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di Fabrizio Casari
Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.
Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.
Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.
I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.
Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d'intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.
Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale e delle multinazionali estrattive statunitensi che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.
In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che - come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.
E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.
La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.
E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.
Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.
Parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.
Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.
Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.
D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.
Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.
Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.
La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.
Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.
E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.
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di Emy Muzzi
LONDRA. Al di là della sostanziale carenza strutturale di idee dei tre big della politica britannica, la discriminante immediatamente percepibile a livello internazionale tra le linee e programmi dei tre leader è il ‘Brexit’. La crasi dal suono ostile tra Britain ed exit coniata dai media per titolare le tetre notizie sul possibile referendum anti UE apre da qualche settimana le pagine politiche della stampa anglofona.
Il premier Cameron, in mancanza di un programma forte, punta sul Brexit ed ulteriori tagli al welfare per spingere la campagna elettorale fino a maggio 2015; Clegg, leader Lib Dem, un partito schiacciato tra Cons e Labour con scarse probabilità di sopravvivenza, si dichiara, al contrario, europeista; mentre Ed Miliband tiene il Brexit di riserva, in caso di ulteriore devoluzione dei poteri da Londra a Bruxelles (ovvero come risorsa dell’ultima ora in caso di necessaria alleanza politica del dopo elezioni).
Che il vincitore, chiunque esso sia, prevarrà con uno scarso margine di voti sono gli esperti della London School of Economics a dirlo. Dati alla mano i professori Patrick Dunleavy, a capo del dipartimento di Scienze Politiche, e Tony Travers responsabile del Dipartimento Politiche governative, hanno chiamato a raccolta la stampa estera per una full immersion negli ultimi, tristissimi, dati; il risultato del sondaggio sul tasso di soddisfazione rispetto ai tre leader ha il segno meno per tutti: rispetto al 2010 Cameron è a -15%, Miliband -29% e Clegg in caduta libera al -45%. Per la cronaca nella classifica dei leader deludenti il capo del partito nazionalista-xenofobo Nigel Farage è a -5%. Gli ultimi dati sulle intenzioni di voto aggiornati al 6 ottobre dall’agenzia You Gov: Conservatori 32%, Labour 34%, Lib Dems 8% e UKIP 15%.
L’andamento generale della politica britannica è claudicante: gli esperti parlano di un altro parlamento zoppo, ovvero nessuno raggiungerà la maggioranza assoluta. Pertanto si profila la strategia delle alleanze: who with whom? Non si sa. Il partito dell’alleanza per eccellenza è il Liberal Democratico guidato da Clegg. Dal palco del congresso di partito tenutosi a Glasgow, il vicepremier cerca di acchiappare voti a destra e a sinistra cavalcando l’onda scozzese anti-Westminster post referendum secessionista e poi attacca il governo: “Il cancelliere Osborne fa pagare ai più poveri la riduzione del debito pubblico”, ha detto in un’intervista con l’icona della BBC Andrew Marr, parlando come se i Lib Dem non facessero più parte della coalizione di governo.
Che bella la politica; è la dimensione umana in cui tutto è possibile al di là del tempo, dello spazio, della coerenza e della decenza: il vice premier attacca il ‘suo’ governo di coalizione e dalla Scozia spaccata in due dal referendum scismatico lancia l’allarme: “Il Brexit sarebbe un suicidio”; un monito che colloca Clegg più a sinistra di Ed Miliband.
Ed the Red, del resto, non ha alcun appeal sull’elettorato, neanche su quello Labour: in un sondaggio Ipsos Mori dello scorso settembre Miliband emerge che piace solo a tre elettori su dieci, 31%; mentre Nick Clegg ha il 33%, e Cameron il 48%. Il dato è in controtendenza rispetto alle preferenze di partito che danno al Labour party l’assoluta prevalenza con il 50% (Conservatori 42% e Lib Dem 41%).
Sì, è vero che Miliband ha annunciato durante la conferenza di partito a Manchester, più tasse sulla casa ai ricconi ed una politica non compiacente con le banche: ma con quale margine di voti i buoni propositi potranno diventare legge? I professori della London School of Economics spiegano che le previsioni (ed i calcoli) danno scarse possibilità ad una maggioranza assoluta ai Labour, pertanto non si esclude il Lib Lab ma neanche il un Lib Cons ‘bis’.
