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di Mario Lombardo
Uno scontro interno al partito Repubblicano è in atto in questi giorni al Congresso americano attorno all’approvazione del bilancio federale per il prossimo anno, con il tetto delle spese militari al centro della diatriba. Mentre la classe politica degli Stati Uniti sta cercando di trovare un qualche espediente per neutralizzare i limiti imposti per legge agli stanziamenti destinati al Pentagono, non vi è traccia di una vera opposizione ai drastici tagli che si prospettano per i programmi sanitari pubblici più popolari.
La Camera dei Rappresentanti e il Senato, entrambi a maggioranza repubblicana, hanno recentemente presentato un proprio progetto di bilancio all’insegna dell’austerity più estrema. Oltre a prevedere l’abrogazione della “riforma” sanitaria di Obama, le due proposte di legge includono misure sostanzialmente simili per far fronte a quella che viene definita la “insostenibilità” di Medicare e Medicaid, le coperture sanitarie pubbliche riservate rispettivamente agli anziani e agli americani a basso reddito, ma anche dei buoni alimentari (“food stamps”), distribuiti in questi anni di crisi a un numero crescente di persone.
Le modifiche a Medicare proposte dai repubblicani della Camera prevedono la trasformazione di questo programma in un sistema di “voucher”, con i quali coloro che, per così dire, ne beneficiano dovrebbero acquistare prestazioni sanitarie – evidentemente razionate – sul mercato privato.
La gestione di Medicaid e dei buoni alimentari passerebbe invece totalmente ai singoli stati americani, i quali dovrebbero far bastare stanziamenti federali predefiniti, anche in questo caso razionando sensibilmente i servizi offerti.
I numeri del bilancio proposto dal Senato indicano a sufficienza la devastazione che si prospetterebbe per questi programmi e le conseguenze su decine di milioni di americani delle classi più disagiate. Nei prossimi dieci anni, Medicare perderebbe 430 miliardi di dollari e Medicaid 400. Complessivamente, nello stesso periodo di tempo i tagli alla spesa sociale ammonterebbero a ben 4 mila e 300 miliardi di dollari.
Nella versione della Camera i tagli a Medicaid sarebbero addirittura di 913 miliardi di dollari, mentre anche vari programmi che garantiscono sussidi e prestiti agli studenti per l’accesso alle costosissime università americane verrebbero pesantemente penalizzati.
Le incertezze circa l’approvazione definitiva del prossimo bilancio non dipendono comunque da una qualche battaglia per salvare i programmi pubblici che potrebbero finire sotto la scure repubblicana, bensì dalla già ricordata disputa sul budget del Pentagono.
Il partito di maggioranza al Congresso, in sostanza, è diviso tra “falchi” del bilancio e “falchi” della Difesa, con i primi che intendono confermare i tagli automatici alle spese militari previsti da una legge del 2011 e i secondi che intendono invece aggirare il tetto di spesa e garantire alle forze armate USA risorse senza limiti per condurre le operazioni in cui sono coivolte all’estero.Sulla questione, la Casa Bianca è allineata alle posizioni dei “falchi” della Difesa, visto che la proposta di bilancio di Obama prevedeva stanziamenti per 561 miliardi di dollari al Pentagono, cioè una quarantina di miliardi in più rispetto al tetto massimo, più altri 51 miliardi destinati appositamente alle operazioni “contingenti” oltreoceano.
Lo stesso presidente democratico avrebbe minacciato di esercitare il potere di veto per bloccare eventuali bilanci che intendono rispettare i limiti massimi di spesa militare. A confermarlo è stato il segretario alla Difesa, Ashton Carter, in un’apparizione alla Camera nella giornata di mercoledì.
Nessuna minaccia di veto è stata invece agitata da Obama per quanto riguarda i tagli ai programmi pubblici vitali per gli americani più poveri. Anzi, se la Casa Bianca e i democratici in genere criticano gli assalti alla spesa pubblica proposti dai repubblicani, la stessa bozza di bilancio del presidente includeva tagli per 423 miliardi di dollari a Medicare per il prossimo decennio, mentre, ad esempio, prospettava una consistente riduzione dell’aliquota fiscale da applicare alle corporation.
Il dibattito in corso sul tetto di spesa del Pentagono è però fuorviante, come quasi sempre accade nelle controversie di Washington tra i due partiti o le fazioni all’interno di essi. Infatti, anche coloro che sostengono di voler mantenere i limiti previsti dalla legge in vigore per il bilancio della Difesa hanno in realtà già pronte soluzioni per eluderli.
Il bilancio stilato dalla Camera prevede cioè un budget perfettamente in linea con il tetto (523 miliardi), ma a fianco di esso sarebbero disponibili altri 40 miliardi sotto forma di “fondi di emergenza” e quindi non soggetti ai limiti fissati per legge.
Ancora più ridicoli sono stati gli sviluppi della vicenda al Senato. Qui, i senatori della commissione Bilancio hanno ripreso i colleghi della Camera per avere sottoposto una proposta che intende aggirare il tetto di spesa, per poi adottare un provvedimento che fa sostanzialmente la stessa cosa.
L’unica differenza consiste nel definire la somma extra come un “fondo di riserva” che al momento non andrebbe a pesare sul bilancio federale, poiché non prevede stanziamenti. L’entità dell’importo aggiuntivo destinato al Pentagono, secondo la proposta del Senato, dovrebbe essere oggetto di trattative da avviare nei prossimi mesi.
