di Michele Paris

Almeno un paio di inconvenienti stanno preoccupando in questi giorni l’ex segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in una fase che dovrebbe precedere l’annuncio ufficiale del lancio della sua seconda campagna per l’elezione alla Casa Bianca. Il primo fastidio è stato causato dalla pubblicazione della lista di donatori della “Fondazione Clinton” che la ex first lady dirige assieme al marito, Bill, e alla figlia, Chelsea. Questa organizzazione ha scopi ufficialmente benefici e, a partire dalla sua creazione nel 2001, ha distribuito in vari paesi quasi 2 miliardi di dollari.

Scorrendo l’elenco dei benefattori si incontrano però molti governi autoritari, grandi corporations e società appaltatrici del Pentagono che, con ogni probabilità, hanno a cuore non tanto la filantropia quanto il desiderio di ottenere favori ai vertici della politica USA.

Già ai tempi della sua nomina a segretario di Stato nel 2009 era emerso il chiaro conflitto d’interessi per via della Fondazione e delle strategie di raccolta fondi di quest’ultima. Con la Casa Bianca, però, era stato raggiunto un accordo secondo il quale la Fondazione non avrebbe accettato denaro dall’estero proveniente da nuovi donatori. Un’importante eccezione era stata invece stabilita per i donatori “abituali”, i quali avevano facoltà di continuare a finanziare i progetti della Fondazione Clinton.

Dopo le dimissioni di Hillary dal Dipartimento di Stato a inizio 2013, le donazioni sono riprese a tutti gli effetti, superando in quello stesso anno i 260 milioni di dollari. Sul sito web della Fondazione i donatori sono raggruppati in scaglioni, in base alla quantità di denaro sborsato. I più generosi hanno donato “oltre 25 milioni di dollari” e tra questi spiccano la Fondazione Bill e Melinda Gates, un paio di imprenditori multimiliardari impegnati in cause “progressiste” e la Lotteria Nazionale olandese.

Passando agli scaglioni successivi, la lista si fa più interessante. Tra coloro che hanno donato tra 10 e 25 milioni di dollari figura ad esempio il Regno dell’Arabia Saudita, mentre a staccare assegni con cifre comprese tra i 5 e i 10 milioni sono stati, oltre a Michael Schumacher, il governo del Kuwait e Coca-Cola Company.

Le tre rimanenti monarchie assolute del Golfo Persico sono ugualmente presenti nella lista, con donazioni tra 1 e 5 milioni di dollari (Emirati Arabi, Oman, Qatar), così come facoltosi individui che risiedono in questi stessi paesi. Ugualmente, molto nutrita è la rappresentanza delle principali corporations e dei grandi istituti finanziari, tra cui Barclays Capital, Cisco, ExxonMobil, Microsoft, Pfizer, Procter & Gamble, Dow Chemical, Goldman Sachs, Toyota, Walmart, Boeing, Google, Chevron e molti altri.

Il caso di Boeing aiuta a comprendere la natura dei rapporti tra i donatori - o almeno parte di essi - e la Fondazione Clinton. In qualità di segretario di Stato, nel 2009 Hillary si era adoperata con il governo russo per vendere a Mosca 50 velivoli 737 della compagnia americana. Qualche mese più tardi, quest’ultima avrebbe staccato il suo primo assegno da 900 mila dollari a favore della Fondazione, destinati a finanziare il sistema scolastico di Haiti.

La stessa dinamica è riscontrabile in relazione alla compagnia General Electric (GE). Secondo il Wall Street Journal, nell’ottobre del 2012 Hillary fece pressioni sul governo dell’Algeria per appaltare a GE la costruzione di centrali elettriche nel paese nordafricano. Il mese successivo, la Fondazione Clinton chiese alla stessa compagnia una donazione per espandere un’iniziativa sanitaria. Prevedibilmente, GE staccò un assegno per un importo compreso tra i 500 mila e il milione di dollari e nel settembre del 2013 ottenne il contratto per le centrali elettriche in Algeria.

Non sempre la vera e propria attività di “lobbying” di Hillary Clinton ha dato i suoi frutti, come nel caso dei tentativi falliti di convincere alcuni paesi dell’Europa orientale a concedere i diritti di sfruttamento dei propri giacimenti di gas a ExxonMobil e Chevron.

Sempre nel 2012, poi, il gigante della distribuzione Walmart aveva promesso 12 milioni di dollari per finanziare numerose cause legate ai diritti delle donne in America Latina, compresi 1,5 milioni destinati alla Fondazione Clinton. Un mese dopo, l’allora segretario di Stato era al lavoro in India per spingere il governo a cancellare il divieto sull’apertura di mega-negozi di proprietà di compagnie straniere, a cui proprio Walmart puntava da tempo per penetrare un mercato sterminato. Gli sforzi di Hillary, tuttavia, non ebbero successo.