Finite le tre conferenze annuali di partito, la campagna elettorale ha preso il via. Da qui a maggio 2015 ci sarà tempo per cavalcare qualsiasi onda: dal terrorismo alla sanità pubblica, dall’austerity al Brexit. Lo slogan che Cameron sta vendendo al popolino si riassume nella tetra proporzione GB: Ue = immigrazione, disoccupazione. Un chiaro esempio di come la matematica possa essere un’opinione molto parziale.
La retorica anti Ue sarebbe patetica se non fosse in malafede: il leader dei Tories sa benissimo che un’uscita dall’Unione Europea non aumenterà il tasso di occupazione. Su questo si è pronunciata già la CBI, la confindustria britannica, con dati alla mano mostrando il pieno disaccordo degli industriali rispetto ad un eventuale referendum. In sostanza Cameron, agitando il lanternino del Brexit nel 2017, cerca di accaparrarsi i voti delle grass roots e dei cittadini britannici che dopo l’aumento vertiginoso del costo delle università e il taglio dei cosiddetti ‘student loans’ (prestiti per lo studio), sono tagliati fuori dal lavoro qualificato.
Questo non solo ha stravolto l’assetto della società inglese, ma ha messo i cittadini britannici in condizioni di non poter competere sul mercato del lavoro con i laureati UE in un contesto internazionale come quello britannico e londinese in particolare. In sostanza prima il governo di Cameron e Clegg ha distrutto le equalities che facevano della società britannica una società giusta a differenza di tutte le altre nel contesto europeo, poi ha dato la colpa ai cittadini immigrati europei in modo da ottenere voti e consenso elettorale.
Meno male che c’è il ministro per l’Europa David Lidington a mettere in chiaro le cose; l’8 ottobre, giorno della pubblicazione del Pacchetto annuale della Commissione Europea sull’allargamento 2014-2015, Lidington commenta “Restiamo forti sostenitori dell’allargamento dell’Unione purché i paesi candidati entrino solo quando abbiano raggiunto le condizioni e gli standard richiesti. Al contempo riconosciamo il fatto che molti in Europa sono preoccupati delle migrazioni su vasta scala seguite all’accesso di nuovi paesi nell’Unione e questo problema deve essere affrontato prima dell’accesso di nuovi membri”.
A questo propostito nessuno, nè qui a Londra, ma neanche a Bruxelles, fa mai riferimento al fatto che nel regno di Sua maestà gli immigrati dai paesi Commonwealth hanno la precedenza su quelli dai paesi Ue in quanto ex colonie dell’Impero per una questione di moralità e correttezza storica.
Nell’ultimo censimento relativo al 2011, l’Office of National Statistics registra in Inghilterra e Galles un’aumento del gruppo dei ‘white other’ (bianchi non britannici) da 1.4m a 1.9m (500mila in più) chiarendo che l’aumento non è soltanto dovuto ai cittadini Ue ma anche a quelli provenienti da Australia e Nuova Zelanda. Meno di 500mila persone quindi che, evidentemente, creano problemi (non si è ancora capito quali).
Ci sono trucchi che solo i politici sanno fare: per riuscire a far percepire meno di 500 mila persone come il problema numero uno un Gran Bretagna ci vuole abilità, esercizio e molta malafede. L’esercizio manipolatorio dura per la precisione dal 2010 A.C. (Anno Cameron) quando è cominciata la campagna ‘Brazist’ anti-europea.
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di Michele Paris
A conferma del carattere fondamentalmente regressivo della “riforma” del sistema sanitario americano voluta dal presidente Obama e approvata a fatica dal Congresso di Washington nel 2010 c’è stata qualche giorno fa la decisione dei vertici del colosso della vendita al dettaglio Walmart di eliminare l’assicurazione sanitaria offerta a una parte dei propri dipendenti a partire dal primo gennaio 2015.
Negli Stati Uniti la maggior parte della popolazione con un lavoro dispone di una qualche copertura sanitaria per sé e i propri familiari grazie al proprio datore di lavoro. Questa realtà sta però rapidamente cambiando dopo l’avvento della legge sul sistema sanitario (Affordable Care Act o ACA) e un numero crescente di lavoratori sta vedendo svanire i benefici che aveva a disposizione grazie al proprio impiego.
Questi ultimi non avranno ora a disposizione come alternativa un piano sanitario pubblico e universale, bensì una soluzione diversa al centro della “riforma” di Obama, cioè la possibilità di scegliere tra un ventaglio di piani offerti da compagnie private - e quasi sempre con serie limitazioni - da acquistare grazie a sussidi del governo federale.
