di Michele Paris

Il nuovo Congresso americano e l’amministrazione Obama sono in questi giorni nel pieno di uno scontro che potrebbe determinare le sorti delle già complicate trattative in corso per la risoluzione dell’annosa crisi fabbricata attorno al programma nucleare iraniano. La Casa Bianca sta cioè cercando di ostacolare un paio di iniziative di legge volte a esercitare ancora maggiori pressioni sulla Repubblica Islamica, con il rischio di far naufragare definitivamente i negoziati.

Nel conflitto in atto si sarebbe poi inserito addirittura il Mossad, ovvero il servizio segreto israeliano, il quale, distanziandosi clamorosamente dal primo ministro Netanyahu, sembra avere comunicato alla stessa amministrazione Obama e ad alcuni senatori degli Stati Uniti le proprie preoccupazioni per possibili nuove misure punitive dirette contro Teheran.

La prima bozza di legge in questione è sponsorizzata dai senatori Mark Kirk (repubblicano) e Robert Menendez (democratico) e prevede la riapplicazione immediata di tutte le sanzioni economiche che nell’ultimo anno sono state sospese nell’ambito dei colloqui tra l’Iran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) nel caso un accordo non dovesse essere raggiunto entro la scadenza fissata al 30 giugno prossimo. Oltretutto, in questa proposta vi è la possibilità di ulteriori sanzioni, da implementare in maniera graduale.

Il presidente Obama ha più volte minacciato di usare il proprio potere di veto per bloccare questa legge, nel caso fosse approvata dal Congresso, e ha ribadito le sue intenzioni ancora nella giornata di martedì.

Se anche il testo della proposta Kirk-Menendez non prevede sanzioni durante i negoziati, l’amministrazione Obama teme a ragione che un nuovo segnale ostile proveniente dal Congresso possa mettere la delegazione iraniana in una posizione insostenibile di fronte alle pressioni dei falchi di Teheran per mettere fine alle trattative sul nucleare.

Dopo un meeting privato tenuto la settimana scorsa tra i vertici democratici, durante il quale pare che Obama abbia avuto uno scambio di vedute sull’Iran piuttosto animato con il senatore Menendez, molti compagni di partito del presidente al Congresso non si sono ancora pronunciati sul sostegno alla legge.

Ad ogni modo, la proposta avrebbe dovuto approdare sul tavolo di una commissione del Senato nella giornata di giovedì per essere discussa ma l’appuntamento è stato rimandato, secondo alcune fonti in attesa che si faccia chiarezza sulla possibilità dei proponenti di contare su una maggioranza sufficiente a neutralizzare l’eventuale veto di Obama.

I senatori Kirk e Menendez si sono anche mostrati disponibili ad attenuare il linguaggio della legge, assegnando maggiore discrezione al presidente sull’applicazione delle sanzioni, così da convincere qualche democratico in più ad appoggiarla.

Inoltre, altri tre senatori repubblicani - Bob Corker, neo-presidente della commissione Esteri, John McCain e Lindsay Graham - hanno partorito una proposta alternativa più moderata per consentire al Congresso di avere voce in capitolo riguardo la vicenda del nucleare iraniano. Questa seconda iniziativa prevede che l’eventuale accordo definitivo che uscirà dai colloqui debba essere ratificato da un voto del Senato americano.

Al momento non è chiaro che livello di appoggio la nuova proposta repubblicana possa ricevere soprattutto dai democratici, ma la Casa Bianca si è già detta contraria anche a quest’ultima, rinnovando la minaccia di veto.

Dietro alla diatriba che sta mettendo di fronte la maggior parte dei membri del Congresso e l’amministrazione Obama ci sono evidentemente fortissime divisioni all’interno della classe dirigente americana attorno al programma nucleare dell’Iran o, piuttosto, sulla natura dei rapporti da tenere con questo paese.

Una questione, quest’ultima, che è indissolubilmente legata all’offensiva degli Stati Uniti in Medio Oriente per l’avanzamento dei propri interessi strategici e che, appunto, non può prescindere dal chiarimento delle relazioni con la Repubblica Islamica. Né il Congresso né la Casa Bianca, peraltro, appaiono interessati a riconoscere il ruolo pienamente indipendente che Teheran ambisce a svolgere nella regione, dal momento che entrambi intendono in qualche modo attrarre questo paese nell’orbita dell’imperialismo USA.

Le differenze, perciò, risiedono nelle modalità con cui raggiungere il medesimo l’obiettivo. Da un lato - alla Casa Bianca - si sta cercando in questo frangente di percorrere la strada del dialogo, soprattutto alla luce della disponibilità e della predisposizione moderatamente filo-occidentale e marcatamente neo-liberista del governo guidato dal presidente Hassan Rouhani.