Vari senatori repubblicani insistono tuttavia sull’approvazione di un bilancio che annulli in maniera pura e semplice i tagli automatici previsti alla spesa militare USA. Tra di essi figurano l’ex candidato alla presidenza, John McCain, e il senatore della South Carolina, Lindsey Graham, entrambi tradizionalmente annoverati tra i “falchi” della politica estera americana.
Graham, il quale sta valutando una candidatura nelle primarie repubblicane per la Casa Bianca del prossimo anno, in un intervento pubblico qualche giorno fa aveva sostenuto in maniera inquietante che, se fosse stato presidente, avrebbe “letteralmente” messo sotto assedio militare il Congresso di Washington per costringere i suoi membri a revocare i tagli al bilancio del Pentagono.La vicenda descritta dimostra come le esigenze dell’imperialismo americano abbiano la priorità assoluta, non solo rispetto ai bisogni essenziali della popolazione ma anche sulle leggi approvate dal Congresso. Inoltre, sulla necessità di finanziare la macchina da guerra USA a discapito di qualsiasi altra voce di spesa esiste un sostanziale accordo bipartisan a Washington.
Per raggiungere questo obiettivo, nelle scorse settimane si sono moltiplicati gli appelli dei vertici militari, impegnati a descrivere uno scenario catastrofico per gli Stati Uniti nel caso non fossero garantite le risorse chieste dal Pentagono.
Gli Stati Uniti sono già di gran lunga il paese che spende di più per le proprie operazioni militari. La cifra complessiva stanziata annualmente da Washington in questo ambito è più alta della somma dei bilanci militari dei paesi posizionati tra il secondo e il decimo posto – o il quindicesimo, a seconda delle fonti dei dati – nella graduatoria delle spese militari.
L’insaziabile bisogno di fondi delle forze armate degli Stati Uniti deriva direttamente dal venir meno dell’influenza di questo paese sullo scacchiere internazionale. La posizione americana declinante in un pianeta tendente sempre più al multipolarismo richiede un impiego crescente della forza militare, sia per cercare di contenere le minacce rappresentate da potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, sia per appoggiare alleati e regimi fantoccio al servizio degli interessi strategici di Washington.
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di Michele Paris
Da una possibile clamorosa sconfitta per mano del moribondo centro-sinistra israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahu è passato martedì all’ennesima vittoria elettorale e il giorno successivo all’avvio dei negoziati per mettere assieme una maggioranza parlamentare in grado di sostenere il prossimo governo di Tel Aviv. Pur nello scampato pericolo, il premier non avrà vita facile nell’immediato futuro, dal momento che l’esecutivo che si annuncia sarà con ogni probabilità attraversato dalla medesima instabilità che sul finire del 2014 lo aveva spinto a indire elezioni anticipate.
Come è ormai ben noto, la serata elettorale in Israele era stata caratterizzata dall’errore di valutazione dei sondaggi che nelle settimane e nei giorni precedenti il voto ipotizzavano dapprima una gara equilibrata tra il Likud di Netanyahu e l’Unione Sionista di centro-sinistra e poi addirittura un lieve vantaggio per quest’ultima coalizione.
Alla fine, il Likud ha ottenuto 30 seggi sui 120 complessivi della Knesset (Parlamento), con un guadagno netto di 12 rispetto al 2013. L’Unione Sionista, invece, si è fermata a 24 seggi. Nelle precedenti elezioni, il Likud si era però presentato in una lista unica con il partito di estrema destra secolare Yisrael Beiteinu del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, conquistando complessivamente 31 seggi.
Il recupero fatto segnare dal Likud negli ultimi giorni di campagna elettorale sarebbe da ascrivere alla netta sterzata destrorsa e apertamente razzista impressa da un Netanyahu sempre più disperato. In particolare, il premier aveva spostato l’obiettivo della propria aggressività verbale dall’Iran ai palestinesi, giungendo a dichiarare la sua contrarietà alla cosiddetta soluzione dei due stati.
Se questa affermazione non ha fatto altro che ufficializzare la reale attitudine di Netanyahu circa la soluzione quasi universalmente preferita per dirimere la questione palestinese, le sue parole hanno nondimeno galvanizzato la base elettorale della destra israeliana.
Allo stesso modo, il giorno prima del voto Netanyahu aveva fatto un’insolita apparizione in un insediamento illegale a Gerusalemme Est, promettendo altre costruzioni sul territorio palestinese e denunciando sostanzialmente la popolazione araba di Israele per la probabile affluenza di massa alle urne che avrebbe fatto registrare in questa tornata elettorale.
Gli appelli del premier sembrano essere così riusciti a drenare verso il Likud un numero considerevole di voti dalle altre formazioni di destra del panorama politico israeliano, le quali hanno appunto fatto registrare flessioni più o meno sensibili rispetto al precedente appuntamento elettorale.
Oltre al già citato Yisrael Beiteinu, che ha perso 6 seggi, sono risultati in calo anche la Casa Ebraica (-4) del ministro dell’Economia, Naftali Bennett, e i partiti ultra-ortodossi Shas (-4) e Giudaismo Unito della Torah (-1). Tutte queste formazioni, nettamente indebolite, dovranno sostenere il prossimo governo Netanyahu, anche se saranno comunque necessari altri seggi per raggiungere la maggioranza assoluta alla Knesset.Decisamente remoto appare un nuovo accordo con il partito centrista Yesh Atid dell’ex ministro delle Finanze, Yair Lapid, al centro dello scontro con Netanyahu che aveva portato al voto anticipato. Escludendo anche un governo di unità nazionale con l’Unione Sionista - formata dal Partito Laburista del candidato premier, Isaac Herzog, e da Hatnuah dell’ex ministro della Giustizia, Tzipi Livni - di cui pure si era parlato alla vigilia del voto, l’opzione più probabile è quella di un accordo con il nuovo partito Kulanu (“Tutti Noi”), fondato nel novembre dello scorso anno e in grado di ottenere 10 seggi.
