di Michele Paris

Un nuovo libro in uscita nei prossimi giorni sulle attività dell’ex primo ministro laburista britannico, Tony Blair, dopo il suo addio a Downing Street nel 2007, ha rinvigorito le accuse nei suoi confronti di avere utilizzato per i propri interessi economici l’incarico di inviato speciale in Medio Oriente del cosiddetto “Quartetto” (ONU, Stati Uniti, Unione Europea e Russia), il cui obiettivo ufficiale dovrebbe essere quello di promuovere i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi.

In particolare, i frequenti viaggi nella regione mediorientale da parte di Blair gli avrebbero permesso di negoziare una serie di contratti di “consulenza” tra la sua società, denominata Tony Blair Associates (TBA), e le monarchie assolute del Golfo Persico.

Secondo quanto riportato dal Sunday Times nel fine settimana, l’affare più ghiotto per l’ex premier sarebbe stato un contratto con il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti. Il giornale londinese ha pubblicato una “proposta”, datata settembre 2014, per una “partnership strategica” tra le due parti.

Nella prefazione di questo documento, firmata da Blair in persona, viene elogiata la “solida leadership” della dittatura degli Emirati, alla quale la TBA offre i propri servizi per costruire una rete di contatti nel pianeta e incrementare l’influenza internazionale di questo paese arabo. La TBA ricorda poi di essere già presente in 25 paesi e che “non esiste virtualmente luogo nel mondo dove non siamo in grado di operare o fornire i contatti necessari, sia politici che economici”.

Nello spiegare come la collaborazione proposta dovrebbe concretizzarsi, il documento pubblicato dal Times di Londra assicura che lo stesso Blair sarebbe coinvolto direttamente e perciò disposto a trascorrere “2/3 giorni ogni mese a Abu Dhabi”, nonché a rimanere continuamente in contatto con il regime degli Emirati. Il valore complessivo del contratto di consulenza ammonterebbe a 30 milioni di sterline, cioè più di 41 milioni di euro.

L’affare risulta perfettamente in linea con la strategia messa in atto da Tony Blair all’indomani del suo abbandono forzato della carica di primo ministro per fare soldi nella maniera più rapida possibile, cioè grazie alla posizione di governo da lui ricoperta e ai contatti stabiliti quando era al potere in Gran Bretagna.

Da un lato, Blair ha seguito l’esempio di Bill Clinton, in grado di accumulare milioni di dollari soltanto tenendo banali discorsi pubblici di fronte a organizzazioni o compagnie private in ogni angolo del pianeta. Dall’altro, la principale fonte di reddito per l’ex leader laburista è appunto l’attività di “consulenza”, spesso avvolta nel mistero a causa del ricorso a oscure strutture societarie consentite dalla legislazione britannica.

Il macroscopico conflitto di interessi tra l’incarico di inviato speciale per il conflitto israelo-palestinese e i suoi affari personali è comunque da tempo al centro di polemiche e le richieste di dimissioni si stanno moltiplicando proprio in seguito alla pubblicazione del Times.

Tanto più che le più recenti rivelazioni si aggiungono ad almeno altre due questioni che avevano sollevato seri interrogativi sul lavoro di Blair in Medio Oriente. Nel primo caso, quest’ultimo aveva fatto pressioni sul governo israeliano per facilitare lo sfruttamento di un giacimento di gas naturale al largo della costa della striscia di Gaza, i cui diritti erano detenuti da British Gas Group, società cliente di JP Morgan, di cui Blair è a libro paga fin dal 2008 con un compenso annuo stimato attorno ai 2 milioni di sterline.

L’altra vicenda riguardava invece il mercato delle frequenze telefoniche, con la compagnia Wataniya Telecom che aveva ottenuto il permesso - grazie a Blair - di operare un servizio di telefonia mobile in Cisgiordania. Questa società appartiene al gigante delle telecomunicazioni del Qatar, QTEL, anch’esso compreso nel portafoglio clienti di JP Morgan, e aveva appunto beneficiato della “mediazione” di Blair con il governo di Israele per utilizzare le frequenze necessarie.

L’insaziabile avidità di Blair comporta inoltre l’assenza di qualsiasi scrupolo nel ricercare occasioni di guadagno, come risulta evidente dalla sua collaborazione (ben retribuita) con autocrati, dittatori e assassini vari ovunque ciò sia possibile.

Un estratto del volume già ricordato - “Blair Inc.: The man behind the mask” - è apparso nei giorni scorsi su alcuni giornali inglesi ed elenca alcuni affari mandati in porto negli ultimi anni dalla società di consulenze dell’ex primo ministro.