Dall’altro - al Congresso - la prevalenza delle tendenze “neocon” fa in modo che si prediliga la linea dura, ricorrendo a metodi che, in ultima analisi, non possono che condurre a uno scontro armato o, idealmente, al cambio di regime a Teheran.

Significativa dell’attitudine di molti deputati e senatori a Washington è stata una recente dichiarazione rilasciata alla stampa dallo stesso Menendez. L’ex presidente democratico della commissione Esteri del Senato, ribaltando la realtà degli ultimi mesi di negoziati, ha criticato l’amministrazione Obama per avere assecondato eccessivamente gli iraniani “su tutti gli elementi chiave” delle trattative.

Al contrario, dopo il raggiungimento dell’accordo ad interim a Ginevra nel novembre 2013, che ha dato vita al cosiddetto “Piano di Azione Congiunto” per raggiungere un’intesa definitiva, è l’Iran ad avere fatto le concessioni più importanti, ricevendo in cambio solo un lievissimo e molto parziale allentamento delle sanzioni.

La questione del nucleare di Teheran si sovrappone poi alle tesissime relazioni degli Stati Uniti con il governo di Israele. Come già anticipato, i vertici dell’intelligence di Tel Aviv hanno sostanzialmente sconfessato il proprio governo, allineandosi alle posizioni di quello americano circa la necessità di evitare altre provocazioni nei confronti di Teheran per scongiurare il fallimento dei negoziati.

Mentre Netanhyanu avrebbe dato il proprio sostegno alla proposta Kirk-Menendez, il Mossad si è adoperato per far conoscere la propria opinione sul nucleare iraniano ai politici americani. Mercoledì, quindi, il segretario di Stato USA, John Kerry, ha provocato più di un malumore all’interno del governo israeliano, rivelando che un esponente dell’intelligence di questo paese ha paragonato l’eventuale adozione di nuove sanzioni al “lancio di una granata sul processo” di distensione sanzionato dall’accordo transitorio di Ginevra.

La notizia dell’iniziativa del Mossad è stata riportata giovedì dall’agenzia di stampa Bloomberg, la quale ha poi raccontato di come l’intelligence di Israele già settimana scorsa avesse avvicinato una delegazione di senatori americani di entrambi i partiti in visita nel paese per invitare alla cautela sulla questione delle sanzioni.

La disputa, però, si è fatta se possibile ancora più complicata dopo che, in risposta alle minacce di veto di Obama e alle stesse indicazioni del Mossad, lo “speaker” della Camera dei Deputati di Washington, il repubblicano John Boehner, ha invitato Netanyahu a parlare di fronte a una sessione congiunta del Congresso il prossimo 11 febbraio.

Il premier del Likud, è facile prevederlo, a poche settimane dalle elezioni in Israele avrà così a disposizione una piattaforma straordinaria per attaccare l’Iran e dare il proprio appoggio a nuove sanzioni proprio mentre il dibattito sull’argomento sarà in pieno svolgimento negli Stati Uniti, mettendo in imbarazzo un’amministrazione Obama impegnata nella nuova fase di negoziati che sembrano essere sempre più appesi a un filo.

di Michele Paris

Il sesto e penultimo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama, trasmesso in diretta TV nella serata di martedì, è stato caratterizzato da una marcata accentuazione dei toni fintamente progressisti di un presidente che, ormai svincolato da qualsiasi pressione politica, nei prossimi due anni sarebbe intenzionato a sfidare il Congresso repubblicano per la difesa della “middle-class” americana in affanno.

Questa, per lo meno, sembra essere la versione ufficiale proposta dai media “liberal” negli Stati Uniti, allo scopo sostanzialmente di occultare il significato di un evento annuale ripetuto stancamente e sempre più all’insegna dell’inganno e della distorsione della realtà economica e sociale del paese.

Per Obama, in sostanza, “lo spettro della crisi” sarebbe ormai “passato”, mentre, ricorrendo alla consueta assurda retorica che caratterizza i suoi interventi pubblici, ha proclamato che, “con l’economia in crescita, il deficit in diminuzione, un’industria fiorente e l’esplosione della produzione energetica, siamo usciti dalla recessione ancora più liberi di qualsiasi altra nazione del pianeta per scrivere il nostro futuro”.

Ad ascoltare il tentativo di Obama di delineare la sorta di paradiso che la società USA sarebbe diventata sotto la guida della sua amministrazione a sei anni dall’esplosione della crisi economica e finanziaria, sembra quasi impossibile che i dati reali parlino di oltre 30 milioni di americani senza lavoro o con situazioni di impiego precarie.

Ugualmente, il brulicare di attività economiche descritto dal presidente si scontra con la costante diminuzione delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti negli ultimi sette anni, ma anche con l’aumento dei livelli di povertà, soprattutto tra i minori, e addirittura dell’insicurezza alimentare che interessa oggi più del 16% della popolazione americana.

