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di Michele Paris
La competizione crescente tra Cina e Stati Uniti in Estremo Oriente ha segnato come previsto anche le fasi iniziali del summit della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica (APEC) in corso questa settimana alle porte di Pechino. Nonostante i toni relativamente cordiali e alcuni punti di intesa raggiunti, i leader delle prime due potenze economiche del pianeta si sono impegnati in particolare nella promozione di altrettanti trattati di libero scambio da cui risulta escluso il rispettivo rivale.
L’atteggiamento come al solito di sfida degli USA dietro le apparenze rassicuranti era apparso subito evidente nell’intervento tenuto lunedì dal presidente Obama di fronte ai top manager delle principali compagnie delle 21 “economie” che compongono l’APEC. Qui, Obama aveva riaffermato la presunta necessità della leadership globale del suo paese e il suo status di “potenza del Pacfico”, con le ovvie implicazioni riguardo alle ambizioni cinesi.
Nei confronti di Pechino, il presidente democratico ha poi in sostanza chiarito quali siano le condizioni alle quali gli Stati Uniti accetteranno pacificamente la crescita della Cina, cioè se essa manterrà un ruolo subordinato a Washington sullo scacchiere internazionale. Obama ha in primo luogo chiesto un maggiore impegno per l’apertura del mercato cinese al capitale estero e la tutela degli investitori, i quali dovrebbero essere tra l’altro messi nelle condizioni di competere alla pari con le compagnie indigene.
Queste e altre richieste comportano appunto la sottomissione della Cina e della regione del sud-est asiatico alle regole del capitalismo a stelle e strisce. Lo stesso obiettivo, Washington intende perseguirlo anche con un altro strumento promosso a Pechino in questi giorni, vale a dire il trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP).
Con un gesto provocatorio verso le autorità cinesi, Obama ha presieduto sempre lunedì a un vertice presso l’ambasciata americana con i leader degli altri 11 paesi che dovrebbero far parte del TPP. L’incontro ha alla fine prodotto soltanto un comunicato nel quale sono stati sottolineati i progressi fatti nel superare divisioni e resistenze alla firma del trattato, anche se in un’intervista al Wall Street Journal il ministro per il Commercio della Nuova Zelanda, Tim Groser, ha assicurato che la ratifica definitiva del TPP potrebbe giungere già all’inizio del prossimo anno.
La Partnership Trans-Pacifica continua tuttavia a essere estremanente controversa. Alcuni dettagli resi pubblici grazie a WikiLeaks hanno messo in luce negli ultimi mesi come il trattato sia un mezzo per smantellare le regolamentazioni al business previste dai singoli stati e per diminuire drasticamente il peso delle aziende pubbliche, assicurando alle corporations private - soprattutto americane - il dominio incontrastato sull’economia dell’Estremo Oriente e dell’area del Pacifico.
Inoltre, alcuni paesi continuano ad avere parecchie perplessità sul trattato, dal momento che, ad esempio, la sua ratifica significherebbe l’apertura di settori protetti come quello agricolo, la neutralizzazione di iniziative per la difesa dell’ambiente nei singoli stati o l’imposibilità di accedere per i paesi più poveri a medicinali a basso costo.
Come si rendono ben conto a Pechino, il TPP è più in generale una delle armi principali in mano agli Stati Uniti per cercare di mettere in atto un vero e proprio accerchiamento economico della Cina, già in fase avanzata anche dal punto di vista militare.
Premere per l’approvazione del TPP nel contesto dell’APEC da parte statunitense rappresenta dunque una chiara provocazione verso Pechino. Oltre a essere esclusa dal TPP, la Cina potrebbe infatti perdere dall’introduzione del trattato qualcosa come 100 miliardi di dollari ogni anno in mancate esportazioni.
Oltretutto, il presidente cinese Xi Jinping era intenzionato questa settimana a lanciare in maniera formale i negoziati per un trattato alternativo, cioè la cosiddetta Area di Libero Scambio dell’Asia e del Pacifico (FTAAP), ma gli sforzi di Pechino sarebbero stati bloccati proprio dagli Stati Uniti, interessati invece a mettere al centro del vertice APEC il TPP.
L’ostruzionismo americano conferma l’attitudine allo scontro che caratterizza la politica estera dell’amministrazione Obama, poiché l’FTAAP - a differenza del TPP - è un progetto partorito proprio all’interno dell’APEC, anche se viene da tempo promosso direttamente dal governo cinese.
Alla fine, la Cina ha ottenuto martedì soltanto l’approvazione di una “iniziativa di studio” della durata di due anni sull’FTAAP, definito dallo stesso Xi come lo strumento per “aprire le porte chiuse all’interno dell’area Asia-Pacifico” e garantire la crescita economica in un periodo di stagnazione.
Le pressioni americane, in ogni caso, stanno provocando reazioni contrastanti all’interno della leadership cinese, come dimostrano iniziative adottate proprio nei giorni scorsi sia per contrastare l’accerchiamento da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati sia, al contrario, per lanciare qualche segnale distensivo a Washington.
Ascrivibile al primo caso è l’annuncio fatto domenica scorsa dello stanziamento di 40 miliardi di dollari per la creazione di un fondo destinato a realizzare infrastrutture e allo sfruttamento di risorse naturali nei paesi vicini alla Cina, così da favorire i traffici commerciali e l’approvvigionamento energetico di Pechino.
