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di Mario Lombardo
Da qualche settimana il Libano è scosso da una serie di insolite manifestazioni di piazza, esplose a causa della mancata raccolta dei rifiuti e rapidamente trasformatesi in un movimento di protesta contro lo stato in cui versano le infrastrutture del paese mediorientale e, soprattutto, contro la paralisi e la corruzione di un sistema politico costruito su basi settarie.
Il movimento di protesta - battezzato “Til’at Reehitkum” (“Voi puzzate”) - è nato poco dopo la metà di luglio in seguito alla chiusura definitiva di una discarica che avrebbe dovuto essere dismessa parecchi anni fa. L’incapacità del governo di trovare un sito alternativo ha provocato l’accumulo dei rifiuti per le strade delle città libanesi, innescando una massiccia mobilitazione popolare che ha colto in parte di sorpresa gli stessi organizzatori del movimento.
In occasione di alcune manifestazioni a fine agosto, un certo numero di partecipanti, identificati da molti come provocatori, ha poi danneggiato edifici e automobili in un quartiere di Beirut, fornendo alle forze di polizia l’occasione per regire duramente. Gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati lanciati contro i manifestanti, con il bilancio degli scontri che ha registrato almeno un morto e più di trecento feriti.
Negli ultimi fine settimana del mese scorso e in questo inizio di settembre le dimostrazioni sono però continuate e i leader del movimento di protesta hanno lanciato un ultimatum alla classe politica libanese per implementare alcune loro richieste entro la mezzanotte di martedì, come le dimissioni del ministro dell’Ambiente, Mohammed al-Mashnouq, nuove elezioni parlamentari, il trasferimento alle municipalità del diritto di raccolta delle tasse sui rifiuti e l’apertura di un’indagine sulle violenze commesse dalla polizia contro i manifestanti.
Martedì, inoltre, la situazione in Libano si è fatta ancora più calda con l’occupazione da parte dei membri di “Til’at Reehitkum” del ministero dell’Ambiente, dove sono tornati a chiedere le dimissioni di Mashnouq. I leader del movimento hanno anche promesso nuove iniziative non meglio specificate se le loro rivendicazioni non verranno soddisfatte, anche se la polizia ha alla fine sgomberato l’edificio.
La reazione dei leader politici libanesi alle proteste è apparsa coerente con lo stato di immobilità del governo e delle altre istituzioni del paese. In molti hanno sollecitato un’azione rapida per rispondere alle richieste dei cittadini ma, al momento, l’unica promessa è stata quella di lanciare una qualche forma di dialogo tra i rappresentanti dei principali partiti politici per trovare una via d’uscita alla crisi.
Sempre martedì, il primo ministro sunnita, Tammam Salam, ha invitato il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, ad accelerare i preparativi per le discussioni che dovranno tenersi tra i leader dei vari blocchi parlamentari.
Il malcontento diffuso tra la popolazione libanese risulta ampiamente giustificato, visto che la vita quotidiana di milioni di persone in questo paese è segnata, tra l’altro, dalla scarsità di energia elettrica e di acqua potabile, da un sistema di trasporto pubblico e di infrastrutture fatiscente, da un livello di disoccupazione alle stelle.A tutto ciò vanno aggiunte le pressioni su un fragilissimo sistema causate dall’altissimo numero di profughi e rifugiati presenti in Libano. Un paese di circa 4 milioni di abitanti conta non solo 500 mila rifugiati palestinesi ma qualcosa come 1,3 milioni di siriani fuggiti dalla guerra in corso e costretti spesso a vivere in condizioni disastrose.
La crisi economica e sociale che travaglia il Libano è collegata a quella politica. A Beirut non c’è un presidente regolarmente eletto da oltre un anno, mentre il parlamento ha più volte esteso il proprio mandato, rinviando le elezioni a causa del mancato accordo tra i vari partiti su una nuova legge elettorale. Il governo, teoricamente di “unità nazionale”, fatica da parte sua a raggiungere un qualche consenso su praticamente ogni questione all’ordine del giorno, essendo diviso tra fazioni attestate su posizioni apparentemente inconciliabili.
Il panorama politico libanese è cioè in sostanza spaccato tra i sostenitori dell’alleanza “8 Marzo”, composta principalmente dai cristiani maroniti del Movimento Patriottico Libero e dagli sciiti di Hezbollah e Amal e quelli dell’alleanza “14 Marzo”, guidata dal Movimento il Futuro dell’ex premier sunnita Saad Hariri, assieme ai cristiani maroniti delle Forze Libanesi e ai falangisti del partito Kataeb. I primi sono appoggiati dall’Iran e dalla Siria, gli altri dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti.