Un altro caso ampiamente riportato dalla stampa americana è infine quello del governo algerino, protagonista di una donazione da 500 mila dollari che, a differenza di quelle formalmente legittime di altri soggetti, avrebbe violato l’accordo sottoscritto nel 2009 tra la Fondazione Clinton e la Casa Bianca.

Il denaro arrivato da Algeri si inseriva in una campagna di “lobbying” messa in atto negli Stati Uniti per contrastare gli effetti di un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani nel mondo che puntava il dito, tra gli altri, proprio contro il governo di questo paese del Maghreb. L’elargizione assicurata alla Fondazione Clinton era superiore al resto del budget stanziato complessivamente dall’Algeria in un anno intero per questo genere di iniziative negli Stati Uniti.

Nei commenti apparsi su quasi tutti i giornali americani, i rapporti della Fondazione Clinton con potenti donatori, soprattutto stranieri, sono stati condannati o messi in discussione principalmente a causa di possibili indebiti scambi di favori, con il coinvolgimento appunto del Dipartimento di Stato e, viste le ambizioni di Hillary, potenzialmente la stessa Casa Bianca.

Da tenere in considerazione è però anche un altro aspetto che si incrocia con la tradizionale strategia del governo USA di utilizzare le questioni dei diritti umani o le apparenti battaglie per cause umanitarie al fine di promuovere gli interessi della propria classe dirigente.

In questo senso, la Fondazione Clinton sembra essere un altro strumento per raggiungere gli obiettivi della politica estera americana, come nel caso di Haiti, dove dopo il terremoto del 2010 l’ente benefico che fa capo all’ex presidente democratico ha svolto un ruolo di primo piano nella “ricostruzione”. Un processo, quest’ultimo, pilotato verso una soluzione favorevole al governo e alle corporations americane, perseguita anche attraverso la controversa elezione alla presidenza nel 2011 del duvalierista molto gradito a Washington, Michel Martelly.

Più di recente, gli intrecci della Fondazione Clinton con la politica estera USA sono riemersi in occasione del voto in Sri Lanka. Qui, gli Stati Uniti hanno manovrato dietro le quinte per giungere alla rimozione del presidente, Mahinda Rajapaksa, colpevole di avere orientato strategicamente il proprio paese verso la Cina.

A tessere la trama per Washington che ha alla fine portato alla presidenza l’ex ministro di Rajapaksa, Maithripala Sirisena, è stata l’ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, membro della Fondazione Clinton fin dal 2005.

L’altro grattacapo per la probabile candidata democratica alla Casa Bianca nel 2016 è scaturito infine dalla pubblicazione martedì della notizia che, durante i quattro anni trascorsi al Dipartimento di Stato, Hillary ha utilizzato esclusivamente il proprio account privato di posta elettronica per la corrispondenza legata al suo incarico.

Da alcuni anni, una legge negli Stati Uniti impone a coloro che occupano cariche federali di utilizzare account governativi, sia per motivi di sicurezza che di trasparenza, in modo da consentire la conservazione della corrispondenza che può essere messa a disposizione di storici, giornalisti o membri di commissioni del Congresso.

La scelta di Hillary di usare il proprio account privato per le comunicazioni ufficiali sembra essere senza precedenti a partire dall’approvazione della legge che regola tale questione. Inoltre, le e-mail inviate e ricevute dall’ex segretario di Stato tra il 2009 e il 2013 sono state consegnate al Dipartimento di Stato solo un paio di mesi fa e dopo una richiesta esplicita del governo.

La vicenda, perciò, minaccia di alimentare ulteriormente le polemiche mai sopite nei confronti di Hillary, ma anche del marito Bill, per una più che evidente inclinazione alla segretezza e alla mancanza di trasparenza.

di Michele Paris

L’assassinio nel pieno centro di Mosca del leader dell’opposizione “liberale” russa, Boris Nemtsov, come prevedibile è stato sfruttato da governi e media ufficiali in Occidente per orchestrare una nuova campagna di discredito nei confronti di Vladimir Putin. Se nessuno, o quasi, ha per ora collegato l’esecuzione del 55enne ex vice-primo ministro direttamente al Cremlino, le reazioni isteriche registrate a Washington, Londra e Berlino, assieme alle dichiarazioni di condanna e alle richieste per una rapidissima indagine sull’accaduto, intendono lanciare un messaggio inequivocabile: cioè che il responsabile quanto meno morale dell’accaduto non può essere altri che lo stesso presidente russo.

Il premier britannico David Cameron, dopo avere invocato un’indagine “trasparente”, apparentemente senza imbarazzo, ha elogiato il defunto Nemtsov per la sua “vita dedicata a un impegno instancabile per il popolo russo, per il diritto alla democrazia e per la libertà”, nonché per mettere “fine della corruzione”.

