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di Mario Lombardo
Le proteste in corso da alcuni giorni nelle strade di Hong Kong sono proseguite mercoledì anche in occasione del giorno della festa nazionale per il 65esimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, con i festeggiamenti tra le autorità locali e quelle di Pechino andati in scena nel pieno di nuove manifestazioni a cui continuano a partecipare decine di migliaia di persone.
I leader dei movimenti studenteschi hanno chiesto ancora una volta le dimissioni del governatore (“Chief Executive”) della città, Leung Chun-ying, e la possibilità di partecipare nel 2017 a elezioni libere per la carica occupata da quest’ultimo. I manifestanti hanno già invaso molte arterie commerciali di Hong Kong e sempre mercoledì hanno lanciato un ultimatum allo stesso governatore, chiedendogli di rassegnare le dimissioni entro giovedì. In caso contrario si assisterà a un’escalation delle proteste, con possibili tentativi di occupazione dei palazzi governativi.
Le minacce dei leader del movimento di protesta potrebbero mettere così in crisi le autorità cinesi e della stessa città, le quali hanno finora evitato risposte di tipo repressivo, a parte qualche scontro con la polizia domenica scorsa e il ricorso a gas lacrimogeni.
Secondo una fonte anonima citata dal Wall Street Journal, anzi, da Pechino sarebbe arrivata indicazione al governatore Leung di consentire lo svolgimento pacifico delle dimostrazioni, nella speranza che la protesta finisca per sgonfiarsi da sola a causa dei fastidi causati dai disordini alla popolazione e, si potrebbe aggiungere, per la sostanziale mancanza di una prospettiva politica dei gruppi che guidano le manifestazioni.
Come è ormai noto, il focus principale delle proteste in corso a Hong Kong è legato alla decisione presa lo scorso agosto dal governo cinese di consentire le elezioni per la carica di governatore nel 2017 in regime di suffragio universale ma solo con pochi candidati debitamente selezionati da una commissione formata da fedelissimi di Pechino.
Questo nuovo sistema elettorale deve essere approvato dal Consiglio Legislativo della città, nel quale i membri della minoranza del movimento “pan-democratico” - vicino ai manifestanti - hanno di fatto il potere di veto. Se però la proposta cinese dovesse essere bloccata, rimarrebbe in vigore l’attuale sistema, secondo il quale a scegliere direttamente il governatore è un Comitato Elettorale di 1.200 membri, ugualmente dominato da sostenitori del governo centrale.
A prendere parte alle proteste ci sono disparati gruppi studenteschi e di attivisti per i diritti democratici, in gran parte raccolti sotto la denominazione di “Occupy Central”. I vertici di queste formazioni chiedono pressoché esclusivamente la riforma del sistema elettorale e una maggiore partecipazione alla vita politica della regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese.
Dietro alle varie sigle che guidano le dimostrazioni nelle strade della metropoli da oltre 7 milioni di abitanti vi sono però ampi settori della popolazione che avanzano richieste più radicali come reazione all’estrema polarizzazione sociale della ex colonia britannica.
Al di là e ancor più delle questioni elettorali o dell’ingerenza di Pechino nelle faccende della città, alcuni dei temi potenzialmente più esplosivi sono: disuguaglianze di reddito tra le più marcate del pianeta, la povertà che colpisce almeno il 20% degli abitanti di Hong Kong, gli stipendi che ristagnano e una paga minima che non arriva nemmeno ai 4 dollari l’ora, il costo della vita a livelli stratosferici e l’assenza di sussidi di disoccupazione e di un sistema pensionistico pubblico.
Di fronte a una situazione di questo genere è facile comprendere come gli stessi leader della protesta e i politici di opposizione - che, in linea generale, non intendono in nesun modo compromettere lo status speciale garantito a Hong Kong né modificare in maniera sostanziale l’assetto socio-economico attuale - stiano cercando di evitare l’esplosione del conflitto con le autorità e si dicano disponibili alle trattative, sia pure solo a seguito delle dimissioni del governatore Leung.
