di Michele Paris

Dopo tre tentativi falliti di conquistare la presidenza della Nigeria, l’ex dittatore e generale in pensione, Muhammadu Buhari, ha sconfitto nelle elezioni di sabato scorso il presidente in carica, Goodluck Jonathan, grazie soprattutto al processo di deterioramento del clima economico e sociale nella prima economia del continente africano durante la gestione dell’amministrazione uscente.

La vittoria di Buhari e del suo partito - Congresso di Tutti i Progressisti (APC) - ha segnato la prima transizione favorevole a un esponente dell’opposizione sanzionata dalle urne da quando, nel 1999, la Nigeria si è liberata della dittatura militare.

L’esito del voto riporta anche alla guida di questo paese un presidente musulmano, dopo che il cristiano Jonathan nel 2011 si era presentato alle elezioni, vincendole, in violazione del tacito accordo tra le élites nigeriane che prevede l’alternanza tra un leader musulmano e uno cristiano.

Jonathan, in qualità di vice-presidente, aveva preso il posto del presidente musulmano Umaru Yar’Adua al momento del decesso di quest’ultimo nel 2010, mentre l’anno successivo aveva sconfitto proprio Buhari. Anche nelle elezioni del 2003 e del 2007, l’ex generale aveva ceduto molto nettamente ai candidati del Partito Popolare Democratico – rispettivamente Olusegun Obasanjo e Yar’Adua – al potere ininterrottamente in Nigeria dal 1999.

Al voto di sabato, il paese più popoloso dell’Africa era giunto tra gravi difficoltà e crisi crescenti. La stessa regolarità dell’appuntamento con le urne era stata messa in dubbio da molti, in particolare dopo la decisione presa dal presidente Jonathan di posporre di sei settimane le elezioni, inizialmente previste per il mese di febbraio, su “suggerimento” delle forze di sicurezza a causa della precaria situazione in molte aree del paese in seguito al dilagare dei guerriglieri fondamentalisti di Boko Haram.

Durante le operazioni di voto sono state segnalate irregolarità ed episodi di violenza ma, alla fine, il margine tra i due principali candidati è apparso nettissimo e le organizzazioni internazionali e i governi stranieri hanno dato il proprio sigillo di legittimità alle elezioni.

Buhari ha ottenuto il 54% dei suffragi contro il 45% di Jonathan. Una differenza quantificabile cioè in oltre due milioni di voti: 15,4 milioni per il presidente-eletto e 13,3 milioni per il suo rivale. Buhari ha avuto la meglio non solo negli stati settentrionali a maggioranza musulmana, ma è stato il più votato anche nel sud-ovest e nel centro del paese, così come nella megalopoli Lagos, capitale commerciale della Nigeria.

Secondo la Costituzione della Nigeria, il candidato vincente al primo turno può evitare il ballottaggio se, oltre a ottenere complessivamente il maggior numero di voti, riceve almeno un quarto dei voti in almeno i due terzi dei 36 stati in cui è suddiviso amministrativamente il paese.

Oltre ai risultati ufficiali presumibilmente inequivocabili, a convincere il presidente uscente a riconoscere la sconfitta e a congratularsi con Buhari è stata con ogni probabilità la velata ma chiarissima preferenza per il suo avversario manifestata dai paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’ex potenza coloniale, la Gran Bretagna.

Il segretario di Stato USA, John Kerry, e il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, lunedì avevano emesso un insolito comunicato congiunto, nel quale si sosteneva che, pur “non avendo finora osservato una sistematica manipolazione del processo” di voto, vi erano “preoccupanti segnali” di possibili “deliberate interferenze politiche” sul conteggio finale dei voti.

Ambienti diplomatici degli stessi paesi avevano in seguito rivelato l’esistenza di presunte richieste fatte “dal partito di governo e dal presidente” alle forze armate per “intimidire” gli addetti alle operazioni di conteggio.

Come sempre accade con Washington, simili prese di posizioni non sono il sintomo di scrupoli democratici da parte del governo americano, bensì segnali del proprio orientamento in merito all’evoluzione politica di un determinato paese. Le indicazioni della preferenza per l’ex generale Buhari da parte degli USA erano d’altra parte evidenti.

Per la campagna elettorale del vincitore, ad esempio, aveva lavorato la società di consulenze americana di David Axelrod, strettissimo consigliere di Obama per il quale aveva curato le operazioni strategiche durante la corsa alla Casa Bianca del 2008.

Il livello di gradimento di Buhari nei circoli di potere d’oltreoceano era apparso poi chiaro dall’invito ricevuto da parte dell’influente think tank di Washington, Center for Strategic and International Studies, a tenere un discorso - poi cancellato - in una conferenza nel mese di gennaio. Buhari ha anche un passato di studi negli Stati Uniti, visto che tra il 1979 e il 1980 ha frequentato il College dell’Esercito di Carlisle, in Pennsylvania, conseguendo un Master in “studi strategici”.

I suoi trascorsi da dittatore non sono inoltre un ostacolo all’ottenimento del sostegno americano. Anzi, la repressione del dissenso e dell’opposizione al regime durante gli anni alla guida della giunta militare è un precedente utile agli occhi dei governi e delle compagnie petrolifere occidentali, in caso Buhari, nonostante la “conversione” alla democrazia, fosse chiamato a fronteggiare rivolte interne che minaccino il flusso di greggio prodotto dal suo paese.