Identico auspicio per lo scioglimento rapido del mistero dell’assassinio è stato espresso dalla Casa Bianca, da dove Nemtsov è stato definito un “instancabile difensore dei diritti dei cittadini”. Angela Merkel, a sua volta, si è detta “sconvolta” dalla morte di quest’ultimo, per poi celebrare il suo “coraggio nel criticare le politiche del governo” di Mosca.

Accuse più espliticite a Putin per avere causato per lo meno indirettamente la morte di Nemtsov sono giunte invece prevalentemente dai commentatori dei giornali “mainstream” occidentali, da politici che ruotano attorno all’opposizione “non ufficiale” e filo-occidentale russa o, ancora, dai deliri senili di “falchi” come il senatore repubblicano americano John McCain.

A seconda dei casi, Putin sarebbe così responsabile di avere creato un “clima di odio” tra la popolazione che ha portato all’assassinio di Nemtsov (New York Times) o un “clima di impunità”, nel quale gli oppositori del Cremlino “vengono costantemente perseguitati e attaccati, anche dal governo russo, per le loro idee” (McCain).

Al di là della pressoché innegabile natura autoritaria del governo di Vladimir Putin, una riflessione razionale sui fatti di venerdì scorso a Mosca non può che confermare la totale incertezza sui veri responsabili dell’assassinio di Nemtsov.

Le modalità e i tempi dell’esecuzione, inoltre, sollevano parecchie perplessità, poiché sembrano essere stati scelti dagli assassini proprio per dare il maggiore rilievo possibile all’evento. Infatti, il politico russo è stato ucciso nei pressi del Cremlino e meno di due giorni prima di una manifestazione di piazza dell’opposizione che egli stesso avrebbe dovuto guidare.

Se Putin o qualcuno della sua cerchia fossero stati i mandanti, è evidente che avrebbero commesso un clamoroso autogol, alla luce delle prevedibili reazioni in Occidente in un momento in cui le tensioni sono già alle stelle per la crisi in Ucraina. Da tenere in considerazione, inoltre, il fatto che Nemtsov rappresentava una modestissima minaccia per il Cremlino, se non, al limite, nella misura in cui avrebbe potuto rientare in un disegno per il cambio di regime a Mosca orchestrato da Washington sul modello di quanto accaduto a Kiev un anno fa.

Malgrado ciò, in Occidente qualsiasi seria considerazione sulla vicenda è stata messa da parte per rinvigorire la crociata anti-Putin in atto, esattamente come era stato fatto la scorsa estate all’indomani dell’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines (MH-17) sui cieli ucraini. In quell’occasione, l’attentato era stato immediatamente attribuito alla Russia o ai “ribelli” filo-russi - nonostante gli indizi indicassero piuttosto possibili responsabilità del regime o delle forze armate di Kiev - con il consueto accompagnamento di una campagna diffamatoria nei confronti del numero uno del Cremlino.

All’interno del governo di Mosca, in ogni caso, il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha definito l’assassinio una “provocazione”, messa in atto per destabilizzare la Russia e, inevitabilmente, supportare i tentativi occidentali di costruire un’alternativa percorribile all’attuale regime.

Questo sembra essere anche il punto di vista che caratterizza l’indagine avviata dalla Commissione Investigativa, la quale fa capo al Cremlino e che starebbe valutando possibili ulteriori connessioni con la crisi in Ucraina o il fondamentalismo islamico. Nemtsov era fortemente critico della gestione della vicenda ucraina da parte di Putin, mentre aveva apertamente appoggiato il settimanale satirico francese Charlie Hebdo dopo la strage nella redazione parigina nel mese di gennaio.

L’altro aspetto assurdo emerso dalle cronache occidentali di questi giorni è il ritratto di martire della democrazia di Boris Nemtsov, il cui curriculum lo colloca piuttosto tra politici di destra che hanno contribuito alla somministrazione di rovinose politiche economiche ultra-liberiste nella Russia post-sovietica.

Poco più che trentenne, negli anni Novanta Nemtsov venne nominato governatore della regione di Nizhny Novgorod e successivamente ricevette la chiamata da Boris Yeltsin per trasferirsi a Mosca a ricoprire la carica di ministro dell’Energia e in seguito di vice-primo ministro.

Nemtsov era considerato una sorta di protetto del defunto presidente russo tanto da essere stato indicato a un certo punto come suo possibile successore. In quegli anni, Nemtsov fu tra i protagonisti dell’implementazione di una vera e propria terapia d’urto per favorire la transizione al capitalismo nell’ex Unione Sovietica, promuovendo, tra l’altro, privatizzazioni selvagge e lo smantellamento del welfare, creando così da un lato una classe di oligarchi multi-miliardari e, dall’altro, povertà dilagante e devastazione sociale tra la popolazione.