Tutto il sistema politico libanese si regge così su un fragile equilibrio settario uscito dalla guerra civile (1975-1990), nel quale i cristiani e i musulmani si dividono equamente i seggi parlamentari. Inoltre, un accordo non scritto prevede che il presidente sia un membro della comunità cristiana maronita, il primo ministro un sunnita e lo “speaker” del parlamento uno sciita.
L’aspetto più sorprendente del movimento di protesta di queste settimane è stato proprio il superamento delle divisioni settarie imposte dalla classe politica libanese e dai loro sponsor esteri. Molti giornali hanno sottolineato come i dimostranti scesi nelle strade fossero di confessioni diverse e chiedessero frequentemente la fine dell’impalcatura settaria che, di fatto, soffoca le tensioni sociali e perpetua un sistema dominato da una ristretta classe politica e da una manciata di milionari e miliardari.
La stessa iniziativa quasi spontanea di occupare le piazze per protestare contro la mancata raccolta dei rifiuti e la passività del governo è apparsa decisamente insolita per il Libano, dove di solito gli eventi pubblici a cui partecipano migliaia o decine di migliaia di persone sono, appunto, quelli organizzati dai principali partiti politici su base confessionale.
Le vicende libanesi di questi giorni non possono tuttavia far dimenticare che ciò che accade in questo paese è quasi sempre legato alle manovre delle potenze regionali, impegnate in un conflitto per estendere la propria influenza in Medio Oriente che si riflette su Beirut.L’aggravarsi della crisi economica, sociale e politica che sta vivendo il Libano e che ha contribuito allo scoppio delle proteste è collegato in particolare alla guerra in Siria. In Libano, infatti, si è pericolosamente riprodotto lo scontro tra i sostenitori del regime di Assad e dell’opposizione armata sunnita. Un contingente di guerriglieri di Hezbollah è stato mandato a combattere in Siria a fianco delle forze governative, mentre le località a maggioranza sunnita, come la città settentrionale di Tripoli, fungono da centri di coordinamento per l’invio di armi e uomini destinati a sostenere le formazioni jihadiste anti-Assad.
Se pure la maggioranza dei manifestanti sembra auspicare cambiamenti sociali e politici sostanziali, la situazione del Libano appare dunque bloccata dagli eventi internazionali e dalla tradizionale influenza esercitata dai governi esteri su questo paese. Tanto più, poi, che gli obiettivi degli organizzatori della protesta continuano a essere di natura limitata.
Vista l’importanza strategica del “paese dei cedri”, infine, in molti si chiedono se le dimostrazioni in atto potranno essere in qualche modo manipolate per incidere sulle vicende siriane. Una destabilizzazione del Libano in un frangente storico così delicato produrrebbe cioè un aggravamento del conflitto interno, forzando ad esempio il ripiegamento di Hezbollah sul fronte domestico e privando Damasco di uno dei pilastri della resistenza contro i gruppi fondamentalisti sunniti che ha finora contribuito a impedire il crollo definitivo del regime di Assad.
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di Michele Paris
La presenza dell’imprenditore miliardario Donald Trump tra le fila degli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca e la sua rapida scalata negli indici di gradimento tra i potenziali elettori delle primarie, testimoniano dell’avanzato stato di degrado dell’intero sistema politico americano. Fino a poche settimane fa, quasi tutti i pretendenti alla nomination del Partito Repubblicano avevano deciso di ignorare l’ingombrante presenza di Trump, prevedendo che questo fenomeno si sarebbe sgonfiato da solo, come già avvenuto in passato.
Soprattutto il presunto favorito, Jeb Bush, scommetteva che gli eccessi di Trump avrebbero finito per beneficiare la sua candidatura, mostrando ai potenziali elettori quale sarebbe stata la scelta più ragionevole.
Al contrario, almeno per il momento, l’attenzione sempre maggiore dedicata dai media a Trump e la conseguente ascesa di quest’ultimo nei sondaggi hanno costretto i rivali repubblicani a prendere seriamente in considerazione la sua presenza e a pianificare attacchi diretti che hanno finito per contribuire alla legittimazione della sua candidatura e delle sue posizioni.
La prevedibile conseguenza della legittimazione di Trump e dell’impennata dei suoi indici di gradimento è stata così lo spostamento ancora più a destra del baricentro politico repubblicano, per quanto ardua potesse apparire una tale impresa alla luce dell’evoluzione di questo partito e di tutto il panorama politico USA nell’ultimo decennio.