La Cina ha inoltre appena concluso un trattato di libero scambio con la Corea del Sud e un altro simile sembra essere in dirittura d’arrivo con l’Australia. Nei giorni scorsi, infine, Cina e Russia hanno siglato un secondo importante accordo di fornitura di gas naturale dopo quello sottoscritto a maggio da Putin e Xi.
I due accordi potrebbero nel prossimo futuro portare 68 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Siberia alla Cina, la quale diventerebbe così il primo cliente del gas russo davanti alla Germania. Per Pechino, la partnership energetica con Mosca garantisce approvvigionamenti più sicuri dal punto di vista logistico rispetto alle rotte navali presidiate dalle forze USA, mentre per la Russia rappresenta l’accesso a un colossale mercato alternativo a quello europeo, messo a rischio nel medio o lungo periodo dalle crescenti tensioni esplose dopo la crisi in Ucraina.
Tra le misure adottate da Pechino e che assomigliano molto a concessioni verso gli Stati Uniti spicca invece l’intervento di lunedì da parte dalla Banca Centrale cinese per far salire in un colpo solo il valore del renminbi dello 0,37%. L’iniziativa favorisce evidentemente i paesi e le aziende che esportano in Cina e sembra rispondere alle richieste che Washington fa da tempo per consentire il rafforzamento della moneta cinese.
Pechino, poi, ha annunciato che a partire dal 17 novembre sarà possibile scambiare azioni tra la borsa di Shanghai e quella di Hong Kong, così che gli investitori stranieri, liberi di operare su quest’ultima, avranno per la prima volta accesso diretto alla prima. Per un analista della banca UBS sentito lunedì dal New York Times, la decisione può essere considerata “una pietra miliare nell’evoluzione del settore finanziario cinese e nel processo di apertura del mercato dei capitali” di questo paese.
In quello che i media internazionali hanno definito come un esempio della possibile collaborazione tra USA e Cina, i due paesi hanno poi confermato martedì il raggiungimento di un’intesa sull’eliminazione delle tariffe doganali per una serie di prodotti tecnologici, mentre il giorno prima era stata la volta di un accordo sul prolungamento della durata dei visti di ingresso nei due paesi.
Al di là di concessioni o controffensive da parte della Cina, la linea provocatoria tenuta dagli Stati Uniti nel corso del vertice APEC proseguirà quasi certamente anche nei prossimi appuntamenti internazionali, a cominciare dal summit dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) che si terrà tra mercoledì e giovedì in Myanmar, con al centro le dispute territoriali tra Pechino e vari paesi vicini, e da quello del G-20 nel fine settimana a Brisbane, in Australia, dove il presidente Obama dovrebbe pronunciare un importante discorso sulla “leadership USA nell’area Asia-Pacifico”.
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di Emanuela Muzzi
Londra. Se la Serbia guardi oggi ad est o ad ovest, verso Bruxelles o Mosca, in fondo non è una questione rilevante per chi concepisca l’Unione Europea come unione dei popoli, come civiltà comprensiva e multiculturale e non come zona di esercizio del potere delle banche centrali o area geo-economicamente strategica. Certamente le strategie economiche contano: ad esempio la decisione presa in questi giorni della Serbia di rimandare l’inizio della costruzione del corridoio “South Stream” ha infuriato Putin e portato la Russia a richiedere il taglio del 28% ed il pagamento del debito sulle forniture di gas accumulate sinora a Belgrado.
Pare infatti che Belgrado abbia scatenato la ritorsione di Mosca perché si è allineata con la politica della Ue rispetto al corridoio del gas “South Stream”. Questo è rilevante per capire il contesto strategico. Ma il testo in vista dell’entrata nella Ue dovrebbe riguardare il livello di democrazia e lo stato del rispetto dei diritti umani.
Belgrado è indubbiamente Europa dal punto di vista storico-culturale: una città dove per secoli culture diverse hanno convissuto pacificamente tra le rive del Danubio e della Sava anche dopo la morte di Tito, finché non è cominciata la grande tragedia di una guerra e scatenata da tre gerarchi al potere, Milosevic, Tudjiman e Itzebegovic, che ha riportato l'orrore dello sterminio di massa nel cuore dell'Europa sotto gli occhi non curanti dell'Occidente, interessato all'area balcanica solo per destabilizzarla e instaurare un nuovo quadro politico. Ma comunque i serbi agli ordini di Mladic e del mito della Grande Serbia, da Vukovar a Sebrenica, hanno macchiato la ‘Città bianca’ in modo permanente di crimini contro l’umanità.
La Commissione europea ritiene che i passi necessari alla rivisitazione critica di quanto avvenuto non siano ancora stati del tutto compiuti e che, in primo luogo l’amministrazione della giustizia, sia utilizzata a difesa di una casta. Secondo il rapporto UE sul progresso della Serbia in vista di un eventuale ingresso nell’Unione (Enlargement Strategy and Main Challenges 2014-15), la strada da fare verso un assetto democratico è ancora lunga e piena di ostacoli, anche in ordine alla libertà di stampa e libera informazione: il popolare talk show d’inchiesta ‘Utisak Nedelje’ (‘Impressioni della settimana’) in onda sulla TV serba B92 è stato soppresso il mese scorso; la direttrice del programma Olja Beckovic ha dichiarato che il bavaglio è opera del primo ministro Aleksandar Vucicic.