Secondo un ritratto pubblicato domenica dall’agenzia di stampa ufficiale russa Sputink, a partire dal 2003 Nemtsov si sarebbe occupato più di affari che di politica e con un certo successo, visto che le sue entrate totali nel 2008 ammontavano a oltre 7 milioni di dollari.

Dal 2012, poi, l’ex vice-premier era alla guida del Partito Repubblicano Russo-Partito Popolare della Libertà, mentre nel 2013 era tornato alla politica attiva con l’elezione a membro del parlamento regionale di Yaroslavl.

L’abbraccio dei valori democratici da parte di Nemtsov, comunque, era giunto soltanto in concomitanza con le sue sventure politiche, cioè dopo l’estromissione dal governo, e, come molti altri membri dell’opposizione “liberale” russa, anch’egli si sarebbe ben presto allineato ai governi occidentale, in particolare a Washington, con la speranza di tornare a occupare una posizione di potere grazie all’aiuto americano.

Precisamente per questa ragione, assieme al convinto sostegno a politiche di libero mercato, l’opposizione appoggiata dall’Occidente risulta profondamente screditata tra la popolazione russa ed è in grado di raccogliere qualche consenso solo all’interno della classe media relativamente benestante.

La stessa marcia di protesta andata in scena domenica a Mosca, e trasformata in un evento in memoria di Nemtsov, ha registrato la partecipazione di qualche decina di migliaia di persone solo in seguito al clamore suscitato dall’assassinio di due giorni prima. Nei giorni scorsi, invece, tra gli stessi organizzatori era forte la preoccupazione per un possibile flop della manifestazione, in linea appunto con l’incapacità dell’opposizione “liberale” e filo-occidentale di rappresentare una qualche alternativa credibile al governo dell’odiato Putin.

di Mario Lombardo

Nella giornata di giovedì, i militari ucraini hanno annunciato il ritiro delle armi pesanti dalla “linea di contatto” nel sud-est del paese in seguito alla stessa mossa presa in precedenza dai “ribelli” filo-russi, come previsto dal contenuto degli accordi di Minsk. Questa notizia, assieme alla quasi totale cessazione degli scontri armati, non ha però fatto venir meno il rischio di una conflagrazione di più ampia portata in Europa orientale, almeno a giudicare dalla serie di provocazioni contro Mosca provenienti da Kiev e dai governi occidentali.

Da Londra, ad esempio, il primo ministro conservatore, David Cameron, ha fatto sapere che il suo governo invierà 75 militari in Ucraina con funzioni di “addestratori” delle truppe locali, assieme ad aiuti “non letali”, ufficialmente per contribuire alla resistenza delle forze di Kiev contro le offensive dei separatisti.

L’iniziativa britannica potrebbe servire ad aprire la strada ad altre simili da parte dei paesi europei, come ha confermato l’annuncio fatto mercoledì dal governo polacco, il quale manderà ugualmente in Ucraina alcuni “consiglieri militari”.

Il livello della retorica, poi, è rimasto alto a Londra così come a Washington. Lo stesso Cameron ha ribadito l’intenzione di “mandare a Putin e alla Russia il messaggio più forte possibile che quanto è accaduto è inaccettabile”, così che, “nel caso la tregua non dovesse tenere, ci saranno altre conseguenze, altre sanzioni, altre iniziative”.

Il segretario di Stato USA, John Kerry, è invece tornato ad accusare il Cremlino di fornire appoggio materiale ai “ribelli”, come se Washington e i suoi alleati non stessero da parte loro appoggiando totalmente il regime golpista di Kiev e le formazioni neo-naziste che operano nel sud-est del paese.

Per l’ex senatore democratico, né la Russia né i separatisti avrebbero minimamente rispettato gli impegni presi a Minsk due settimane fa, nonostante abbiano per primi rimosso le armi pesanti dalla linea del fronte, e sarebbero perciò a rischio delle ormai consuete “nuove sanzioni”.

Sempre dalla Gran Bretagna è apparso chiaro come le iniziative di questi giorni siano i primi passi di una strategia per aumentare il coinvolgimento occidentale in Ucraina. Il ministro della Difesa di Londra, Michael Fallon, pur escludendo il ricorso a truppe da combattimento, ha lasciato intendere che il suo governo ha ricevuto richieste di fornitura di ogni genere di equipaggiamenti militari da parte di Kiev e che esse verranno considerate seriamente.

Sul tavolo resta sempre anche l’ipotesi che gli Stati Uniti possano trasferire armi “difensive” al regime ucraino, come avevano riferito alla stampa alcune settimane fa membri dell’amministrazione Obama e, nel corso di un’audizione al Congresso per la sua nomina a segretario alla Difesa, il nuovo numero uno del Pentagono, Ashton Carter.

