanto riguarda il settore agricolo ammontano a due miliardi di Euro i mancati introiti del 2014 derivanti dalle esportazioni europee verso la Russia, 706 milioni solo per quanto riguarda l’Italia.

Ma sono importi destinati a crescere e a ripercuotersi nell’economia più generale, dal momento che la mancata esportazione dei prodotti deteriorabili renderà necessario immetterli nei mercati interni già saturi, con il risultato di dover applicare ulteriori abbassamenti dei prezzi complicando così ulteriormente la dinamica domanda-offerta già messa a durissima prova dalla deflazione. Deflazione che non è positiva; non viene infatti da una riduzione dei prezzi data da maggiore concorrenza, ma da l’abbassamento dei prezzi determinato dalla riduzione dei consumi causata dalla contrazione delle entrate, conseguenza ovvia della crisi occupazionale.

Nemmeno pensare poi, a quello che avverrà nei prossimi due mesi, quando il gas russo, dal quale dipendono quasi tutti all’Est e che risulta determinante anche per l’approvvigionamento di Germania e Italia, potrebbe essere bloccato da Mosca oppure venduto a prezzi decisamente più alti di quello pagato fino ad ora, determinando così un costo ancora più alto per tutta la filiera e che andrebbe a colpire l’utenza finale. Non è peraltro escluso che nel caso la escalation occidentale contro Mosca proseguisse, Putin potrebbe addirittura scegliere di bloccare l’export del gas, la cui cosa avrebbe come risultato lasciare mezza Europa nella morsa del gelo.

Sono diversi quindi gli elementi che spingono Germania, Italia e la stessa Francia ad un atteggiamento meno ideologico nel confronto tra Bruxelles e Mosca. L’impressione è che l’Europa, nella fretta di assecondare le mire statunitensi di contrastare la Cina nel Nord dell’Eurasia e di limitare il consolidamento dell’alleanza euroasiatica, sia rimasta con il classico cerino in mano. Aprire un nuovo scontro in un nuovo scenario con Russia e Cina, infatti, è tutto nell’esclusivo interesse statunitense, che nella limitazione dell’espansione dell’alleanza tra Mosca e Pechino vede il suo core business per la difesa dell’impero unipolare.

Tutt’altra questione per quanto riguarda Mosca, che ha già trovato nel mercato euroasiatico e nella Turchia la riallocazione di alcuni dei suoi prodotti oggi bloccati dalle sanzioni e che ha in Argentina e Brasile i nuovi fornitori agricoli (dal grano alle verdure e alla frutta) che importava dall’Europa e che ha già un accordo con la Cina per l’assegnazione delle quote di gas fino ad ora assegnate al Vecchio continente.

Rischia dunque di costare carissima la scelta dei golpisti di Kiev di aderire ai trattati europei, in opposizione a quanto il legittimo governo di Yanukovic aveva voluto, cioè l’adesione all’Unione Doganale Euroasiatica, composta da Russia, Bielorussia e Kazhakistan, che prevedeva una circolazione di merci senza dazi e a tariffe uniche nei tre paesi per il commercio con i paesi terzi e l’approvvigionamento energetico a prezzi calmierati da parte di Mosca.

L’adesione di Kiev agli accordi con Bruxelles, siglata nello scorso Giugno a Bruxelles dai golpisti guidati da Poroshenko, non prevedono altro che prestiti finanziari dal FMI a fronte di prezzi calmierati per le esportazioni ucraine verso l’Europa e sono da escludersi donazioni di entità determinanti da parte europea, vista la crisi drammatica in cui si trova. Dunque non vi sono questioni di convenienza economica per Kiev, ma solo di natura politica-ideologica. L’adesione agli accordi economici preferenziali con Bruxelles è la porta di servizio dalla quale passare per la successiva richiesta, quella di entrare nella Nato.

L’Europa, infatti, ha scelto di aizzare la destra ucraina al colpo di stato proprio per rompere con Mosca. Primo fondamentale passaggio per incorporare Kiev nella Nato e poter così ulteriormente allargare la presenza dell’alleanza Atlantica a Est, arrivando nel giro di poco tempo a piazzare armamenti e uomini ai confini con la Russia, in violazione a quanto pattuito con Mosca solo pochi anni addietro e ribadito pochi mesi orsono.

Una richiesta di adesione alla Nato avrebbe messo la Russia con le spalle al muro e l'avrebbe probabilmente spinto, da accerchiata, ad una risposta militare immediata, per quanto limitata, che indicasse senza equivoci l’indisponibilità a scherzare con la sua sicurezza. Ma Washington non vede altra strada che non sia quella di esercitare minacce e pressioni a Pechino e Mosca per ridurre la loro crescente influenza nello scenario globale e mette nel conto sacrificare pace e sicurezza di chiunque.