Tema molto delicato e in qualche modo riflesso innegabile delle difficoltà nella completa democratizzazione del paese. Del resto il neoeletto Primo Ministro, leader del Partito Progressista, tra i primi provvedimenti del suo mandato ha imposto al Parlamento il voto d’urgenza su tre decreti legge sulla regolamentazione dei media il cui testo non è stato reso noto all’informazione pubblica. Anche l’Osce lo scorso agosto ha ufficialmente espresso preoccupazione per la diretta ingerenza dello stato sui media e sulla censura online in Serbia.
Per proseguire sul percorso Belgrado-Bruxelles, troviamo le Corti di giustizia: nel report, la Commissione Ue conclude: “Scarsi progressi sono stati fatti nel campo giudiziario e dei diritti fondamentali”, specificando che, nonostante l’assegnazione di nuovi magistrati e una riforma giudiziaria in corso d’opera, l’accesso alla giustizia è ancora scarso e che, nei casi di crimini compiuti durante le guerre jugoslave, non c’è alcuna protezione dei testimoni.
In sostanza la Commissione - benché moderatamente - critica Belgrado, limitando le raccomandazioni al paese candidato a fattori di implementazione ed ottimizzazione di sistema, a dispetto di dati che parlano di violazioni sostanziali dei diritti umani delle minoranze e dei diritti delle donne, dell’accesso al lavoro ed alla rappresentanza politica e del diritto all’accesso alla giustizia, anche quella civile ordinaria. La Commissione, piuttosto, era stata decisamente più esplicita nello scoraggiare Belgrado dalla costruzione del corridoio South Stream in vista dell’accesso all’Unione.
Vero è che l’Unione Europea che ha appena avuto come suo presidente di turno l’Ungheria del nazista Orban, quando parla di diritti politici non può alzare la voce più di tanto se non vuole scatenare l’ilarità generale. Ma l’attenzione rivolta solo alla vicenda del South Stream ricorda come Bruxelles - che si tratti di Ungheria, di Serbia o di qualunque altro paese - sia interessata quasi esclusivamente all’economia.
L’ingresso di Belgrado offre un’ulteriore potenziale zona franca nel cuore del Vecchio Continente e l’ennesima occasione di bypassare le clausole sociali di mercato. Risorse naturali minerarie e braccia a basso costo sono il carburante ideale per i forzieri delle banche europee pronte all’invasione della Serbia come già è successo in ogni altro paese dell’Est Europa.
E non solo di Serbia si tratta. Sul tavolo della Commissione c’è anche il ‘break down diplomatico’ con la Turchia: lo scorso luglio il primo ministro turco Erdogan ha detto che di fronte ad un nuovo attacco ai ‘bosniaks’, (l’etnia musulmana sterminata dalle truppe serbe durante la guerra bosniaca) non avrebbe esitato a mandare una flotta di navi da guerra con 100mila turchi nel porto di Neum; Vu?i? ha subito risposto che una simile minaccia, se confermata, avrebbe destabilizzato la regione.
Naturalmente, come nelle migliori tradizioni, l’affresco della battaglia navale ottomana nel cuore dell’Adriatico, dipinto da Erdogan in piena campagna elettorale, è stato diplomaticamente annacquato dall’ambasciatore turco a Belgrado Kemal Bozay. Ma del resto, sempre in tema di allargamento Ue, potremmo ricordare quando Erdogan, parlando di Europa, disse che il Kossovo è territorio turco…Il silenzio di Bruxelles al riguardo era scontato, visto che Ankara è membro della NATO e che, dunque, le critiche vanno vellutate. Calcolando che la Serbia dovrebbe entrare nell’Unione nel 2020 e la Turchia nel 2023, tutto sommato possiamo ancora goderci qualche anno di tranquillità. E di noia.
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di Mario Lombardo
Da qualche giorno una grave crisi politica sta attraversando la repubblica caucasica della Georgia, con evidenti riflessi sullo scontro in atto attorno alle vicende ucraine tra i governi occidentali e quello russo. Il gabinetto del primo ministro Irakli Garibashvili rischia cioè di perdere la maggioranza parlamentare che lo sositiene dopo l’uscita dalla coalizione di governo del partito filo-occidentale “Liberi Democratici”. La decisione dei leader di questa formazione è arrivata in seguito a un duro confronto con il premier, il quale nella giornata di martedì aveva rimosso dal proprio incarico il ministro della Difesa, nonché leader dei Liberi Democratici, Irakli Alasania.
Il provvedimento è stato preso ufficialmente a causa delle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo in merito a un’indagine in corso su episodi di corruzione legati alle forniture di materiale destinato alle forze armate del paese. In sostanza, Alasania aveva definito l’indagine come una manovra politica volta a far naufragare i piani per l’integrazione della Georgia nella NATO e, più in generale, rappresenterebbe un “attacco alla scelta euro-atlantica” fatta dal paese caucasico.
In segno di solidarietà con il loro leader, tra martedì e mercoledì altri due ministri si sono dimessi: quello degli Esteri, Maia Panjikidze, assieme ai suoi quattro vice, e quello per l’Intergrazione Europea e Euro-Atlantica, Aleksi Petriashvili. Secondo alcuni giornali, anche l’inviato della Georgia presso la NATO, Levan Dolidze, avrebbe abbandonato la propria funzione, ma le sue dimissioni non sembrano essere state finora confermate.