Buhari era stato uno degli ufficiali protagonisti del colpo di stato messo in atto nel dicembre del 1983 contro il governo del presidente democraticamente eletto Shehu Shagari. Prima di essere a sua volta deposto nell’agosto del 1985 da un golpe militare, guidato dal generale Ibrahim Babangida, Buhari aveva condotto una campagna di arresti ai danni di intellettuali, politici, giornalisti e studenti, mentre sul fronte economico si era distinto per l’adozione di misure ancora più rigorose di quelle raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale.

Il favore manifestato dagli USA nei confronti di Buhari è la diretta conseguenza del precipitare delle relazioni tra Washington e l’amministrazione del presidente Jonathan. Quest’ultimo lo scorso anno era giunto a cancellare un programma di addestramento di nuove unità militari nigeriane operato da istruttori americani.

La mossa di Jonathan intendeva essere una protesta contro il mancato impegno di Washington in appoggio alle forze armate della Nigeria nella guerra a Boko Haram.

Ad alimentare i sospetti di Jonathan erano stati probabilmente anche i ripetuti interventi sul territorio nigeriano per combattere i ribelli integralisti da parte degli eserciti di paesi confinanti, primo fra tutti il Ciad, il cui regime è uno dei più fedeli alleati dell’Occidente.

In questo modo, il governo della Nigeria è apparso ulteriormente screditato agli occhi della popolazione, già provata sia dall’incapacità di frenare le violenze di Boko Haram sia dai massacri indiscriminati commessi dalle stesse forze di sicurezza nel corso delle operazioni di “anti-terrorismo” nel nord del paese.

La transizione “democratica” tra Goodluck Jonathan e Muhammadu Buhari si inserisce soprattutto nel quadro delle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati europei per assicurarsi una presenza permanente in Africa occidentale. Qui come in Medio Oriente, il pretesto dell’interventismo occidentale è rappresentanto dalla necessità della lotta al terrorismo islamista, nel caso della Nigeria incarnato appunto in Boko Haram.

L’importanza della Nigeria per gli USA è dettata poi principalmente dalle ingenti risorse petrolifere di cui dispone e che sono in larga misura sfruttate da compagnie occidentali. Inevitabilmente, l’offensiva di Washington in Africa è legata anche al tentativo di contrastare l’influenza della Cina nel continente, cresciuta a livelli esponenziali nell’ultimo decennio.

Anche la Nigeria di Jonathan ha infatti stabilito solidi legami economici con Pechino nel recente passato. Nel luglio del 2013, ad esempio, una visita del presidente in Cina aveva portato alla firma di accordi per prestiti da oltre un miliardo di dollari destinati alla realizzazione di varie infrastrutture.

Compagnie cinesi sono peraltro già ampiamente presenti in Nigeria e operano anche nel settore petrolifero, mentre la solidità dei rapporti bilaterali era stata ribadita lo scorso mese di maggio con la visita nella capitale, Abuja, del premier cinese, Li Keqiang.

La sconfitta patita da Jonathan alle urne è però dovuta anche e soprattutto all’aggravamento durante la sua amministrazione delle piaghe che affliggono la Nigeria. Oltre alle attività di Boko Haram, gli elettori nigeriani avevano in mente i numerosi casi di corruzione registrati negli ultimi tempi e, ancor più, le esplosive e crescenti disuguaglianze sociali.

Scalpore aveva fatto qualche mese fa il licenziamento del governatore della Banca Centrale dopo che aveva denunciato al Senato nigeriano la sottrazione al Tesoro di fondi per svariati miliardi di dollari provenienti dalle attività petrolifere.

Sempre in questo settore, il governo viene inoltre costantemente accusato di coltivare rapporti clientelistici con intermediari che realizzano profitti enormi sulle vendite di greggio. Simili pratiche hanno contribuito alla formazione di una ristretta cerchia di super-ricchi e a fare della Nigeria uno dei paesi più iniqui del continente.

Come ha messo in luce una recente analisi del britannico Guardian, nonostante il recente crollo delle quotazioni del petrolio, l’economia nigeriana nell’ultimo decennio ha fatto segnare tassi di crescita costantemente vicini al 7% annuo. Tuttavia, mentre il numero dei milionari nel paese è cresciuto in sei anni del 44%, salendo a 16 mila, il livello di povertà assoluta è passato dal 55% nel 2004 al 61% nel 2014.

Al di là del relativamente pacifico passaggio di consegne celebrato dalla stampa internazionale, dunque, la nuova leadership politica non avrà nulla da offrire per alleviare la miseria totale in cui versa la maggior parte dei nigeriani. Il processo “democratico” a cui si è assisito nei giorni scorsi non è infatti che un avvicendamento tra due sezioni della classe dirigente del paese africano, ugualmente ostili alle masse impoverite della popolazione e legate invece, per le proprie fortune, al capitale internazionale.

di Mario Lombardo

La quasi completa immunità legale di cui godono i militari americani durante le loro “missioni” all’estero è ampiamente risaputa e confermata da numerosi casi di crimini impuniti nel corso degli anni. Uno di questi ha a che fare con la Colombia, dove un recente rapporto stilato da una speciale commissione d’indagine ha documentato raccapriccianti episodi di violenza nel paese latino-americano ai danni di decine di ragazzine per mano di soldati e “contractor” provenienti dagli Stati Uniti.