In questo senso l’Europa, proprio per sfilarsi dalla morsa nella quale Washington intende stringerla deve cercare nella soluzione politica al conflitto ucraino la via d’uscita. Lo scioglimento del Parlamento ucraino da parte di Poroshenko e l’indizione di elezioni per il prossimo 26 Novembre, risultano una manovra per cancellare la presenza parlamentare dei rappresentanti di Crimea e Donbass e ridurre quella dell’estrema destra con cui Bruxelles e Washington non gradiscono apparire nelle foto di rito. Si vedrà come andranno le elezioni, visto che alle ultime la maggioranza dei voti sono andati ai filorussi guidati da Yanukovic e che la drammatica crisi economica, con aggiunte le minacce di guerra, stanno provocando proteste massicce a Kiev contro il re del cioccolato.

Ammesso quindi che Poroshenko possa vincere (cosa non semplice) dovrà comunque decidere di trovare una soluzione politica alla crisi con Mosca. Tanto nei colloqui in Finlandia, come nell’incontro tra Putin e Poroshenko a Minsk, Kiev al momento si dice disposta a riconoscere un’ampia autonomia alla regione, ma Putin ritiene questo assolutamente insufficiente sotto il profilo della sicurezza delle sue frontiere, per questo, propone la nascita di uno stato vero e proprio che tenga insieme Crimea e Dombass e che rappresenti una sorta di cuscinetto tra Russia e Occidente.

Non sembrano, quelle di Putin, pretese eccessive; a maggior ragione dopo che i bombardamenti ucraini su Donetsk e le migliaia di civili morti nell'assalto dell'esercito di Kiev alle città e ai villaggi del Donbass non favoriranno certo la convivenza nel prossimo futuro. Dunque la proposta di Putin è proposta praticabile e di buon senso: la dimensione dell’Ucraina è cosa assolutamente trascurabile.

Bruxelles potrebbe effettivamente lavorare per convincere Washington che l’Europa non può pagare un prezzo economico altissimo per legarsi ad un paese insignificante (se non per essere utilizzato in funzione antirussa) o essere addirittura portata sull’orlo di una guerra per assecondare i piani del Pentagono. Cominciando col dire che l’opzione militare è scartata e che la soluzione del conflitto deve essere politica, Bruxelles si farebbe un favore. Pazienza se gli Stranamore di Washington, i nazisti di Budapest e Varsavia e i golpisti di Kiev ci resteranno male.

di Fabrizio Casari

Alla fine, come pronosticato anche qui, Federica Mogherini, Ministro degli Esteri italiano, è stata eletta alla carica di Lady Pesc, ovvero Alto Eappresentante Europea per la politica estera e di sicurezza. E’ certamente una vittoria politica di Matteo Renzi, che della nomina della Mogherini in Europa ne ha fatto una questione cruciale, quasi una ossessione. Berlino, Parigi e Londra non hanno avuto particolari difficoltà ad accettare il capriccio di Renzi, dal momento che non sarà certo a politica estera il terreno principale delle contraddizioni interne alla UE. In cambio, ottenere l’inutile nomina a Mr Pesc impedisce altre di maggior peso politico.

Per questo, nonostante le opposizioni dei paesi dell’Est Europa, ampio era il consenso dei paesi decisivi e lo stesso accordo tra socialisti e democristiani a livello europeo, che aveva prodotto la nomina di Junker a Commissario Europeo con il voto decisivo del PSE, (con il PD italiano in prima fila) comportava per riequilibrio sia la vicepresidenza del Consiglio d’Europa che l'Alto Rappresentante agli esteri e alla sicurezza a forze e paesi diversi.

La nomina della Mogherini era scontata proprio dopo l’avvenuta nomina di Junker e l’opposizione degli ex appartenenti al blocco socialista dell’Est non avrebbe potuto impedire l’arrivo della signora romana a Bruxelles. Ungheria, Bulgaria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Croazia, Romania, Repubblica Ceka, Slovacchia e Slovenia, pur costituendo un blocco numeroso sono però paesi dal peso politico ridotto a livello europeo. Vedono comunque bilanciare la sconfitta patita su Lady Pesc con la nomina di Donald Tusk, ex premier polacco, a Vicepresidente permanente del Consiglio d’Europa.