Trump, ad ogni modo, ha deciso di puntare su una strategia volta a stimolare i sentimenti più retrogradi della base elettorale repubblicana che solitamente partecipa alle primarie. La questione dell’immigrazione clandestina e le paure generate nella popolazione dalla classe dirigente americana per la presunta “invasione” di stranieri senza documenti sono di gran lunga gli argomenti che dominano le apparizioni pubbliche del 69enne uomo d’affari.
Il livello del suo “progetto” politico e i toni che caratterizzano i suoi interventi erano subito emersi durante il lancio ufficiale della campagna elettorale, quando Trump aveva puntato il dito contro il governo messicano, accusato di esportare deliberatamente negli Stati Uniti soltanto “spacciatori e stupratori”.
Gli inaspettati consensi raccolti da Trump hanno così spinto gli altri candidati e l’establishment repubblicano a cercare un modo per mettere fuori gioco il rivale. Secondo alcuni media americani, ogni strategia messa in atto a questo scopo rischia però di trasformarsi in un boomerang. Gli attacchi rivolti a Trump provocano infatti reazioni che sembrano trasformarsi in un ulteriore aumento del gradimento tra una parte di elettori repubblicani disorientati e comunque infuriati con i vertici del partito.
Un'altra ipotesi dibattuta è quella di impedire a Trump di correre sotto le insegne repubblicane, ma una simile mossa potrebbe seriamente spaccare il partito e spingere il businessman a correre come indipendente per la Casa Bianca, favorendo il candidato del Partito Democratico.
Nel fine settimana, intanto, i tradizionali show televisivi americani di argomento politico hanno nuovamente avuto al centro della discussione la candidatura di Donald Trump, anche se quest’ultimo non è apparso su nessuno dei principali network.A parlarne sono stati alcuni dei candidati rivali, come il governatore del Wisconsin, Scott Walker, e quello del New Jersey, Chris Christie, considerati i più penalizzati dall’ascesa di Trump nei sondaggi. Lo stesso Jeb Bush è tornato a far riferimento al tema dell’immigrazione, bollando come “irrealistico” il piano di Trump di deportare gli 11 milioni di irregolari che vivono negli Stati Uniti e “praticamente impossibile” quello di costruire un muro di protezione lungo tutto il confine con il Messico.
Le motivazioni di Bush non sono peraltro di natura morale, bensì solo pratica, a conferma che la sostanza delle posizioni di Trump non sono poi così estreme ma riflettono in larga misura il sentire comune in casa repubblicana. Il fratello dell’ex presidente ha infatti sostenuto che la costruzione di un muro anti-immigrati risulterebbe troppo costosa, mentre la maggioranza dei clandestini attualmente non arriva più dal Messico ma dagli altri paesi centro-americani.
Un’altra proposta di Trump sulla questione dell’immigrazione ha confermato poi il carattere profondamente reazionario della sua candidatura e, al tempo stesso, come le idee da lui avanzate siano condivise da molti nel Partito Repubblicano.
Trump ha cioè auspicato la privazione della cittadinanza americana per i nati in territorio USA da genitori irregolari. Lo “ius soli” è garantito esplicitamente negli Stati Uniti dal 14esimo Emendamento alla Costituzione, adottato nel 1868 dopo la Guerra Civile per garantire agli schiavi liberati e ai loro discendenti la cittadinanza americana e tutti i diritti che ne derivano.
Dopo questa nuova sparata sull’immigrazione da parte di Trump vari candidati alla nomination repubblicana si sono detti favorevoli all’abrogazione del 14esimo Emendamento. Altri hanno invece respinto l’ipotesi, come Jeb Bush, il quale, per non rimanere staccato nella corsa verso destra in atto tra la schiera di aspiranti alla Casa Bianca, è intervenuto più volte sull’immigrazione, ricorrendo tra l’altro a termini dispregiativi per definire i figli degli irregolari nati in America.
Attorno alla questione dello “ius soli” è comunque risultata sufficientemente chiara la profonda ignoranza di Donald Trump sulle più importanti questioni di politica interna e internazionale. Un’attitudine che, peraltro, non gli ha impedito di salire nei sondaggi e di intercettare l’attenzione dei media. In un’intervista rilasciata a Fox News, Trump ha sostenuto che l’interpretazione tradizionalmente data al 14esimo Emendamento potrebbe non reggere all’esame di un tribunale, apparentemente non sapendo che proprio lo “ius soli” era stato riconosciuto dalla stessa Corte Suprema già nel 1898 in relazione a questa aggiunta alla Costituzione americana risalente a 147 anni fa.