Obama e l’intera classe dirigente d’oltreoceano sono ben consapevoli delle enormi tensioni sociali che si stanno accumulando a causa delle conseguenze delle loro politiche, così che i toni populisti si fanno sempre più evidenti, com’è apparso chiaro dalle proposte che si sono fatte strada nei discorsi sullo stato dell’Unione degli ultimi anni.

Anche quest’anno, così, Obama non ha rinunciato a delinare un immaginario piano programmatico sul quale il Congresso dovrebbe lavorare nei prossimi mesi. Il campionario pseudo-progressista del presidente prevede in particolare la formazione gratuita di due anni nei cosiddetti “community college” per gli studenti a basso reddito e rimborsi fiscali per la classe media e per coloro che frequentano l’università.

Le risorse necessarie, nella realtà parallela ipotizzata da Obama, arriverebbero da una riforma del fisco che dovrebbe penalizzare i redditi più alti e garantire entrate per 320 miliardi di dollari in dieci anni. L’aliquota più alta sui “capital gains”, ad esempio, salirebbe dall’attuale 23,8% al 28%, mentre verrebbe implementata una tassa sulle transazioni finanziarie degli istituti che dispongono di “asset” pari ad almeno 50 miliardi di dollari.

Com’è facilmente prevedibile, e come Obama sa benissimo, nessuna di queste o altre proposte simili ha qualche possibilità di essere approvata dal Congresso, dove i leader repubblicani hanno infatti già respinto qualsiasi possibilità di valutare anche una microscopica redistribuzione delle ricchezze verso la base della piramide sociale.

Nell’atteggiarsi a paladino della “middle-class”, nel suo discorso il presidente americano non ha inoltre spiegato le ragioni per cui iniziative come quelle proposte martedì non siano state introdotte negli anni scorsi, quando il suo partito disponeva di una solida maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Obama, in realtà, ha presieduto a un deliberato processo di impoverimento forzato dei lavoratori e della classe media, dettato dalla necessità di difendere le posizioni del capitalismo americano, i cui rappresentanti si sono enormemente arricchiti nonostante la crisi.

In un gioco delle parti tipico della politica di Washington, come sempre, Obama sceglie deliberatamente di proprorre misure di stampo vagamente progressista proprio perché inattuabili. L’assenza di costrizioni o vincoli elettorali a due anni dalla fine del suo secondo e ultimo mandato di cui hanno parlato i giornali americani va dunque intesa in questo senso.

L’inquilino della Casa Bianca, cioè, di fronte al crescente malcontento che pervade la società USA si ritrova quasi costretto ad attaccare i ricchi e a prendere le parti delle classi in difficoltà, senza però il rischio di doversi realmente impegnare per le proposte avanzate. Una battaglia concreta sull’adozione di misure a favore delle classi più disagiate sarebbe infatti impossibile per un politico americano chiamato ad affrontare un’elezione, dove a decidere sono sempre più quei poteri forti a cui anche i democratici fanno da tempo riferimento.

Piuttosto, in questo modo Obama offre al suo partito una base - sia pure soltanto retorica - sulla quale costruire l’opposizione al Partito Repubblicano, fin troppo facilmente attaccabile come il partito dei ricchi, in preparazione del prossimo appuntamento con le urne nell’autunno del 2016.

In altri passaggi del suo discorso, al contrario, Obama ha lanciato messaggi agli stessi repubblicani per una possibile convergenza tra la maggioranza al Congresso e la Casa Bianca. Le questioni che potrebbero ottenere l’appoggio di entrambi sono soprattutto una nuova “autorizzazione all’uso della forza” in Medio Oriente, l’attribuzione al presidente di poteri speciali per la sottoscrizione di trattati di libero scambio e una modifica del sistema fiscale riservato alle aziende private per diminuire le tasse a loro carico.

Obama, minacciando il ricorso al diritto di veto, ha però ribadito la sua ferma difesa di iniziative gradite da varie sezioni della comunità degli affari, a cominciare dalla “riforma” del sistema sanitario, che beneficia il settore assicurativo privato, e la modesta sanatoria degli immigrati irregolari, decisa recentemente con un decreto presidenziale e accolta in maniera positiva da quelle imprese che contano su manodopera straniera a bassissimo costo.

Al di là delle solite tirate sull’eccezionalità della democrazia americana e sulla promozione dei diritti umani, oltretutto a poche settimane dalla diffusione di un devastante rapporto del Congresso sulle torture della CIA, un’importanza particolare nel discorso sullo stato dell’Unione l’hanno avuta infine le questioni di politica estera.

Quella dei rapporti con Cuba, su tutte, aveva suscitato parecchie aspettative dopo la decisione nel mese di dicembre di ristabilire i rapporti diplomatici con l’isola caraibica. Alla vigilia di uno storico vertice bilaterale tra le delegazioni dei due paesi all’Avana, Obama ha difeso il cambiamento di rotta della sua amministrazione, spiegando la necessità che il Congresso agisca per mettere fine all’embargo che dura da oltre mezzo secolo.