Peraltro, l’opposizione di Praga, Varsavia, Budapest e soci poggiava su un elemento discutibile, cioè la presunta “morbidezza” della Mogherini nei confronti di Mosca. Ma si tratta di furore ideologico allo stato puro, dal momento che Mogherini, come del resto i governi determinanti europei, non sono inclini a verbosità guerriere contro Mosca. A Varsavia o a Praga, tutto meno che icone di democrazia, in linea con il cioccolataio di Kiev si chiede l’apertura di una guerra con la Russia di Putin, salvo poi, a giorni alterni, chiedere armi e soldi a Europa e Usa. Un “armiamoci e partite” quindi, che non viene accreditato di particolare considerazione a Bruxelles.

Anche perché, differentemente dai parìa dell’Est, proprio a Bruxelles (vista come sede Ue e Nato) sanno perfettamente la differenza che corre tra una diplomazia attenta all’interlocuzione e un comizio; e dal momento che sono Berlino, Parigi, Londra, Roma e Madrid a sostenere lo scontro politico, diplomatico e commerciale con Mosca, ritengono di dover affrontare i nodi delicati della partita con la Russia con la precisa consapevolezza di doversi poi assumere le conseguenze del loro agire politico.

Ciò detto, rimane da decifrare politicamente la ragione dell’impegno spasmodico di Renzi per occupare la casella di Lady Pesc, a parte l’evidenza della volontà del premier italiano di ottenere un successo personale, aspetto del resto presente in tutta l’attività dell’uomo con il gelato. Intendiamoci: la nomina a Lady Pesc di una politica italiana non rappresenta un danno per il Paese, ci mancherebbe altro.

Semplicemente, Lady Pesc - come ha dimostrato la Signora Ashton - è un ruolo puramente figurativo, privo di qualunque decisionalità politica, dal momento che Bruxelles non ha una linea politica continentale nelle relazioni internazionali; sostiene posizioni comuni solo su questioni di relativa importanza, mentre i dossier decisivi per gli equilibri internazionali ciascun paese membro della UE li affronta per proprio conto e d’accordo con Washington.

E, proprio in relazione a quest'ultimo aspetto, va sottolineato come la vicinanza di Renzi a Obama abbia visto Washington dare il suo gradimento alla nomina di Federica Mogherini, ed è ovvio quanto noto che il sostegno statunitense sulla nomina di un ministro degli Esteri e della Sicurezza europea pesa come un macigno sulla scelta.

Per quanto riguarda le ricadute italiane della nomina di Federica Mogherini, si tratterà di vedere se Renzi riterrà di nominare solo una nuova titolare della Farnesina oppure se verrò colta l’occasione per un mini-rimpasto di governo. Nelle scorse settimane erano girate voci insistenti sullo spostamento di Alfano al posto della Mogherini, ma i deboli di stomaco hanno espresso diverse riserve.

Se infatti l’uscita di Alfano dal Viminale rappresenterebbe comunque una buona notizia per l’Italia, le recentissime polemiche su Frontex e sulla missione Mare Nostrum che il ministro dell’Interno ha scatenato contro l’Europa potrebbero costituire un’ulteriore difficoltà per lo spostamento di Alfano alla Farnesina. Voci maliziose sostengono che le polemiche sarebbero nate proprio in seguito alla consapevolezza di uno scarsissimo entusiasmo dei partner europei all’arrivo alla Farnesina di un uomo considerato non certo dotato di genialità politica.

Contemporaneamente, altri appetiti si scatenano. Casini, infatti, ultimamente in particolare, si danna quotidianamente per autocandidarsi a nuovo ministro degli Esteri e, benché il mantenimento in vita del governo è garantito dall’alleanza tra PD e Forza Italia, con il NDC e gli ex di SEL nel ruolo di attori non protagonisti, Renzi potrebbe ritenere utile blindare anche i voti della pattuglia di Cesa e Casini.

In attesa della consumazione del rito tutto democristiano del rimpasto, resta solo l’evidenza di come Renzi, mentre l’economia attraversa una fase drammatica e la disoccupazione registra la percentuale più alta della storia italiana dagli anni ’60 ad oggi, si sia impegnato allo spasimo per la controriforma istituzionale e la nomina di Federica Mogherini. La prima dannosa per l’Italia, la seconda inutile per l’Europa.

di Michele Paris

La situazione in Libia a quasi tre anni dalla deposizione e dall’assassinio di Gheddafi appare sempre più drammatica e ormai sul punto di esplodere in una guerra civile a tutti gli effetti. A sonvolgere il paese nord-africano, “liberato” dalle bombe NATO nel 2011 in seguito alla manipolazione di una risoluzione dell’ONU, sono i continui scontri tra milizie armate grosso modo riconducibili a militanti islamisti e secolari, appoggiati a loro volta da potenze straniere in competizione per l’influenza nella ex colonia italiana ricchissima di risorse energetiche.