Da Pechino, invece, nonostante il silenzio quasi totale dei media sulla crisi in atto, c’è grande preoccupazione per i fatti di Hong Kong, principalmente per due ragioni, oltre a quelle connesse all’ovvia importanza finanziaria della città per la Cina. In primo luogo, il governo del presidente Xi Jinping teme che il persistere delle proteste possa produrre un contagio in altre regioni cinesi già inquiete e non solo. Inoltre, il regime “comunista” è preoccupato, con più di una ragione, che l’Occidente, con gli Stati Uniti in prima fila, possa soffiare sul fuoco delle proteste, provando a istigare una sorta di nuova “rivoluzione colorata”.
Indicazioni evidenti in questo senso, in realtà, almeno per il momento non sembrano essercene, se non altro per l’importanza di Hong Kong come porta d’accesso al mercato cinese per il capitale occidentale. Gli Stati Uniti - dove poco più di un mese fa la polizia in assetto da battaglia aveva represso violentemente le manifestazioni pacifiche di Ferguson, nel Missouri - sono comunque intervenuti qualche giorno fa con una dichiarazione di circostanza relativamente cauta, mentre il vice-primo ministro britannico, Nick Clegg, ha convocato l’ambasciatore cinese a Londra per esprimere “il disappunto e l’allarme” del proprio governo.
Sia gli USA sia la Gran Bretagna, tuttavia, stanno con ogni probabilità monitorando con estrema attenzione gli sviluppi delle proteste a Hong Kong per poterle eventualmente sfruttare a proprio favore. L’amministrazione Obama, in particolare, è nel pieno di un’offensiva anti-cinese, messa in atto su vari fronti per contrastare la crescente influenza di Pechino nel continente asiatico.
La creazione o la manipolazione di movimenti democratici di piazza contro governi nemici o non particolarmente graditi è d’altra parte una prerogativa degli Stati Uniti e, per quanto riguarda Hong Kong, svariati leader delle proteste in corso hanno legami molto stretti con politici e organizzazioni occidentali.
L’attenzione americana per questa città è inoltre documentata, visto che, ad esempio, il National Endowment for Democracy (NED) - l’ente no-profit finanziato dal governo che si occupa della promozione della “democrazia” nel mondo o, meglio, di alimentare la sovversione ovunque ciò sia utile agli interessi USA - nel solo 2012 aveva stanziato quasi 500 mila dollari per Hong Kong, con l’obiettivo di “sviluppare le capacità dei cittadini, soprattutto studenti universitari, di partecipare in maniera più efficace al dibattito pubblico sulle riforme politiche”, con particolare attenzione, guarda caso, proprio alla questione del “suffragio universale”.
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di Michele Paris
Mentre le forze aeree e navali degli Stati Uniti e dei loro alleati nella nuova avventura militare in Medio Oriente continuano a colpire obiettivi presumibilmente legati allo Stato Islamico (IS) in aree della Siria orientale e settentrionale, il governo americano si trova nel pieno di una campagna mediatica volta a preparare l’opinione pubblica occidentale per l’imminente ulteriore escalation bellica nel paese guidato dal regime di Bashar al-Assad.
In questa operazione di propaganda gioca un ruolo di spicco anche il presidente Obama, come ha confermato il minaccioso discorso della scorsa settimana alle Nazioni Unite. L’inquilino della Casa Bianca è apparso nuovamente in TV domenica, ammettendo che l’intelligence del suo paese ha commesso qualche errore nel valutare la pericolosità dell’ISIS.
Intervistato dalla CBS, Obama ha puntato in particolare il dito contro il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, colpevole di avere “sottovalutato” gli eventi in corso da mesi in Siria e, al contrario, di avere “sopravvalutato” le capacità dell’esercito iracheno nel combattere gli estremisti sunniti.
Le critiche maggiori per la crisi in atto sono state riservate però all’ex primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, dal momento che il suo governo avrebbe pensato soprattutto al consolidamento del potere, basato sulla comunità sciita, emarginando invece la popolazione sunnita, tra cui è alla fine risultato diffuso il sostegno all’ISIS e ad altre milizie anti-governative.