La cessazione dei benefit sanitari da parte delle aziende americane è consentita nel caso in cui i loro dipendenti lavorino meno di 30 ore settimanali. Ciò è quanto accaduto questa settimana nel caso di Walmart, con la multinazionale con sede a Bentonville, nell’Arkansas, che ha appunto annunciato la fine della copertura sanitaria compresa nei contratti di lavoro dei propri dipendenti che lavorano meno di 30 ore la settimana.
Ad essere colpiti dal provvedimento saranno così in 30 mila, circa il 2% della forza lavoro di un’azienda che impiega più di un milione di persone soltanto negli USA. La decisione presa la scorsa settimana non è peraltro la prima in questo ambito, visto che già nel 2011 - un anno dopo l’approvazione di una “riforma” che i suoi vertici avevano fermamente appoggiato - Walmart si era liberata dalle incombenze sanitarie relative ai propri “associati” che lavorano meno di 24 ore settimanali.
Il comunicato ufficiale della compagnia ha fatto riferimento al continuo “aumento dei costi sanitari”, che hanno reso così necessarie “decisioni difficili”. A subire le conseguenze delle “decisioni difficili” saranno però solo i dipendenti meno pagati di Walmart, dal momento che, ad esempio, l’amministratore delegato della società, Douglas McMillon, si è visto riconoscere lo scorso anno un aumento del 168% dei propri compensi, saliti a 25,6 milioni.
Nonostante un certo rallentamento delle vendite, Walmart ha incassato 4 miliardi di utili nel secondo trimestre del 2014, una cifra che stride sia con gli stipendi notoriamente miseri offerti ai propri dipendenti sia con le spese sanitarie crescenti che dovranno affrontare dal prossimo anno i lavoratori part-time per ottenere nuove coperture sanitarie decenti. Secondo i vertici di Walmart, la previsione di spesa complessiva dell’azienda per le polizze sanitarie dei suoi dipendenti nel 2014 è salita a 500 milioni di dollari, contro i 330 milioni stimati solo pochi mesi fa.
Come se non bastasse, anche per i dipendenti full-time che conserveranno la propria polizza sanitaria tramite Walmart si annunciano tempi difficili, visto che la compagnia ha prospettato un aumento del 20% della parte dei premi assicurativi che i lavoratori dovranno pagare di tasca propria.
Infine, questi dipendenti dovranno sostenere anche una quota maggiore di spese sanitarie a proprio carico, in quanto le polizze previste dai loro contratti di lavoro copriranno una percentuale inferiore dei costi totali delle prestazioni.
Walmart non è ovviamente l’unica grande azienda americana ad agire in questo modo. Molte compagnie hanno infatti già approfittato dell’occasione offerta dalla “riforma” di Obama per ridurre i costi tramite la cancellazione delle polizze sanitarie garantite ad una parte dei loro dipendenti. Solo negli ultimi mesi, altri giganti della distribuzione come Target, Home Depot e Trader Joe’s hanno annunciato mosse simili a quella di Walmart, mentre UPS ha eliminato la copertura assicurativa dei coniugi dei loro dipendenti che hanno la possibilità di accedere al mercato privato regolato dal governo federale.
Il risultato di questa evoluzione è che nel 2013 il 62% delle compagnie di distribuzione al dettaglio negli USA non offrivano benefici sanitari ai propri dipendenti part-time, contro il 56% nel 2009. Visti i recenti annunci di aziende come Walmart, questo dato è destinato a crescere sensibilmente nel 2014.
Come già anticipato, le aziende statunitensi possono prendere più facilmente decisioni come quella di Walmart perché i loro dipendenti a basso o bassissimo reddito possono optare per i piani sanitari offerti dalle compagnie assicurative private, da acquistare grazie ai sussidi pubblici.
La maggior parte dei media d’oltreoceano ha addirittura definito vantaggiosa la cessazione dell’assicurazione sanitaria da parte di Walmart per i lavoratori part-time, visto che questi ultimi potranno ora sottoscrivere una polizza privata pagando talvolta anche un premio inferiore.
Ciò che non viene detto è però che il mercato delle polizze private regolato dai singoli stati americani o dal governo federale per coloro che hanno redditi molto bassi offre piani di copertura ridotti all’osso con, ad esempio, molte prestazioni da pagare di tasca propria o strutture sanitarie e medici diversi da quelli abituali e spesso lontani dai luoghi di residenza dei pazienti. Al di sopra di un certo reddito, inoltre, gli americani hanno l’obbligo di acquistare una polizza sanitaria, pena il pagamento di sanzioni crescenti.