A mettere in guardia la comunità internazionale dal baratro in cui sta precipitando la Libia è stato tra gli altri anche il suo ambasciatore alle Nazioni Unite, Ibrahim Dabbashi. Quest’ultimo ha lanciato un appello all’azione per evitare il peggio in concomitanza con il voto unanime questa settimana del Consiglio di Sicurezza per imporre nuove quanto inutili sanzioni sui presunti responsabili della destabilizzazione del paese.

I 15 membri del Consiglio, con apparente serietà, hanno anche invitato i paesi arabi ad adoperarsi per mettere fine alle violenze e a cercare una soluzione negoziata al conflitto in corso. La raccomandazione è apparsa sinistramente ironica, visto che proprio alcuni importanti paese arabi continuano ad alimentare gli scontri in Libia: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi da una parte e Qatar dall’altra.

Questa realtà, che ha trascinato la Libia al centro della lotta di potere nella regione tra i sostenitori dell’Islamismo politico e i suoi oppositori, è apparsa evidente qualche giorno fa con la conferma da parte del governo americano che gli Emirati Arabi, grazie all’appoggio logistico egiziano, hanno recentemente bombardato con aerei da guerra alcune postazioni islamiste nel paese nord-africano.

L’intervento doveva avere l’obiettivo di impedire alle milizie islamiste, guidate dalla fazione proveniente da Misurata, di conquistare l’aeroporto internazionale di Tripoli, controllato da quasi tre anni dalla milizia di Zintan, nella Libia occidentale, alleata con varie altre formazioni sostenute appunto dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi.

Le incursioni aeree non hanno però avuto l’effetto sperato, visto che la fazione di Misurata e le alleate di quest’ultima hanno finito per assumere ugualmente il controllo dell’aeroporto nel fine settimana.

Nonostante le smentite, appare difficile che gli americani non siano stati al corrente dell’operazione decisa dal regime degli Emirati vista la stretta alleanza di quest’ultimo con Washington e la massiccia presenza di forze armate statunitensi nella regione del Golfo Persico. Del tutto possibile è invece un certo disappunto dell’amministrazione Obama che potrebbe temere sia un aggravamento del caos in Libia sia di essere scavalcata negli eventi di questo paese dai propri alleati arabi.

In ogni caso, gli attacchi aerei condotti il 18 e il 23 agosto non hanno rappresentato il primo intervento congiunto di Egitto ed Emirati Arabi in territorio libico, poiché in precedenza era circolata la notizia di almeno un blitz delle forze speciali di questi due paesi contro un accampamento degli islamisti poco oltre il confine con l’Egitto.

Lo scontro tra vari paesi arabi e non solo per estendere la loro influenza sulla Libia era iniziato già durante la “rivolta” contro Gheddafi, a conferma della più che dubbia natura democratica della guerra contro il regime alimentata fin dall’inizio da armi e denaro stranieri. Il Qatar e la Turchia, ad esempio, avevano da subito individuato possibili alleati soprattutto tra le milizie anti-governative di ispirazione islamista e dopo la fine del regime i due paesi si erano schierati a fianco dei Fratelli Musulmani libici.

Questi ultimi erano riusciti a prevalere all’interno del corpo legislativo “post-rivoluzionario” transitorio, denominato Congresso Nazionale Generale ed eletto nell’estate del 2012. In seguito, le milizie islamiste sarebbero state in pratica incorporate nelle strutture del nuovo stato, suscitando sempre più la preoccupazione di paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, tradizionalmente ostili a forme alternative di islamismo politico che possano rappresentare una qualche minaccia ai rispettivi regimi assoluti.

Per tutta risposta, Riyadh e Abu Dhabi hanno allora iniziato a fornire aiuti militari e finanziari alle milizie anti-islamiste, originarie soprattutto della città occidentale di Zintan, contribuendo in maniera decisiva alla destabilizzazione della Libia.

Lo scontro si è fatto poi ancora più aspro dopo il colpo di stato in Egitto che ai primi di luglio dello scorso anno ha rimosso dal potere il presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Mursi – eletto democraticamente e sostenuto finanziariamente e politicamente dal Qatar – dando inizio a una violentissima repressione ai danni del movimento islamista. L’iniziativa dei militari egiziani era stata appoggiata in pieno da Arabia Saudita ed Emirati Arabi - nonché dagli Stati Uniti - e aveva incoraggiato ancor più all’azione le milizie anti-islamiste nella vicina Libia.