Maliki, insomma, avrebbe “sprecato” il lavoro fatto a partire dall’invasione illegale del paese nel 2003 dagli americani, i quali, oltre alla totale devastazione di una società relativamente avanzata e centinaia di migliaia di morti, secondo Obama avrebbero lasciato in eredità “una democrazia intatta e un esercito ben equipaggiato”.
Le timide ammissioni di colpa di Obama sono però del tutto fuorvianti, non essendoci stato nessun errore da parte americana, poiché l’intelligence USA era perfettamente al corrente dei progressi dell’ISIS in Iraq. Infatti, non solo questa organizzazione fondamentalista è una creatura del programma di addestramento e finanziamento degli oppositori di Assad in Siria condotto dalla CIA, dalle monarchie assolute del Golfo Persico e dalla Turchia, ma le informazioni circa l’avanzata dei militanti in territorio iracheno, culminata con la presa della città di Mosul a giugno, erano state riferite ai vertici politici e militari di Washington da più fonti, se mai fosse stato necessario, tra cui i servizi segreti del governo autonomo del Kurdistan iracheno.
Obama, in ogni caso, ha previsto buone probabilità di successo dell’operazione USA in corso per quanto riguarda l’Iraq ma, in maniera significativa, ha delineato una situazione più difficoltosa per la Siria.
Quest’ultima previsione pessimistica, che sembra essere condivisa da praticamente tutto l’establishment politico e militare degli Stati Uniti e dei paesi a fianco di Washington nella campagna contro l’ISIS, ha il preciso scopo di dipingere il peggiore scenario possibile in Siria, in modo da giustificare una nuova inevitabile spirale di guerra che ha come obiettivo ultimo la rimozione di Assad.
L’esempio finora più clamoroso delle reali intenzioni degli Stati Uniti e delle manovre in corso per orientare l’opinione pubblica verso l’accettazione di un’accelerazione della nuova “guerra al terrorismo” è stato registrato venerdì durante una conferenza stampa al Pentagono.
Il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e il capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, in questa occasione hanno ammesso che allo studio ci sarebbe la possibilità di imporre una “no-fly zone” sopra i cieli della Siria, assieme alla creazione di un’area-cuscinetto al confine con la Turchia, dove un’ondata di profughi curdi sta transitando in questi giorni a causa degli attacchi dell’ISIS sulla città di Kobani.
Secondo Hagel, questi provvedimenti potrebbero essere presi in risposta alle richieste fatte recentemente dal presidente turco Erdogan e comporterebbero anche il dispiegamento di truppe di terra in territorio siriano.
Di fronte alle dichiarazioni di Hagel e Dempsey, nessuno dei media ufficiali ha ritenuto necessario interrogarsi circa il significato di una “no-fly zone” nell’ambito di una guerra contro un gruppo terrorista che non dispone di aerei o elicotteri da guerra.
Un’eventuale no-fly zone verrebbe giustificata, come accadde in Libia nel 2011 in seguito alla manipolazione di una risoluzione ONU, soltanto con la necessità di proteggere i civili dai bombardamenti aerei del regime di Damasco, rivelando perciò il vero obiettivo della guerra appena lanciata.
Come ricordano i precedenti, da ultimo proprio quello libico, l’imposizione di una “no-fly zone” comporta un numero altissimo di vittime e la distruzione dei mezzi aerei e delle strutture di difesa anti-aerea del paese colpito. Tutto questo avverrebbe nonostante a livello ufficiale l’amministrazione Obama continui a indicare l’ISIS come unico obiettivo del conflitto e a escludere un coinvolgimento diretto nella guerra civile siriana tra Assad e i suoi oppositori.
Allo stesso tempo, l’entourage di Obama continua a smentire un’altra ipotesi che è invece da considerarsi probabile in prospettiva futura, vale a dire l’invio di truppe americane di terra in Siria. Dopo che svariati analisti ed esperti nei giorni scorsi avevano avvertito che per estirpare la minaccia dell’ISIS sarebbero state appunto necessarie operazioni di terra, nel fine settimana anche lo speaker della Camera dei Rappresentanti di Washington, il repubblicano John Boehner, ha dato il proprio appoggio a questa ipotesi in un’intervista alla ABC.