Il fenomeno Trump non è in ogni caso da sottovalutare per gli altri candidati repubblicani, nonostante l’assurdità di molte uscite. Di questo se né è avuta la riprova un paio di settimane fa, quando a un suo comizio organizzato in uno stadio di Mobile, in Alabama, hanno partecipato più di 20 mila persone, cioè una presenza decisamente maggiore rispetto a quelle fatte registrare finora dai suoi rivali.
Al di là della resistenza della candidatura di Trump e dei risultati che riuscirà a far segnare nelle primarie, la questione centrale sollevata dalla sua presenza tra i contendenti alla nomination e il relativo successo di queste settimane sembra essere il fatto che le sue posizioni e la sua demagogia abbiano incontrato un’accoglienza positiva almeno in una parte del Partito Repubblicano e delle élite USA che a esso fanno riferimento.
Razzismo, misoginia, esaltazione del militarismo e dell’accumulazione di ricchezze enormi sono il dato costante delle uscite pubbliche di Donald Trump e il loro abbraccio da parte di molti tra repubblicani, media e commentatori deve suonare come un avvertimento circa la predisposizione di parte della classe dirigente USA verso i principi democratici.Ciò è risultato evidente in occasione del primo dibattito tra i candidati alla nomination repubblicana andato in scena ai primi di agosto, vero e proprio teatro in cui Trump ha potuto esibire il meglio - o il peggio - di sé stesso.
Uno spettacolo degradante, salutato dai media “mainstream” come un sano esercizio di democrazia, è stato altamente rivelatore non solo della natura del candidato Trump ma dello stato del sistema politico americano.
Una manciata di politici repubblicani ha potuto snocciolare le proprie proposte ultra-reazionarie di fronte a una folla attentamente selezionata e spesso in delirio per dichiarazioni che prospettano, tra l’altro, nuove sanguinose guerre, la distruzione di ciò che resta dello stato sociale negli USA e un ulteriore assalto ai diritti democratici.
In uno scenario segnato da una simile degenerazione politica, non è una sorpresa che a farla da padrone sia stato Donald Trump, le cui “proposte” non sono però in nessun modo eccezionali in ambito repubblicano, visto che a fare la differenza con gli altri candidati sono in gran parte solo i toni con cui vengono espresse piuttosto che i contenuti.
Il ruolo di Trump in queste fasi iniziali della campagna per le presidenziali del 2016, al di là delle sue effettive chances di successo, sembra essere così quello di mostrare nella maniera più cruda la vera faccia della classe politica e del capitalismo a stelle e strisce, totalmente incapaci di fornire soluzioni alla crisi in cui entrambi continuano a dibattersi disperatamente.
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di Antonio Rei
Per capire quanto sia ridicolo e ipocrita il modo in cui l'Europa sta affrontando il fenomeno delle migrazioni, conviene partire da quello che le migrazioni non sono. Innanzitutto, non sono una questione europea, ma una tendenza globale con flussi diramati ovunque sul pianeta. In secondo luogo, non sono un fatto nuovo né provvisorio. Proprio per questo è sbagliato parlare di “emergenza”: le migrazioni sono tutto fuorché impreviste.
Secondo i calcoli del Dipartimento delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali (UN-DESA), il fenomeno migratorio è in continua espansione a livello mondiale: nel 1990 coinvolgeva 154 milioni di persone, nel 2000 175 milioni, mentre nel 2013 il numero era salito a 232 milioni (il 3,2% della popolazione mondiale). Il tasso di crescita della pressione migratoria mondiale non è rimasto costante in questo periodo, ma è salito dall’1,2% del decennio 1990-2000 al 2,3% del decennio 2000-2010, per poi calare all’1,6% degli ultimi tre anni (2010-2013), a causa della crisi economica dei Paesi avanzati.
Le aree del mondo che ospitano il maggior numero di migranti sono l’Europa (72 milioni) e l’Asia (71 milioni), che insieme arrivano ai 2/3 del totale. Seguono l'America del Nord (53 milioni), l'Africa (19milioni), l'America latina (9 milioni) e l'Oceania (8 milioni). Più della metà dei migranti a livello mondiale (il 51%) risiede in dieci paesi: primi fra tutti gli Stati Uniti, che da soli ne ospitano 46 milioni, pari a circa il 20% del totale. Seguono Russia (11 milioni), Germania (9,8 milioni), Arabia Saudita (9,1 milioni), Emirati Arabi Uniti e Regno Unito (7,8 milioni), Francia e Canada (7,4 milioni), Australia e Spagna (6,5 milioni).