In un quadro di scontri sempre più violenti e con il rapido deterioramento della situazione interna, si è inserito inoltre nel mese di maggio il tentativo di riportare un qualche ordine nel paese da parte dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Hiftar. Esiliato per decenni negli Stati Uniti in una località a pochi chilometri dal quartier generale della CIA, Hiftar aveva tentato un’offensiva contro gli islamisti nella parte orientale della Libia con il tacito appoggio degli Stati Uniti, raccogliendo il consenso di varie milizie e manifestando chiaramente l’intenzione di riprodurre nel suo paese le vicende egiziane.

L’offensiva guidata da Hiftar si è però arenata dopo alcuni successi iniziali e le elezioni, da lui indette dopo avere sciolto il Congresso Nazionale Generale e licenziato il governo, non hanno prodotto nessun risultato.

Il voto tenuto a giugno aveva peraltro messo in minoranza le forze islamiste nel nuovo parlamento ma l’assemblea ha potuto riunirsi solo qualche settimana fa nella città orientale di Tobruk, mentre il vecchio Congresso Nazionale Generale è stato recentemente reinsediato a Tripoli. L’inconsistenza della nuova Camera è confermata dal fatto che le tre principali città libiche - Bengasi, Misurata e appunto la capitale - dove risiede più della metà della popolazione, rimangono sotto il controllo degli islamisti.

In questo scenario, la Libia è ormai un campo di battaglia tra opposte fazioni nel quale i principi che avevano nominalmente animato la guerra contro Gheddafi sono stati abbandonati anche nelle apparenze, con gli islamisti e i loro sponsor esteri che cercano di contrastare la controffensiva delle milizie rivali, finanziate a loro volta dal petrolio saudita e disposte da qualche tempo ad accettare anche il contributo di ex membri del regime del rais contro cui avevano duramente combattuto.

La progressiva disintegrazione delle strutture statali della Libia dopo la caduta di Gheddafi e la trasformazione di questo paese in una sorta di nuova Somalia hanno dunque responsabilità ben precise. Esse non sono però da ricercare soltanto tra quei regimi arabi che stanno combattendo per procura su tutto il fronte mediorientale e nord-africano per assestare un colpo letale alle forze islamiste rivali, appoggiate in particolare da Qatar e Turchia.

Le responsabilità maggiori sono da attribuire agli Stati Uniti e ai governi europei, oggi silenziosi o impotenti di fronte all’espandersi della crisi libica ma intervenuti prontamente a sostegno della “rivolta” anti-Gheddafi nel 2011 per favorire il crollo del regime dietro motivazioni umanitarie, puntando proprio sulle forze fondamentaliste e le milizie armate violente che hanno continuato in questi anni a fronteggiarsi per la spartizione del potere e delle ricchezze del paese.

di Michele Paris

A sottolineare ancora una volta le gigantesche divisoni di classe negli Stati Uniti è stata recentemente la diffusione della notizia relativa alla costruzione di un edificio di lusso a Manhattan dotato di un’apposita “porta dei poveri”. Questo ingresso separato servirà a evitare che i residenti facoltosi delle nuove abitazioni dell’edificio nell’Upper West Side vengano anche solo accidentalmente in contatto con gli inquilini a basso reddito che si aggiudicheranno i pochi appartamenti messi a disposizione ad affitto regolato.

L’edificio in questione è un grattacielo al numero 40 di Riverside Boulevard con una superba vista sul fiume Hudson e l’estremità meridionale del Riverside Park. Lo spettacolare panorama sarà però visibile solo ai ricchi proprietari dei 219 esclusivi appartamenti che guardano verso il fiume, mentre gli occupanti delle 55 unità più economiche in locazione dovranno accontentarsi di un affaccio sulle strade laterali.

Sempre dal lato del fiume, i ricchi proprietari potranno accedere alle loro residenze grazie a una porta d’ingresso dedicata e vietata invece ai vicini di casa più poveri, confinati per l’accesso alle abitazioni a una “poor door” affacciata sulla 62esima strada.

L’edificio di 33 piani è tuttora in fase di costruzione ad opera della compagnia Extell Development che, sfruttando un regolamento municipale di New York, ha ottenuto sgravi fiscali per svariati anni e la possibilità di aggiungere un numero di unità abitative superiore a quanto previsto dal piano regolatore in cambio della realizzazione di alcuni appartamenti da offrire a un canone accessibile per inquilini con redditi relativamente bassi.