Boehner ha avvertito che per sconfiggere l’ISIS servirà molto più dei bombardamenti aerei e se nessun paese dovesse farsi carico dell’invio di truppe di terra in Siria a farlo dovranno essere gli Stati Uniti. Inoltre, se Obama lo chiedesse, Boehner si è detto disponibile a richiamare a Washington i suoi colleghi deputati - liberi di fare campagna elettorale fino al voto di “medio termine” del 4 novembre - per approvare una risoluzione che autorizzi il presidente a lanciare un’offensiva di terra in Siria.
D’altra parte, come aveva sottolineato il generale Dempsey nella già citata conferenza stampa al Pentagono, gli USA stimano che per assestare un colpo mortale all’ISIS serviranno dai 12 ai 15 mila guerriglieri dell’opposizione anti-Assad. Su richiesta della Casa Bianca, però, il Congresso ha appena approvato un pacchetto da 500 milioni di dollari per addestrare appena 5 mila “ribelli”, così che la differenza dovrà essere compensata in qualche altro modo.
Nel frattempo, da Washington a Londra e da Parigi a Roma, la classe politica occidentale di ogni colore e schieramento, dopo avere dato il proprio appoggio alla nuova guerra criminale americana, continua ad alimentare la paura nella popolazione per possibili attentati terroristici “imminenti”.
Ciò serve a contrastare un’opposizione sempre più diffusa nei confronti di una nuova guerra in Medio Oriente, anche se non sembra essercene traccia a giudicare dai media più importanti. A questo stesso scopo, poi, gli USA, in collaborazione con la stampa “mainstream”, si sono letteralmente inventati un nuovo gruppo terroristico, definito subito più feroce e minaccioso anche dell’ISIS.
La nuova fantomatica formazione integralista risponderebbe al nome di Khorasan e sarebbe composta da non più di una ventina di affiliati ad al-Qaeda, intenti a progettare attentati in Occidente che, inizialmente, sembravano essere ormai sul punto di essere messi in atto ma che poi si è scoperto essere solo in fase di studio.
Secondo gli Stati Uniti, i membri di Khorasan sarebbero stati spazzati via già durante le prime ore delle operazioni in Siria, anche se, a ben vedere, non è per niente chiaro in questo caso quali obiettivi siano stati realmente colpiti, visto che dell’esistenza della nuova terribile creatura della “guerra al terrore”, partorita dall’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, non sembrano esserne a conoscenza nemmeno gli stessi militanti sunniti dell’opposizione anti-Assad operanti in territorio siriano.
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di Michele Paris
Il premio Nobel per la pace Barack Obama sta programmando per i prossimi decenni un ammodernamento a tutto campo dell’arsenale nucleare degli Stati Uniti. A darne notizia è stato un recente articolo del New York Times, nel quale viene messa in evidenza la doppiezza del presidente democratico, impegnato a parole nella battaglia per un mondo “libero dal nucleare” e intento in realtà a espandere drammaticamente le potenzialità distruttive di un paese che risulta a tutti gli effetti il principale aggressore del pianeta.
Secondo una stima dell’ufficio per il bilancio del Congresso, i piani di modernizzazione sottoposti dalla Casa Bianca prevedono una spesa di ben 355 miliardi di dollari nel prossimo decennio. Ma questo sarebbe solo l’inizio, visto che la sostituzione degli armamenti “obsoleti” e altri progetti potrebbero far salire la cifra fino a più di mille miliardi di dollari in trent’anni.
L’importo preciso dello sforzo americano in ambito nucleare dovrebbe risultare chiaro nei prossimi mesi, quando l’amministrazione Obama preparerà i piani di spesa dettagliati da presentare al Congresso in vista del bilancio per l’anno 2016.
La clamorosa contraddizione tra la retorica pacifista del presidente e la realtà dei fatti viene comunque smentita dallo stesso Obama e dal suo staff, per i quali, anzi, la realizzazione di testate più piccole e moderne - ancorché più potenti e letali - sarebbe la conferma della volontà di ridurre l’arsenale nucleare a disposizione degli Stati Uniti.