Il leader di Kulanu è l’ex membro del Likud, Moshe Kahlon, più volte ministro nei governi Netanyahu e protagonista di una rottura con il premier che lo aveva portato a fondare un proprio movimento “centrista”. I rapporti tra i due non sembrano essersi eccessivamente deteriorati e durante la campagna elettorale Kahlon aveva lasciato intendere di volere sostenere chiunque sarebbe uscito vincitore dalle urne. Nei giorni scorsi, poi, Netanyahu aveva offerto l’incarico di ministro delle Finanze allo stesso Kahlon.
L’affermazione di Netanyahu, nonostante il diffusissimo senso di insofferenza in Israele nei confronti della fissazione del premier per la fantomatica minaccia iraniana e, più in generale, per i temi della sicurezza nazionale, solleva parecchi interrogativi sulla prestazione del principale raggruppamento dell’opposizione, l’Unione Sionista.
L’alleanza elettorale tra Herzog e Livni ha rappresentato da un lato una minaccia concreta per il Likud da molti anni a questa parte ma, dall’altro, non è stata in grado di capitalizzare il malcontento popolare per una situazione economica caratterizzata da enormi disuguaglianze sociali e di reddito.
Il fatto che i due leader avessero ricoperto vari incarichi di spicco in passato non ha indubbiamente aiutato, vista la scarsissima considerazione degli elettori per l’establishment poltico in generale. Soprattutto, però, il candidato premier Herzog non è stato in grado di costruirsi un’immagine solida di leader né, ancor più, di mettere in atto una campagna elettorale sufficientemente aggressiva e convincente sui temi economici, fondamentalmente per via della mancanza di un programma progressista alternativo a quello della destra al governo.
Il dato più significativo del voto di martedì è stato così probabilmente il risultato della Lista Araba Unificata, frutto dell’accordo di quattro partiti che rappresentano gli arabi israeliani. Separatamente, le quattro formazioni avevano un totale di 11 seggi nella Knesset uscente, mentre ne avranno 14 in quella appena eletta. La Lista Araba Unificata è stata perciò la terza forza uscita dalle urne, anche se i partiti arabi in Israele vengono puntualmente emarginati dalla classe politica ebraica.
Il successo di Netanyahu e la prossima inaugurazione del suo quarto mandato alla guida del governo hanno prodotto una valanga di commenti sui media israeliani e internazionali circa le intenzioni del premier e l’orientamento del prossimo gabinetto.
Molti problemi sul fronte domestico il premier li aveva dovuti affrontare a causa del peggioramento delle relazioni con l’amministrazione Obama, ulteriormente aggravate dopo il discorso tenuto al Congresso di Washington ai primi di marzo senza avere concordato l’evento con la Casa Bianca.
Su Netanyahu erano piovute accese critiche da parte di numerosi esponenti politici e dell’apparato della sicurezza, preoccupati per una possibile rottura con gli Stati Uniti e il conseguente ulteriore isolamento internazionale di Israele. Da verificare sarà perciò l’atteggiamento di Netanyahu nei confronti del principale alleato del suo paese, soprattutto in vista della scadenza per il raggiungimento di un accordo sul nucleare iraniano, visto da Tel Aviv con estrema preoccupazione.Alla luce delle frizioni con Washington, in molti si chiedono poi se Netanyahu continuerà a respingere la soluzione dei due stati come ha fatto in campagna elettorale. Alcuni commentatori hanno ricordato la natura pragmatica o, meglio, opportunista di Netanyahu, non escludendo perciò un ritorno sui propri passi in merito alla questione di un futuro stato palestinese.
In realtà, la posizione ufficiale di Netanyahu su tale questione non comporta una gran differenza per i palestinesi, visto che, come ha spiegato un paio di giorni fa alla Reuters il capo dei negoziatori palestinesi nei colloqui di pace ormai collassati, Saeb Erekat, il premier “durante la sua carriera politica non ha fatto altro che distruggere la soluzione dei due stati”.
Se le circostanze lo dovessero costringere ad assumere una posizione più conciliante verso gli Stati Uniti, tuttavia, è probabile che Netanyahu possa tornare ad appoggiare almeno nominalmente questa soluzione, se non addirittura mostrarsi disponibile alla riapertura del “processo di pace” mediato da Washington, sia pure solo per prolungare la farsa di negoziati senza alcuna prospettiva.
Una parte dei dubbi sul futuro governo di Tel Aviv sarà sciolta dopo l’annuncio dell’accordo con i nuovi partner di governo e delle nomine ai principali ministeri. Quel che è certo, comunque, è che le contraddizioni di una società israeliana sempre più polarizzata e stanca di uno stato di guerra permanente difficilmente potranno essere risolte dalla stessa leadership che ha presieduto alla creazione dello scenario attuale.
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di Michele Paris
Segnali di divisioni tra gli Stati Uniti e alcuni loro importanti alleati in Europa e in Estremo Oriente sono stati registrati nei giorni scorsi in seguito alla decisione presa dal governo britannico di aderire a un nuovo istituto finanziario internazionale ideato dalla Cina. Dopo l’annuncio di Londra, altri paesi alleati di Washington - tra cui l’Italia - hanno lasciato intendere di essere pronti a seguirne l’esempio, nonostante la partecipazione al progetto della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) fosse stata fortemente scoraggiata dall’amministrazione Obama.