Se la legge prevede teoricamente che le unità a prezzo di mercato e quelle a canone regolato siano “integrate”, i costruttori hanno facoltà di creare ingressi separati per ricchi e poveri se decidono di mettere in vendita, invece che affittare, gli appartamenti o gli attici più lussuosi.

Simbolo esemplare delle disparità sociali che caratterizzano gli Stati Uniti e del disprezzo che la nuova aristocrazia nutre nei confronti delle classi “inferiori”, le “porte dei poveri” sono peraltro una realtà già presente in varie parti della città di New York.

Oltre al caso di Riverside, il New York Times questa settimana ha raccontato ad esempio del complesso residenziale Edge Community nel quartiere alla moda di Williamsburg, a Brooklyn. Anche qui, in un palazzo con vista sull’East River, gli affittuari più poveri devono passare attraverso un ingresso distinto e la separazione dai proprietari benestanti appare totale, dal momento che ai primi non è consentito utilizzare - nemmeno a pagamento - le strutture a disposizione di questi ultimi, come la palestra.

Nel caso del complesso al 40 di Riverside Boulevard, i prezzi di vendita potrebbero toccare cifre da capogiro. In un edificio vicino, ad esempio, un attico con 7 camere da letto è stato recentemente venduto per oltre 25 milioni di dollari.

Le 55 unità in affitto che occuperanno il sesto piano dell’edificio, invece, avranno canoni agevolati grazie a sussidi della città e dello stato di New York e verranno affittati a 850 dollari al mese per un appartamento con una camera da letto e a 1.100 dollari per quelli con due.

Nonostante siano ben al di sotto delle quote di mercato di Manhattan e della zona residenziale dell’Upper West Side, i canoni non sono poi troppo convenienti per i “fortunati” inquilini a cui saranno assegnate le abitazioni, visto che andranno a individui o famiglie con redditi al di sotto dei 50 mila dollari l’anno.

La notizia dell’approvazione durante l’estate del palazzo con la “porta dei poveri” ha creato parecchio imbarazzo per l’amministrazione del sindaco democratico Bill de Blasio, le cui fortune politiche sono dovute in buona parte ad una retorica progressista ed egalitaria che ha comunque poche corrispondenze con la realtà.

Secondo il vice-sindaco con delega all’urbanistica, Alicia Glen, la creazione di due porte d’ingresso separate andrebbe contro i “principi di uguaglianza” propagandati dall’attuale amministrazione di New York, la quale starebbe perciò lavorando ad un cambiamento della legge. Le modifiche alle norme che disciplinano il piano regolatore della città e che hanno permesso l’iniziativa dei costruttori dell’edificio di Riverside erano state però approvate anche dallo stesso de Blasio nel 2009 in qualità di membro del consiglio comunale.

I legami del sindaco con l’industria edile newyorchese erano apparsi d’altra parte evidenti nella campagna elettorale dello scorso anno e il suo stesso piano di creare circa 80 mila unità abitative “a basso costo” nei prossimi dieci anni si basa in larga misura su progetti legati ad accordi con i singoli costruttori che beneficeranno di fondi pubblici o sgravi fscali, come è accaduto appunto per il palazzo di Riverside in costruzione.

Secondo quanto riportato dal New York Post qualche mese fa, cinque progetti di lusso della compagnia Extell Development sono costati alla città quasi 22 milioni di dollari in mancati introiti fiscali solo nel primo anno dopo la loro costruzione. Grazie al programma comunale di sgravi, questi edifici hanno fruttato in tasse appena 567 mila dollari. Complessivamente, gli incentivi assicurati ai costruttori sia per nuovi progetti sia per ristrutturazioni creano annualmente un buco nelle casse comunali di circa 1 miliardo di dollari.

Più in generale, la drammatica situazione abitativa per milioni di persone a New York è il risultato di politiche pubbliche che da tempo puntano pressoché eslcusivamente sull’edilizia privata e che danno mano libera ai costruttori nei loro progetti, tutt’al più in cambio di qualche manciata di inadeguate unità abitative da assegnare ai redditi più bassi.

Queste pratiche, in definitiva, finiscono per contribuire alla creazione di nuove ulteriori residenze ad altissimo costo per super ricchi e speculatori, di cui New York abbonda, molte delle quali - 34 mila secondo i dati relativi al 2011 - non abitate per almeno dieci mesi all’anno a fronte di un numero di senzatetto che nella città ha superato ormai i 60 mila.

La disponibilità di immobili a cifre relativamente ragionevoli in una delle dieci metropoli con i maggiori livelli di disuguaglianza del pianeta è inoltre estremamente limitata. Il canone d’affitto medio mensile a Manhattan sfiora oggi i 4 mila dollari ed è raddoppiato in pochi anni nonostante le retribuzioni siano rimaste invariate.