Tra gli obiettivi primari del governo USA vi sarebbe il rinnovo delle testate esistenti, ma anche lo sviluppo e la costruzione di sistemi di lancio più efficienti e lo stanziamento di fondi per installazioni militari e laboratori di ricerca sul nucleare a scopi militari.
Il complesso industriale nucleare americano si compone di otto strutture, che vanno dalla South Carolina alla California, dove lavorano più di 40 mila addetti. La più recente è quella di Kansas City, nel Missouri, completata con una spesa di 700 milioni di dollari. L’impianto di Oak Ridge, nel Tennessee, è costato invece 500 milioni nel 2011 e per un ulteriore piano di ammodernamento le previsioni di spesa erano salite da 6,5 a 19 miliardi di dollari prima che l’amministrazione sospendesse i lavori.
A fronte degli enormi tagli che hanno interessato la spesa sociale sia a livello federale che statale negli ultimi anni, il budget per il mantenimento e lo sviluppo dell’arsenale nucleare americano non ha risentito di alcuna riduzione e, appunto, salirà ulteriormente e in maniera sensibile nel prossimo futuro.
Il tempismo dell’uscita del pezzo del Times e il rilievo assegnatogli con la prima pagina sono apparsi più che significativi, visto il clima di crescenti tensioni tra Washington e le due principali potenze nucleari rivali: Russia e Cina.
Gli autori dell’articolo, infatti, hanno sottolineato come i piani di disarmo originariamente concepiti da Obama appaiano sempre più improbabili alla luce del fatto che la “Russia è sul piede di guerra” e che la “Cina sta avanzando le proprie rivendicazioni territoriali” in Asia orientale, a discapito spesso di alleati degli USA.
Il quotidiano newyorchese ha citato poi, tra gli altri, l’ex consigliere di Obama sulle questioni del nucleare, Gary Samore, secondo il quale a far cambiare le intenzioni della Casa Bianca in questo ambito sarebbe stato l’atteggiamento di “Putin e l’invasione dell’Ucraina”. Questi eventi avrebbero “reso politicamente impossibile l’adozione di qualsiasi misura per ridurre unilateralmente l’arsenale nucleare” americano.
Oltre all’ironia del fatto che Samore è il presidente dell’organizzazione “United Against Nuclear Iran” (UANI), che si batte per impedire lo sviluppo di un inesistente programma nucleare militare da parte della Repubblica Islamica, le sue dichiarazioni e lo stesso pezzo del New York Times servono per rassicurare l’opinione pubblica del carattere sostanzialmente difensivo dei piani dell’amministrazione Obama per la modernizzazione delle armi nucleari americane.
In realtà, i comportamenti più intraprendenti attribuiti a Russia e Cina non sono altro che l’inevitabile reazione alla crescente aggressività di Washington in concomitanza con l’inevitabile perdita di influenza della principale potenza globale.
L’articolo è insomma una sorta di velato avvertimento di come gli Stati Uniti siano intenzionati a fare ricorso a tutte le proprie risorse belliche - comprese quelle più distruttive - per imporre i loro interessi nel pianeta contro qualsiasi paese che possa rappresentare una minaccia alla declinante egemonia americana.
Come dimostrano le crisi in Ucraina e in Siria - nonché in misura minore, almeno per ora, in Asia orientale - gli USA non hanno dunque alcuno scrupolo nell’attaccare frontalmente gli interessi dei propri rivali, pur essendo consapevoli del rischio sempre più concreto di poter scatenare una guerra nucleare.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Non sembra concludersi a Berlino il dibattito sulla questione dei profughi e delle occupazioni abusive, che da settimane occupa le prime pagine dei maggiori quotidiani locali. Occupazioni di chiese e ostelli, roghi e sgomberi, a tratti sembra di vivere in tempi diversi e continenti lontani dalla vecchia, tanto abbottonata Europa attuale.
Berlino è una delle città tedesche più richieste per quel che riguarda l’asilo politico e qui approda il 20 per cento dei rifugiati che arriva in Germania. Solo nell’ultima settimana sono arrivati più di 1.000 profughi, dicono le statistiche ufficiali, tant’è che il centro per l’elaborazione delle pratiche di richieste di asilo berlinese è stato chiuso perché non più in grado di prenderne in carico. Dall’inizio del 2014 Berlino ha accolto più di 6.000 rifugiati: per l’intero anno ne erano previsti massimo 10'000.