I timori americani dipendono dal fatto che l’AIIB potrebbe sminuire il ruolo di istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti. Più in generale, gli USA vedono con estrema preoccupazione gli sviluppi dei giorni scorsi in relazione all’AIIB, poiché minacciano di ostacolare la strategia di accerchiamento e isolamento della Cina nell’ambito della cosiddetta “svolta asiatica” lanciata dalla Casa Bianca.
Secondo quanto riportato dal Financial Times, la decisione definitiva del governo Cameron di diventare membro fondatore dell’AIIB sarebbe stata presa senza consultare gli Stati Uniti, con ogni probabilità per evitare ulteriori pressioni volte a scoraggiare una simile iniziativa.
Pur sostenendo pubblicamente da tempo la propria contrarietà alla partecipazione al progetto finanziario di Pechino da parte di paesi alleati, Washington martedì ha finito col dover fare buon viso a cattivo gioco. Il sottosegretario di Stato USA, Daniel Russel, nel ribadire le perplessità americane, dalla Corea del Sud ha ammesso che la decisione finale spetta esclusivamente ai singoli governi.
In un altro sgarbo per Washington, la visita e le dichiarazioni di Russel sono giunte in concomitanza con la notizia che anche Seoul starebbe valutando l’opportunità di entrare a far parte dell’AIIB.
Per quanto riguarda la Gran Bretagna, il governo Cameron non ha accennato a scuse verso gli USA, ma, almeno a parole, alcune concessioni all’alleato d’oltreoceano sono apparse evidenti. Il Cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze), George Osborne, ha affermato che l’approccio da tenere nei confronti dell’AIIB era stato oggetto di intense discussioni all’interno del G7 alla presenza del segretario al Tesoro americano, Jack Lew, e la decisione dell’esecutivo è stata perciò tutt’altro che unilaterale.
Inoltre, Londra ha ripetuto alcune delle preoccupazioni manifestate ufficialmente dagli USA in relazione alla natura dell’AIIB. La presenza della Gran Bretagna tra i membri fondatori dell’AIIB sarebbe quindi fondamentale per garantire la trasparenza dello stesso nuovo istituto finanziario nella gestione degli investimenti verso progetti di infrastrutture.
L’auspicio di Osborne circa l’adesione di altri paesi è stato poi soddisfatto dalla notizia diffusa dalla stampa australiana che il primo ministro Tony Abbott sarebbe tornato a valutare l’opportunità di partecipare all’AIIB. Un annuncio ufficiale in proposito potrebbe anzi giungere già nei prossimi giorni.
Proprio l’esempio dell’Australia permette di comprendere come gli Stati Uniti abbiano manovrato per far naufragare il progetto cinese o, quanto meno, per limitarne l’impatto. Sul finire del 2014, l’amministrazione Obama aveva infatti avviato un’intensa opera di convincimento sul governo conservatore australiano, in modo da farlo desistere dalla precedente decisione di diventare membro fondatore dell’AIIB. Nei piani degli USA, d’altra parte, l’Australia rappresenta una pedina fondamentale nella strategia di contenimento della Cina.Il Segretario di Stato, John Kerry, quello al tesoro Lew e lo stesso presidente Obama avevano invitato personalmente Abbott ad abbandonare il progetto, così che il ministro degli Esteri australiano, Julie Bishop, aveva alla fine ratificato la marcia indietro del suo governo.
Le motivazioni ufficiali del voltafaccia avevano a che fare ufficialmente con l’assenza dei necessari “standard di investimento” previsti dal progetto AIIB, anche se in realtà le apprensioni di Australia e Stati Uniti erano legate alla possibilità che le risorse della Banca siano destinate a finanziare progetti e infrastrutture per favorire l’espansione economica e militare cinese nel continente asiatico.
Con le nuove dichiarazioni di Abbott del fine settimana, tuttavia, l’adesione dell’Australia all’AIIB sembra essere tornata all’ordine del giorno. Evidentemente, una parte della classe dirigente e del business australiano assegna un’importanza tale ai vantaggi derivanti dall’aggancio all’iniziativa della Cina - peraltro primo partner commerciale di Canberra - da far passare in secondo piano gli avvertimenti americani.
L’AIIB dovrebbe essere inaugurata entro la fine del 2015 e gli obiettivi che si pone, come già anticipato, lasciano intravedere una concorrenza diretta con la Banca Mondiale la Banca Asiatica per lo Sviluppo. Il capitale iniziare dell’AIIB sarà di 50 miliardi di dollari che serviranno a finanziarie progetti per la costruzione di infrastrutture in settori come quelli dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni, verosimilmente senza le restrizioni previste dai due organismi in cui a prevalere è la volontà di Washington.
Al momento del lancio dell’AIIB lo scorso ottobre erano rappresentati 21 paesi fondatori, tra cui Filippine, India, Kazakistan, Malaysia, Myanmar, Pakistan, Qatar, Singapore, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam. Poco dopo anche l’Indonesia ha fatto sapere di essere pronta ad aderire, mentre il numero dei potenziali membri è salito ora a 26.
I paesi che intendono far parte dell’AIIB devono sottoscrivere un “memorandum d’intesa” entro la fine di marzo, in modo da poter partecipare successivamente ai negoziati relativi alle quote di capitale e al diritto di voto.