La realtà dei fatti ha comunque già superato i presunti dubbi occidentali sull’opportunità di fornire armi a Kiev, visto che il presidente ucraino, Petro Poroshenko, a inizio settimana ha fatto sapere di avere firmato accordi di “cooperazione” tecnica e militare con il regime degli Emirati Arabi.

Questa monarchia del Golfo Persico, com’è noto, è un fedelissimo alleato degli Stati Uniti, da cui acquista ingenti quantità di armi, rendendo semplicemente assurda l’ipotesi che abbia potuto agire indipendentemente da Washington nel garantire armi all’Ucraina.

Gli Emirati Arabi, d’altra parte, hanno già svolto un compito simile in Siria, dove hanno garantito armi ed equipaggiamenti vari ai “ribelli” anti-Assad – comprese le formazioni di tendenze fondamentaliste – consentendo agli Stati Uniti e ai loro alleati europei di mantenere la posizione ufficiale di non voler contribuire all’aggravamento della violenza in Siria.

Un’altra deliberata provocazione nei confronti di Mosca è stata registrata martedì, con alcuni veicoli armati americani che hanno partecipato a una sfilata militare a Narva, in Estonia, letteralmente a poche centinaia di metri dal confine russo.

I governi di Estonia, Lettonia e Lituania stanno mostrando i livelli più elevati di isteria anti-russa a partire dall’esplosione della crisi ucraina, pur non essendo esposti ad alcun rischio di invasione da parte di Mosca.

Già lo scorso autunno, lo stesso presidente americano Obama durante una vista in Estonia aveva promesso il totale sostegno americano ai paesi baltici, assieme all’aumento delle truppe NATO dispiegate sul loro territorio, confermando come questi paesi rappresentino uno degli avamposti principali nella strategia di accerchiamento della Russia.

Il ribaltamento della realtà proposto dai governi occidentali in relazione alla situazione in Ucraina richiede una costante attività di propaganda da parte dei vari leader e della stampa ufficiale. A questo scopo, significativo è apparso mercoledì l’intervento del comandanete delle forze NATO in Europa, generale Philip Breedlove, di fronte a una commissione della Camera dei Rappresentanti di Washington.

Breedlove ha sostenuto che lo scenario in Ucraina “continua a peggiorare giorno dopo giorno” e gli sforzi occidentali nel contenere l’intervento della Russia stanno producendo pochi risultati. In seguito, il generale americano ha affermato che il successo di Putin nel destabilizzare l’Ucraina potrebbe incoraggiare il presidente russo a “seminare divisioni altrove”, con una strategia volta a “indebolire politicamente la NATO e a espandere l’influenza di Mosca nella regione”.

Con un metodo ben consolidato, Breedlove ha così attribuito ai propri rivali l’atteggiamento del suo stesso governo, delineando in sostanza la strategia messa in atto non dal Cremlino, bensì dagli USA e dai loro alleati in Europa. Questi ultimi hanno infatti provocato il rovesciamento del governo legittimo di Kiev, con la relativa inevitabile creazione di un’area di destabilizzazione alle porte della Russia, al fine di ampliare l’influenza occidentale nell’ex blocco sovietico.

Breedlove ha poi mantenuto un atteggiamento ambiguo sulla possibilità di fornire armi a Kiev, riflettendo le reali preoccupazioni del governo americano per le conseguenze di una decisione che minaccia di trascinare ancor più la Russia nel conflitto ucraino.

In questo senso, le indicazioni ricavate dalle parole di Breedlove si aggiungono ad altri spunti provenienti da più parti negli ultimi mesi che suggeriscono l’intenzione occidentale di cercare di imbrigliare Mosca in una guerra di logoramento in Ucraina che, unitamente alle sanzioni e alla guerra economica in atto con il crollo pilotato del prezzo del petrolio, dovrebbe annientare le resistenze della Russia e le sue ambizioni a giocare un ruolo paritario con la prima potenza del pianeta.

In questo modo, almeno nelle intenzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero alimentare un conflitto di relativamente bassa intensità in Ucraina, con la possibilità teorica di continuare a espandere la presenza della NATO in Europa orientale senza il rischio di una guerra aperta, potenzialmente combattuta con armi nucleari.

Le manovre americane per rimediare all’ennesimo fallimento della propria politica estera rischiano però di aggravare il conflitto, tanto più che allo scenario già estremamente fragile dal punto di vista militare si deve aggiungere la drammatica situazione economica dell’Ucraina che lascia intravedere una possibile destabilizzazione del regime stesso.