Anche in questo caso, il presidente ha tenuto a sottolineare il presunto impegno per i “valori democratici” degli Stati Uniti e la volontà di “estendere la mano dell’amicizia al popolo cubano”, come se fossero realmente queste le ragioni che hanno motivato la recente svolta diplomatica e non, principalmente, le mire del business americano su un paese in cambiamento, dove Washington rischia di perdere terreno nei confronti dei concorrenti asiatici ed europei.

di Mario Lombardo

Una nuova sospetta “esclusiva” pubblicata in prima pagina lunedì dal New York Times avrebbe dovuto servire a dissipare le perplessità di coloro che nelle scorse settimane avevano messo in dubbio la versione del governo americano circa l’attacco informatico subito da Sony Pictures a partire dal mese di novembre. Secondo la Casa Bianca, cioè, a fare apparire in rete una serie di e-mail confidenziali della compagnia assieme ad alcuni film non ancora usciti nelle sale era stata un’operazione ben pianificata condotta da hacker riconducibili al regime della Corea del Nord.

Gli Stati Uniti avrebbero le prove di prima mano della responsabilità di Pyongyang poiché l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) già nel 2010 era riuscita a penetrare i sistemi informatici nordcoreani, così da monitorare le attività in questo ambito del paese del nord-est asiatico.

In particolare, gli agenti della NSA avrebbero accesso alle reti cinesi a cui la Corea del Nord si connette per entrare in contatto con il resto del mondo. L’operazione USA avrebbe avuto successo grazie “all’aiuto della Corea del Sud e di altri alleati americani”, almeno secondo quanto riferito da funzionari del governo di Washington e da esperti informatici, tutti rigorosamente anonimi.

Gli autori dell’articolo dedicano poi ampio spazio alla descrizione degli sforzi del regime stalinista per creare un’unità di hacker che conterebbe attualmente circa seimila membri, partendo dai tentativi di costruire i primi computer nel 1965. Oggi, a guidare le operazioni di hackeraggio nordcoreane sarebbero i servizi segreti di questo paese e, in particolare, il cosiddetto “Ufficio 121”, che avrebbe, secondo il Times, una “imponente filiale in Cina”.

Da circa un decennio, aggiunge l’articolo, gli Stati Uniti impiantano programmi di sorveglianza e “occasionalmente” anche “malware distruttivi” nei sistemi informatici dei loro avversari. Grazie a essi, per quanto riguarda la Corea del Nord, la NSA avrebbe potuto determinare con esattezza la provenienza dei recenti attacchi diretti contro Sony Pictures.

Quest’ultima compagnia sarebbe stata il bersaglio degli hacker di Pyongyang perché aveva in programma di fare uscire nelle sale cinematografiche il film “The Interview”, nel quale due giornalisti americani vengono assoldati dalla CIA per assassinare il leader nordcoreano, Kim Jong-un. Molti esperti, tuttavia, avevano apertamente messo in discussione la versione di Washington, riconducendo piuttosto l’attacco a un ex dipendente di Sony Pictures o, tutt’al più, a hacker che avevano indirizzato di proposito le indagini verso la Corea del Nord.

Ad ogni modo, il pezzo in questione sembra essere stato dettato dal governo americano al giornale newyorchese, presumibilmente il più autorevole negli Stati Uniti, allo scopo di orientare l’opinione pubblica in una direzione ben precisa. Il rilievo dato alla “rivelazione” delle presunte prove incontrovertibili della colpevolezza della Corea del Nord ha fatto in modo che praticamente tutte le testate americane riprendessero la notizia senza un minimo di analisi critica.

I giornalisti del New Yok Times hanno a loro volta riportato pari pari quanto riferito dalla macchina dell’intelligence USA, astenendosi dal ricercare riscontri o, tantomeno, dallo sciogliere gli interrogativi che la notizia ha suscitato.

In realtà, i due autori sono stati costretti ad ammettere che il monitoraggio dei sistemi informatici nordcoreani da parte della NSA solleva una logica domanda, vale a dire perché il governo, se era a conoscenza delle intenzioni degli hacker di Pyongyang, non abbia fatto nulla per mettere in guardia i vertici di Sony Pictures. Della risposta o di una possibile ipotesi circa le ragioni del silenzio del governo, non vi è tuttavia traccia nell’articolo, nonostante le numerose fonti governative a disposizione.

Le spiegazioni, a rigor di logica, possono essere due: l’attacco contro Sony Pictures non è giunto dalla Corea del Nord oppure, se i responsabili sono effettivamente da ricercare a Pyongyang, il governo USA ha lasciato di proposito che l’attacco andasse a buon fine, così da sfuttare l’episodio per aumentare le pressioni sul regime e, indirettamente, sul suo principale alleato, la Cina.