L’esempio britannico e l’approssimarsi della scadenza del 31 marzo hanno spinto altri paesi europei a manifestare il proprio interesse per l’AIIB. Sempre il Financial Times ha rivelato che, oltre all’Italia, anche Francia e Germania sarebbero orientate in questo senso. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha confermato martedì l’intenzione del suo governo di diventare un membro fondatore dell’istituzione. L’agenzia di stampa ufficiale cinese, Xinhua, ha a sua volta indicato Svizzera e Lussemburgo come possibili candidati all’ingresso nell’AIIB.
Se i paesi che hanno confermato il proprio interesse nel nuovo istituto finanziario promosso da Pechino dovessero farne parte a tutti gli effetti, a rimanere isolato in Asia sarebbe un altro alleato di ferro degli Stati Uniti, il Giappone. Assieme a Washington, Tokyo esercita una profonda influenza sulla Banca Asiatica per lo Sviluppo, guidata tradizionalmente da un giapponese, e quasi certamente non entrerà a far parte dell’AIIB pur essendo stato invitato a farlo dalla Cina.Il numero uno della Banca Asiatica per lo Sviluppo, Takehiko Nakao, in un’intervista ad una rivista nipponica ha però rivelato che le due istituzioni potrebbero collaborare nel prossimo futuro e le discussioni in proposito sarebbero già state avviate.
Gli sviluppi legati alla nascita della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) sta portando dunque alla luce tutte le tensioni e le fratture provocate in Asia, e non solo, dal riorientamento strategico statunitense in questo continente.
L’aggressività e le pressioni americane sui vari paesi ai fini di un riallineamento in funzione anti-cinese costringono cioè sempre più i governi interessati - inclusi quelli europei - a valutare l’opportunità di conservare un’alleanza strategico-militare con Washington col rischio di vedere svanire importanti occasioni sul fronte economico, offerte appunto dalla Cina.
Simili considerazioni devono avere pesato sulla recente decisione della Gran Bretagna, anche se, in Asia come in Europa, resta da vedere fino a che punto gli alleati degli Stati Uniti saranno disposti a spingersi senza mettere a repentaglio i loro rapporti con Washington alla luce, da una parte, di un’economia globale sempre più integrata e, dall’altra, della crescente intransigenza americana nei confronti dell’ascesa cinese.
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di Fabrizio Casari
Nel Maggio del 2013, la rivista spagnola Hola! pubblica un servizio fotografico dedicato a incrementare l’aura di consenso intorno al neopresidente messicano Enrique Pena Nieto. Lui è più simile ad un modello da grandi magazzini che ad un presidente di una delle prime 20 nazioni al mondo per PIL, ma è un prodotto del network Televisa, che in Messico l'unica cosa che non determina è il meteo. Lei, Angelica Rivera, come si conviene è una attrice di telenovelas che ama farsi ritrarre nei servizi fotografici da first lady in minigonna di pelle e figlia al guinzaglio. La classe non è acqua ma fin qui sarebbe poco.
Perché alla vanità della coppia si aggiunge l’ingenuità del loro addetto stampa che non fa bene il suo mestiere ed accetta che il servizio fotografico sia realizzato nella nuova casa dove il Presidente e sua moglie vivono. E’ una casa di ultra lusso, denominata “Casa Bianca”, regalatagli da una società – la HIGA – committente della presidenza ora e dello Stato del Messico prima, quando Pena Nieto era governatore. Valore stimato per difetto? Sette milioni di dollari.
Il servizio fotografico è ripreso anche da altri giornali (compreso D, il settimanale femminile di La Repubblica che in due occasioni ha tessuto le lodi del presidente messicano) ma la stampa messicana lo rilancia più come prodotto di gossip che altro. La notizia invece è ghiotta e non sfugge a Carmen Aristegui, che scatena la sua muta di segugi a vedere quanto e cosa c’è dietro e porta a conoscenza di tutto il paese di una storia decisamente imbarazzante per il presidente Enrique Pena Nieto.
Ovvio il conflitto d’interesse e ovvia la reazione furiosa e minacciosa della presidenza, ma altrettanto ovvio come Carmen Aristegui non cede di fronte alle minacce dirette ed indirette provenienti dagli ambienti vicini alla presidenza e al PRI. Anzi rilancia, e poco tempo dopo documenta come un’altra casa, solo appena più piccola, sia stata regalata dallo stesso gruppo HIGA anche a Luis Videgaray, ministro del Tesoro del Gabinetto di Pena Nieto.
In un colloquio tra Josè Vargas, proprietario di MVS e alcuni funzionari della Presidenza messicana, si conviene che la sola maniera per la quale il presidente non si vendichi sul gruppo editoriale è che Carmen Aristegui debba chiedere scusa per i servizi giornalistici sulla casa del Presidente. Niente da fare, Carmen rifiuta d’inginocchiarsi.
Carmen, giornalista, con un suo programma dal Messico in onda sulla CNN e autrice del suo seguitissimo sito aristeguinoticias.com, si muove a 360 gradi nel panorama informativo messicano. Considerata la migliore dal punto di vista giornalistico e ferma nei suoi convincimenti, in un paese nel quale i giornalisti non venduti sono rari Carmen Aristegui rappresenta la possibilità di credere ancora nel senso più profondo della professione. L’impegno principale è comunque il notiziario del mattino che conduce dalle sei alle dieci su Radio MVS Notizie.