Sempre mercoledì, poi, i leader della coalizione di governo hanno partecipato a un vertice, al quale avrebbe assistito anche l’ex primo ministro e fondatore del partito di Garibashvili (“Sogno Georgiano”), l’imprendore miliardario Bidzina Ivanishvili. Già accusato di pilotare le decisioni del governo dietro le quinte, durante l’incontro Ivanishvili avrebbe parlato a favore dell’inchiesta che coinvolge il ministero della Difesa, spingendo i rappresentanti dei Liberi Democratici ad abbandonare la riunione.
Successivamente, Alasania ha reso nota la decisione di ritirare l’appoggio del suo partito all’Esecutivo e, in varie interviste, ha ribadito le accuse già rivolte contro il primo ministro, lasciando intendere che sia in atto un tentativo di cambiare gli orientamenti della politica estera georgiana per favorire “il paese che ha occupato i territori georgiani”, vale a dire la Russia.
Dichiarazioni simili sono state rilasciate anche dagli altri due ministri dimissionari. Petriashvili ha fatto riferimento a un “gruppo ristretto”, verosimilmente di membri del partito Sogno Georgiano, che sarebbe dietro alle manovre per imprimere una svolta strategica al paese. L’ormai ex ministro degli Esteri Panjikidze, cognata di Alasania, ha sostenuto invece che tutti i progetti e i risultati conseguiti dalla Georgia riguardo all’integrazione con l’Unione Europea e la NATO sono messi in pericolo da “elementi” interni al governo.
L’uscita dei Liberi Democratici dal governo mette a rischio la sopravvivenza del governo di Tbilisi. Se tutti e dieci i parlamentari di questo partito dovessero passare all’opposizione, al governo mancherebbero infatti tre voti per avere la maggioranza assoluta. Secondo il sito di informazione Civil Georgia, tuttavia, almeno due deputati del partito di Alasania potrebbero rimanere nella coalizione, mentre il governo e i leader di Sogno Georgiano starebbero trattando con alcuni parlamentari indipendenti per ottenere il loro appoggio.
Dal momento che la Georgia è un fedele alleato dell’Occidente e un punto fermo nella strategia di accerchiamento della Russia fin dalla cosiddetta “Rivoluzione delle Rose” del 2003, orchestrata dagli Stati Uniti e guidata da vari leader dell’opposizione tra cui il futuro presidente Mikheil Saakashvili, gli sviluppi della crisi politica in atto a Tbilisi stanno provocando gravi preoccupazioni a Washington e a Bruxelles.
Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno diffuso un comunicato per esprimere le proprie perplessità circa il licenziamento di Alasania, definito dal New York Times il “garante” dell’integrazione della Georgia nella NATO e nell’UE. Parallelamente, il Dipartimento di Stato ha invitato i leader georgiani a “mantenere la rotta verso un futuro euro-atlantico”. L’ambasciatore USA a Tbilisi, Richard Norland, in apparenza senza ironia, ha premesso che “la composizione del governo della Georgia è ovviamente una questione che riguarda i georgiani” per poi chiedere a “tutti i partiti di… dedicarsi al futuro del paese” che dovrà essere “fermamente ancorato alle istituzioni euro-atlantiche”.
Il 32enne primo ministro Garibashvili, da parte sua, ha respinto le accuse di Alasania in maniera netta, assicurando allo stesso tempo agli Stati Uniti che “l’integrazione euro-atlantica del nostro paese non è soltanto una scelta del governo, ma anche del popolo” e che “questo processo è irreversibile”.
In effetti, almeno esteriormente, non sembra esserci finora alcun segnale concreto di una possibile modifica degli orientamenti strategici della Georgia, il cui governo solo lo scorso mese di giugno aveva firmato un accordo di partnership con Bruxelles assieme a Moldavia e Ucraina.
Soprattutto tra gli ambienti anti-russi negli Stati Uniti, tuttavia, circola da tempo più di un dubbio in merito alla serietà dell’impegno per l’integrazione con l’Occidente da parte dei leader del partito Sogno Georgiano. I sospetti riguardano in particolare il suo fondatore, Bidzina Ivanishvili, arricchitosi grazie ad agganci nella Mosca post-sovietica e legato per motivi d’affari alla Russia, qundi ritenuto meglio disposto verso il Cremlino di quanto non lo era Saakashvili.
Ivanishvili, d’altra parte, una volta vinte le elezioni nel 2012 aveva promesso di riparare le relazioni con la Russia, danneggiate dopo il conflitto del 2008 in Ossezia del sud, pur mantenendo fermo l’impegno di continuare il processo di avvicinamento all’Occidente. Inoltre, Ivanishvili aveva da subito iniziato una campagna fatta di arresti e incriminazioni ai danni di numerosi esponenti del regime di Saakashvili, guadagnandosi così le critiche del governo di Washington e dei suoi alleati.
Su queste paure dell’Occidente, Alasania e i Liberi Democratici stanno dunque facendo leva per avvantaggiarsi politicamente e, con ogni probabilità, favorire le ambizioni dell’ormai ex ministro della Difesa. Alasania, addirittura, in una recentissima apparizione televisiva ha sostenuto che in Georgia “ci sono molti Yanukovich”, in riferimento al deposto presidente ucraino che aveva voltato alle spalle all’Europa per aderire a un accordo economico e commerciale con la Russia.