Per quanto riguarda i soli rifugiati, nel 2013 erano complessivamente 15,7 milioni, il 7% di tutti i migranti. Parliamo di 23mila persone al giorno, più del doppio rispetto al 1993, perché la crisi nell’area mediterranea e mediorientale ha prodotto una nuova crescita di questi flussi e delle domande di protezione. Quasi il 90% dei rifugiati è ospitato nei Paesi in via di sviluppo: l’Asia è il continente con il maggior numero di rifugiati residenti (10,4 milioni), seguita dall’Africa (2,9 milioni) e dall’Europa (1,5 milioni). A livello di Paesi, il Pakistan ha ospitato il maggior numero di rifugiati di tutto il mondo (1,6 milioni), seguito dall’Iran (0,9 milioni), dalla Germania (0,6 milioni) e dal Kenya (0,5 milioni). Più della metà di tutti i rifugiati del mondo (il 55%) proviene da appena cinque Paesi: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan.
Sempre nel 2013, ben 45,2 milioni di persone sono state sfollate a causa di persecuzioni, conflitti, violenze di vario genere e violazioni dei diritti umani. Le richieste di asilo sono state quasi un milione, di cui circa 70.400 indirizzate agli Usa, 64.500 alla Germania, 61.500 al Sud Africa e 55.100 alla Francia. Circa 21.300 domande di asilo sono state presentate in 72 Paesi da minori non accompagnati o separati, per lo più bambini afgani e somali.Di fronte a un quadro di questo tipo, appare immediatamente evidente l'assurdità della risposta del governo neofascista di Budapest, che ha scelto di erigere una barriera metallica lungo il confine con la Serbia.
Se mai ce ne fosse ancora bisogno, i 3mila profughi (di cui 700 bambini) arrivati in Ungheria nelle ultime 24 ore nonostante il muro dimostrano che la forza militare è utile nella gestione delle migrazioni quanto un bazooka per acchiappare farfalle. E non funziona neanche come deterrente, dal momento che chi scappa dal proprio Paese per sopravvivere non cambia certo idea di fronte alle trovate di edilizia squadrista prodotte da Orban e sodali.
Quanto al resto d'Europa, è ben più subdolo l'atteggiamento degli altri capi di Stato e di governo, che nei discorsi ufficiali parlano di “solidarietà” e di “rispetto della dignità umana”, ma poi si adoperano per scaricare il barile agli alleati più indifesi. D'altra parte, una volta il ruolo economico degli immigrati era evidente a tutti (si pensi al contributo della comunità turca alla prosperità tedesca), ma ora che l'austerità è diventata la stella polare delle politiche economiche europee, di immigrati da far lavorare in nero per abbattere il costo del lavoro nessuno ha più bisogno. Nell'epoca del direttorio Merkel-Schaeuble, il dumping sociale lo abbiamo già in casa.
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di Michele Paris
Secondo molti giornali americani, il vice-presidente americano, Joe Biden, sembra essere sul punto di annunciare la propria candidatura alla nomination democratica per la Casa Bianca. Una decisione in questo senso da parte dell’ex senatore del Delaware potrebbe mettere in difficoltà la chiara favorita in casa democratica, Hillary Clinton, la cui campagna elettorale a pochi mesi dall’inizio delle primarie continua a essere segnata da sospetti e inconvenienti vari.
L’entourage di Biden, lo staff della Casa Bianca e alcuni media americani nelle ultime settimane hanno diffuso indicazioni più o meno esplicite sulle intenzioni del vice di Obama di correre per la successione di quest’ultimo.
Egli stesso ha lasciato intendere di stare valutando seriamente questa ipotesi, garantendo che un annuncio pubblico sulla sua scelta avverrà entro la fine di settembre o l’inizio di ottobre. Nel fine settimana scorso, intanto, i giornali USA hanno alimentato le speculazioni sulla candidatura di Biden, dopo un suo incontro attentamente pubblicizzato con quella che viene identificata dai media come una sorta di “icona” liberal, ovvero la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren.