Un’altra questione sollevata dall’articolo del New York Times e messa ancor meno in rilievo è poi la stessa penetrazione da parte della NSA nei sistemi informatici di un paese sovrano, ancorché nemico.

Per la galassia dei media “mainstream” negli Stati Uniti, la questione della legittimità di simili operazioni non è nemmeno in discussione, anche se esse confermano come gli USA, a fronte delle accuse di hackeraggio frequentemente rivolte ai propri rivali, siano i principali responsabili degli attacchi informatici che avvengono nel pianeta.

La vicenda che ha coinvolto Sony Pictures è stata dunque sfruttata da Washington per imporre nuove sanzioni nei confronti della Corea del Nord, colpita anche da almeno un paio di black-out delle connessioni Internet nelle ultime settimane. Allo stesso modo, le accuse indirizzate al regime di Kim Jong-un da parte di membri del governo americano si sono spesso accompagnate a “inviti” alla Cina a fare di più per richiamare all’ordine l’alleato “comunista”.

Questo irrigidimento dell’amministrazione Obama è stato seguito invece da una serie di aperture manifestate dai nordocoreani. Recentemente, il regime ha proposto ad esempio colloqui diretti con Washington, ipotizzando anche la sospensione di un nuovo test nucleare se per il 2015 gli USA avessero cancellato le esercitazioni militari congiunte in programma con le forze armate della Corea del Sud.

Come quasi sempre è accaduto in passato, anche in questo caso il governo americano ha però respinto le offerte provenienti da Pyongyang, prospettando anzi possibili ulteriori misure punitive.

Lo stesso governo sudcoreano ha mostrato il proprio allineamento a Washington attorno alla questione del proprio vicino settentrionale, nonostante la presidente, Park Geun-hye, abbia solo pochi giorni fa affermato di essere pronta a incontrare Kim Jong-un e a discutere senza precondizioni.

L’aggravamento dello scontro in Asia tra gli Stati Uniti e la Cina - e i loro rispettivi alleati - non promette quindi nulla di buono nemmeno per la penisola di Corea, uno dei tanti fronti teatro del conflitto in atto tra le prime due potenze economiche del pianeta.

Al di là della disponibilità mostrata dalla Corea del Nord, perciò, gli USA sembrano intenzionati a ricorrere a qualsiasi provocazione, anche da essi creata a tavolino, per mettere all’angolo il regime di Kim, i cui legami con Cina e Russia minacciano di complicare ulteriormente una crisi che appare sempre più vicina al punto di non ritorno.

di Michele Paris

Alla quasi totale insaputa di centinaia di milioni di cittadini europei le cui vite potrebbero cambiare in maniera significativa, l’UE e gli Stati Uniti stanno negoziando da alcuni anni un colossale e omnicomprensivo trattato di libero scambio o, più precisamente, una Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti, altrimenti conosciuta con l’acronimo TTIP.

In seguito alle crescenti apprensioni manifestate da varie organizzazioni della società civile e a un’indagine sulla segretezza delle trattative sul TTIP condotta dallo stesso ufficio del cosiddetto Mediatore dell’UE (“Ombudsman”), la Commisione Europea ha recentemente reso noti alcuni documenti relativi al trattato, dimostrando il proprio teorico impegno per la trasparenza in questo ambito.

L’UE, in realtà, ha diffuso otto proposte che riguardano questioni come i controlli doganali, i beni alimentari, l’agricoltura e l’etichettatura dei prodotti scambiati, ma ha deciso di mantenere il segreto su aspetti cruciali, tra cui le modifiche alle modalità di accesso ai mercati, definiti dal commissario europeo per il Commercio, la svedese Cecilia Malmström, troppo “sensibili” per essere rese pubbliche prima della fine delle trattative.

I documenti UE diventati da poco di dominio pubblico e la segretezza nella quale rimangono avvolti molti altri, assieme alle proposte americane, confermano come il TTIP non sia altro che uno strumento per assegnare ulteriori e più ampi diritti alle grandi aziende transnazionali, ridimensionando contemporaneamente quelli dei cittadini, a cominciare dai lavoratori.

Riassumendo il senso di una “partnership” come quella allo studio tra USA e UE, la sociologa ed economista Saskia Sassen ha sostenuto che le corporations “intendono limitare il peso del diritto nazionale e il ruolo dei [singoli] governi”, promuovendo “una sorta di sistema legale parallelo e privato sotto il loro controllo per gestire le dispute” in cui potrebbero essere coinvolte.

Un’analisi della stessa accademica americana ha proposto poi un concetto interessante per inquadrare i vari trattati di libero scambio emersi un po’ ovunque nel pianeta a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Questi strumenti servirebbero cioè alle grandi compagnie per creare uno “spazio operativo globale”, all’interno del quale è loro possibile agire per aumentare i profitti sostanzialmente senza i vincoli rappresentati, ad esempio, dalle normative sul lavoro o sul rispetto dell’ambiente di ogni singolo stato.