Va da sé che le strutture di ricevimento, predisposte dal comune di Berlino, non sono in grado di gestire l’elevato numero di profughi, i fondi non sono sufficienti a coprire le spese necessarie alla prima accoglienza e - tutto il mondo è paese - le tempistiche di elaborazione delle pratiche sono troppo lunghe rispetto alla capacità dei complessi temporanei.
Ed è proprio così, per protestare contro le lacune della burocrazia tedesca, che nel 2012 un centinaio di profughi hanno occupato Oranienplatz, il cuore palpitante di Kreuzberg, costruendovi tende e creando un vero e proprio accampamento. Provenienti da Africa occidentale, Afghanistan, Iran e Irak, gli aspiranti rifugiati hanno chiesto asilo politico allo stato tedesco e si sono trovati di fronte il muro della burocrazia.
Kreuzberg è il quartiere multiculturale da sempre più apprezzato dagli alternativi berlinesi di nascita e d’adozione: turisti, studenti e intellettuali, artisti e artistoidi di tutto il mondo trovano qui la propria quotidianità, gli affitti sono cari ma vi sono locali per tutti i gusti e c’è spazio per tutti. L’occupazione della piazza, così centrale per la vita culturale berlinese, ha quindi acceso i riflettori sulla questione dei profughi politici.
L’ufficio distrettuale di Kreuzberg, da parte sua, ha da subito assicurato solidarietà agli occupanti e ha messo loro a disposizione una scuola del quartiere, assicurando le condizioni necessarie alla sopravvivenza per qualche mese. Da allora i profughi sono tuttavia aumentati, le condizioni di vita peggiorate di conseguenza e i termini concessi legalmente scaduti: gli occupanti non se ne sono mai più andati e l’ufficio distrettuale, da parte sua, non ha chiesto lo sgombero dell’area e dell’edificio.
È il sindaco reggente Klaus Wowereit (SPD) a dover intervenire, e cioè all’inizio di quest’anno: Wowereit non vuole scontri con la polizia e intenta la via della trattativa. Si arriva a un patto solo nella primavera 2014: Berlino assicura a 467 profughi sostegno economico, consulenza legale e formazione di base (tra cui corsi di lingua tedesca), e promette loro una pronta elaborazione delle richieste di asilo.
Promessa che, per la maggior parte dei rifugiati, si trasforma in un sogno a cinque stelle: a 376 di questi si concede l’asilo politico, quindi un permesso di soggiorno che assicuri aiuti finanziari a tutto campo. Da Oranienplatz scompaiono le tende e, piano piano, i rifugiati non ancora processati si allontanano anche dalla scuola, ormai occupata a tutti gli effetti.
Qualche giorno fa i profughi sono tornati a essere protagonisti della scena mediatica berlinese a causa di un’ulteriore occupazione, e cioè dell’ostello che una comunità religiosa locale aveva offerto loro a prosecuzione del soggiorno clandestino, così come della chiesa evangelica St. Thomas, che domina Kreuzberg. Qualcuno è tornato ancora a Oranienplatz: si parla di 150 persone.
Altrettanto rumore hanno causato, in questi giorni, i campeggiatori abusivi della Cuvrystrasse, sempre a Berlino, sempre Kreuzberg, che per due anni hanno occupato un campo recintato di fronte al murales del graffitaro italiano blu, lungo la Sprea, ormai tappa obbligatoria di ogni guida berlinese di rispetto. Dopo un incendio scoppiato nel campo abusivo, gli occupanti sono stati sgomberati dalla polizia. Una via principale della movida berlinese, piena di locali e bar, è stata bloccata per una notte e un giorno fino al completo sgombero dell’area.
L’area è particolarmente interessante perché coinvolta in uno dei progetti più ampi per la ristrutturazione di Berlino, il controverso Mediaspree, che punta a rinnovare la capitale tedesca investendo in quei quartieri che ancora non richiedono uno stipendio astronomico per risiedervi, ma che contano tra le zone più attraenti dal punto di vista culturale, turistico e, ovviamente, economico.