Nel 2010, ad esempio, Blair aveva stipulato un contratto segreto con la compagnia petrolifera saudita PetroSaudi. Per 41 mila sterline al mese e una commissione del 2 per cento su ogni affare mediato dalla sua società, Blair si impegnava a favorire lucrosi contatti in Cina.

Sempre nel Golfo Persico, poi, Blair avrebbe un contratto di consulenza con il regime del Kuwait per 27 milioni di sterline e un altro più “modesto” ancora con gli Emirati Arabi, ovvero del valore di 1 milione di sterline all’anno.

Ben documentata è anche la partnership con il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, al potere dal 1991. La scorsa estate, il Daily Telegraph aveva citato una lettera scritta da Blair a Nazarbayev nel luglio del 2012, poco prima di un discorso che il presidente/autocrate kazako tenesse un discorso presso l’università di Cambridge.

Solo pochi mesi prima, nel dicembre del 2011, i servizi di sicurezza del paese centro-asiatico avevano ucciso 14 manifestanti che stavano protestando contro il regime nella città di Zhanaozen. Altre 64 persone erano state ferite negli scontri, mentre lavoratori del settore petrolifero in sciopero erano stati arrestati e torturati.

Blair, il quale aveva iniziato a lavorare per il regime proprio nel novembre del 2011, nella missiva a Nazarbayev suggeriva di fare un qualche riferimento al massacro di Zhanaozen nel suo discorso a Cambridge, così da tenere buona la stampa occidentale, precisando al contempo che la tragedia non doveva “oscurare gli enormi progressi fatti dal Kazakistan”.

Questo paese è perennemente nel mirino delle associazioni a difesa dei diritti umani, dal momento che qualsiasi forma di dissenso viene regolarmente repressa sia tramite la violenza delle autorità sia con l’implementazione di leggi fortemente lesive della libertà di espressione e di assemblea.

Lo stesso contributo allo sforzo di regimi repressivi per ripulire la propria immagine Blair lo ha dato ad esempio anche al paese africano della Guinea, questa volta tramite la cosiddetta Africa Governance Initiative (AGI), un’organizzazione con fini “caritatevoli” creata dall’ex primo ministro.

In questo caso, un documento ottenuto dalla stampa inglese aveva mostrato una serie di inziative consigliate dall’AGI al presidente guineano, Alpha Condé, per riconquistare una certa legittimità dopo l’esplosione di proteste nel suo paese tra i mesi di febbraio e marzo del 2013. Le manifestazioni erano state causate dai tentativi del presidente di manipolare le elezioni previste per il maggio successivo e l’intervento delle forze di polizia aveva causato una decina di morti.

Più recentemente, alcune intercettazioni di conversazioni che vedevano protagonisti i vertici del regime militare egiziano, diffuse da un network satellitare di base in Turchia che sostiene i Fratelli Musulmani, hanno infine confermato gli sforzi di Tony Blair nel promuovere in Occidente il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Nelle registrazioni si potevano sentire alcuni membri del governo del Cairo discutere di un’imminente visita in Egitto da parte di una delegazione degli Emirati Arabi, accompagnata da Blair, il quale evidentemente appoggiava in pieno la collaborazione tra questi due paesi al fine di consolidare il regime di Sisi reprimendo nel sangue ogni traccia di opposizione interna.

Blair, d’altra parte, non ha mai fatto mistero di avere approvato il colpo di stato miltare in Egitto che nel luglio del 2013 aveva portato alla deposizione del presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi, sfruttando l’ondata di malcontento popolare contro il suo governo.

Per Blair, Sisi e i militari hanno riportato l’Egitto sui binari della democrazia e i paesi occidentali dovrebbero accogliere a braccia aperte l’ex generale, nonostante i massacri di sostenitori dei Fratelli Musulmani e di manifestanti di ogni orientamento politico, le condanne a morte di massa di oppositori del regime e la messa di fatto fuori legge del dissenso.

Come di consueto, le ragioni della posizione di Blair non avevano a che fare solo con le sue presunte convinzioni politiche ma anche e, probabilmente, soprattutto con gli affari personali. Il Guardian, infatti, nel luglio scorso aveva raccontato di come il mese precedente l’inviato del “Quartetto” per il Medio Oriente stava lavorando a un accordo per fornire consulenza al regime di Sisi su questioni legate alle “riforme economiche”.

Gli sforzi di Blair in questo senso erano sostenuti da una “task force” finanziata dagli onnipresenti Emirati Arabi e gestita dalla compagnia di consulenze Strategy&, facente parte del colosso del settore “advisory” PricewaterhouseCoopers, con lo scopo di attrarre investimenti esteri nell’Egitto dei militari.

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