Quest’ultima ha da tempo respinto gli inviti a correre per la Casa Bianca ma il suo appoggio è considerato fondamentale per qualsiasi candidato che intenda fare appello alla base progressista del Partito Democratico. Per la stampa americana, perciò, l’incontro con Biden ha rappresentato un tentativo del vice-presidente di sondare l’attitudine della senatrice, a cui secondo alcuni sarebbe stata offerta un’eventuale candidatura alla vice-presidenza.
In molti articoli apparsi nei giorni scorsi sono stati descritti incontri di Biden con consulenti, finanziatori e leader democratici, alcuni dei quali hanno confidato che il vice-presidente sarebbe orientato a candidarsi anche se non appare ancora del tutto deciso. Questioni familiari potrebbero influire sulla decisione, soprattutto dopo la morte nel mese di maggio del figlio 46enne, Beau.
La probabile scelta di correre per la nomination è stata data come “molto probabile” dal Wall Street Journal. La CNN ha invece parlato di un pranzo tra Biden e Obama nella giornata di lunedì, durante il quale il presidente avrebbe dato la propria “benedizione” a una candidatura del suo numero due.
La posizione della Casa Bianca sulla questione appare particolarmente interessante, alla luce soprattutto della candidatura di Hillary Clinton che, in quanto ex segretario di Stato di Obama, sembrava avere in cassaforte l’appoggio del presidente.
Elogi di Biden e allusioni nemmeno troppo velate alle preferenze di Obama sono state registrate nel corso della conferenza stampa di lunedì scorso del portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest. Dopo avere definito la nomina di Biden a vice-presidente come la migliore decisione mai presa nella carriera politica di Obama, Earnest ha aggiunto di “non potere escludere la possibilità di un appoggio ufficiale [al suo vice] durante le primarie democratiche” da parte del presidente.
Secondo la testata on-line Politico, al contrario, Obama continuerebbe a vedere con maggiore interesse un successo di Hillary Clinton, come conferma la consegna della sua “vasta rete di raccolta fondi nelle mani delle Super PACs” legate alla ex first lady. Le “Super PACS” sono organizzazioni che fanno campagna elettorale a favore di un determinato candidato, pur non coordinando con esso le operazioni, e possono raccogliere quantità di denaro virtualmente illimitate.
Lo stesso pezzo pubblicato mercoledì da Politico descrive un Biden relativamente passivo e segnato dal grave lutto familiare. Ciononostante, il vice-presidente americano ha preso alcune iniziative che potrebbero prefigurare una candidatura. Ad esempio, qualche giorno fa è stata presentata la sua nuova direttrice delle comunicazioni, Kate Bedingfield, la quale vanta esperienze in campagne elettorali presidenziali, avendo lavorato per John Edwards nel 2008.
Il Washington Post ha poi rivelato un invito fatto da Biden ai principali finanziatori democratici per un incontro presso la residenza ufficiale del vice-presidente ai primi di settembre. Biden avrebbe anche intensificato i contatti personali con i ricchi sostenitori del suo partito, anche se per il momento in pochi avrebbero in previsione di abbandonare Hillary Clinton.A sorprendere gli osservatori della politica americana è soprattuto l’attesa da parte di Biden nell’annunciare la propria eventuale candidatura. Se all’inizio delle primarie mancano più di quattro mesi e oltre un anno alle elezioni presidenziali, per gli standard USA Biden è già in sensibile ritardo, considerando non solo che i suoi rivali stanno facendo attivamente campagna elettorale da molti mesi ma anche che la creazione di una macchina operativa efficiente richiede tempo e ingenti risorse da raccogliere tra finanziatori già in buona parte orientati a sborsare i propri dollari per Hillary.
Anche per questa ragione, forti dubbi sulla natura della possibile candidatura di Biden sono venuti a molti, a cominciare dai commentatori dei giornali filo-repubblicani. Il Wall Street Journal, ad esempio, è stato recentemente uno dei più espliciti nel collegare le voci che circolano attorno al vice-presidente alle difficoltà di Hillary Clinton.
Per il giornale di Rupert Murdoch, addirittura, l’amministrazione Obama è in possesso di informazioni classificate circa la serietà dell’indagine appena aperta dall’FBI sulla ex first lady e starebbe perciò coltivando la candidatura di Biden. Hillary è da mesi al centro di polemiche per avere utilizzato il proprio account di posta elettronica privato nella corrispondenza ufficiale durante la sua permanenza al Dipartimento di Stato. La legge americana prevede che i membri del gabinetto utilizzino invece un indirizzo di posta governativo ufficiale.