Gli effetti della “riforma” sanitaria di Obama - scritta di fatto assieme ai rappresentanti delle grandi aziende e delle compagnie assicurative - continuano dunque a confermare il vero obiettivo del provvedimento del 2010, non esattamente quello di garantire una copertura sanitaria universale e accessibile.
Fin dall’inizio, infatti, quando l’ipotesi dell’alternativa di un piano pubblico era stata rapidamente accantonata, l’intenzione dell’amministrazione Obama e dei suoi sostenitori è stata quella di ridurre i costi dell’assistenza sanitaria, creando un esercito di assicurati con coperture estremamente ridotte e, parallelamente, un serbatoio di nuovi clienti per le compagnie private.
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di Andrea Santoro
A distanza di un mese dall’accordo sulla tregua stipulato dal Governo Ucraino, dalla federazione Russa e dalle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, sotto il controllo dell’OSCE, la situazione non appare migliorare, né tantomeno le promesse del presidente ucraino Poroshenko sul ritiro graduale delle truppe sembrano trovare riscontro nelle notizie che arrivano dalla capitale, dove si continua a sparare e i colpi delle armi pesanti rimbombano quotidianamente nei pressi dell’aeroporto.
L’accordo di pace prevedeva, oltre ovviamente al cessate il fuoco, la ritirata di entrambi gli schieramenti per una distanza di almeno quindici chilometri dalle zone di conflitto e la tutela dei corridoi umanitari. Purtroppo già dalla notte successiva alla firma dell’accordo, quella tra il sei e il sette settembre, si è capito chiaramente che la situazione non sarebbe migliorata in tempi brevi, visto che già dal mattino seguente gli osservatori OSCE riportavano il lancio di missili ad opera del governo ucraino dall’interno dell’aeroporto verso le case dei civili, registrando altre vittime tra i civili.
Ad oggi, otto ottobre, il conteggio dei morti durante la tregua è di ottantotto persone, mentre i feriti sono 316.
I numerosi osservatori internazionali presenti sul luogo riportano come il centro delle città di Donetsk e Lugansk siano al momento tranquille, con negozi aperti, uffici funzionanti e ospedali operativi; ciononostante nella zona nord della città di Donetsk si continua a combattere per il controllo dell’aeroporto, tuttora occupato dalle forze governative che, sfruttando l’intricato tessuto di cunicoli costruito in epoca sovietica, vengono quotidianamente accusate di continuare ad accumulare armi per tentare una nuova avanzata, nonostante quello attuale sia l’unico spazio ormai rimasto all’esercito di Kiev, che sembra però intenzionato a non demordere.
È proprio in questa zona che nelle ultime ore si sono intensificati i combattimenti, dopo che il sei ottobre il municipio di Donetsk ha dato notizia di quattro cittadini morti per mano dell’esercito regolare ucraino, che di fatto assedia un’area russofona che, tramite referendum popolare e la scelta di autodeterminazione, di fatto ignorata se non addirittura derisa da Unione Europea e Stati Uniti, ha scelto di essere indipendente o Stato confederato del territorio russo.
Chiaramente da parte di Kiev non vi è alcuna risposta riguardo le vittime, si preferisce anzi demandare la responsabilità delle violenze ai ribelli, inverosimilmente accusati di sparare sui propri concittadini: il primo ottobre, primo giorno di scuola, un colpo di mortaio sparato a soli quattro chilometri dall’aeroporto ha causato altre sette vittime, tutti civili.
Durante questi trentun giorni di supposta tregua nessun osservatore internazionale ha confermato la presenza di soldati o corpi speciali russi, non escludendo però che possano esserci volontari provenienti da Mosca tra le fila dei ribelli; viceversa l’unica presenza russa confermata è formata dal continuo invio di aiuti umanitari: dopo i primi due convogli in aiuto della città di Lugansk, durante le prime due settimane di settembre sono stati inviati circa duecento camion a Donetsk con duemila tonnellate di cibo, vestiti, acqua e generatori di energia.
La maggioranza dei primi ministri europei ha definito questo transito di aiuti umanitari, vagliati e approvati dall’OSCE, come un gravissimo gesto di prevaricazione nei confronti della sovranità nazionale ucraina da parte della Russia, il presidente Renzi ha inoltre dichiarato a riguardo che bisogna “essere uniti nella condanna del comportamento della Russia e sono inaccettabili le violazioni del diritto internazionale”.