L’indagine di 800 pagine è il frutto del lavoro della commissione sul Conflitto Armato e le sue Vittime in Colombia, composta da rappresentanti dei guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e del governo di Bogotà nel quadro dei negoziati di pace in corso a L’Avana per mettere fine a decenni di guerra civile. Il rapporto in questione dovrebbe documentare le cause, le responsabilità e gli effetti di un conflitto che ha coinvolto più di sette milioni di persone tra morti, feriti, vittime di abusi e costretti a fuggire dalle proprie abitazioni.

Il ruolo giocato dalle forze armate americane in questa tragedia è la conseguenza dell’intervento diretto di Washington nell’ambito del cosiddetto Plan Colombia, in base al quale gli USA hanno garantito svariati miliardi di dollari a Bogotà, in larga misura sotto forma di aiuti militari, ufficialmente per combattere il narco-traffico e i gruppi armati ribelli di “estrema sinistra”.

La presenza dei militari USA in Colombia, comunque, non è solo un problema per la sovranità nazionale del paese e la stabilità della regione ma, come evidenzia il rapporto, rappresenta una minaccia costante anche per chi, come alcune ragazze colombiane, è vittima dell’aggressività dei militari statunitensi e delle norme che gli assicurano impunità totale.

Proprio quest’ultimo aspetto è stato affrontato dal docente di storia presso l’Università di Pedagogia di Bogotà, Renan Vega. In una delle sezioni più raccapriccianti del rapporto, autore ha citato i casi di almeno 54 minori vittime di violenza sessuale tra il 2003 e il 2007 ad opera di militari americani o mercenari al servizio degli Stati Uniti.

In particolare, 53 stupri sarebbero avvenuti nella città di Melgar, situata a un centinaio di chilometri a sud-ovest della capitale e dove si trova un’importante base dell’aeronautica militare frequentata da “consiglieri” americani. Qui, i responsabili delle violenze avrebbero anche girato filmati degli stupri per poi venderli come video pornografici.

Le vittime e i loro famigliari sono stati in molti casi anche minacciati di morte, trovandosi costretti a trasferirsi in altre località. I militari e i “contractor” USA responsabili non sono mai stati nemmeno sottoposti a indagini, in virtù dell’accordo bilaterale per l’immunità siglato da Washington con il governo colombiano.

Accordi di questo genere gli Stati Uniti li hanno sottoscritti o, meglio, imposti a più di cento governi nel mondo e prevedono appunto l’immunità dalle leggi locali per i militari e i “contractor” che commettono crimini in paesi sotto occupazione o dove svolgono compiti di supporto alle forze armate indigene, come in Colombia.

Washington richiede anche l’impegno a non inviare propri connazionali al Tribunale Penale Internazionale, mentre coloro che si macchiano di crimini vengono rapidamente rimpatriati e possono essere formalmente incriminati solo dalla giustizia americana, cosa che non accade praticamente mai.

Il rapporto colombiano descrive nel dettaglio la vicenda di una ragazzina di appena 12 anni che nel 2007 era stata drogata, rapita e ripetutamente violentata da un sergente dell’esercito americano e da un “contractor” a Melgar. La vittima era stata avvicinata in un ristorante della città e in seguito portata in una caserma della base di Tolemaida, per essere infine abbandonata in un parco pubblico la mattina seguente.

La madre della giovane era riuscita a individuare i due responsabili - Michael Coen e Cesar Ruiz - i quali avevano però irriso e aggredito verbalmente la donna, dicendole chiaramente che entrambi godevano dell’immunità dalla legge colombiana.

La ricerca di giustizia della donna, prima presso il comando dell’aeronautica colombiana e poi attraverso il sistema legale del suo paese, non aveva dato alcun risultato. Anzi, madre e figlia sarebbero state vittime di minacce da parte di membri delle forze di sicurezza colombiane, così da essere costrette a trasferirsi di città in città.

Il sergente Coen è alla fine tornato negli Stati Uniti, mentre Ruiz è rimasto in Colombia. Nessuno dei due è stato incriminato, né in Colombia né negli Stati Uniti, nonostante nel 2009 il Miami Herald avesse riportato la vicenda sostenendo che il governo USA stava valutando la possibilità di riaprire il caso.

I casi documentati dalla commissione colombiana non esauriscono comunque i crimini commessi o di cui sono complici i militari americani in Colombia, nemmeno per quanto riguarda i soli casi di violenza sessuale su minori.

Secondo il sito web colombiano di informazione El Turbion, ad esempio, nel solo 2006 sarebbero stati denunciati 23 casi simili e altri 14 l’anno successivo. Considerando però l’impunità garantita agli americani e le ritorsioni minacciate o messe in atto nei confronti delle vittime e dei loro famigliari, è praticamente certo che gli episodi non denunciati siano ancora più numerosi.

La notizia degli stupri commessi dai soldati americani ha trovato ampia eco sulla stampa colombiana ma non è stata praticamente menzionata da quella USA. Una ricerca sul web ha restituito una manciata di articoli apparsi su testate alternative ma, a parte il britannico Daily Mail, letteralmente nessuno su quelle “mainstream”.

L’auto-censura praticata dalla liberissima stampa americana, inclusi giornali “progressisti” come il New York Times e il Washington Post o network come la CNN, è altamente significativa, tanto più che il rapporto è stato redatto non dal Venezuela, l’Ecuador o la Bolivia, bensì con il beneplacito del governo colombiano, probabilmente il più vicino a Washington in America Latina.