Questa è la necessità a cui rispondono gli sforzi dei protagonisti dei negoziati ed essi hanno perciò bisogno di un apparato retorico da presentare ai loro cittadini per propagandare i vari trattati o “partnership” come mezzi che prospettano un chimerico arricchimento generalizzato o un’esplosione  di nuovi posti di lavoro.

La segretezza che avvolge le trattative smentisce però da sola le intenzioni ufficiali, mentre un lungo elenco di dati sugli effetti dei trattati negli ultimi decenni mette in guardia dalle inevitabili conseguenze, fatte puntualmente di perdita di reddito e di occupazione, soprattutto per i paesi firmatari che vantavano condizioni di vita relativamente dignitose per i lavoratori.

Il TTIP, così come il TPP (Partnership Trans-Pacifica), che coinvolge gli Stati Uniti e 12 altri paesi asiatici e del continente americano, contiene però anche l’estremizzazione del diritto delle corporation a contestare e denunciare qualsiasi azione dei governi firmatari che possa risultare in un danno per i loro profitti.

In altre parole, ogni decisione di un paese sovrano che colpisca in qualche modo gli interessi delle grandi aziende che vi operano può essere oggetto di una contesa, la cui soluzione è affidata a un organo arbitrale terzo e sovranazionale, svincolato dalle leggi di quello stesso paese e, oltrettutto, non appellabile.

In sostanza, i governi che aderiscono a simili trattati sono scoraggiati dall’adottare regolamentazioni anche modeste che potrebbero costare care, vista anche la virtuale assenza di un tetto ai risarcimenti per le corporations “danneggiate”, per non parlare di iniziative più radicali come nazionalizzazioni o espropri.

Gli esempi di cause di questo genere sono peraltro già centinaia nel pianeta e una delle più recenti riguarda il governo tedesco, denunciato dalla compagnia energetica svedese Vattenfall per 6 miliardi di euro in seguito alla decisione presa da Berlino di abbandonare il nucleare dopo il disastro di Fukushima, in Giappone, del 2011.

Il TTIP, inoltre, minaccia di importare nel continente europeo regole decisamente meno rigorose in materia di controlli sulle merci e, in particolare, gli alimenti. Secondo il sito web italiano Stop-TTIP, le etichettature obbligatorie “dovranno essere limitate il più possibile per evitare che diventino ostacoli al libero mercato”, mentre la tanto decantata protezione dei prodotti tipici e del “Made in” potrebbe lasciare spazio a una “semplificazione e omologazione” con “l’addio ai controlli su tutte le fasi della filiera”.

I timori in questo settore riguardano anche la possibile introduzione sul mercato europeo di alimenti geneticamente modificati (OGM) provenienti dagli Stati Uniti, così come in ambito energetico non sembra potersi escludere una diffusione massiccia della pericolosa pratica del “fracking” per le estrazioni di gas e petrolio.

Sul fronte della proprietà intellettuale, l’eventuale armonizzazione delle norme europee e americane potrebbe avere infine un impatto rovinoso sulla libera circolazione delle idee e l’accesso alla conoscenza, con l’assegnazione di un potere enorme quanto inquietante alle grandi compagnie che operano in quest’ambito.

Da tenere in considerazione è anche l’aspetto strategico del TTIP, sia pure intimamente legato a quello economico e di classe. A ricordarlo è stata qualche settimana fa lo stesso commissario Malmström, per la quale nei negoziati in corso “le tradizionali questioni come l’accesso ai mercati e le tariffe doganali su beni e servizi non sono mai state un problema per l’Europa e gli USA”, visto che queste ultime sono già molto basse.

Per l’ex diplomatica svedese, piuttosto, il TTIP avrebbe a che fare col fatto che le due parti in trattativa sono “le più grandi economie [del pianeta] che condividono molti valori comuni”, come “democrazia, rispetto del diritto, dell’individuo e dei mercati aperti”.

Questa precisazione lascia intendere, com’è evidente, che il trattato USA-UE rientra all’interno dell’offensiva di Washington contro la Russia, con il preciso scopo di impedire una maggiore integrazione dei propri storici alleati nel vecchio continente in un blocco economico euroasiatico.

Ancorando così l’UE agli Stati Uniti, il governo americano intende completare la propria strategia di accerchiamento - in questo caso economico - della Russia, dopo quello militare in fase già avviata soprattutto in seguito all’esplosione pilotata della crisi in Ucraina. In questo senso, il TTIP è il corrispondente europeo del TPP in Estremo Oriente, dove nel mirino di Washington c’è ovviamente la Cina.