Il riferimento a Yanukovich e all’Ucraina nasconde un’evidente minaccia da parte di Alasania, cioè che un eventuale allontanamento dall’Occidente del governo georgiano provocherebbe una nuova protesta di piazza appoggata da Washington. L’intransigenza dell’ex ministro della Difesa nei confronti della Russia era apparsa evidente nel corso di una visita a Tbilisi del numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, nel mese di settembre. In quell’occasione, Alasania aveva duramente condannato il comportamento di Putin, collegando inoltre la situazione in Ucraina a quella vissuta dal suo paese durante e dopo la guerra del 2008.
La crisi politica esplosa in Georgia è senza dubbio il sintomo e allo stesso tempo la conseguenza di tensioni che covano sotto la cenere tra le élite della ex repubblica sovietica. Il partito di Ivanishvili, specialmente, è composto da fazioni e tendenze di vario genere, così che al suo interno ci sono divisioni sull’allineamento strategico che dovrebbe perseguire la Georgia sullo scacchiere internazionale, cioè se continuare a inseguire una totale integrazione con l’Occidente o tenere una posizione più pragmatica che non escluda relazioni cordiali con il Cremlino.
Se queste divergenze sono state un fattore nel determinare le vicende dei giorni scorsi in Georgia, esse sono però anche le conseguenze dello scontro di potere in atto tra il premier Garibashvili e Ivanishvili da una parte e Alasania dall’altra.
Come ha scritto mercoledì la testata on-line Eurasianet, non è la prima volta che Alasania viene colpito da provvedimenti decisi dal capo del governo, in particolare durante i tredici mesi trascorsi alla guida del governo da Ivanishvili (ottobre 2012 - novembre 2013). In questo periodo, il miliardario georgiano si sarebbe infatti adoperato per “bloccare le ambizioni politiche di Alasania”, giungendo nel gennaio del 2013 a rimuoverlo dall’incarico di “primo vice premier” dopo che erano emerse manovre per un suo tentativo di candidarsi alla presidenza del paese dietro le spalle del capo del governo.
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di Michele Paris
L’attesa valanga sul presidente Obama e il Partito Democratico americano si è abbattuta martedì al termine delle elezioni di metà mandato in maniera ancora più pesante rispetto alle già catastrofiche previsioni, riconsegnando ai repubblicani il pieno controllo del Congresso di Washington per la prima volta dal 2006. Al termine di una campagna tra le più dispendiose della storia americana, ma anche probabilmente quella che ha suscitato il minore interesse tra gli elettori, il Partito Repubblicano ha sfondato non solo nelle competizioni per il Senato dove i propri candidati erano dati per favoriti, ma anche in alcuni stati nei quali i sondaggi indicavano vantaggi più o meno rassicuranti per i democratici, come in North Carolina.
Il voto di “midterm” ruotava infatti attorno al controllo del Senato, mentre la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti - dove i repubblicani hanno guadagnato più di dieci seggi e hanno ora un margine mai così ampio dagli anni Quaranta del secolo scorso - non era mai stata messa in discussione. I repubblicani hanno alla fine ottenuto almeno sette seggi fino ad ora occupati dai democratici (Arkansas, Colorado, Iowa, Montana, North Carolina, South Dakota, West Virginia), sufficienti a conquistare il controllo della camera alta del Congresso.
Di questi sette seggi, i democratici ne hanno ceduti due in altrettanti stati che erano stati vinti da Obama su Mitt Romney nelle presidenziali del 2012 (Colorado e Iowa), a conferma della dissoluzione pressoché totale della base elettorale che aveva permesso all’attuale inquilino della Casa Bianca di vincere nel 2008 e di essere rieletto quattro anni più tardi.
Tra i democratici in pericolo, solo la senatrice del New Hampshire, Jeanne Shaheen, è riuscita a conservare il proprio seggio. In Virginia, poi, la vittoria risicatissima dell’ex governatore Mark Warner, considerato tra i più sicuri, ha avuto quasi il sapore della sconfitta in uno stato ritenuto ormai orientato verso i democratici.
Oltre a un totale di 52 seggi - sui 100 complessivi del Senato - già sicuri poche ore dopo l’inizio dei conteggi, i repubblicani otterranno quasi certamente altri due successi: in Alaska, dove il ritardo del democratico in carica, Mark Begich, dal repubblicano Dan Sullivan appare incolmabile anche se esile, e in Louisiana, dove il ballottaggio di dicembre tra la democratica in carica, Mary Landrieu, e il repubblicano Bill Cassidy vede nettamente favorito quest’ultimo.
Che il voto sia stato alla fine un vero e proprio referendum su Obama e sul partito maggiormente identificato come detentore del potere è risultato chiaro da un dato apparentemente singolare. Il Partito Repubblicano e i suoi membri che siedono al Congresso erano cioè secondo quasi tutti i sondaggi ancora più impopolari rispetto al presidente e ai democratici.
Quei (pochi) elettori americani recatisi ai seggi hanno dunque ancora una volta scelto in maggioranza l’unica alternativa possibile allo status quo in un sistema politico bloccato, pur nutrendo in linea generale una profonda avversione per lo stesso partito premiato con il controllo del Congresso.
Questa tendenza è apparsa evidente non solo dalla totale assenza di rischi reali per tutti i candidati repubblicani al Senato ritenuti lievemente in pericolo nelle sfide con i democratici, a cominciare dal prossimo leader di maggioranza, Mitch McConnell, in Kentucky, ma anche dall’esito di alcune competizioni per la carica di governatore.