D’altra parte, con gli Stati Uniti impegnati in una nuovissima guerra illegale di aggressione in Yemen a sostegno di paesi non esattamente modelli di democrazia, come le monarchie assolute del Golfo Persico, far conoscere agli americani le violenze commesse dai propri militari contro decine di minorenni in un paese amico avrebbe potuto provocare qualche imbarazzo all’amministrazione Obama e ai suoi organi di propaganda.

di Michele Paris

La crisi in cui si dibatte da tempo lo Yemen è sfociata ufficialmente in un nuovo conflitto regionale in Medio Oriente nella mattinata di giovedì in seguito ai bombardamenti aerei condotti dall’Arabia Saudita e dalle altre monarchie assolute del Golfo Persico nel più povero dei paesi arabi. L’obiettivo della “coalizione”, messa assieme dai sauditi e appoggiata dagli USA, sono i “ribelli” sciiti Houthi che dallo scorso autunno hanno progressivamente preso il controllo delle istituzioni dello stato yemenita, estromettendo dal potere il burattino di Washington e Riyadh, ovvero il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi.

La portata dell’impegno militare in Yemen è stata descritta dal network saudita Al Arabiya. La campagna di Riyadh conta su 100 velivoli da guerra, ben 150 mila soldati e altre unità navali. Le incursioni nelle prime ore di giovedì avrebbero già fatto alcune vittime tra i leader Houthi. Lo Yemen, intanto, ha chiuso i principali aeroporti sul proprio territorio e lo spazio aereo del paese è sotto il completo controllo saudita.

Della “coalizione” fanno parte i paesi dell’ultra-reazionario Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) - tranne l’Oman - cioè Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar, più l’Egitto, la Giordania, il Marocco, il Pakistan e il Sudan. Alcuni di questi ultimi paesi avrebbero già manifestato la disponibilità a inviare truppe di terra in Yemen.

Poco dopo l’annuncio dell’avvio delle manovre belliche da parte dell’ambasciatore saudita a Washington, Adel al-Jubeir, l’amministrazione Obama ha comunicato il proprio sostegno all’alleato saudita, con la portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Bernadette Meehan, che ha confermato come il presidente abbia “autorizzato il supporto logistico e d’intelligence alle operazioni militari” dirette dal GCC.

L’aggressione dello Yemen dovebbe essere il tentativo di fermare l’avanzata degli Houthi, ritenuti una forza al servizio degli obiettivi strategici dell’Iran. La giustificazione formale dell’attacco sarebbe la richiesta presentata qualche giorno fa dal presidente yemenita Hadi alle Nazioni Unite per intervenire a favore della “legittima autorità” del suo paese e respingere la minaccia degli Houthi, minacciosamente vicini alla città di Aden, sulla costa meridionale. Qui, lo stesso presidente, costretto ad annunciare le dimissioni nel mese di gennaio, si era rifugiato dopo la fuga dalla capitale, Sanaa, dove era tenuto in stato di semi-prigionia dagli Houthi.

L’ennesima guerra esplosa in Medio Oriente rappresenta in primo luogo una nuova débacle per gli Stati Uniti e la loro sconsiderata strategia per il dominio del mondo arabo sotto forma di “guerra al terrore”. La disintegrazione della società di questo paese della penisola arabica appare tanto più eclatante alla luce del fatto che, solo pochi mesi fa, il presidente Obama aveva celebrato pubblicamente la validità del modello yemenita nell’esecuzione della strategia anti-terroristica americana.

Nelle ultime settimane si è assistito piuttosto all’avanzata di una marea che ha travolto il regime del presidente Hadi e, con esso, i piani degli USA per lo Yemen. La stessa presenza della rappresentanza diplomatica americana, delle forze speciali e della CIA in questo paese è stata spazzata via con una serie di umilianti ordini di ritiro, culminati con la recente conquista da parte degli Houthi della base di Al Anad, quartier generale delle missioni di morte con i droni condotte dagli Stati Uniti ufficialmente contro i membri di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Proprio l’intervento americano in Yemen ha causato l’aggravamento delle tensioni settarie e il risentimento di ampie fasce della popolazione nei confronti di un regime percepito correttamente al servizio dell’imperialismo a stelle e strisce. Secondo varie fonti, i droni americani avrebbero fatto più di mille vittime in Yemen, tra cui un numero imprecisato di civili innocenti.

La guerra appena iniziata rischia così di infiammare ancor più il Medio Oriente, in considerazione soprattutto della possibile reazione dell’Iran. Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica ha condannato giovedì l’iniziativa saudita, con la portavoce Marziyeh Afkham che ha ricordato la necessità di implementare gli accordi mediati dalle Nazioni Unite per giungere a una risoluzione pacifica del conflitto interno allo Yemen.

I negoziati tra le parti in lotta erano di fatto saltati nel mese di gennaio, a detta degli Houthi a causa della mancata accettazione da parte del governo dei termini concordati per attuare un piano di integrazione nelle istituzioni dei leader del movimento che rappresenta le tribù sciite del nord dello Yemen dopo decenni di repressione e marginalizzazione.

Riguardo all’Iran, è significativo e con ogni probabilità tutt’altro che casuale che l’operazione militare saudita prenda le mosse a pochissimi giorni dall’ultima data utile per il raggiungimento di un accordo internazionale preliminare sul nucleare di Teheran. Riyadh, assieme a Israele e alle altre monarchie medievali del Golfo Persico, si oppone fermamente alla risoluzione della crisi sul nucleare iraniano, temendo che una certa rappacificazione tra Teheran e Washington possa consentire alla Repubblica Islamica - vale a dire il proprio rivale storico - di giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente, riducendo l’influenza saudita.