La creazione di queste due gigantesche aree di libero mercato, all’interno delle quali circolano complessivamente ben più della metà delle merci scambiate nel pianeta, deve avvenire secondo i termini del capitalismo a stelle a strisce, vista appunto la necessità di giungere in questo modo alla dominazione dell’“impero” sui propri rivali, quanto meno a livello teorico.

Per fare ciò e chiudere il cerchio, è indispensabile quindi ideare strumenti come le “partnership”, così da abolire quelle che sempre il commissario Malmström ha definito “barriere non doganali” al libero dispiegamento del commercio, ovvero le rimanenti regolamentazioni previste dai paesi aderenti ai trattati, viste come ostacoli ai profitti delle corporations.

In breve, il TTIP e i suoi simili non sono altro che coperture per giungere alla dittatura del capitalismo transnazionale, con quello americano a farla da assoluto protagonista.

Un progetto di questo genere, come appare evidente, non può essere perseguito con metodi democratici. Da qui, dunque, la segretezza quasi maniacale circa il contenuto delle trattative, sulle quali pesano in maniera determinante le pressioni delle lobby delle grandi aziende, desiderose di estrarre il massimo dai trattati in discussione.

Sul TTIP, come sul TPP, pesano però numerose incognite che ne stanno ritardando in maniera imbarazzante l’approvazione. Oltre all’inesorabile declino economico americano e alle proteste popolari che coinvolgono un numero sempre più consistente di persone, come le decine di migliaia sfilate nel fine settimana a Berlino, a complicare i negoziati sono anche e soprattutto le rivalità tra i vari paesi coinvolti e, all’interno di essi, la difficoltà - per non dire l’impossibilità - di conciliare gli interessi economici contrastanti delle rispettive sezioni della borghesia nazionale, che sperano di beneficiare o temono di essere danneggiate dall’ingresso in un blocco sovranazionale dominato dagli Stati Uniti.

di Michele Paris

Subito dopo la strage di Parigi della scorsa settimana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha prontamente condannato quello che ha definito un “atto barbaro”, affermando che la lotta al terrorismo islamista “non deve conoscere alcun confine”. Domenica, poi, il premier di estrema destra è apparso in prima fila assieme ad altri leader nella marcia contro il fondamentalismo jihadista organizzata nelle strade della capitale francese. A un’analisi più approfondita, tuttavia, il suo impegno apparentemente così fermo contro il terrorismo di matrice islamica sembra essere alquanto discutibile.

L’esercito dello stato ebraico di Israele collabora infatti da mesi nientemeno che con l’organizzazione che vanta il sigillo dell’approvazione ufficiale di al-Qaeda nella lotta condotta dai vari gruppi armati in Siria per il rovesciamento del regime secolare di Bashar al-Assad, ovvero il famigerato Fronte al-Nusra (Jabhat al-Nusra). Quest’ultimo è stato designato come organizzazione terroristica da molti paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, ed è di fatto affiliato a uno dei gruppi che potrebbero avere diretto l’attentato di Parigi: al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Le accuse rivolte da Damasco a Tel Aviv di appoggiare i ribelli terroristi sono note da tempo, ma le manovre israeliane in questo senso risultano sempre più difficili da nascondere, tanto che un rapporto prodotto addirittura dalle Nazioni Unite ha recentemente confermato gli imbarazzanti rapporti tra Israele e il Fronte al-Nusra.

Le comunicazioni tra le due parti che, a rigor di logica, dovrebbero essere nemiche giurate, sembrano essersi intensificate in seguito all’apertura di un nuovo fronte nella guerra che sta sconvolgendo la Siria, cioè nel sud del paese e in particolare a Quneitra, presso le alture del Golan teoricamente presidiate dagli uomini della Forza di Disimpegno degli Osservatori delle Nazioni Unite (UNDOF).

Proprio un rapporto indirizzato lo scorso dicembre dall’UNDOF al Consiglio di Sicurezza ONU ha confermato quanto era stato in precedenza riscontrato, vale a dire “l’interazione lungo la linea del cessate il fuoco tra le Forze di Occupazione Israeliane e membri armati dell’opposizione siriana”.

La collaborazione si è concretizzata in vari modi, a cominciare dal trasferimento dei guerriglieri anti-Assad feriti in strutture mediche in territorio israeliano. Il governo Netanyahu ha dovuto ammettere questa circostanza, precisando però che la presenza di membri del Fronte al-Nusra tra le persone che hanno ricevuto assistenza è dovuta solo al fatto che Israele non fa differenze quando si tratta di questioni umanitarie.

Al di là dell’involontaria ironia di simili dichiarazioni rilasciate dai vertici di un governo che è a tutti gli effetti uno dei più accaniti violatori dei diritti umani nel pianeta, i rapporti vanno ben oltre l’aspetto “umanitario”. Non solo i soldati della forza ONU hanno assistito alla consegna di “pacchi” più che sospetti dall’esercito israeliano ai ribelli, ma Tel Aviv ha ad esempio contribuito attivamente all’insediamento di questi ultimi nell’area delle alture del Golan sotto il controllo di Damasco.