È chiaro che Berlino non ha ancora raggiunto i livelli economici di città quali Londra, Parigi o Roma: in ragione della sua storia tanto frammentata del XX secolo, Berlino è rimasta la sorella più povera tra le capitali dell’Unione europea e di sicuro non si adatta a essere la città regina dell’economia Ue più forte.
L’accampamento abusivo è nato su di un campo recintato da un muro di legno, che fino a un paio di anni fa serviva da parco pubblico semilegale, in una sorta di tacito accordo, e rappresentava l’ultimo angolo libero del quartiere, l’ultimo spiraglio dell’anima punk berlinese degli anni ‘80: chiunque poteva accedervi e godersi qualche ora di tranquillità in riva alla Sprea. Le tende sono state montate poco alla volta, fino ad arrivare a un vero e proprio campeggio abusivo, avvicinabile solo tramite conoscenza degli inquilini, come per qualsiasi abitazione tradizionale.
Ma non è questa l’idea che hanno i campeggiatori della Cuvrystr: come hanno spiegato ai giornalisti, essi occupano per dimostrare contro il sistema e contro la trasformazione della città. Rom, giovani alternativi, senzatetto, gruppi provenienti dall’Europa dell’est, un centinaio le persone che vivono senza acqua né elettricità per rivendicare l’unico spazio ancora libero di Kreuzberg e sottrarlo agli investitori.
Peccato che però, oltre a impedire gli investimenti, impediscano anche l’accesso a tutti gli altri cittadini che prima fruivano davvero di uno spazio libero in tranquillità e che, nel nome dell’anarchia, se ne siano appropriati nel vero senso della parola. Ma questo è un altro discorso.
Profughi che occupano aree pubbliche per far valere i propri diritti e ottengono trattative, senzatetto che un campeggiano abusivamente e non vengono cacciati se non dopo mesi e mesi di occupazione, i titoli delle prime pagine dei quotidiani locali dedicate per settimane a queste due situazioni.
E tutto ciò a Berlino: evidentemente la città ancora concede la libertà di manifestare, di occupare e di esprimere il proprio disappunto, così come la giusta attenzione mediatica a fatti che tante altre città non hanno il coraggio di mettere in risalto. Come se nel sistema di Berlino, ancora giovane, ci fossero dei buchi e si fosse creata la conseguente possibilità di infilarsi per dire la propria opinione e, in qualche modo, farla valere.
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di Rosa Ana De Santis
Di ritorno da Kampala leggo come la stagione dell’Ebola trova spazio sulle pagine dei giornali italiani. L’epidemia raggiunge numeri sorprendenti, ma, d’altro canto, la cronaca nazionale colleziona i tradizionali vuoti estivi e così l’Africa letta in Italia è solo quella del contagio mortale. Ma il Congo è grande quanto l’Europa e i casi di malattia scoperti sono lontanissimi da Arua, West Nile, nel Nord dell’Uganda dove sono tornata dopo 8 anni di nostalgia.
Le ultime notizie seguite passo passo sul Daily Monitor alla vigilia della partenza, il 1 agosto, titolano l’abrogazione della legge anti gay da parte della Corte Costituzionale Ugandese. L’approvazione di questa legge durissima, il cui iter avevo seguito sui titoli allarmanti dei giornali, prevedeva fino all’ergastolo per chi avesse relazioni omosessuali o transgender.
A voler leggere bene la norma si scopre che la severissima misura legislativa vuole colpire la dilagante prostituzione e una finta omosessualità dietro cui spesso si celano relazioni a pagamento, magari tra adolescenti e poverissimi che omosessuali non lo sono affatto, ma diventano comodi e facili oggetti sessuali per uomini ricchi e spesso stranieri.
In ogni caso le parole hanno un peso e la condanna al carcere per l’omosessualità costa all’Uganda un biasimo generale e sanzioni, specialmente dai paesi amici e finanziatori, USA in testa. Gli stessi, dicono alcuni colleghi della stampa locale, che finanziano pseudo associazioni LGBT, create ad arte con pagamento di finti affiliati per buttare giù la legge e la credibilità di un paese.