Trascinando l’Iran in una guerra aperta nello Yemen, secondo la propaganda ufficiale in appoggio a una milizia sciita “ribelle” che intende rovesciare un governo e un presidente legittimi, l’Arabia Saudita spera di assestare un colpo mortale alle trattative in atto sul nucleare e di mantenere Teheran nello stato di isolamento in cui si è trovato in questi anni.

Proprio la vicinanza di un accordo con le potenze internazionali per risolvere l’annosa questione del proprio programma nucleare, però, dovrebbe convincere l’Iran a mantenere un atteggiamento prudente sullo Yemen, per lo meno nel breve periodo, nonostante il relativo appoggio garantito finora agli Houthi.

Le potenzialità esplosive del nuovo conflitto rischiano però seriamente di allargare il fronte delle ostilità, tanto più in presenza di altri gravissimi scenari di crisi in Medio Oriente. Gli stessi militanti Houthi hanno già fatto sapere di avere radunato i propri uomini nel governatorato di Saada, lungo il confine con l’Arabia Saudita, e di avere intenzione di valutare una “risposta adeguata” all’aggressione dei paesi del Golfo.

Un membro del politburo della milizia sciita, denominata ufficialmente “Ansarullah”, ha definito l’attacco saudita come una “dichiarazione di guerra contro il popolo yemenita”. Secondo quanto riportato dai media, i primi bombardamenti avrebbero già fatto una ventina di morti e decine di feriti.

Nella crisi dello Yemen è impossibile non rilevare infine alcune contraddizioni e intrecci apparentemente anomali che caratterizzano la “guerra al terrore” e le manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Ad esempio, l’ascesa degli Houthi sarebbe stata favorita da fazioni nelle forze armate yemenite che continuano a fare riferimento all’ex presidente Saleh, per decenni fedele alleato di USA e Arabia Saudita. Saleh era stato deposto nel 2012 in seguito a un piano mediato da Riyadh per mettere fine ai disordini provocati dalla “Primavera Araba” che minacciavano la totale destabilizzazione dello Yemen.

Saleh era stato costretto a farsi da parte per lasciare spazio al suo vice - l’attuale presidente Hadi - in seguito a un’elezione-farsa nella quale quest’ultimo appariva come l’unico candidato. Avendo mantenuto una certa influenza nel paese pur essendo in esilio in Etiopia, Saleh ha fin dall’inizio manovrato contro il nuovo regime, finendo per appoggiare la campagna degli Houthi.

Singolarmente, Stati Uniti e Arabia Saudita continuano inoltre a indicare come obiettivo del proprio intervento in Yemen, oltre e ancor più degli Houthi, la presenza di al-Qaeda.

Tuttavia, com’è accaduto in Siria con la campagna anti-Assad, anche nella penisola arabica a essere combattuti sono ora coloro che conducono la battaglia più intensa ed efficace contro il fondamentalismo sunnita. Violenti scontri armati tra Houthi e al-Qaeda, infatti, sono stati frequentemente registrati negli ultimi mesi in Yemen.

A determinare il nuovo intervento militare unilaterale sul territorio di un paese sovrano da parte degli USA o dei loro alleati è in sostanza la prospettiva di uno Yemen nel caos totale o, ancora peggio, sotto l’influenza iraniana attraverso il predominio di una formazione settaria (sciita) come gli Houthi.

A fronte della povertà estrema della propria popolazione e della devastazione sociale che lo caratterizza, questo paese rappresenta uno snodo strategico fondamentale per le potenze regionali e non solo. Lo Yemen, oltre a condividere una lunghissima linea di confine con l’Arabia Saudita, a sua volta costretta a fare i conti con un’irrequieta minoranza sciita nel proprio territorio, si affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden e, quindi, l’Oceano Indiano, da dove transitano importanti rotte commerciali che consentono il trasporto del petrolio nordafricano e dell’export europeo e americano verso i paesi del continente asiatico.

di Mario Lombardo

Un’accesissima disputa tra due dei più potenti oligarchi che controllano l’economia e la politica in Ucraina è sfociata mercoledì nel clamoroso licenziamento del governatore della regione sud-orientale di Dnipropetrovsk, Ihor Kolomoyskyi, da parte del presidente, Petro Poroshenko. I due oligarchi in questione sono ovviamente gli stessi Kolomoyskyi e Poroshenko, il cui scontro è causato da questioni politiche ed economiche, con possibili gravi ripercussioni sul regime golpista di Kiev già in profonda crisi.

Al centro del confronto tra i due imprenditori e politici ci sarebbe il controllo di un paio di compagnie semi-pubbliche del settore energetico, sulle quali Kolomoyskyi da tempo esercita la propria influenza attraverso la scelta del management, nonostante possegga quote minoritarie.

Nell’edificio di Kiev che ospita il quartier generale di una delle due compagnie - Ukrnafta -domenica scorsa hanno fatto irruzione uomini armati in tenuta militare, appartenenti probabilmente alle milizie di volontari finanziate da Kolomoyskyi che appoggiano le forze del regime nella repressione dei filo-russi nell’est del paese.