Vari governatori di estrema destra, responsabili di avere implementato, tra l’altro, pesanti tagli alla spesa pubblica o iniziative per ridurre la libertà sindacale e oggetto talvolta di proteste popolari, hanno infatti battuto in maniera più o meno semplice i rispettivi sfidanti democratici, spesso virtualmente indistinguibili dai loro rivali repubblicani.
Ciò è accaduto ad esempio in Wisconsin, Michigan, Ohio e Florida. Allo stesso modo, i democratici si sono visti sfuggire di mano alcuni stati considerati vere e proprie roccaforti, come l’Illinois di Obama, ma anche, clamorosamente, il Maryland e il Massachusetts. L’unico avvicendamento favorevole ai democratici è stato registrato in Pennsylvania, dove l’imprenditore milionario Tom Wolf ha battuto uno dei governatori più impopolari del paese, il repubblicano Tom Corbett.
L’ondata repubblicana non ha quindi rappresentato nessuno spostamento a destra dell’elettorato americano, ma è stata bensì la conseguenza del malcontento e della totale disillusione espressa nei confronti dell’amministrazione Obama e del Partito Democratico.
Il dato ancora una volta più rilevante in un’elezione negli Stati Uniti è stato così quello dell’astensionismo che, secondo alcune stime, avrebbe addirittura superato il 60%, a dimostrazione della consapevolezza da parte della maggioranza degli americani della sostanziale inalterabilità di un sistema bipartitico completamente nelle mani dei grandi interessi economici e finanziari.
Questa realtà è confermata dal fatto che le cifre record spese nella campagna elettorale - circa 4 mila miliardi di dollari in totale - hanno fatto ben poco per risvegliare l’interesse degli americani. Anzi, l’afflluso di denaro in maniera virtualmente illimitata da corporation, gruppi di interesse e ricchi finanziatori ai candidati di entrambi gli schieramenti e alle cosiddette “Super PACs” che li hanno appoggiati, non hanno fatto altro che allontanare ulteriormente gli elettori dalle urne.
Inoltre, le questioni più urgenti per i lavoratori e la classe media americana sono rimaste quasi del tutto fuori dalla campagna elettorale, come la necessità di una politica economica di stampo progressista e che non si risolva esclusivamente nel rigore o nel sostegno ai poteri forti, ma anche la nuova guerra in Medio Oriente, l’aggressività crescente di Washington nei confronti di Russia e Cina o la creazione di uno stato di polizia che tiene sotto controllo tutti i propri cittadini.
Su questi temi fondamentali, d’altra parte, democratici e repubblicani sono in larghissima misura sulla stessa lunghezza d’onda, mentre il presunto scontro permanente tra i due partiti si limita quasi sempre a questioni di secondaria importanza o di natura tattica per perseguire le medesime politiche di classe secondo gli interessi immediati dei singoli partiti.
Attorno all’economia, poi, le dichiarazioni rilasciate alla stampa dopo il voto da membri dell’amministrazione Obama sono state estremamente indicative. Secondo i democratici, cioè, le apprensioni per lo stato del paese espresse dagli elettori tramite il voto e nei sondaggi non sarebbero dovute tanto a un quadro economico realmente negativo, ma all’incapacità della Casa Bianca e dei membri del Congresso di comunicare una situazione in netto miglioramento e di cui, evidentemente, gli americani non sembrano essersene accorti.
Nonostante i media ufficiali da entrambe le sponde dell’Atlantico abbiano infine prospettato una fase finale del secondo mandato presidenziale piuttosto complicata per Obama, vista l’ostilità del 114esimo Congresso, i nuovi equilibri a Washington potrebbero portare con sé più di un vantaggio per il presidente.
Con il Campidoglio interamente repubblicano, infatti, la Casa Bianca potrebbe avere la copertura politica necessaria per procedere con misure che i democratici hanno spesso faticato ad avallare, non tanto per convinzione quanto per le ripercussioni negative sul loro tradizionale elettorato.
In altre parole, iniziative impopolari che potrebbero occupare l’agenda di Obama nei prossimi mesi, come l’escalation della guerra in Medio Oriente, l’inasprimento dello scontro con Mosca e Pechino, l’ulteriore ridimensionamento dei programmi pubblici di assistenza o l’approvazione di un controverso trattato di libero scambio transpacifico (TPP), risulteranno più facilmente perseguibili con un Congresso a maggioranza repubblicana.
A questo proposito, lo stesso presidente ha già lanciato segnali di disponibilità al compromesso verso i leader del “Grand Old Party”, invitati ad esempio alla Casa Bianca nella giornata di venerdì assieme ai colleghi democratici. Anche il prossimo leader di maggioranza al Senato, McConnell, durante il suo discorso dopo la rielezione in Kentucky ha da parte sua prospettato una distensione, sostenendo che i due partiti “non devono essere necessariamente in uno stato di conflitto perenne”.
Con un Obama che non dovrà più preoccuparsi di altre tornate elettorali da qui alla fine del suo secondo e ultimo mandato, la collaborazione tra Casa Bianca e repubblicani potrebbe perciò produrre qualche risultato, anche se sulla pelle degli americani. In questo modo, i senatori e i deputati democratici all’opposizione al Congresso sarebbero liberi di manifestare tutto il loro sterile dissenso, così da capitalizzare l’impopolarità che finirà inevitabilmente per pesare sui repubblicani nei prossimi appuntamenti elettorali.