Evidentemente non vengono considerate tali le continue violazioni degli accordi da parte del braccio armato del presidente Poroshenko, soprattutto per quanto riguarda le clausole della tregua: le truppe governative non sono state ritirate entro i quindici chilometri concordati, anzi, al contrario, hanno mantenuto la posizione continuando ad armare quel che resta dell’aeroporto, ormai praticamente raso al suolo.
In realtà le repubbliche cosiddette “separatiste” della regione del Donbass sono tre, Lugansk, Donetsk e Charkiv, ma soltanto le prime due sono al centro delle contese internazionali ed il motivo è facilmente immaginabile: la zona geografica compresa all’interno del bacino del Donec produce autonomamente il 20% del PIL complessivo ucraino.
Certo è una facile strategia, per i media europei e per i rappresentati nazionali e internazionali, agitare lo spettro del bolscevismo o evocare Putin il malvagio, delegando alle oligarchie la responsabilità di tanto sangue: incolpare il presidente russo di essere un oligarca, per quanto possa avere dei risvolti di concretezza, appare ironico se contrapposto al presidente Poroshenko, personaggio molto influente all’interno dell’economia Ucraina.
Appare singolare inoltre come la volontà popolare di autodeterminazione, così spesso ricordataci e invocata dai portavoce delle Nazioni Unite, venga così ampiamente disattesa: i risultati referendari hanno lasciato spazio a ben poche interpretazioni, considerata un’affluenza media dell’ 80% in Paesi dove l’astensionismo è prassi, cui va aggiunto un risultato che ha visto trionfare il “si” all’indipendenza con una media del 96%.
E ancora: considerato che la cultura locale esprime la propria essenza attraverso la lingua russa, non appare chiaro il motivo per cui le genti ucraine dovrebbero sottostare ad un’autorità sovranazionale quale la comunità europea, da cui, oltre al cambio di moneta, erediterebbero sanzioni e debito pubblico mai contratti.
Nel frattempo è forte l’apprensione tra i civili dell’area del Donbass per le previste esercitazioni congiunte dell’esercito governativo con le forze delle Nazioni Unite e sono già molte le manifestazioni in programma al fine di scongiurare questa possibilità, che potrebbe trasformare l’esercito governativo da occupante illegittimo a forza militare stabile, ripristinando lo status quo precedente al referendum.
Non resta perciò che attendere l’arrivo dell’inverno, che i meteorologi prevedono se possibile ancor più rigido del solito: continua contingentemente l’embargo russo sul gas, e per l’esercito ucraino sarà molto complesso riuscire ad avanzare senza la necessaria ed adeguata attrezzatura. Sono infatti molti i malumori tra i soldati dovuti alla mancanza del materiale necessario, oltre alla consapevolezza che l’inverno, in una Ucraina senza gas, sarà quanto mai lungo e difficile.
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di Michele Paris
Pochi giorni dopo una massiccia mobilitazione di vari gruppi di attivisti che si battono contro il cambiamento ambientale e un vertice sul clima andato in scena alle Nazioni Unite alla presenza di decine di leader mondiali, l’Unione Europea ha avanzato una proposta che, se convertita in legge, contribuirebbe in maniera determinante all’aumento dell’inquinamento atmosferico.
Al centro della questione c’è il petrolio estratto dalle cosiddette sabbie bituminose (“tar sands”) nello stato del Canada occidentale dell’Alberta, considerato molto più inquinante in termini di emissioni di gas serra durante il suo ciclo di vita rispetto al greggio tradizionale. Con la decisione di Bruxelles, questo genere di petrolio potrebbe essere ora equiparato a quello meno “sporco”, visto che verrebbe lasciato cadere l’obbligo di etichettare il greggio raffinato sul territorio europeo in base alla provenienza e al livello di inquinamento prodotto.
Il provvedimento si inserisce ironicamente nella Direttiva UE sulla Qualità dei Carburanti, in discussione da cinque anni, che dovrebbe promuovere un consumo compatibile con i cambiamenti climatici, in modo da ridurre le emissioni di anidride carbonica nel vecchio continente del 20% rispetto al 1990 entro il 2020. In particolare, dalla stessa direttiva è prevista poi una riduzione delle emissioni di gas serra dei mezzi di trasporto del 6% rispetto al 2010 entro il 2020.
Bruxelles ha così abbandonato una proposta precedente che intendeva assegnare alle “tar sands” un valore di intensità di Co2 pari a 107, contro il 93,2 del greggio convenzionale, mentre il limite massimo che potevano raggiungere i raffinatori in Europa era fissato al 93,3. Secondo il nuovo metodo allo studio, invece, le compagnie petrolifere che riforniscono le raffinerie europee non saranno più tenute a distinguere il petrolio derivato dalle sabbie bituminose, aprendo la strada alle importazioni di quest’ultimo in grandi quantità.