Lo stesso governatore di Dnipropetrovsk è stato avvistato nella sede di Ukrnafta a tarda ora e, come hanno spiegato i media locali e internazionali, il blitz sarebbe avvenuto in risposta alla decisione presa dal presidente Poroshenko di sostituire il numero uno della compagnia petrolifera e del gas naturale.

Il tentativo messo in atto da Kolomoyskyi per mantenere il controllo su Ukrnafta è stato subito sventato dalle autorità di Kiev. Il ministro dell’Interno, Arsen Avakov, lunedì ha rivolto al gruppo armato un ultimatum di 24 ore per restituire il controllo della compagnia al governo, mentre Poroshenko ha ordinato l’arresto degli uomini considerati al servizio dell’oligarca rivale. Il presidente ucraino, infine, nella notte tra martedì e mercoledì ha rimosso Kolomoyskyi dal proprio incarico di governatore, apparentemente dopo un incontro con quest’ultimo a Kiev.

Kolomoyskyi era considerato fino a poco tempo fa un fedelissimo di Poroshenko, dal quale era stato scelto per guidare la principale regione industriale dell’Ucraina. Dnipropetrovsk confina a est con l’autoproclamata repubblica autonoma filo-russa di Donetsk e, nel pieno del conflitto tra i “ribelli” e le forze di Kiev, il presidente aveva offerto la posizione di governatore della regione a un importante oligarca in cambio di un contributo militare sotto forma di finanziamento a milizie private per evitare il contagio della rivolta.

L’offensiva di Poroshenko contro Kolomoyskyi, come ha scritto martedì il Moscow Times, sarebbe volta a contrastare gli sforzi dell’ormai ex governatore per “allargare la propria influenza a livello nazionale” e far sentire la propria voce sulle questioni relative alla politica estera e alla difesa dell’Ucraina.

Al posto di Kolomoyskyi è stato così installato temporaneamente un uomo molto vicino a Poroshenko, il governatore della regione confinante di Zaporizhia, Valentyn Reznichenko, già a capo di un’agenzia governativa che si occupa di frequenze radiofoniche e legato per motivi d’affari al capo di gabinetto del presidente.

La rottura con Kolomoyskyi potrebbe avere ripercussioni negative per il regime di Kiev, soprattutto a causa del possibile venir meno dell’appoggio delle milizie controllate dall’oligarca licenziato. Il New York Times ha ad esempio riportato la notizia che dalle strade della città di Odessa, nel sud-est dell’Ucraina, sono sparite le milizie private che avevano contribuito al “mantenimento dell’ordine”. Il governatore di Odessa, Ihor Palytsia, sarebbe un alleato di Kolomoyskyi ed è stato un dirigente della compagnia Ukrnafta.

Proprio attorno all’eccessivo peso delle milizie armate si erano scontrati nei giorni scorsi Poroshenko e Kolomoyskyi. Lunedì, il presidente aveva pubblicato sul proprio sito web una dichiarazione nella quale esponeva la necessità di “integrare verticalmente” nell’esercito regolare i gruppi paramilitari, mentre in un precedente incontro con i giornalisti Kolomoyskyi aveva sostenuto che, con un suo ordine, duemila uomini armati avrebbero potuto arrivare a Kiev nel giro di poche ore.

Sempre Poroshenko aveva inoltre tenuto un discorso di fronte ai vertici militari, promettendo che ai governatori delle regioni ucraine non sarebbe stato permesso di continuare a disporre di proprie milizie private.

Il confronto tra i due oligarchi ha approfondito divisioni già evidenti da tempo nel parlamento di Kiev (Verkhovna Rada) e nello stesso partito del presidente. Il capo del Servizio di Sicurezza ucraino, Valentyn Nalivaichenko, lunedì ha accusato i deputati alleati di Kolomoyskyi e i membri della sua amministrazione a Dnipropetrovsk di proteggere gang criminali responsabili di rapimenti, omicidi e contrabbando.

Parallelamente, almeno cinque deputati fedeli a Kolomoyskyi hanno annunciato di volere abbandonare il partito di Poroshenko. Uno di essi, secondo il sito web d’informazione Vesti.ua, in una conferenza stampa avrebbe addirittura definito il presidente come un “assassino di civili nella regione di Donetsk”.

L’atteggiamento da tenere nei confronti delle regioni filo-russe è stato un altro fronte della battaglia tra Poroshenko e Kolomoyskyi. Alcune dichiarazioni relativamente concilianti di quest’ultimo avevano in particolare suscitato apprensione a Kiev, dove prevale decisamente la volontà di mantenere l’impegno militare contro le forze “ribelli”.

In un’intervista rilasciata alla rete televisiva di sua proprietà 1+1, Kolomoyskyi aveva definito le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk come “un fatto ormai compiuto”, invitando perciò il governo ad aprire negoziati con i loro leader.

L’agenzia di stampa ufficiale russa Itar-Tass ha inoltre citato le dichiarazioni del vice-governatore di Dnipropetrovsk, Gennady Korban, secondo il quale le autorità di Kiev avrebbero nascosto il vero numero di vittime patito dalle forze armate ucraine nel corso delle operazioni nel sud-est del paese contro i separatisti.

Un’analisi della stessa Itar-Tass ha anche cercato di far luce sui legami inestricabili tra le questioni economiche e politiche che alimentano lo scontro tra i due oligarchi ucraini e la crescente instabilità del regime filo-occidentale.