Il programma è re assoluto degli ascolti e si caratterizza per le inchieste e gli approfondimenti di temi nazionali ed esteri senza nessun taglio di regime. Una delle tante prove di ciò è stata la denuncia continua delle falsità nelle ricostruzioni ufficiali sul sequestro e la scomparsa dei 43 studenti della scuola Normale di Ayotzinapa, nello Stato di Guerrero, avvenuta nel dicembre scorso.Nonostante i contratti di collaborazione, la Aristegui ha sempre mantenuto una assoluta autonomia di espressione, salvaguardando la sua credibilità con un uso del mezzo tutt’altro che gridato, con un’accurata verifica delle fonti ed una disponibilità ad accettare il confronto, sostenendo le sue inchieste con documentazioni inoppugnabili. Autorevole perché libera, ascoltata perché autorevole.
Nei giorni scorsi, è stata annunciata la nascita di una piattaforma Internet denominata Mexicoleaks, dove s’invita chi è a conoscenza di abusi ed episodi di repressione e corruzione a porre il suo contributo affinché la legge in discussione al Senato, che prevede la fine dell’obbligo di trasparenza informativa, venga sovvertita dal basso. Inoltre, la prevista riforma delle telecomunicazioni prevede un deciso restringimento degli spazi per l’editoria minore a favore dei grandi gruppi e questo incentiva ulteriormente l’iniziativa.
A questa iniziativa editoriale sia la Aristegui che la sua squadra hanno aderito. L’iniziativa di Mexicoleaks è senza precedenti e, quale che possa essere il giudizio sulla sua praticabilità, ottiene come risultato di far saltare dalla sedia il gruppo editoriale MVS notizie per il quale Carmen e la sua squadra lavoravano.
E' infatti questa la motivazione formale con la quale MVS spiega il licenziamento di Irving Huerta e Daniel Lizárraga, quest’ultimo caporedattore del gruppo, che vengono licenziati per aver svolto inchieste senza l’autorizzazione del gruppo editoriale e per “mancanza di etica”! Ora, a parte l’ovvia considerazione per la quale i giornalisti informano i loro direttori e non gli editori delle inchieste in corso, c’è da essere sicuri che, ove l’avessero fatto, MVS avrebbe negato l’autorizzazione. In nessun caso la proprietà di MVS ha intenzione di scontrarsi con il presidente e con il suo partito, il PRI. Quanto all’etica il concetto appare stravagante: il colpevole è chi commette un abuso o chi lo denuncia?
Agli editori che gli proponevano di continuare a lavorare, Carmen Aristegui ha risposto che questo sarebbe stato possibile solo con il ritorno in servizio dei due giornalisti licenziati ed è a questo punto che, nonostante le prese di posizione a suo favore espresse in ogni luogo del web, la MVS ha deciso di licenziare anche la Aristegui.
Non è certo la prima volta che succede nella carriera di Carmen. Venne licenziata da W radio, di proprietà di Televisa e del Gruppo Prisa (spagnolo, proprietario di El Pais) nel 2008, a causa del rifiuto da parte di Carmen a farsi seppellire da sport commerciali il suo programma. Quindi, nel 2011, la stessa MVS, per la quale già allora lavorava, la licenziò per aver domandato in diretta al Presidente Calderon, un’altra macchietta della tragicomica storia politica messicana, se aveva problemi con gli alcolici (cosa risaputa in tutto il paese e nelle diverse cancellerie internazionali). Una presa di posizione massiccia da parte di colleghi e maestranze obbligò MVS a tornare sui suoi passi e riassumerla.Il provvedimento, benchè si ritiene fosse stato preparato da tempo, sembra avere però una sua valenza preventiva, dal momento che la squadra di Carmen Aristegui stava andando a fondo con una nuova inchiesta sull’assassinio di 22 persone nella comunità di Tlatlaya, nello Stato del Messico. In un primo momento le autorità riferirono che la strage avvenne a seguito di uno scontro tra una banda di sequestratori e la polizia dello Stato, ma in seguito la Commissione Nazionale per i Diritti Umani denunciò come i 22 furono fucilati dai militari.
La squadra di Aristegui stava per rendere pubblici documenti e testimonianze che avrebbero provocato un altro terremoto nel sistema. Ardire insopportabile quello di Carmen Aristegui e della sua redazione: in Messico è consuetudine la pratica della “pulizia sociale” da parte delle autorità, ma è altrettanto consueta la pratica del silenzio. Disobbedire alla seconda, purtroppo, può condurre alla prima, come insegnano i numerosi giornalisti uccisi e scomparsi.
La giornalista ha fatto presente che ricorrerà al tribunale per l’illegittimità del licenziamento e per MVS si annuncia un periodo difficile. I contratti pubblicitari dello spazio di Carmen saranno annullati (anche se il PRI provvederà a rifondere) e l’ondata di protesta nell’opinione pubblica messicana (su change.org già 166.000 firme) ridurranno drasticamente l'immagine editoriale del gruppo.
Si potrebbe pensare che quella del gruppo MVS sia stata dunque un’operazione poco intelligente, che costerà denaro e prestigio, ma forse è stata soprattutto un’operazione in qualche modo dovuta. Perché in un paese dove quello che non è corrotto è solo perché non vale la pena corromperlo, il giornalismo che non si compra va messo a tacere. In un modo o nell’altro.
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di Michele Paris
I tre principali rappresentanti dell’apparato diplomatico-militare degli Stati Uniti sono apparsi contemporaneamente mercoledì di fronte alla commissione Esteri del Senato nell’ambito del dibattito in corso a Washington sulla nuova Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (AUMF) richiesta dall’amministrazione Obama per proseguire la guerra contro lo Stato Islamico (ISIS) in Medio Oriente.
Il segretario di Stato, John Kerry, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, e il capo di Stato Maggiore, Martin Dempsey, hanno risposto alle domande dei senatori americani nel tentativo di convincerli ad approvare la richiesta avanzata dall’inquilino della Casa Bianca, tenendo però a sottolineare che, con o senza una nuova autorizzazione, le operazioni militari in Iraq e in Siria proseguiranno indisturbate.
Infatti, i bombardamenti ufficialmente contro le postazioni dell’ISIS in questi due paesi proseguono dall’agosto scorso e gli Stati Uniti dispongono già di circa tremila “addestratori” in territorio iracheno. Una nuova AUMF, per lo meno ai fini operativi del conflitto in corso, appare perciò del tutto superflua, visto che Obama aveva preso la decisione di scatenare una nuova guerra in Medio Oriente sulla base di un’autorizzazione all’uso della forza già in vigore, quella approvata dal Congresso nel 2001 all’indomani degli attentati dell’11 settembre e che era servita ufficialmente per dare la caccia ai membri di al-Qaeda.
La nuova AUMF abolirebbe però una seconda autorizzazione all’uso della forza, quella del 2002 che permise all’amministrazione Bush di invadere illegalmente l’Iraq di Saddam Hussein. Nella richiesta di Obama al Congresso vengono fissati alcuni paletti all’impiego delle forze armate molto facilmente aggirabili, per quanto riguarda sia i limiti temporali - fissati in tre anni, anche se prorogabili - sia l’esclusione del ricorso a truppe di terra per “operazioni di combattimento durature e di natura offensiva”.
La posizione dell’amministrazione Obama in relazione al senso di un’autorizzazione fondamentalmente superflua è stata esposta mercoledì dal segretario Kerry, quando ha sostenuto che l’approvazione di una nuova AUMF sarebbe soltanto una dimostrazione di unità da parte delle istituzioni americane di fronte alla minaccia dell’ISIS. Inoltre, un voto del Congresso servirebbe a rassicurare gli alleati di Washington che gli Stati Uniti appoggiano interamente la guerra all’ultima incarnazionale del fondamentalismo sunnita, anche se, come ha ammesso il generale Dempsey, dal punto di vista pratico non cambierebbe una sola virgola.
Il riconoscimento da parte dei membri della commissione Esteri del Senato dell’inutilità della nuova AUMF, assieme all’ammissione di Kerry, Carter e Dempsey, rende dunque particolarmente inquietante lo scenario che si è venuto a creare negli Stati Uniti riguardo la guerra all’ISIS.
I tre uomini seduti di fronte ai rappresentati eletti del popolo americano hanno di fatto comunicato a questi ultimi che la loro opinione e il loro voto non contano nulla. Tutto ciò che il Congresso potrebbe fare in merito alla guerra in atto è avallare la decisione presa sette mesi fa dal presidente. Se, invece, la nuova AUMF dovesse essere bocciata o nemmeno sottoposta a votazione, ciò non avrebbe comunque alcun effetto sulle decisioni prese alla Casa Bianca.
Questo stato dei fatti lo ha perfettamente riassuno il presidente della stessa commissione, il senatore repubblicano Bob Corker, il quale appena prima dell’apertura dell’audizione di mercoledì ha ammesso che, “come tutti sappiamo, sia che approviamo o non approviamo una AUMF, le conseguenze su ciò che sta accadendo sul campo [in Iraq e in Siria] saranno pari a zero”.
Questa situazione, più appropriata a una farsa che a un’audizione del Senato su questioni di guerra, non giunge esattamente inaspettata, ma è la logica conseguenza del deterioramento del clima democratico negli USA a cui si è assistito nell’ultimo decennio.Per comprendere lo stato avanzato di questo processo basti pensare al fatto che lo stesso presidente Bush si era sentito in dovere di chiedere autorizzazioni preventive al Congresso prima di lanciare le invasioni di Afghanistan e Iraq. L’amministrazione repubblicana, sia pure basando le proprie istanze su menzogne e inganni, operava cioè in uno scenario nel quale appariva necessario quanto meno il rispetto delle formalità costituzionali.
La liquidazione anche di queste apparenze rappresenta invece l’aspetto cruciale dell’amministrazione Obama, durante la quale si è assistito a un’accelerazione dello smantellamento delle garanzie costituzionali negli Stati Uniti. Nell’America di Obama, infatti, il presidente decide in maniera segreta e senza passare attraverso alcun procedimento giudiziario l’assassinio mirato di sospettati di terrorismo - cittadini USA inclusi - in qualsiasi parte del pianeta.
Allo stesso modo, sul fronte domestico è ormai all’ordine del giorno la militarizzazione delle forze di polizia che, a loro volta, hanno facoltà di uccidere impunemente cittadini disarmati e inoffensivi. Le manifestazioni pacifiche di protesta contro gli abusi del governo o delle stesse forze di polizia sono accolte spesso con metodi repressivi degni di una dittatura, mentre virtualmente ogni abitante della terra è sottoposto alla sorveglianza continua del governo americano.
Una simile deriva è determinata dal declino irreversibile della posizione degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale, per far fronte alla quale la classe dirigente americana è costretta a ricorrere a metodi sempre più autoritari che sarebbero impossibili da mettere in atto rispettando le norme della democrazia.
Per quanto riguarda l’autorizzazione all’uso della forza militare in discussione, la sua approvazione appare oggi incerta, non perché membri del Congresso o rappresentanti dei media “mainstream” abbiano intenzione di sollevare un dibattito pubblico attorno al senso del provvedimento nell’ambito della deriva anti-democratica negli Stati Uniti.
La ragione dell’incertezza sulla sorte dell’AUMF richiesta da Obama è da ricercare piuttosto nelle opinioni contrastanti espresse da repubblicani e democratici, con i primi che ritengono l’autorizzazione troppo restrittiva dei poteri di guerra attribuiti al presidente e i secondi che, al contrario, la valutano eccessivamente sbilanciata a favore della Casa Bianca.
Anche coloro che criticano l’AUMF, in ogni caso, non sono contrari alle avventure belliche dell’imperialismo USA, bensì temono il radicalizzarsi dell’opposizione nel paese a eventuali nuove guerre su vasta scala come in Afghanistan e in Iraq. Inoltre, una parte dell’establishmenti di Washington ritiene con ogni probabilità che le risorse militari americane debbano essere utilizzate in conflitti strategicamente più importanti nel prossimo futuro, viste le crescenti tensioni con Russia e Cina.
La discussione sull’AUMF mette infine in luce ancora una volta l’indescrivibile ipocrisia del governo americano e, parallelamente, il gigantesco inganno della “guerra al terrore”. L’amministrazione Obama è infatti impegnata a chiedere l’approvazione di un provvedimento che assicurerebbe poteri di guerra pressoché illimitati, ancorché sostanzialmente già a disposizione del presidente, sfruttando la minaccia di un organismo - l’ISIS - che appare a tutti gli effetti come una creatura degli stessi Stati Uniti e dei loro alleati nel mondo arabo.
Che l’ISIS sia o sia stato uno strumento della politica estera americana oltre a risultare evidente dai fatti di questi ultimi anni è confermato in maniera più o meno diretta da vari esponenti dell’establishment di Washington.Tra i più espliciti in questo senso era stato qualche mese fa il generale Wesley Clark, ex comandante delle forze alleate nella guerra in Kosovo, ex comandante supremo della NATO in Europa e per un breve periodo candidato alla presidenza per i democratici nel 2004. Secondo Clark, l’ISIS è stato creato e finanziato precisamente dai “più stretti alleati” degli Stati Uniti, al fine di “combattere Hezbollah” in Libano.
Gli alleati a cui accennava Clark sono le monarchie assolute del Golfo Persico, in prima fila nel fornire denaro e armi a formazioni jihadiste anche e soprattutto per rovesciare Bashar al- Assad in Siria, ma la sua ammissione tende a minimizzare, se non a occultare del tutto, il ruolo svolto dagli Stati Uniti in queste operazioni.
Un simile atteggiamento lo aveva tenuto poco dopo le dichiarazioni di Clark anche lo stesso generale Dempsey, il quale in un’audizione al Congresso aveva ammesso che i principali alleati arabi degli USA avevano finanziato l’ISIS.
A ottobre dello scorso anno, poi, il vice-presidente americano, Joe Biden, era finito al centro di una polemica per avere detto la pura verità sullo Stato Islamico, cioè che paesi come Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi avevano “riversato centinaia di milioni di dollari e migliaia di tonnellate di armi su chiunque combatteva Assad”, inclusi “elementi estremisti” come l’ISIS. Gli Stati Uniti, però, non sono stati spettatori innocenti di questo crimine, ma attori protagonisti.
Per qualcuno in Medio Oriente, quella tra Stati Uniti e ISIS sarebbe tuttora una vera collaborazione clandestina, mascherata dietro a una guerra inefficace. Nelle scorse settimane, vari giornali hanno riportato ad esempio le denunce di politici iracheni in relazione a presunti lanci di carichi di armi da parte di velivoli americani in zone controllate dall’ISIS. Per Washington, questi episodi sarebbero dovuti a errori, poiché le armi finite nelle mani dell’ISIS erano destinate alle milizie alleate nella guerra contro i jihadisti.
I sospetti restano tuttavia molto forti e accentuati oltretutto dalla piega che sembra essere sul punto di prendere la guerra in corso, soprattutto in Siria. Di ciò si è avuta indicazione proprio nell’audizione di Kerry, Carter e Dempsey nella giornata di mercoledì. A un certo punto della discussione, il senatore Corker ha chiesto se l’autorizzazione all’uso della forza militare presentata da Obama potrebbe includere la difesa dei “ribelli” siriani addestrati dagli Stati Uniti nel caso finissero sotto attacco delle forze del regime di Damasco.Il generale Dempsey ha escluso questa eventualità, ma quando Corker ha avanzato l’ipotesi di aggiungere tale clausola all’AUMF, nessuno dei tre ha mosso una qualche obiezione. Anzi, lo stesso Dempsey e il segretario alla Difesa Carter, nel discutere del programma di addestramento di “ribelli affidabili” che sta per essere lanciato in Giordania e in Turchia - ufficialmente per preparare una forza efficace da contrapporre all’ISIS - hanno affermato che una condizione fondamentale per la sua riuscita sarà appunto il sostegno militare che a essi dovrà essere fornito dagli Stati Uniti.
Con la giustificazione di dovere difendere i “ribelli” da Assad, perciò, gli USA potrebbero a breve effettuare bombardamenti contro le forze governative oppure imporre una no-fly zone nel nord della Siria, cambiando perciò di fatto l’obiettivo del coinvolgimento militare, rappresentato fin dall’inizio, anche se non ammesso apertamente, proprio dal regime di Damasco. Il tutto grazie all’opportuna minaccia rappresentata dallo Stato Islamico.