La crisi ucraina provocata interamente da Washington e Berlino, infine, ha avuto come diretta conseguenza la crescita di potenti formazioni politiche e paramilitari neo-naziste, su cui l’Occidente e Kiev hanno contato per reprimere la legittima opposizione nelle regioni filo-russe. Questi gruppi rappresentano la fazione del regime più contraria a una risoluzione pacifica del conflitto, visto che continuano a manifestare una profonda opposizione a qualsiasi accordo con Mosca o con i “ribelli” del Donbass.

di Michele Paris

I sospetti che i metodi criminali utilizzati all’estero dal governo americano nell’ambito della “guerra al terrore” siano serviti anche da modello per le operazioni di polizia sul suolo domestico hanno trovato una nuova conferma qualche giorno fa in seguito a un’indagine pubblicata dal Guardian. Secondo la testata britannica, il dipartimento di Polizia di Chicago gestisce cioè una struttura detentiva segreta in un edificio anonimo della metropoli dell’Illinois, dove avvengono interrogatori in totale violazione dei diritti umani e costituzionali dei detenuti.

Nella struttura, conosciuta come Homan Square, gli arrestati sono sottoposti a percosse oppure rimangono incatenati per lunghi periodi, mentre viene loro negata qualsiasi consulenza legale. Il tutto senza che la permanenza dei detenuti nell’edificio semi-clandestino sia registrata nei database della polizia.

L’articolo del Guardian giunge a pochi giorni di distanza da un’altra rivelazione dello stesso giornale, nella quale si raccontava di un detective reclutato come guardia carceraria nel lager di Guantanamo dopo che aveva praticato torture per trent’anni a Chicago per ottenere confessioni e condanne dei sospettati finiti agli arresti.

A Horman Square i detenuti possono restare rinchiusi anche per un giorno intero e nella struttura sono stati “ospitati” addirittura ragazzi di 15 anni. Il Guardian, poi, ha individuato almeno un caso di decesso, quando nel febbraio del 2013 un sospettato sottoposto a interrogatorio era stato trovato privo di sensi e successivamente dichiarato morto per “intossicazione da cocaina”.

Tra le testimonianze raccolte dal quotidiano britannico, l’unica non anomina di ex detenuti è quella di Brian Church, uno dei cosiddetti “NATO Three”, tre attivisti incastrati dalla polizia di Chicago nel 2012 con l’accusa di terrorismo dopo essere stati inflitrati dall’FBI alla vigilia di un vertice dell’Alleanza Atlantica.

“Homan Square è un posto decisamente insolito”, ha rivelato Church. “Ricorda le strutture per gli interrogatori in Medio Oriente, quelli che la CIA chiama ‘buchi neri’. Si tratta di un ‘buco nero’ domestico. Una volta che ci finisci dentro, nessuno sa ciò che ti è successo”. Brian Church era stato tenuto per quasi un giorno a Homan Square, senza che gli fossero letti i suoi diritti, prima di ricevere la visita di un legale ed essere registrato in una vicina stazione di polizia, dove sarebbe stato accusato in maniera formale.

Un avvocato di Chicago sentito dal Guardian, Julia Bartmes, ha affermato che tra i legali della città è più o meno risaputo che, nei casi in cui non è possibile rintracciare i propri clienti, questi ultimi sono probabilmente detenuti a Homan Square. Per l’avvocato dei diritti umani Flint Taylor, invece, la struttura detentiva abusiva rappresenta l’istituzionalizzazione di pratiche che la polizia della città mette in atto da più di 40 anni.

“Semplicemente scompaiono”, ha riassuno l’avvocato Anthony Hill in riferimento alla sorte di alcuni clienti finiti a Homan Square, “fino a quando non riappaiono in un distretto di polizia per essere incriminati oppure vengono rilasciati”.

La struttura di Homan Square ospita non solo interrogatori nell’ambito di presunti casi di “terrorismo” ma permette anche alle forze di polizia di ottenere informazioni legate ad esempio alle attività delle gang della città o al traffico di droga senza il fastidio del rispetto delle norme costituzionali.

Se quanto accade a Homan Square ricorda sinistramente gli abusi del dopo 11 settembre, le pratiche illegali raccontate dal Guardian non sono cosa nuova per la polizia di Chicago. A partire dai primi anni Settanta, infatti, in molti casi gli arrestati della città finivano nella cosiddetta “Area 2”, una stazione di polizia dove venivano appunto somministrate torture varie per estorcere confessioni sotto la supervisione del famigerato comandante Jon Burge.

Nello stesso sito di Homan Square, come ha confermato la testimonianza di Brian Church, la polizia conserva anche veicoli da guerra, simili a quelli “utilizzati dai militari americani in Medio Oriente”. La questione così sollevata da Church fa luce su un altro aspetto legato all’importazione dei metodi di repressione utilizzati nel corso delle guerre degli Stati Uniti all’estero.