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di Fabrizio Casari
Da quando gli Stati Uniti sono arrivati all’autosufficienza energetica sia con il petrolio che con il gas, la politica di Washington verso il Medio Oriente e il Golfo Persico vive una mancanza di strategia che si è rivelata uno dei maggiori problemi di politica estera per la Casa Bianca. Quando Obama ammise, in relazione all’avanzata dell’ISIS, che gli Stati Uniti erano privi di una strategia, quindi incerti sulle misure da prendere e confessava “errori” nella gestione della partita mediorientale, riferiva in qualche modo delle spinte centrifughe mosse da una superpotenza in crisi la cui prima preoccupazione è dimostrare al mondo che la sua crisi non esiste.
Per quanto riguarda l’avanzata dei soldati del Califfo, ovviamente Obama mentiva, visto che gli USA sapevano benissimo qual’era la situazione sul terreno. Solo che ritenevano di poter gestire la sostituzione di Assad in Siria e di Al Maliki in Iraq abbandonando gli sciiti e rinsaldando l’asse con i sunniti.
Ma non avevano fatto bene i loro conti e Washington si trova ora nell’ennesimo pantano. Deve fermare l’ISIS, ora divenuto una minaccia per l’ordine regionale, ma non vuole, anche indirettamente, aiutare Assad a rinsaldarsi. Non potendo però tornare in Iraq per la terza volta, cerca alleati locali che possano sbrogliarli la matassa, benché consapevole che le alleanze mediorientali siano come le porte girevoli.
Il dilemma, quindi, è politico e militare. Al momento non gli resta che scommettere sulla capacità dei Peshmerga di fermare al-Baghdadi, nonostante essi siano alleati del PKK, da Washington considerata una organizzazione “terroristica”, pur essendo invece una forza di liberazione nazionale in guerra contro l’oppressione turca.
Ma come fermare l’ISIS? Che l’esclusivo uso dei droni possa bastare è escluso. Le truppe di al-Baghdadi che occupano le città s’infiltrano tra la popolazione, rendendo così impossibile distinguere tra obiettivi militari e civili innocenti anche per i sofisticati sistemi di puntamento statunitensi.
E anche sui droni non si vede la furia bellica dello Zio Sam: l’intensità degli attacchi non sembra essere quella solita. In sessanta giorni, dall’8 Agosto al 7 Ottobre, la coalizione ha effettuato 5 mila attacchi, il 96% da parte degli USA e il 4% da parte degli altri alleati arabi ed europei. Non molti, se si considera che contro la ben più piccola Serbia, nel 1999, in 78 giorni la NATO lanciò più di 38.000 attacchi, stremando Belgrado e senza nessuna preoccupazione per le vittime civili, denominate per l’occasione “danni collaterali”.
D’altra parte, tutti gli analisti militari concordano nel dire che con i bombardamenti si ottiene solo un rallentamento della marcia dell’ISIS, ma che se davvero si vuole sconfiggere il progetto di califfato sunnita, si deve scendere a terra e combattere. Ma non è quanto prevede la coalizione, formata per offrire all’opinione pubblica internazionale l’immagine della democrazia occidentale e dei suoi alleati in lotta contro la barbarie, ma che in realtà è una concentrazione di contraddizioni ed ambiguità mai viste prima, sia in ordine alla sua formazione come ai suoi obiettivi.
La sua composizione è eterogenea, per usare un eufemismo, dal momento che dovrebbe combattere l’ISIS ma ospita Turchia, Arabia Saudita e Qatar che sono i principali sponsor finanziari e militari dell’ISIS stesso. L’ISIS del resto è nato come uno strumento per combattere Assad, cacciare Al Maliki dal governo iracheno, riprendere il Libano e ridisegnare il Medio Oriente e il Golfo a guida sunnita.
Progetto condiviso da tutti i suoi amici, dall’Arabia Saudita al Qatar, da Londra a Washington. Ankara ospitò le basi nel suo territorio, Washington mise gli istruttori, Ryad e Doha il denaro necessario per l’operazione. Oggi la differenza sostanziale tra gli USA e i suoi alleati mediorientali è che tutti lo hanno aiutato a nascere e a crescere, ma alcuni continuano a sostenerlo in maniera occulta.
Per Washington l’irruzione dell’ISIS nello scenario siriano poteva essere la soluzione all’empasse in Siria, dal momento che il cosiddetto “Esercito Libero Siriano” e i mercenari annessi provenienti anche da Bosnia e Cecenia non riuscivano ad aver ragione dell’esercito di Assad, peraltro sostenuto in maniera determinante da Hezbollah.
Ma, come spesso succede a Washington in Medio Oriente, la belva gli è scappata di mano, non obbedisce più e, anzi, si rivolta contro il vecchio padrone. Doveva deporre Assad ed ha invece occupato una parte dell’Iraq. Così che oggi gli USA sono costretti di malavoglia a intervenire, benché il nemico autentico dell’ISIS non si trova nella coalizione degli ambigui, bensì a Beirut e nella Valle della Bekaa tra gli Hezbollah, a Damasco nella maggioranza della popolazione e nell’esercito siriano, tra i Peshmerga curdi alleati del PKK e a Teheran.