Una sconcertante testimonianza in proposito è stata rilasciata recentemente da un esponente dell’opposizione anti-Assad alla testata on-line Al-Monitor. Nell’intervista dalla Siria, l’uomo ha spiegato come “la battaglia per la presa di Quneitra del 27 settembre [2014] fosse stata preceduta dalla coordinazione e da intense comunicazioni tra Abu Dardaa, uno dei leader del Fronte al-Nusra, e l’esercito di Israele” per “preparare l’attacco” contro le forze del regime di Damasco.

Gli israeliani, ha aggiunto il testimone identificato con lo pseudonimo di Mohammad Qasim, avevano in quell’occasione fornito mappe dettagliate dell’area di confine con la Siria in modo da consentire l’individuazione delle postazioni stragiche delle forze dell’esercito regolare. “Durante la battaglia”, inoltre, “gli israeliani hanno bombardato pesantemente molte postazioni del regime” e “abbattuto un aereo da guerra” che cercava di impedire l’avanzata dei ribelli.

L’impegno del governo Netanyahu sarebbe andato anche oltre, visto che Qasim ha parlato del trasferimento ai ribelli da parte di Israele di equipaggiamenti medici e per favorire le comunicazioni, mentre ha confermato la garanzia dell’assistenza ai feriti nelle strutture ospedaliere oltre il confine meridionale.

Lo sforzo di Israele è stato confermato sempre ad Al-Monitor dal generale siriano Rami al-Hasan, il quale ha spiegato come Tel Aviv intenda “esercitare l’intero controllo sulle alture del Golan” e per questa ragione, oltre ad appoggiare i ribelli tra cui spiccano i seguaci di al-Qaeda, “ha contribuito significativamente all’intimidazione degli ossevatori ONU per spingerli a ritirarsi dalle loro posizioni”.

Un altro anonimo attivista dell’opposizione anti-Assad ha sostenuto che la presa da parte del Fronte al-Nusra della città di Tal al-Hara, non lontano da Quineitra, il 4 ottobre scorso “non sarebbe stata possibile senza l’appoggio di Israele”. Per questa seconda fonte di Al-Monitor, addirittura, “l’esercito israeliano è stato la mente della battaglia in termini di pianificazione e tattica”. Gli strumenti di comunicazione, verosimilmente forniti da Israele, “davano istruzioni precise in lingua araba in merito a ciò che i guerriglieri dovevano fare, istante dopo istante”.

A Tal al-Hara, l’ultimo centro di ricognizione del regime nel sud della Siria era stato bombardato da Israele il 5 settembre, un mese prima della caduta di questa località nelle mani del Fronte al-Nusra, cosa che difficilmente può essere considerata una coincidenza.

L’interesse immediato di Israele nel fornire assistenza a forze che operano per conto di al-Qaeda è legato al desiderio di mettere la comunità internazionale davanti a un altro fatto compiuto riguardo alle alture del Golan, ritardando indefinitamente il ritiro delle forze di Tel Aviv da questo territorio siriano occupato.

Per questa ragione, il governo Netanyahu, con il consueto disprezzo per il diritto internazionale, ha fatto di tutto per compromettere il lavoro degli osservatori ONU che hanno l’incarico di garantire il rispetto del cessate il fuoco siglato nel 1974. Secondo quanto riportato lo scorso settembre dalla Associated Press, infatti, la forza UNDOF “è ora per lo più al riparo all’interno del Campo Ziouani… nel territorio delle alture del Golan controllato da Israele”, lasciando la zona siriana, come afferma il rapporto ONU, nelle mani del Fronte al-Nusra.

Per i propri interessi strategici, dunque, il governo guidato dallo stesso Netanyahu che nei giorni scorsi ha tuonato contro l’integralismo islamico non ha avuto scrupoli nel collaborare con l’incarnazione siriana di al-Qaeda. Da un paese che fonda la propria stessa esistenza sulla repressione di un intero popolo e su politiche al limite del genocidio non si può d’altra parte attendere troppe riserve nell’operare a fianco di membri di un’organizzazione terroristica.

Gli stessi governi occidentali, d’altra parte, manipolano da sempre le formazioni jihadiste, come appare clamorosamente evidente proprio in Siria, sostenendole o combattendole a seconda delle necessità strategiche del momento, salvo poi pagarne le conseguenze quando sfuggono al loro controllo.

Il rapporto degli osservatori ONU sulle alture del Golan e le testimonianze citate in precedenza hanno comprensibilmente trovato poco o nessuno spazio nei media ufficiali, ma la vera natura del governo di Israele e dello stesso progetto sionista appare sempre più chiaramente agli occhi di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, rendendo questo paese molto più isolato di quanto non lasci intendere la persistente alleanza che lo lega all’Occidente.


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