Al di là della più o meno seria indagine in corso e delle informazioni riservate in possesso o meno della Casa Bianca, appare tutt’altro che improbabile che la candidatura di Biden venga promossa come alternativa a quella di Hillary Clinton o appositamente per boicottare la corsa di quest’ultima.
Un ulteriore indizio in questo senso era emerso nel mese di luglio in seguito alla pubblicazione di una “esclusiva” del New York Times. Il pezzo, citando anonime fonti governative, rivelava l’apertura di un’indagine federale “criminale” ai danni di Hillary Clinton, sempre in merito alla vicenda delle e-mail del dipartimento di Stato.
Vista la quasi simbiosi tra questo giornale e l’amministrazione Obama, è probabile che la soffiata venisse proprio dall’interno del governo con l’intento di danneggiare le prospettive di Hillary. Com’è evidente, risulta impossibile scrutare le vere ragioni di un’iniziativa simile, visto anche che le rivelazioni potrebbero essere giunte da esponenti dell’apparato dello stato interessati a ostacolare l’elezione di un qualsiasi nuovo presidente democratico.
I sospetti di una manovra poco pulita sono apparsi comunque chiari alcuni giorni dopo l’uscita dell’articolo, quando il Times è stato costretto a ritrattare e ad ammettere che a carico di Hillary non vi era alcun procedimento di natura “criminale”.
Nonostante il netto vantaggio in termini di finanziamenti, sembrano essere d’altra parte in molti nel Partito Democratico a temere un nuovo fiasco della campagna della Clinton, sia per un aggravarsi dei suoi guai giudiziari sia per i sentimenti che essa e i suoi familiari suscitano in buona parte della popolazione americana.
Proprio mercoledì la Reuters ha pubblicato un sondaggio nel quale appare evidente come la maggioranza dei potenziali elettori veda Hillary Clinton decisamente carente sul fronte della trasparenza, dell’affidabilità e dell’onestà, tutte qualità al contrario riconosciute - almeno dagli intervistati - a Joe Biden.
Un eventuale naufragio dell’ex segretario di Stato dopo avere conquistato la nomination significherebbe consegnare la Casa Bianca ai repubblicani, mentre una débacle durante le primarie potrebbe far decollare la candidatura di Bernie Sanders.
Il senatore nominalmente indipendente del Vermont, talvolta auto-definitosi “democratico-socialista”, è finora l’unico vero sfidante di Hillary. In questi mesi ha ridotto il divario di consensi dalla favorita in vari stati e le sue apparizioni hanno spesso attratto parecchie migliaia di sostenitori, evidenziando il desiderio ampiamente diffuso negli USA di politiche rivolte ai lavoratori e alla classe media.
Nell’ipotesi ancora molto lontana di un successo nelle primarie di Sanders, i leader democratici temono che le sue posizioni troppo a “sinistra” possano rendere impossibile una vittoria contro qualsiasi candidato repubblicano.
Inoltre e forse soprattutto, la classe dirigente USA affiliata al Partito Democratico vede con estrema apprensione il formarsi di un movimento popolare attorno a una piattaforma autenticamente progressista. Uno scenario, quest’ultimo, che nemmeno Sanders si augura e che finirebbe per compromettere ancor più la residua legittimità politica di questo partito.
In questa prospettiva, la promozione della candidatura di Biden - forse anche contro la sua volontà - potrebbe offrire un’alternativa valida o, quanto meno, rappresenterebbe l’unica percorribile visti i tempi ristretti e la quasi totale assenza di personalità autorevoli e con un profilo nazionale in casa democratica.
Quel che è certo è che per la grande maggioranza degli elettori americani non esistono differenze significative su cui basare una scelta tra Hillary Clinton e Joe Biden, così come non ce ne sarebbero nel caso che l’uno o l’altro candidato finisca per insediarsi alla Casa Bianca nel gennaio del 2017.
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di Michele Paris
A pochi giorni dal voto del Congresso americano sull’accordo per il nucleare iraniano, raggiunto a Vienna lo scorso mese di luglio, i leader democratici e l’amministrazione Obama stanno producendo il massimo sforzo per raccogliere i consensi necessari all’interno della delegazione del loro partito e neutralizzare gli effetti di un voto contrario praticamente certo da parte della maggioranza repubblicana.
La Camera e il Senato di Washington dovrebbero esprimersi sull’intesa che ha sbloccato lo stallo attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica pochi giorni prima dell’ultima data utile, prevista per il 17 settembre.