L’annuncio dell’UE di questa settimana è giunto pressoché in concomitanza con l’arrivo sulle coste della Sardegna di un carico di 700 mila barili di greggio “tar sands” proveniente dall’Alberta, dopo quello approdato in Spagna nel mese di maggio. Secondo alcuni gruppi ambientalisti, la nuova iniziativa dei vertici di Bruxelles potrebbe far salire le importazioni europee di greggio canadese dall’attuale 0,01% a quasi il 7% in sei anni, con tutte le conseguenze immaginabili in termini di emissioni di Co2.
L’inversione di rotta dell’UE sull’identificazione del petrolio da raffinare in territorio europeo è la conseguenza di un’aggressiva attività di lobby del governo canadese, tradottasi secondo il gruppo ambientalista Friends of the Earth Europe in circa 110 incontri a Bruxelles soltanto tra il settembre 2009 e il luglio 2011.
“Le pressioni del Canada sono state immense” ha affermato alla stampa un anonimo funzionario europeo, anche perché lo sfruttamento delle “tar sands” dell’Alberta e la remunerazione degli enormi investimenti fatti dalle compagnie petrolifere in questo settore dipendono dall’individuazione di nuovi mercati, finora non facili da trovare a causa anche della più che giustificata fama che accompagna questo genere di greggio.
Il Canada, inoltre, intende ottenere una vittoria in Europa anche alla luce della sorte dell’oleodotto Keystone XL che dovrebbe trasportare il greggio “tar sands” dall’Alberta al Golfo del Messico, negli Stati Uniti, e la cui costruzione è ferma in attesa dell’approvazione del governo americano. Il via libera alle sabbie bituminose in Europa, così, potrebbe trasformarsi in uno stimolo per l’amministrazione Obama a dare l’OK al progetto nonostante le resistenze negli stati che dovrebbero essere attraversati dall’oleodotto.
La vicenda dell’equiparazione del petrolio estratto dalle sabbie bituminose a quello convenzionale ha messo dunque in luce in maniera esemplare gli interessi a cui risponde non solo il governo canadese ma anche quelli da questa parte dell’oceano e la stessa Unione Europea. Soprattutto, la Gran Bretagna e l’Olanda pare siano stati i paesi più attivi nel chiedere la revisione della versione precedente della direttiva UE, dal momento che le compagnie petrolifere BP e Royal Dutch Shell sono coinvolte in progetti di “tar sands” nello stato canadese dell’Alberta.
Ancor più, al di là delle manifestazioni di protesta e dei vertici dall’utilità praticamente nulla, il dietrofront di Bruxelles sul tipo di petrolio più inquinante e distruttivo per il paesaggio da cui si estrae mostra l’impossibilità di mettere in atto un piano razionale ed efficace di lotta al cambiamento climatico nel quadro degli attuali sistemi produttivo e politico.
La legge del profitto sovrasta infatti di gran lunga qualsiasi necessità ambientale e umana, per quanto grave appaia la situazione del pianeta, mentre la politica risponde ovunque esclusivamente agli interessi di una classe ben precisa che, come risulta evidente, non solo sono in contrasto con quelli della grandissima maggioranza della popolazione ma possono minacciare addirittura l’esistenza dell’intera umanità.
Estremamente significativo è infine il fatto che la bozza di legge europea sulla classificazione del petrolio da raffinare - che dovrà essere approvata dai singoli paesi membri prima di passare all’attenzione del parlamento europeo - è stata decisa nell’ambito dei negoziati tra Bruxelles e Ottawa su un trattato di libero scambio firmato il mese scorso tra l’UE e il governo ultra-conservatore canadese.
Sulla linea di praticamente tutti i trattati commerciali di questi anni, anche quest’ultimo rappresenta in sostanza un gigantesco regalo per le multinazionali, alle quali viene riconosciuta la facoltà di perseguire i propri profitti senza alcun intralcio, sia riguardo le questioni ecologiche sia quelle dei diritti dei cittadini.
Proprio in ambito petrolifero, il trattato tra UE e Canada include infatti una serie di clausole che sembrano scritte direttamente dai vertici delle compagnie petrolifere che operano nel paese nord-americano, limitando quasi del tutto il potere del governo di regolamentare la loro attività, anche di fronte a eventuali disastri ambientali.