E’ evidente che esiste un piano reale del problema, di ben altra natura da quello pubblicizzato e reso mediatico. Me ne accorgo appena sbarcata ad Entebbe. Il viaggio dall’aeroporto al Nord del Paese, passando per la capitale Kampala, è una continua scoperta di chiese e luoghi di culto. Musulmani più sobri e separati, i cristiani invece un’armata Brancaleone. Chiesa anglicana e cattolica in testa e poi una costellazione di altre Chiese evangeliche, nate come funghi e di provenienza statunitense.
Le chiese superano le umilissime case della gente, reclutano fedeli utilizzando ad arte la comoda e ingenua credulità delle persone che fanno fatica a cogliere tutto ciò che distingue una Chiesa dall’altra. Santoni improvvisati, guaritori che oggi ci sono e domani, fatta cassa, spariscono lasciando le persone in totale confusione.
Ho chiaro che si tratta di una nuova forma di colonialismo, solo all’apparenza meno crudele dello sfruttamento delle multinazionali. L’ingaggio dei fedeli è una nuova modalità per pilotare la coscienza sociale e per lasciare intatte condizioni e ingiustizie che colpiscono la maggioranza della popolazione. Non hanno fatto eccezione, per amore di verità va detto, i missionari cattolici, specialmente quelli della prima ora.
Al fondo dell’esasperazione anti omosessualità, cavalcata ad arte dal governo, ci sono quindi proprio loro: le sette pentecostali che sul versante morale e moraleggiante possono vantare assurdità di ogni tipo. Non è un caso che il Presidente Museveni sia seguace della setta evangelica pentecostale “Centro dei miracoli”, fondata dal pastore Kayanja. E’ questo il substrato dove attinge una feroce ghettizzazione morale ai danni dei “diversi”. Capisco ancora meglio che dietro questa legge c’è una longa manus dietro le quinte che rende, tutto quel che sembra chiaro sui quotidiani italiani, molto poco credibile dentro i confini del paese. Il come è quasi grottesco.
Da un lato le Chiese cristiane dell’ultima ora hanno una regia statunitense di espansione nel paese, lo mostra la loro fioritura sul territorio, il reclutamento grossolano delle persone, la sparizione delle stesse con estrema disinvoltura, il monopolio e il controllo che esercitano su interi territori in una competizione con le altre istituzioni religiose che somiglia ad una concorrenza di mercato qualsiasi.
Dall’altro gli stessi Stati Uniti, nel momento dell’ approvazione della legge, ne diventano detrattori in due modalità: una ufficiale con le banche e gli aiuti internazionali, minacciando di chiudere i rubinetti e una nell’ombra, stipendiando queste nuove ed improvvise organizzazioni associative di vittime e di “perseguitati”.
La legge cade e mentre sono lì, giornali e tv mi restituiscono l’idea che la questione dell’omosessualità, che pure non è risolta nelle Chiese in generale e in moltissimi paesi, non sia però cosi urgente e impellente come la stampa internazionale ha voluto far credere. Il paese non se ne cura per niente. Si parla di acqua, di elettricità per interi villaggi ancora sprovvisti, di strade in costruzione, di una guerra finita dopo 25 anni e delle macerie lasciate.
Un dato è certo. una legge come questa non ha aiutato la gente comune a capire e a comprendere. Avrà avuto l’impatto di un cattivo esempio, soprattutto in giovanissimi facilmente manipolabili, incoraggiando atteggiamenti discriminatori e omofobici, lasciando instabilità e disordine in più su una società già provata da una storia durissima. Ma soprattutto avrà autorizzato in una modalità astuta più che in passato, come per tanti altri paesi africani, un principio “eteronomico” indiscutibile nella gestione degli affari di casa.
Accade per il caffè, per il thè, per i prodotti locali, accade ora anche nelle preghiere e nella vita delle persone. E’ dall’esterno che si decide, si promuove con la mano destra e si decostruisce con la sinistra, indebolendo le istituzioni e trasformando un paese in un ostaggio. Non è più la volta dei fucili, ma ancora una volta sarà in nome di Dio.