Un’analista dell’Istituto russo per i Problemi della Globalizzazione ha ad esempio sostenuto che “Kolomoyskyi ha messo le mani non solo sulla principale compagnia petrolifera e di gas naturale del paese, ma anche sulla più importante rete di oleodotti e gasdotti”, così che i suoi interessi in questo genere di business risultano “inseparabili dalla politica”.

Per questa ragione, “la questione del potere è in cima alla lista delle priorità” di Kolomoyskyi, il quale “può permettersi letteralmente di comprare la maggioranza del parlamento” e ciò, di conseguenza, “potrebbe portare al rovesciamento di Poroshenko”, magari “con l’aiuto di massicce manifestazioni di protesta”.

Il pericolo rappresentato da Kolomoyskyi per la sua influenza in un settore strategico come quello energetico e la disponibilità di un vero e proprio esercito personale privato hanno spinto dunque Poroshenko ad agire per annientare la minaccia, rivelando però nel contempo il grado di esposizione dell’Ucraina al volere di una manciata di oligarchi arricchitisi grazie al saccheggio di beni e risorse dello stato.

Per la maggior parte degli osservatori, Kolomoyskyi potrebbe alla fine desistere dai suoi obiettivi, almeno per il momento, soprattutto perché il presidente ucraino continua a godere del pieno sostegno dei padroni americani, ufficializzato nei giorni scorsi in seguito a un incontro tra lo stesso ex governatore e l’ambasciatore USA a Kiev, Geoffrey Pyatt.

di Michele Paris

Il più recente capitolo dello scontro in atto tra l’amministrazione Obama e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha proposto questa settimana la pubblicazione negli Stati Uniti della notizia che il governo di Tel Aviv avrebbe spiato i negoziatori americani impegnati da mesi nelle trattive per giungere a un accordo sul programma nucleare dell’Iran.

A riportare la notizia è stata un’esclusiva del Wall Street Journal, il quale ha aggiunto che l’intelligence israeliana sarebbe anche entrata in possesso di informazioni relative ai negoziati attraverso “briefing americani confidenziali, informatori e contatti diplomatici in Europa”.

Se l’attività di spionaggio di Israele ai danni dell’alleato americano non è di per sé un evento nuovo né particolarmente clamoroso, a irritare la Casa Bianca è stato piuttosto l’uso che Netanyahu ha fatto delle informazioni raccolte sui colloqui attorno al nucleare iraniano.

Come per il discorso ai primi di marzo al Congresso di Washington, il premier israeliano ha tenuto in quest’ultima occasione un atteggiamento decisamente inconsueto e offensivo nei confronti del principale alleato del suo paese. Netanyahu ha cioè condiviso con i membri del Congresso degli Stati Uniti i dettagli dell’accordo in fase di discussione, così da convincerli a opporre la maggiore resistenza possibile a un’eventuale intesa con Teheran o, quanto meno, a fare pressioni sull’amministrazione Obama per ottenere umilianti concessioni dalla Repubblica Islamica.

Un anonimo esponente del governo USA ha riassunto il comportamento di Israele in una dichiarazione al Journal, affermando che Tel Aviv ha in sostanza “rubato segreti americani per usarli con i membri del Congresso e mettere a repentaglio la diplomazia” USA.

Secondo il quotidiano di Rupert Murdoch, la Casa Bianca sarebbe venuta a conoscenza delle operazioni israeliane clandestine grazie proprio all’intercettazione di comunicazioni tra membri del governo di Tel Aviv che contenevano particolari riservati relativi ai negoziati sul nucleare.

La smentita ufficiale del governo Netanyahu, come spesso accade con le attività clandestine di Israele, è probabilmente la migliore conferma della notizia diffusa dal Journal. L’intelligence israeliana sostiene in ogni caso di avere ottenuto le informazioni in questione da altre fonti, ad esempio attraverso intercettazioni dei nengoziatori iraniani e da consultazioni con paesi più disponibili degli Stati Uniti, come la Francia.

Al di là di questo aspetto, però, il dato più significativo è che l’amministrazione Obama ha dato il proprio assenso a imbeccare un giornale importante come il Wall Street Journal - non esattamente tra i sostenitori del presidente democratico - innescando una prevedibile nuova polemica nei confronti di Israele.

La rivelazione racconta di un Netanyahu e dell’ambasciatore israeliano a Washington, l’ex consulente di vari politici repubblicani negli USA, Ron Dermer, preoccupati dalla segretezza con cui l’amministrazione Obama aveva intrapreso colloqui preliminari diretti con rappresentanti della Repubblica Islamica per gettare le fondamenta di successivi negoziati internazionali.

Lo stesso Dermer avrebbe perciò avviato una campagna di “lobbying” a Washington, esponendo le ragioni del suo governo a deputati e senatori repubblicani ma, soprattutto, a quelli democratici. Gli israeliani avevano a disposizione materiale riservato proveniente direttamente dagli incontri tra i P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) e i delegati iraniani, grazie al quale hanno sostenuto la tesi che l’accordo in discussione avrebbe consentito a Teheran di liberarsi dalle sanzioni e procedere agevolmente verso la costruzione di ordigni nucleari.

In particolare, secondo la Casa Bianca, Israele avrebbe rivelato informazioni che gli USA intendevano mantenere segrete relativamente al numero e al genere di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio che l’Iran avrebbe facoltà di continuare a operare in base a un eventuale accordo.