I reparti di polizia americani ricevono cioè da anni armi ed equipaggiamenti da combattimento di vario genere, trasferiti – spesso a titolo gratuito – dal Pentagono, ufficialmente per far fronte alla crescente minaccia terroristica che graverebbe sulle città USA.

La stessa polizia della contea di Cook nell’Illinois, che include Chicago, ha ricevuto finora circa 1.700 articoli militari dal Dipartimento della Difesa, tra cui un veicolo resistente alle esplosioni (MRAP) e un altro da ricognizione (Humvee), difficilmente riconducibili a normali attività di ordine pubblico.

Quella che è in atto negli USA è piuttosto una progressiva militarizzazione delle forze di polizia che, assieme alle torture e alle detenzioni extra-giudiziarie praticate a Chicago, conferma l’approdo sul suolo americano dei metodi inaugurati in Medio Oriente e altrove con la “guerra al terrore”.

Mentre all’estero questi stessi metodi sono impiegati per la difesa e la promozione degli interessi imperialistici statunitensi, in patria hanno il preciso obiettivo di gettare le fondamenta di una sistematica strategia di repressione del dissenso e di qualsiasi traccia di opposizione a una classe dirigente screditata e al servizio di una cerchia sempre più ristretta.

di Michele Paris

La pubblicazione questa settimana di alcuni documenti classificati di intelligence da parte del network panarabo Al Jazeera e del quotidiano britannico Guardian ha confermato il profondo stato di paranoia che caratterizza la posizione ufficiale del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, circa il discusso programma nucleare iraniano. Sulla Repubblica Islamica, il premier di estrema destra, atteso da un delicato voto anticipato tra poche settimane, sostiene tesi più estreme anche dei servizi segreti di Tel Aviv, i quali sembrano infatti essere più preoccupati per la fissazione di Netanyahu che della presunta minaccia iraniana.

Il documento prodotto da Al Jazeera e dal Guardian è una comunicazione indirizzata nell’ottobre del 2012 dal Mossad alla propria controparte sudafricana, l’Agenzia per la Sicurezza dello Stato (SSA), per aggiornarla sui progressi del programma nucleare di Teheran.

Il cablo in questione sarebbe stato redatto circa tre settimane dopo la famosa quanto patetica apparizione dello stesso Netanyahu all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove mostrò un cartello con disegnata una bomba divisa in tre sezioni che avrebbero dovuto rappresentare altrettanti “stadi” nella preparazione di un ordingo nucleare da parte iraniana.

In quell’occasione, il premier di Israele aveva raccontato del superamento da parte di Teheran del secondo “stadio” di arricchimento dell’uranio, ovvero del 70% del procedimento per la costruzione di un’arma atomica. Inoltre, a detta di Netanyahu l’Iran avrebbe potuto completare le operazioni necessarie a questo fine in “pochi mesi o forse settimane”, al più tardi “entro la prossima estate [del 2013]”.

Il rapporto del Mossad citato dalla SSA sudafricana affermava invece che l’Iran “non sembra essere pronto ad arricchire l’uranio oltre il 20%”, senza indicare i tempi previsti per una possibile accelerazione del procedimento. Parallelamente, il servizio segreto israeliano riteneva che la Repubblica Islamica stava producendo “grandi sforzi” per attivare il reattore di Arak, potenzialmente destinato alla produzione di plutonio utilizzabile a scopi militari, ma che ciò non sarebbe avvenuto prima della metà del 2014.

Nello stesso documento si aggiungeva poi che l’Iran stava lavorando per rimediare alle carenze in “settori legittimi”, come quello dell’arricchimento, in modo da “ridurre i tempi necessari alla produzione di armi [nucleari]” a partire dal momento in cui sarebbe partito l’ordine dai vertici del regime.

Quest’ultima considerazione da parte del Mossad appare del tutto arbitraria, visto che non esisteva né esiste alcuna prova della volontà iraniana di lavorare a un ordigno nucleare, ma il riferimento a operazioni di arricchimento “legittime” - come quelle messe in atto da molti altri paesi - conferma il sostanziale rispetto di Teheran delle norme internazionali sul nucleare civile.

A simili conclusioni era giunta peraltro anche l’Intelligence Nazionale americana nel 2012, la quale nella sua analisi della situazione relativa all’Iran non aveva riscontrato prove dell’esistenza di un programma per costruire armi nucleari né dell’intenzione di resuscitare le ricerche in questo ambito, messe da parte fin dal 2003.

Le rivelazioni di Guardian e Al Jazeera sono state snobbate dai media conservatori israeliani, poiché sarebbero di seconda mano in quanto provenienti non direttamente dal Mossad ma dall’intelligence sudafricana, cioè da un paese che negli ultimi anni ha visto peggiorare i propri rapporti con Tel Aviv.