Con simili costi, a cui vanno aggiunti quelli nettamente più alti del resto degli Stati Uniti per beni alimentari, trasporti ed energia, poco meno della metà degli abitanti di New York deve sopravvivere con un reddito annuo che si aggira attorno ai 36 mila dollari.

Infine, coloro che non fanno parte delle classi privilegiate si ritrovano a dovere fronteggiare una concorrenza spietata per i pochi alloggi “economici” disponibili, come confermano le 50 mila richieste presentate recentemente per soli 124 appartamenti in affitto a canoni compresi tra 349 e 1.588 dollari in un progetto residenziale nel distretto di Sugar Hill a Harlem.

di Mario Lombardo

La dissoluzione del governo francese nella giornata di lunedì e la nascita di un nuovo Esecutivo il giorno successivo sono soltanto le più recenti manifestazioni delle crescenti divisioni interne alle élites francesi, ed europee in genere, attorno alle politiche economiche da perseguire in una situazione di persistente affanno economico dovuto alla profonda crisi del capitalismo occidentale.

Le dimissioni del primo ministro Manuel Valls e il nuovo incarico assegnatogli da François Hollande si sono tradotti in un governo ancora più spostato a destra di quello uscente. Se dodici ministri hanno conservato i loro incarichi, tra cui Laurent Fabius agli Esteri e Jean-Yves Le Drian alla Difesa, le nuove entrate appaiono significative, a cominciare dal nuovo ministro dell’Economia, il 36enne Emmanuel Macron. Ex banchiere d’affari e già consigliere economico del presidente, Macron è uno dei rappresentanti della destra del Partito Socialista, discepolo, come il premier Valls, del rigore e del libero mercato.

La nascita del terzo governo in soli due anni di presidenza Hollande è stata dovuta alla rivolta interna all’esecutivo Valls, nato appena cinque mesi fa, a causa delle politiche di austerity che hanno fatto precipitare i livelli di popolarità dei leader socialisti ai minimi storici.

Le parole pronunciate nel fine settimana dagli ormai ex ministri dell’Economia, Arnaud Montebourg, e dell’Educazione, Benoît Hamon, hanno portato alla luce del sole e in maniera clamorosa le resistenze di una parte della classe dirigente d’oltralpe al percorso scelto dall’Eliseo per cercare di portare la Francia fuori da una crisi economica sempre più preoccupante.

Per Montebourg, “la marcia forzata verso la drastica riduzione del defcit pubblico è un’aberrazione economica, un’assurdità finanziaria e un disastro politico”. Simili giudizi, difficilmente contestabili, hanno pesato come macigni sulla sorte di un governo creato in seguito alla svolta a destra di Hollande dopo il tracollo dei socialisti nelle elezioni amministrative di primavera ma che ancora includeva qualche esponente dell’ala “sinistra” del partito al governo.

Hamon, da parte sua, in un’intervista pubblicata sul quotidiano Le Parisien, ha criticato il sostanziale appiattimento di Parigi sulle posizioni di Berlino, sostenendo che “la Merkel non può essere l’unica persona a fissare l’agenda europea”, visto che “la Germania persegue i propri interessi individuali” e non quelli dell’Unione. Altrettanto correttamente, entrambi i ministri uscenti hanno poi attribuito la costante crescita di partiti di estrema destra come il Fronte Nazionale (FN) precisamente alle impopolari politiche di rigore del governo a guida Socialista.

Inevitabilmente, le bordate di Montebourg e Hamon hanno portato alla loro sollevazione dai rispettivi incarichi, sia pure sotto forma di dimissioni, dopo le dure reazioni di Hollande e Valls nella giornata di lunedì. A lasciare il governo è stata anche il ministro della Cultura, Aurélie Filippetti, ugualmente protagonista nei giorni precedenti di critiche aperte alla fissazione per l’austerity del presidente e del primo ministro.

L’emersione della diatriba interna al governo francese è coincisa con le recenti affermazioni dello stesso presidente Hollande, il quale aveva pubblicamente ribadito i propositi di risanamento forzato delle finanze di Parigi, pur ammettendo le difficoltà incontrate e la quasi certa impossibilità di centrare per quest’anno - e probabilmente anche per il prossimo - gli obiettivi fissati per l’eurozona in assenza di una significativa crescita economica.

A pesare sulla situazione francese sono, tra l’altro, i 50 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica voluti da Hollande entro la fine del suo mandato nel 2017 e i 40 miliardi in tagli al carico fiscale delle aziende transalpine, ufficialmente per favorire investimenti e assunzioni.