Vincere in Siria, “resettare” l’Iraq ed entrare in Libano per cacciare Hezbollah erano e restano comunque gli obiettivi condivisi da tutti i membri della coalizione con il placet entusiasta di Israele. Che nonostante una relazione mai troppo problematica con la Siria dopo la guerra dei Sei giorni ed una gestione tutto sommato agevole del contenzioso sulle alture del Golan, ritiene comunque che Damasco, sebbene non sia da tempo il motore propulsore a Gaza, continui ad esercitare una forte influenza sull’ala radicale palestinese, sia a Gaza che nella diaspora; e che inoltre, essendo alleato di Teheran, di Hezbollah e di Hamas, è comunque un importante nemico da eliminare.
Un ruolo decisivo quanto ambiguo lo hanno sostenuto Arabia Saudita, Qatar, Bahrein e Kuwayt. L’idea era ridisegnare un Medio Oriente a direzione sunnita, costruendo così una uniformità religiosa e politica che le monarchie del Golfo avrebbero rappresentato sulla scena politica e finanziaria internazionale.
Proponendosi come guida di un mondo arabo a guida sunnita pensano di realizzare il sogno di assumere un ruolo di rilievo nel panorama mondiale, stanchi di essere un gigante finanziario e un nano politico, rubinetto di petrodollari oscurantisti a disposizione delle mille giravolte USA nella regione del Golfo e in Medio Oriente.
Per le monarchie del Golfo, la parte preistorica della mappa, le cose adesso si sono complicate. Se la coalizione internazionale dovesse sconfiggere l’ISIS, gli odiati sciiti - da Teheran a Baghdad, fino a Beirut - si troverebbero con in mano una vittoria decisiva per gli assetti politico-religiosi mediorientali. Per questo, nascostamente, mentre partecipano alla coalizione, continuano a finanziare l’ISIS.
Ovviamente in maniera occulta. Divertente a questo proposito è stata la storiella del presunto saccheggio da parte di al-Baghdadi di 500 milioni di dollari delle casse della Iraq’s United Bank for Investiment a Mosul. A quel tempo, stando alle dichiarazioni della dirigenza della banca, non solo dalla filiale di Mosul non sparì nemmeno un dollaro, ma nel totale delle 21 filiali sparse in tutta l’Iraq vi erano 260 milioni e che a Mosul al massimo se ne trovavano circa 70. Ogni singolo membro della comunità dell’intelligence internazionale sa invece che gli 875 milioni di dollari ritenuti la dote in mano all’ISIS sono arrivati da Ryad e da Doha sotto la voce ZAKAT, uno dei cinque precetti islamici, quello riferito all’elemosina verso chi ne ha bisogno.
Ma non solo di donazioni vive l’ISIS. Il petrolio che vende, estratto dalle regioni sotto il suo controllo, produce un ricavo giornaliero di 400.000 dollari. Lo comprano i turchi. Gli armamenti e i mezzi moderni provengono invece dai depositi sauditi. Proprio la Turchia vive le maggiori contraddizioni con la coalizione. Hanno a che vedere con la relazione tra Ankara e i curdi. Buona con quelli del nord dell’Iraq, di guerra aperta con il PKK , ritiene una minaccia una eventuale vittoria dei curdi siriani che con il PKK sono alleati.
Per questo Erdogan è arrivato a bombardare i kurdi che correvano dalla Turchia in aiuto ai Peshmerga che, con pagine di autentico eroismo, difendono Kobane. Obama è intervenuto ricordando ad Erdogan che non solo è membro della coalizione, ma soprattutto lo è della NATO e che, dal momento che Washington vuole fermare l’ISIS, o riceve l’aiuto da Ankara o lo accetta da Teheran, che non vede l’ora d’intervenire e spazzare via il sogno del califfato sunnita. Minaccia efficace quella di Obama sia verso Ankara che verso Tel Aviv, preoccupati di un ritorno dell’Iran nello scenario internazionale in accompagnamento di Washington.
Le differenze tra USA e Turchia sono tattiche, hanno a che vedere con il modo nel quale gestire le operazioni politiche e militari, quindi anche a combattere o a provare ad utilizzare l’ISIS per favorire comunque la caduta di Assad prima e la cacciata di Hezbollah dal Libano poi.
Washington e Ankara marciano divise per colpire insieme: entrambe vogliono la fine di Assad e l’instaurazione di un protettorato che permetta il controllo della NATO e di Israele di un’area vitale per gli equilibri mediorientali. Ma quali che siano le aspirazioni occidentali e delle monarchie arabe, l’Iran gioca e giocherà comunque un ruolo fondamentale nella soluzione della vicenda irachena e siriana.
Teheran non resterà con le mani in mano se dovesse vedersi circondare dai sunniti aiutati dall’Occidente. Già ora appoggiando i Peshmerga e l’esercito iracheno e utilizzando le sue truppe di elite in azioni militari contro l’ISIS, ha schierato diversi battaglioni di Pasdaran alla frontiera.
Potrebbero intervenire - paradosso della storia - a difendere Baghdad se fosse sopraffatta dagli uomini di al-Baghdadi. In una situazione così confusa, con strategie sbagliate e forze mal dislocate, l’Iran appare l’interlocutore obbligato per la guerra come per la pace. Con Teheran, quindi, si dovranno fare i conti per stabilire un assetto regionale valido per tutti. Che piaccia o no ad Ankara, Ryad e Tel Aviv.