Tuttavia, l’analisi attribuita al Mossad da parte della SSA sudafricana conferma le differenze emerse più volte negli ultimi anni tra l’intelligence e Netanhyanu sull’avanzamento del programma nucleare iraniano e la presunta minaccia che esso rappresenterebbe per lo stato ebraico.

L’ex numero uno del Mossad, Meir Dagan, nel 2012 aveva ad esempio puntato il dito contro i guerrafondai come Netanyahu che avrebbero potuto trascinare Israele in una guerra rovinosa ancora prima di “esplorare tutti gli altri approcci” possibili nei confronti dell’Iran. Lo stesso Dagan, capo del Mossad fino al 2010, aveva rivelato di essersi opposto a un ordine di Netanyahu di preparare la sua agenzia per un imminente attacco militare contro l’Iran.

Il successore di Dagan, Tamir Pardo, in una discussione privata giunta alla stampa avrebbe da parte sua sostenuto che la minaccia principale per Israele non era l’Iran, bensì la questione palestinese.

Le divisioni all’interno della classe dirigente israeliana sono emerse pubblicamente anche lo scorso mese di gennaio, quando i giornali hanno riportato un’iniziativa del Mossad per avvertire l’amministrazione Obama che possibili nuove sanzioni contro l’Iran avrebbero fatto naufragare i negoziati sul nucleare in corso tra Teheran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania).

Netanyahu, al contrario, continua a essere il più acceso oppositore delle trattative sul nucleare e non perde occasione per dipingere l’Iran e il suo inesistente programma militare come una minaccia “esistenziale” per Israele. Nuove invettive contro Teheran sono previste anche nel controverso intervento che il premier terrà al Congresso USA il prossimo 3 marzo dopo essere stato invitato dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, senza avere avvertito l’amministrazione Obama.

L’isteria del primo ministro del Likud rischia dunque di fare apparire “moderati” anche i vertici di un’agenzia come il Mossad, all’interno della quale sembrano esserci serie preoccupazioni per i pericoli che possono derivare da una simile campagna contro la Repubblica Islamica.

L’ossessione di Netanyahu per l’Iran rischia in primo luogo di scatenare un conflitto dall’esito molto dubbio e nel quale Israele, pur con il più che probabile appoggio americano, sarebbe esposto alla ritorsione non solo di Teheran, ma anche di Hamas a Gaza e, soprattutto, di Hezbollah in Libano, nonostante l’impegno della milizia sciita in Siria al fianco di Assad.

Inoltre, la denuncia incondizionata del premier di qualsiasi ipotesi di accordo sul nucleare iraniano sta già mettendo a repentaglio i rapporti con Washington, probabilmente al livello più basso da decenni a questa parte. Anche se al momento appare uno scenario quasi fantascientifico, l’eventuale venir meno della relazione speciale con gli Stati Uniti accentuerebbe in maniera catastrofica il già crescente isolamento internazionale di Israele.

Netanyahu, comunque, al di là della sua effettiva percezione del pericolo rappresentato dall’Iran per un paese, come Israele, che detiene centinaia di testate nucleari non dichiarate, continua ad agitare lo spettro di una Repubblica Islamica con armi atomiche per ragioni di natura essenzialmente politica.

Durante questi anni alla guida del paese, Netanyahu ha presieduto al progressivo discredito della classe politica indigena, dovuta principalmente alla repressione del popolo palestinese, resa drammaticamente evidente dalla continua appropriazione illegale di porzioni di territorio che dovrebbero far parte di un futuro nuovo stato arabo e dai crimini commessi a Gaza e in Cisgiordania.

Oltre a ciò, i vari governi Netanyahu hanno determinato un drastico aggravamento delle differenze sociali ed economiche in Israele, producendo tensioni senza precedenti, esplose qualche anno fa in insolite manifestazioni di protesta in varie città del paese.

Nonostante Netanyahu sia già oggi il secondo primo ministro più longevo della storia di Israele, dopo David Ben Gurion, e abbia concrete chances di conquistare un quarto mandato dopo le elezioni di marzo, la sua permanenza al potere resta dunque caratterizzata da un profondo stato di crisi, evidenziato anche dalle manovre politiche degli ultimi anni e dalla decisione di sciogliere anticipatamente il parlamento (Knesset) per due volte consecutive (2012 e 2014).

Per questa ragione, la destra israeliana e Netanyahu hanno bisogno di creare uno stato di emergenza permanente, in modo sia da promuovere le proprie presunte credenziali in materia di sicurezza nazionale sia da dirottare verso l’esterno le tensioni esplosive che si vanno accumulando minacciosamente sul fronte domestico.


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