Le sezioni della classe dirigente francese a cui fanno riferimento personalità come i tre ex ministri Socialisti nutrono un profondo risentimento verso Hollande per avere perso l’occasione, dopo il suo ingresso all’Eliseo, di mettere il proprio paese alla guida di un fronte europeo che avrebbe dovuto opporsi ai diktat tedeschi sul rigore, destinati ad intensificare le tensioni sociali nel continente, e promuovere invece politiche di crescita.

Un allentamento dell’austerity allo scopo di arginare le derive populiste viene tuttora richiesto a gran voce da vari governi dell’Unione - tra cui quello di Renzi in Italia - ma, a ben vedere, ricette come quelle promosse senza successo da Montebourg in Francia hanno una portata progressista decisamente marginale.

Il modello a cui queste forze di “sinistra” fanno riferimento, d’altra parte, è sostanzialmente quello seguito dagli Stati Uniti dopo la crisi e la brevissima stagione di aumento della spesa pubblica per rilanciare in maniera diretta la crescita economica, basato cioè principalmente su un’aggressiva politica monetaria della Fed che ha contribuito ad alimentare una nuova pericolosa bolla speculativa.

Ciò ha beneficiato solo una fascia ristretta della popolazione, più che altro in seguito ad un vero e proprio boom artificiale dei listini di borsa, senza peraltro dare una scossa all’inflazione e determinando una crescita dell’economia reale poco più che anemica. Gli effetti sul mercato del lavoro sono stati inoltre trascurabili, dal momento che la riduzione del livello ufficiale di disoccupazione è stata determinata in larga misura dalla rinuncia da parte di milioni di americani alla ricerca di un’occupazione.

Le proposte di mettere in atto simili politiche di “stimolo”, oltretutto, sembrano spesso rappresentare una sorta di copertura per far digerire altre “riforme” come quella del lavoro, inesorabilmente destinato alla totale flessibilizzazione come strumento in apparenza imprescindibile della crescita economica.

Sul fronte francese, le tensioni manifestatesi in questi giorni rivelano anche le crescenti preoccupazioni per il rafforzamento della posizione economica e politica della Germania dovuto al percorso rigorista intrapreso dall’Unione Europea. Il mantenimento di livelli di competitività relativamente solidi del sistema tedesco costituisce infatti per molti a Parigi una minaccia alla posizione della seconda economia europea, al contrario in piena stagnazione.

Le questioni economiche, in questo caso, si intrecciano con quelle strategiche, come dimostra la vicenda ucraina e il complicarsi dei rapporti con la Russia, e hanno portato in Francia all’intensificarsi delle voci che chiedono una politica estera indipendente e che fanno appello a un nazionalismo più spinto, non solo tra le fila del Front National.

Lo stesso Montebourg, dopo la nomina a ministro dell’Industria nel primo governo della presidenza Hollande guidato da Jean-Marc Ayrault, aveva ad esempio proposto l’imposizione di tasse sulle importazioni per proteggere l’industria domestica. Le sue battaglie in questo senso non avevano comunque impedito la chiusura di importanti impianti, come quelli di Peugeot-Citroën nei pressi di Parigi e del colosso dell’acciaio ArcelorMittal in Lorena, nonostante le minacce di nazionalizzazione di quest’ultimo.

La formazione del governo Valls bis testimonia dunque della profonda crisi del Partito Socialista francese, confermata dall’allontanamento sempre più evidente di Hollande dalla base elettorale che aveva consentito il suo successo su Sarkozy nel 2012.

Questa realtà potrebbe riflettersi ben presto in Parlamento, soprattutto in vista della legge di bilancio per il 2015, che sarà introdotta a partire dal mese di ottobre, e della prossima discussione sulla liberalizzazione del settore dei servizi, puntualmente definito dai media come “altamente regolamentato”. Una quarantina di deputati socialisti di “sinistra”, sentendosi emarginati all’interno del nuovo esecutivo, potrebbe così opporre una qualche resistenza alle prossime iniziative del governo, rendendo ancora più complicato il futuro del presidente.

Le divisioni e i malumori, tuttavia, secondo la maggior parte dei commentatori difficilmente esploderanno ulteriormente a breve, soprattutto in presenza di numeri che condannerebbero il Partito Socialista nel caso di nuove elezioni.

Lo stesso ministro dimissionario Filippetti, infatti, ha ad esempio già escluso possibili fratture alla “sinistra” del partito, affermando il proprio supporto per il nuovo governo, orientato ancora più a destra dopo il reincarico al primo ministro Valls.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy