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di Michele Paris
L’avventura bellica degli Stati Uniti in Afghanistan non finirà alla fine di quest’anno come promesso qualche mese fa dal presidente Obama ma proseguirà, per il momento nel solo 2015, con “missioni” di ampia portata in appoggio alle forze armate indigene contro la resistenza talebana e di altri gruppi di “militanti” islamici. La fine delle operazioni di combattimento per le forze di occupazione americane e occidentali in genere sarebbe dovuta avvenire con l’inizio del nuovo anno, quando, in virtù di un accordo firmato recentemente dal nuovo presidente afgano, un contingente agli ordini del Pentagono avrebbe avuto i soli incarichi di portare a termine operazioni mirate contro i membri di al-Qaeda rimasti nel paese centro-asiatico e di contribuire all’addestramento dell’esercito locale.
Secondo quanto scritto nel fine settimana dal New York Times, invece, la Casa Bianca nelle scorse settimane avrebbe autorizzato un impegno ben maggiore per i quasi 10 mila soldati USA che rimarranno in Afghanistan a partire dal primo gennaio 2015. I militari potranno partecipare a operazioni contro i Talebani se questi minacceranno lo stesso contingente USA o il governo afgano. Non solo, la nuova “autorizzazione consentirà a jet, bombardieri e droni americani di appoggiare le truppe afgane durante le missioni di combattimento”.
La decisione altera così in maniera sostanziale la natura della presenza degli Stati Uniti in Afghanistan nel prossimo futuro, visto che la sola autorizzazzione relativa a operazioni contro i rimanenti affiliati ad al-Qaeda, se presa alla lettera, si sarebbe risolta con ogni probabilità in modeste attività militari.
Per stessa ammissione del governo e dei vertici militari USA, in Afghanistan sono infatti rimaste al massimo poche decine di jihadisti facenti parte dell’organizzazione fondata da Osama bin Laden. Ad annunciare la precedente politica afgana di Washington era stato lo stesso Obama lo scorso maggio in un’apparizione pubblica nei giardini della Casa Bianca.
In quell’occasione, Obama intendeva avanzare le proprie credenziali di presidente impegnato a portare a termine una guerra ultra-decennale ormai impopolare, ma la svolta rivelata dal Times - avvenuta opportunamente dopo le elezioni di metà mandato - smentisce clamorosamente lo stesso annuncio e prospetta, come in molti sostenevano fuori dalle redazioni dei media “mainstream”, un coinvolgimento ben più profondo degli Stati Uniti nelle vicende afgane.
A livello ufficiale, alla fine del 2015 in Afghanistan dovrebbero comunque restare poco meno di 5 mila soldati USA, i quali scenderebbero poi a mille entro la fine del 2016, con il compito principale di difendere la rappresentanza diplomatica americana a Kabul e la base militare di Bagram. Questa previsione è tuttavia da prendere con le molle, visto che, come conferma il cambiamento di strategia ordinato da Obama per il 2015, ulteriori modifiche potrebbero avvenire anche nei prossimi mesi.
A rendere ancora più inquietante la notizia del fine settimana, peraltro non confermata dal governo, il quotidiano newyorchese ha descritto la decisione come il risultato di profonde tensioni all’interno dell’amministrazione Obama. La promessa del presidente di “terminare” la guerra in Afghanistan si sarebbe cioè scontrata con le richieste del Pentagono di consentire alle “truppe americane di completare con successo le restanti missioni nel paese” occupato, vale a dire di continuare a operare a pieno regime contro l’opposizione armata al governo centrale.
Per i reporter del Times, la discussione sarebbe stata influenzata da quello che è avvenuto in Iraq a partire dalla scorsa primavera, con l’esercito indigeno - ugualmente addestrato dagli americani - scioltosi come neve al sole di fronte all’avanzata dello Stato Islamico (IS) e senza una presenza militare USA significativa per salvare il governo di Baghdad. In definitiva, al termine di questo “confronto” tra l’autorità civile e i vertici militari, questi ultimi “hanno ottenuto quello che volevano” riguardo all’Afghanistan.
Il continuo impiego delle forze statunitensi contro la resistenza dei Talebani è in ogni caso perfettamente in linea con i reali obiettivi della guerra in Afghanistan, al di là dei proclami ufficiali. Per quanto condannabili possano essere i metodi e l’ideologia degli “Studenti del Corano”, la loro battaglia è sempre stata quella di “liberare” l’Afghanistan dall’occupazione occidentale, senza alcuna agenda terroristica al di fuori dei confini di questo paese.
Con la dissoluzione di al-Qaeda in Afghanistan o il ripiegamento dei suoi membri verso altri paesi, la guerra e l’occupazione degli USA sono apparse a tutti non più come uno sforzo per combattere i responsabili degli attacchi dell’11 settembre ma come un impegno per respingere forze che intendono rovesciare un governo fantoccio al servizio dell’Occidente e che all’Occidente, ovvero a Washington, garantisce una presenza a tempo indeterminato in un’area strategicamente cruciale del globo.
Un altro fatto che ha influito sulla decisione di Obama riportata dal New York Times è infine l’ascesa alla presidenza di Ashraf Ghani, il nuovo burattino di Kabul succeduto a un Hamid Karzai che nella fase finale del suo ultimo mandato aveva assunto posizioni più critiche nei confronti degli Stati Uniti.
Il cambio di regime ai vertici dello stato afgano, avvenuto quest’anno sotto forma di controverse elezioni presidenziali, ha dunque favorito il ritorno a relazioni cordiali tra Washington e Kabul, tanto che sarebbe stato lo stesso Ghani a chiedere agli americani di continuare a combattere i Talebani anche nel 2015.
Ghani, inoltre, appena installato al potere aveva subito firmato l’accordo per mantenere sul territorio del suo paese un contigente americano di occupazione almeno per il prossimo decennio, dopo che Karzai si era rifiutato ostinatamente di ratificarlo nonostante lo avesse negoziato in prima persona.
La nuova amministrazione afgana, così come quella precedente, fonda d’altra parte il proprio potere e le proprie ricchezze su basi esilissime ed è ben consapevole che in caso di ritiro totale delle forze di occupazione USA la propria sorte potrebbe essere non molto differente da quella atroce riservata dai Talebani nel 1996 all’ex presidente filo-sovietico Mohammad Najibullah.
Quello che il comandante delle forze di occpazione in Afghanistan, generale John Campbell, ha definito come un cambiamento “dal giorno alla notte”, tra la presidenza Karzai e quella neonata di Ghani nei rapporti con gli USA, è apparso chiaro sempre nei giorni scorsi quando è emersa la notizia che il presidente ed ex funzionario della Banca Mondiale ha annullato il divieto imposto dal suo predecessore ai cosiddetti “raid notturni” delle forze speciali americane.
Queste operazioni risultano particolarmente odiose per i cittadini afgani perché comportano la violazione delle loro abitazioni, nelle quali i reparti speciali degli Stati Uniti fanno irruzione per dare la caccia a presunti terroristi, uccidendo frequentemente donne, bambini e civili innocenti.
La pratica era stata in buona parte vietata da Karzai nel 2013, sia pure consentita se condotta esclusivamente da soldati afgani, i quali non avevano però la possibilità di chiedere nel corso delle operazioni notturne l’intervento del supporto aereo americano. Ciò tornerà invece a essere possibile nel 2015 grazie anche alla decisione di Obama di autorizzare il coinvolgimento delle truppe USA nelle operazioni tout court contro i Talebani.
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di Emanuela Muzzi
LONDRA. Se l’esito delle elezioni politiche in Gran Bretagna a maggio del prossimo anno è ancora del tutto incerto, quello che per il momento è sicuro è che la vittoria a breve termine è di chi gode dell’attenzione dei media. Mentre la notte del 20 Novembre sotto il Parlamento si accendevano le candele per la veglia di Labour e sindacati contro la legge Tory per la privatizzazione del Sistema sanitaria (NHS), all’angolo opposto del Parlamento le telecamere e i flash erano tutti per il parlamentare defezionista.
Uno solo, che ha voltato le spalle ai Conservatives per sposare i nazional-razzisti dell’UKIP e trovare così il suo momento di gloria rilanciato a catena su scala internazionale. Non è un caso che il giorno dopo essere stato celebrato dai media, abbia vinto alle by-election, le elezioni locali di medio termine a Rochester, as sud est di Londra.
Risultato: la stampa britannica non ha dato spazio alla vittoria schiacciante del Labour alla Camera dei Comuni - con 241 a favore e 18 contrari - in supporto della legge-emendamento che ha bloccato la privatizzazione selvaggia introdotta lo scorso Aprile dall’ “Health and Social Care Act”.
Peccato perché il voto è un passo in avanti verso la tutela del malato e un freno al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) il trattato con cui l’Unione Europea svende i servizi pubblici alle compagnie private, come ad esempio, nel caso della sanità inglese, ai gruppi Virgin (Virgincare), Bopa, Care UK.
Il problema è che non solo i cronisti, in cerca di novità, stanno esaltando l’avanzata dell’estrema destra garantendo ai defezionari il volto in TV e in prima pagina, ma che i laburisti inseguono le notizie senza una strategia di partito: una leadership forte non avrebbe dovuto dare alcun peso alla vittoria del parlamentare voltagabbana e alla storiella del secondo seggio degli Indipendentisti a Westminster e avrebbe cercato invece una dignitosa copertura su giornali e TV della lotta del parlamentare Clive Efford per il voto anti-privatizzazione.
Avrebbe dovuto cantare vittoria sminuendo le squallide guerriglie tra razzisti e Tories antieuropei, cogliendo anzi l’occasione per evidenziarne le somiglianze ideologiche; avrebbe dovuto fare del voto di maggioranza sulla ‘bill’ di Efford (un parlamentare che che ha messo all’angolo Cameron sulla Sanità) un punto a favore in vista delle elezioni nazionali.
Il fatto che i leader del Labour Party non abbiano cavalcato l’onda positiva è uno dei sintomi evidenti che il partito, anche nelle sue ramificazioni sindacali ed associazioniste, non comunica con i media effectively. Gli stessi Labour, per voce del ministro delle finanze ombra, Ed Ball, hanno spostato il giorno dopo l’attenzione su un’altra proposta, pur giusta, di devolvere alla sanità gli incassi provenienti dalle multe pagate dalle banche in seguito alle operazioni illegali di manipolazione sui cambi internazionali.
Ma sembra che la proposta sia stata solo una manovra per coprire la gaffe di Emily Thornberry, il "sottosegretario ombra" alla giustizia che il giorno prima proprio da Rochster, dove si era recata a sostegno del partito nel giorno delle by-election, ha twittato la contestata foto di un furgone in attesa sotto un’abitazione dalla cui finestra pendono tre bandiere ‘English’ con la croce di San Giorgio subito recepita ed attaccata come foto anti-nazionalista e poi definita ‘irrispettosa’ dallo stesso Miliband.
La parlamentare avrebbe potuto invece pubblicare su twitter foto a sostegno dei Labour o, al limite, la foto delle centinaia di nurses, medici, chirurghi, sindacalisti, medici di famiglia, che in rappresentanza del National Health System hanno dormito al freddo sotto il Parlamento per salvare il diritto del cittadino alla salute. Ma quando si ragiona in termini di voti e seggi, il sarcasmo sul nemico prende il sopravvento: è uno degli indici che il partito, vuoi per la leadership di Miliband, vuoi per l’attacco dell’estrema destra, è allo sbando.
Adesso, che la Thornberry si sia dimessa è il male minore; il vero dramma è che il partito Labour nelle sue rappresentanze parlamentari d’opposizione non fa ombra alla maggioranza, ma è l’ombra di se stesso: un fantasma che insegue il lanternino delle telecamere, che casca nella trappola delle polemiche piazzate dai suoi nemici politici al posto e al momento giusto, senza promuovere ed imporre il valore di battaglie politiche e democratiche che pure la base del partito, e parte dei suoi parlamentari, sono ancora in grado di portare avanti.
La sanità pubblica, appunto, è un cavallo di battaglia di questa campagna elettorale. Si tratta di salvare non solo il diritto del cittadino alla sanità e alla cura, ma anche migliaia di posti di lavoro. Infatti per la prima volta i maggiori sindacati Unite, Unison e associazioni di categoria, oltre a medici e nurses, hanno protestato compatti a Westminster.
Certo, la bill-Efford ha ancora un ostacolo da superare alla Camera dei Lords. Se va male i malati inglesi bisognosi di cure dovranno prendersela con chi gestisce i servizi ‘outsourced’: speriamo che gli ospedali britannici, dopo il volo pindarico dell’efficienza gestita dai privati e l’accelerazione verso il profitto, non si schiantino al suolo come il vascello spaziale ‘Virgn Galactic’.
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di Michele Paris
Con la scadenza per trovare un accordo definitivo sul nucleare iraniano sempre più vicina, i paesi impegnati nel negoziato con la Repubblica Islamica sembrano essere ancora lontani dall’appianare tutte le divergenze emerse in oltre un decennio di dispute e in mesi di estenuanti trattative. Dopo una serie di incontri in varie capitali europee, anche il segretario di Stato americano, John Kerry, è giunto giovedì a Vienna per presenziare di persona a quelle che dovrebbero essere le fasi finali dei negoziati prima del termine fissato per lunedì prossimo.
L’ex senatore democratico aveva incontrato a Londra le proprie controparti di Gran Bretagna e Oman per poi raggiungere a Parigi i ministri degli Esteri francese e saudita. Il primo summit è stato cioè con governi relativamente aperti a un accordo equo, con il sultanato dell’Oman che lo scorso anno aveva svolto un ruolo decisivo nel raggiungimento di un’intesa provvisoria tra Washington e Teheran, mentre il secondo con rappresentanti di paesi che hanno al contrario assunto finora una posizione più intransigente.
Nella capitale austriaca le trattative tra le delegazioni dell’Iran e dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sono in corso dall’inizio della settimana nel tentativo di trovare un accordo o, quanto meno, un punto d’incontro che permetta di prorogare nuovamente le discussioni.
Il vertice in corso a Vienna è il culmine dell’accordo di Ginevra siglato tra le parti lo scorso anno ed entrato in vigore il 20 gennaio. L’accordo ad interim era stato poi prolungato per altri quattro mesi una volta preso atto dell’impossibilità di arrivare a un’intesa di ampio respiro entro la scadenza originaria del 20 luglio.
Le questioni più spinose sulle quali sarebbero arenate le trattative riguardano in particolare i tempi dell’eventuale revoca delle sanzioni economiche che gravano sull’Iran e le capacità di arricchimento che Teheran avrebbe facoltà di mantenere nel prossimo futuro per sviluppare un programma nucleare civile.
Secondo i media occidentali, l’atmosfera a Vienna non sarebbe tale da far prevedere un accordo entro il 24 novembre. Allo stesso tempo, nessuna delle parti sembra volere un crollo dei negoziati, così che la soluzione più probabile potrebbe essere un ulteriore prolungamento.
A Washington, l’appena nominato numero due del Dipartimento di Stato, il vice-consigliere del presidente per la sicurezza nazionale Anthony Blinken, ha definito l’intesa con l’Iran “non impossibile”, ma ha attribuito la responsabilità per il raggiungimento di essa interamente a Teheran.
Il successo, ha spiegato Blinken, “dipende totalmente dal fatto che l’Iran sia disposto a fare le mosse che convincano noi e i nostri partner che il suo programma [nucleare] ha fini esclusivamente pacifici. Al momento, tuttavia, non siamo ancora a questo punto”.
Che l’Iran abbia piani per lo sviluppo di un programma nucleare con fini diversi da quelli civili non vi è in realtà alcuna prova e, oltrettutto, la validità dei riscontri portati dai governi occidentali e da Israele per dimostrare l’esecuzione di test militari in passato è stata messa in dubbio da più parti.
La riuscita dei negoziati e il ristabilimento delle normali relazioni tra l’Iran e l’Occidente, così come il ritorno a tutti gli effetti di questo paese nei circuiti del capitalismo internazionale, non dipende se non in minima parte dalle scelte e dalle decisioni del governo di Teheran o, più precisamente, della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei.
L’eventuale fine dello scontro sulla questione del nucleare ha a che fare invece molto più con fattori strategici legati all’opportunità - principalmente per gli Stati Uniti e, in seconda battuta, dei loro alleati - di normalizzare i rapporti con Teheran al fine di facilitare il perseguimento degli interessi occidentali in Medio Oriente.
L’esito positivo delle discussioni, secondo gli osservatori, è legato anche alle decisioni dei vertici della Repubblica Islamica, nella misura cioè in cui la delegazione guidata dal ministro degli Esteri, il “moderato” Mohammad Javad Zarif, riuscirà a far digerire ai “falchi” in patria le concessioni imposte dall’Occidente in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni.
E le concessioni richieste è probabile che siano al limite della tollerabilità per Teheran, visto che il presidente della commissione parlamentare per il nucleare, Ebrahim Karkhaneh, in un’intervista rilasciata settimana scorsa all’agenzia di stampa iraniana Tasnim aveva accusato gli Stati Uniti di avere riportato i negoziati “indietro al livello zero”.
Karkhaneh si riferiva a un documento presentato dalla delegazione USA agli iraniani nel corso di un vertice in Oman ai primi di novembre, nel quale venivano elencate richieste impossibili da accettare, a cominciare dal numero e dalla qualità delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio da mantenere in funzione.
Oltre a ciò, gli Stati Uniti avrebbero sollevato altre questioni delicate, come la sospensione a “lungo termine” del controverso reattore di Arak per la produzione di uranio e la possiblità di eseguire ispezioni internazionali virtualmente “illimitate”, anche in installazioni militari.
L’amministrazione Obama, d’altra parte, è a sua volta esposta a forti pressioni per imporre i termini più duri possibili all’Iran, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani nelle recenti elezioni di metà mandato. Al Congresso sono infatti già in preparazione proposte di legge non per smantellare le sanzioni, bensì per insaprirle se Teheran non si piegherà ai diktat di Washington.
Un prolungamento dei negoziati potrebbe comunque soddisfare un po’ tutte le parti in causa, come ha confermato giovedì la Associated Press citando esponenti del governo USA ma anche di quello israeliano. Da un lato, la nuova maggioranza al Congresso guadagnerebbe tempo per impostare una politica più articolata nei confronti dell’Iran, sia pure mantenendo la consueta linea dura, mentre dall’altro si eviterebbero rotture diplomatiche in un frangente delicato, visto soprattutto che Washington e Teheran stanno di fatto collaborando nella guerra in corso allo Stato Islamico (ISIS) in Iraq.
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di Michele Paris
L’unica modestissima proposta di “riforma” dei programmi di sorveglianza condotti dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) in discussione negli Stati Uniti è morta questa settimana al Congresso di Washington dopo che il Senato ha impedito l’approdo in aula per il voto al cosiddetto USA Freedom Act. Il provvedimento era stato unanimemente definito “di ampia portata” dalla stampa d’oltreoceano e ai suoi sostenitori sono mancati appena due voti per raggiungere i 60 necessari al superamento di un ostacolo procedurale detto “filibuster”.
A votare a favore dello USA Freedom Act sono stati quasi tutti i democratici con l’aggiunta di quattro repubblicani, tra cui uno dei possibili candidati alla presidenza nel 2016, il senatore del Texas Ted Cruz. Le maggiori recriminazioni si sono concentrate su due senatori che sembravano dover sostenere la legge, il democratico della Florida Bill Nelson - unico del suo partito a votare contro - e il repubblicano del Kentucky Rand Paul, stella del movimento libertario che ha correttamente giudicato l’iniziativa non abbastanza incisiva per porre un freno alle intercettazioni della NSA.
La legge appena bocciata intendeva portare fondamentalmente tre modifiche alle modalità con cui la NSA ha facoltà di raccogliere i “metadati” telefonici degli americani. In primo luogo, le informazioni non avrebbero dovuto più essere custodite direttamente dalla NSA ma sarebbero state conservate dalle compagnie telefoniche per un periodo non diverso da quello attuale, generalmente 18 mesi. La stessa agenzia, inoltre, per analizzare i metadati avrebbe dovuto presentare specifiche richieste per ogni singola intercettazione al cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale peraltro ha finora sempre approvato le istanze del governo salvo in casi più unici che rari.
La legge prevedeva poi la creazione di una sorta di avvocato difensore dei destinatari dei provvedimenti di intercettazione nel corso delle udienze del FISC, ma non la presenza di questi ultimi. Attualmente, le udienze avvengono in totale segretezza e l’unica parte rappresentata è quella del governo.
Infine, le sentenze del FISC avrebbero dovuto essere rese pubbliche almeno in parte. Quest’ultima prescrizione era comunque di fatto vanificata da un’eccezione prevista nel caso la pubblicazione delle sentenze fosse stata giudicata rischiosa per la sicurezza nazionale.
La portata limitata della “riforma” presentata dal senatore democratico del Vermont e presidente della commissione Giustizia, Patrick Leahy, era dunque evidente. Non solo la NSA avrebbe continuato ad avere accesso ai dati telefonici degli americani, sia pure passando da un tribunale che rappresenta una parodia della giustizia, ma nulla sarebbe cambiato in merito allo stesso programma di sorveglianza relativo agli utenti stranieri o alle numerose altre operazioni illegali che vengono condotte negli USA e nel resto del mondo, a cominciare dal controllo del traffico sul web.
Oltretutto, anche con l’approvazione dello USA Freedom Act, la NSA avrebbe potuto continuare ad ascoltare liberamente le tefonate degli americani senza il permesso del FISC nel caso questi ultimi avessero comunicato con cittadini di altri paesi presi di mira dalle intercettazioni. Il senatore Leahy ha comunque criticato aspramente i repubblicani per avere affossato il provvedimento, accusandoli di avere agitato lo spettro di possibili attacchi terroristici se fosse stata implementata una qualsiasi limitazione delle facoltà della NSA.
Con un misto di ignoranza e disonestà, un altro presunto candidato alla Casa Bianca per i repubblicani - il senatore della Florida Marco Rubio - ha collegato la legge al rischio di attentati in territorio americano da parte di membri dello Stato Islamico (ISIS). “Dio non voglia che domani ci dovessimo svegliare con la notizia che un membro dell’ISIS si trova negli Stati Uniti”, ha avvertito Rubio, aggiungendo che, “se la NSA non potrà intercettare le telefonate”, i piani terroristici di qualche fantomatico jihadista potrebbero essere portati a termine senza ostacoli.
Se ciò dovesse avverarsi, ha sostenuto poi il senatore cubano-americano, “la prima domanda da fare sarebbe: perché non ne eravamo al corrente ?”. Pur riferendosi implicitamente agli attacchi dell’11 settembre 2001, quando la NSA, per quanto è dato sapere, non aveva i poteri di sorveglianza attuali, Rubio, legato mani e piedi ai mafiosi della FNCA di Miami, ha ovviamente evitato di spiegare come il World Trade Center e il Pentagono abbiano potuto essere colpiti quando l’amministrazione Bush aveva a disposizione informazioni di intelligence che mettevano in guardia da attacchi terroristici con aerei dirottati.
La minaccia dell’ISIS da cui hanno messo in guardia i senatori repubblicani era stata citata alla vigilia del voto anche da due ex membri dell’amministrazione Bush, l’ex ministro della Giustizia Michael Mukasey e l’ex direttore della CIA Michael Hayden, i quali erano intervenuti firmando un articolo sul Wall Street Journal dal titolo: “La riforma della NSA che solo l’ISIS potrebbe apprezzare”.
Il riferimento all’ISIS ha così trovato spazio sui media americani anche se appare semplicemente assurdo, se non altro perché lo USA Freedom Act, come già ricordato, non avrebbe intaccato la possibilità della NSA di condurre le proprie operazioni all’estero.
Lo stop alla legge è stato definito uno schiaffo al presidente Obama, il quale ne aveva raccomandato l’approvazione nonostante l’ostinata difesa da parte della sua amministrazione dei programmi illegali di sorveglianza rivelati da Edward Snowden.
Oltre al Presidente, anche le principali compagnie di telecomunicazioni avevano sostenuto il provvedimento, aggiungendo perciò ulteriori dubbi all’efficacia di quest’ultimo. In realtà, la “riforma” della NSA sarebbe servita alla Casa Bianca e ai democratici come schermo per consentire la sostanziale prosecuzione dei programmi illegali, pur dando l’apparenza del cambiamento.
Anche per questa ragione il Partito Democratico si era compattato sulla legge in discussione, con i “falchi” della sicurezza nazionale - come la presidente della commissione del Senato per i Servizi Segreti, Dianne Feinstein - e quelli “liberal”, oppositori nominali della NSA, che hanno votato a favore del provvedimento malgrado le perplessità per il fatto che, rispettivamente, fosse considerata troppo severa o troppo poco incisiva.
I senatori “liberal”, poi, hanno garantito il loro voto favorevole anche se la legge era stata sensibilmente indebolita rispetto al progetto iniziale, spiegando che essa avrebbe potuto rappresentare il primo passo verso una riforma complessiva, quanto irrealizzabile, dei programmi della NSA per ristabilire i principi costituzionali negli Stati Uniti.
Qualsiasi “riforma” è destinata invece a rimanere lontano dall’aula nel prossimo futuro, visto che da gennaio il Senato, come già la Camera dei Rappresentanti, sarà a maggioranza repubblicana. La discussione al Congresso sull’argomento NSA riemergerà però nei prossimi mesi, visto che l’autorizzazione alla raccolta delle informazioni telefoniche a tappeto - basata sul dettato del famigerato Patriot Act - scade nel mese di giugno e, per proseguire, dovrà essere prorogata con un voto del Congresso.
Anche se potrebbe esserci qualche scaramuccia tra i repubblicani di tendenze libertarie, che vedono con estremo sospetto l’espansione di qualsiasi prerogativa del governo, e quelli “mainstream”, il rinnovo dell’autorizzazione dei programmi illegali della NSA non dovrebbe incontrare particolari ostacoli.
A oltre un anno dalle prime esplosive rivelazioni di Snowden, che hanno mostrato la rapida edificazione delle fondamenta di uno stato di polizia negli Stati Uniti, la classe dirigente americana non è stata dunque in grado di assicurare nemmeno una minima riduzione dei poteri assegnati a un apparato della sicurezza nazionale totalmente fuori controllo.
Dell’impegno per la difesa dei più fondamentali diritti costituzionali non vi è d’altra parte più traccia da tempo a Washington, dove i rappresentanti di una ristretta oligarchia difendono strenuamente politiche anti-democratiche rivolte contro i propri nemici: non il terrorismo internazionale bensì la grande maggioranza della popolazione americana.
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di Mario Lombardo
Di fronte all’offensiva americana volta a contenere l’espansione del proprio paese, il presidente cinese Xi Jinping è stato protagonista nei giorni scorsi di una serie di annunci e discorsi - durante e a margine degli appuntamenti internazionali del G-20 e dell’APEC - che hanno chiarito la strategia di Pechino per cercare di rompere l’accerchiamento in cui rischia di trovarsi la futura prima economia del pianeta.
Anche se in maniera indiretta, il leader del Partito Comunista Cinese ha in particolare risposto al presidente Obama con un’apparizione al Parlamento australiano un paio di giorno dopo l’intervento a Brisbane del collega americano.
Il messaggio di Xi è stato sostanzialmente rassicurante nei confronti dell’Australia, prospettando le occasioni a disposizione della borghesia indigena se il paese dovesse decidere di costruire una partership più solida con Pechino. “Un ambiente domestico armonico e stabile” assieme a “un ambiente internazionale pacifico” è quanto di cui ha bisogno la Cina, ha spiegato Xi, promettendo che il suo paese “non crescerà mai a spese degli altri”. Al contrario, il presidente cinese ha lanciato una dura critica a Stati Uniti e Giappone, sia pure senza nominarli, sostenendo che “i paesi che perseguono politiche bellicose sono destinati a morire” e a “sparire dalla storia”.
Cina e Australia avrebbero inoltre “tutte le ragioni per andare al di là delle loro relazioni economiche”, in modo da diventare “partner strategici che hanno una visione univoca e inseguono obiettivi comuni”. L’Australia, al contrario di USA e Giappone, non ha d’altra parte “problemi storici” con la Cina e anche per questo i due paesi possono essere “vicini che convivono in armonia”.
Xi ha comunque avvertito che la Cina non transigerà sui suoi interessi fondamentali, con un chiaro riferimento alla questione di Taiwan e alle dispute territoriali con vari paesi nel Mar Cinese Orientale e Meridionale. Le controversie con i propri vicini, in ogni caso, “possono essere risolte pacificamente” come Pechino ha già fatto in passato.
La leva principale del discorso di Xi a Canberra è stata rappresentata però dall’economia, visto che la Cina è il primo partner commerciale dell’Australia. Il presidente cinese non è apparso cioè interessato a lanciare velate minacce alla classe dirigente australiana per avere in sostanza assecondato gli Stati Uniti nei preparativi di un possibile conflitto con Pechino.
Anzi, Xi ha prospettato un futuro fatto di relazioni economiche ancora più solide, con la Cina che continuerà ad acquistare materie prime e altri prodotti dall’Australia per centinaia di miliardi di dollari, mentre investirà massicciamente in questo paese.
L’evoluzione delle relazioni bilaterali tra Pechino e Canberra auspicata da Xi comporterebbe tuttavia una drastica e delicatissima modifica degli orientamenti strategici dell’Australia, la quale dovrebbe di fatto rinunciare all’allineamento incondizionato con gli Stati Uniti, assicurato almeno dagli ultimi due governi laburista e conservatore.
Come ha spiegato un commento pubblicato martedì dal quotidiano di Melbourne The Age, “la vicinanza strategica proposta [da Xi] metterebbe l’Australia in una posizione di compromesso, potenzialmente insostenibile, tra l’essere un partner militare e geografico cruciale per gli Stati Uniti nel loro riassetto verso la regione Asia-Pacifico… e il condividere interessi strategici con la Cina che vanno contro gli USA”.
In definitiva, Xi ha sfruttato e intende continuare a sfruttare a proprio vantaggio il dilemma che attraversa la classe dirigente e il business australiano, tra l’essere appunto una pedina di importanza vitale nella strategia americana in Asia e lo sviluppare lucrosi rapporti commerciali con il gigante cinese.
Un dilemma che scaturisce precisamente dall’impossibilità nel medio o lungo periodo di mantenere una posizione equidistante tra Washington e Pechino, poiché la strategia asiatica inaugurata dall’amministrazione Obama fin dal 2009 non ammette vie di mezzo, così come non ammette la crescita indipendente della Cina e il perseguimento, da parte di quest’ultima, di politiche da grande potenza che minaccino la supremazia USA in un’area fondamentale del pianeta.
L’identica incertezza sul futuro da dare agli orientamenti del proprio paese interessa non solo la classe dirigente australiana ma anche quelle di molti paesi dell’Estremo Oriente - come ad esempio le Filippine, l’Indonesia, la Thailandia o lo stesso Giappone - che vedono crescere esponenzialmente le proprie relazioni commerciali con la Cina pur conservando alleanze politiche o militari con gli Stati Uniti.
Pechino, d’altra parte, non potendo competere militarmente con Washington, offre incentivi economici spesso molto difficili da respingere. D’altro canto, gli USA cercano di intensificare soprattutto la cooperazione militare anti-cinese con molti paesi, dal momento che non hanno alcuna possibilità di tenere il passo di Pechino sul fronte economico, essendo anche l’inarrestabile declino della potenza economica americana ciò che sta alla base dell’aggressività evidenziata in Asia orientale.
Per la Cina, dunque, la speranza è che l’intensificazione dei rapporti commerciali con i propri vicini possa nel prossimo futuro minare le partnership stabilite dagli Stati Uniti con paesi come l’Australia, i quali vedrebbero così a rischio i propri interessi, sempre più legati a quelli di Pechino, appoggiando Washington in un eventuale conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta.
Che la strategia cinese possa raggiungere il proprio scopo pacificamente è tutto da vedere. Infatti, gli USA intendono contenere con ogni mezzo possibile proprio la crescente influenza di Pechino, soprattutto sul fronte economico, e hanno già mostrato di essere pronti a scatenare una guerra rovinosa per difendere i loro interessi strategici.
Ad ogni modo, per il momento la scommessa australiana sembra essere quella di provare a bilanciare l’asservimento agli Stati Uniti - mostrato in più occasioni negli ultimi mesi dal primo ministro, Tony Abbott - con la possibilità di trarre i maggiori profitti possibili dalle relazioni con la Cina.
Anche in questo senso è da considerare il Trattato di Libero Scambio firmato tra i due paesi nei giorni scorsi dopo anni di negoziati. Secondo quanto sottoscritto da Pechino e Canberra, le tariffe doganali sui prodotti minerari e agricoli australiani esportati verso la Cina verranno abolite nei prossimi anni. Le aziende australiane dei servizi vedranno poi aprirsi le porte del mercato cinese, mentre quelle cinesi - ma solo del settore privato - potranno investire in Australia fino a circa un miliardo di dollari senza dover ottenere l’autorizzazione del governo di Canberra.
A dare la misura della futura integrazione delle due economie - a fronte dei fortissimi legami politici e militari che Canberra continua a intrattenere con gli Stati Uniti - basti infine citare un dato pubblicato dalla stampa in Australia nei giorni scorsi. Quando il trattato entrerà a pieno regime, cioè, la Cina dovrebbe giungere ad assorbire addirittura il 95% delle esportazioni complessive dell’industria australiana.