Gli sforzi israeliani avrebbero però ottenuto l’effetto contrario, per lo meno riguardo ai membri democratici del Congresso, molti dei quali hanno immediatamente percepito la grave violazione dei protocolli diplomatici e il tentativo di scavalcare il presidente.

Su una possibile intesa tra l’Iran e i P5+1 continua comunque a pesare la minaccia del Congresso, dove la maggioranza repubblicana e parte dei democratici potrebbero approvare un provvedimento che consegni allo stesso organo legislativo americano il potere di ratificare o respingere l’accordo in discussione in Svizzera.

A giudicare da alcuni commenti rilasciati questa settimana da membri del governo di Tel Aviv, sembra prevalere però una certa rassegnazione per un accordo a portata di mano, nonostante gli ostacoli ancora da superare. Ciononostante, lunedì il ministro dell’intelligence israeliano, Yuval Steinitz, ha incontrato a Parigi esponenti del governo francese e martedì di quello britannico, ufficialmente per chiedere a interlocutori più disponibili rispetto all’amministrazione Obama l’imposizione di condizioni più rigorose all’Iran.

Oltre alla questione del nucleare di Teheran, l’altro fronte sul quale si sta consumando lo scontro tra Obama e Netanyahu è quello della Palestina, soprattutto dopo le dichiarazioni pre-elettorali del premier israeliano.

Quest’ultimo, nel tentativo di mobilitare l’elettorato di destra a favore del suo partito, poco prima del voto del 17 marzo era giunto a fare marcia indietro sulla soluzione dei “due stati” per risolvere la questione palestinese, mostrandosi risolutamente contrario. Subito dopo il successo conquistato alle urne, Netanyahu era tornato sui propri passi, dichiarandosi nuovamente a favore dei “due stati”.

La presa di posizione del premier ha però lasciato il segno a Washington. Domenica, in un’intervista rilasciata all’Huffington Post, Obama è stato protagonista di una mini-lezione sulla necessità della creazione di uno stato palestinese. Il giorno successivo, poi, il capo di gabinetto del presidente, Denis McDonough, parlando di fronte alla lobby israeliana di tendenze “liberal”, J Street, ha avuto parole ancora più pesanti per Netanyahu.

McDonough ha affermato infatti che “Israele non può mantenere indefinitamente il controllo militare su un altro popolo” e che l’occupazione della Cisgiordania “deve avere fine”. Il braccio destro di Obama ha inoltre ribadito quanto già lasciato intendere nei giorni scorsi da altri esponenti americani, cioè che la marcia indietro di Netanyahu sulla soluzione dei “due stati” non può cancellare le sue dichiarazioni precedenti.

Gli Stati Uniti, addirittura, minacciano di rivedere il proprio sostegno incondizionato tradizionalmente garantito a Israele, giungendo anche a considerare un possibile appoggio al tentativo di riconoscimento unilaterale di uno stato da parte delle autorità palestinesi, ad esempio in sede ONU.

Lo scontro in atto tra l’amministrazione Obama e il governo Netanyahu ha raggiunto dunque livelli inediti. I tentativi di sabotare i negoziati con l’Iran sono dettati dalla necessità da parte israeliana di rimettere indietro le lancette dell’orologio della diplomazia in Medio Oriente.

Attraverso le accuse - del tutto infondate - di essere sulla strada del nucleare militare, Israele cerca di mantenere l’isolamento diplomatico ed economico dell’Iran, se non di provocare una guerra per il cambio di regime a Teheran, in modo da conservare la propria superiorità miltare in Medio Oriente.

In questo frangente storico, gli obiettivi israeliani si scontrano però con quelli di Washington, dove l’amministrazione Obama sta perseguendo un accomodamento con l’Iran, sia pure non a livello paritario, nella speranza, quanto meno, di neutralizzare la minaccia alle proprie ambizioni egemoniche rappresentata da questo paese in uno scenario internazionale caratterizzato dalle rivalità crescenti con potenze di ben altro calibro (Russia e Cina).

A tale questione si intreccia infine quella palestinese, con la durissima reazione della Casa Bianca alla sostanziale liquidazione da parte di Netanyahu del “processo di pace” e della soluzione dei “due stati”.

L’atteggiamento di Washington non è motivato da scrupoli per la sorte e le legittime aspirazioni del popolo palestinese, bensì dal fatto che Netanyahu, per ragioni fondamentalmente elettorali, abbia in fin dei conti manifestato il vero punto di vista del suo governo, esponendo il cosiddetto “processo di pace” mediato dagli Stati Uniti per quello che è realmente, cioè poco più di una farsa.

Sull’impegno per un futuro stato palestinese, Washington ha costruito la propria credibilità in Medio Oriente, assicurandosi, tra l’altro, l’alleanza dei paesi arabi nella promozione dei propri interessi strategici e la garanzia della “sicurezza” di Israele.

Nel momento in cui, come ha fatto Netanyahu, viene invece rivelata pubblicamente la debolezza delle fondamenta di questo edificio, ovvero l’inutilità di un “processo di pace” che non ha migliorato di una virgola la condizione dei palestinesi, Washington perde un’arma fondamentale per preservare il proprio status nella regione.

Da qui, assieme alla questione iraniana, sembrano quindi derivare le prospettive divergenti degli Stati Uniti e di Israele, dando vita a conflitti dalla gravità raramente registrata nella storia delle relazioni tra i due paesi alleati.


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