L’accordo, siglato dagli USA e dagli altri paesi che formano il gruppo dei P5+1 (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), non è in realtà un trattato formale sul quale il Congresso USA è chiamato per legge a dare la propria approvazione. Il voto di settembre è invece la conseguenza di un compromesso raggiunto mesi fa tra il presidente Obama e la leadership repubblicana, fortemente contraria all’accordo e ben decisa a rivendicare il diritto di bocciarlo o ratificarlo in cambio dell’astensione al boicottaggio dello sforzo diplomatico promosso dalla Casa Bianca.
Anche se molti deputati e senatori non hanno ancora manifestato pubblicamente la propria intenzione di voto, i numeri sembrano al momento essere favorevoli a Obama e, quindi, alla sostanziale ratifica dell’accordo. L’approvazione del testo negoziato a Vienna difficilmente potrà però risparmiare un imbarazzo politico al presidente.
La maggioranza del Congresso respingerà infatti l’accordo sul nucleare, il quale verrà salvato soltanto dal veto di Obama o, tutt’al più, da un consolidato ostacolo procedurale previsto dalle regole del Senato (“filibuster”).
In quest’ultimo caso, l’imbarazzo per Obama sarebbe tutto sommato relativo, visto che formalmente non ci sarebbe un voto contrario, anche se saranno necessari almeno 41 voti su 100 a favore dell’accordo. Dal momento che tutti i senatori repubblicani dovrebbero votare contro e che i democratici occupano 46 seggi alla camera alta del Congresso, la Casa Bianca può permettersi di perdere cinque senatori e riuscire comunque a impedire la bocciatura dell’accordo.
Se i repubblicani dovessero invece spuntarla e far passare una risoluzione di condanna in entrambe le camere, privando il presidente dell’autorità di sospendere le sanzioni contro l’Iran approvate dal Congresso, come già ricordato Obama sarà costretto a ricorrere al veto e la Casa Bianca dovrà garantirsi l’appoggio di almeno 34 senatori per evitare che esso venga annullato con un voto dei due terzi dei membri di Camera e Senato.Finora, solo due senatori democratici hanno dichiarato pubblicamente di voler votare contro l’accordo: il probabile prossimo leader del partito al Senato, Chuck Schumer (New York), e Robert Menendez (New Jersey). Tra i favorevoli spicca invece il leader di minoranza, Harry Reid (Nevada), la cui decisione annunciata domenica scorsa potrebbe incoraggiare altri colleghi a seguirne l’esempio.
Come ha spiegato martedì il New York Times, la garanzia di un voto favorevole all’accordo data recentemente da senatori democratici provenienti da stati dominati politicamente dai repubblicani – come Joe Donnelly dell’Indiana o Claire McCaskill del Missouri – ha fatto aumentare sensibilmente le probabilità di un esito positivo per la Casa Bianca.
Le attenzioni sono concentrate in larga misura sul Senato, poiché alla Camera, dove non è prevista la clausola del “filibuster”, gli equilibri sembrano ormai consolidati. Qui, la netta maggioranza repubblicana assicurerà la bocciatura dell’accordo sul nucleare ma le possibilità di mettere assieme il numero di voti necessari a cancellare il veto presidenziale appaiono attualmente piuttosto scarse.
Ai repubblicani servirebbero 146 voti di deputati democratici, ma qualche mese fa ben 150 membri del partito di Obama alla Camera avevano sottoscritto una lettera aperta a favore dell’accordo. A tutt’oggi, da questo gruppo non si segnalano defezioni, mentre una manciata di altri deputati democratici ha nel frattempo dichiarato il proprio appoggio all’intesa raggiunta a Vienna.
I timori che i vertici democratici nutrono in vista del voto di metà settembre sono legati per lo più alla possibilità che i repubblicani possano collegare alla risoluzione relativa all’accordo con l’Iran alcuni emendamenti politicamente difficili da respingere, come la richiesta che Teheran riconosca Israele o che vengano liberati alcuni cittadini americani detenuti nelle carceri della Repubblica Islamica.
Eventuali emendamenti relativi a Israele risulterebbero problematici per vari senatori che tradizionalmente sono molto legati alla lobby ebraica, protagonista in questi mesi a Washington di un’accesa quanto dispendiosa campagna contro l’accordo.
Alcuni senatori ufficialmente ancora indecisi, perciò, sembrano intenzionati a chiedere rassicurazioni alla Casa Bianca, al fine di garantire la superiorità militare di Israele in Medio Oriente o la difesa dell’alleato da una fantomatica minaccia militare iraniana.Le prospettive di sopravvivenza dei frutti di una trattativa diplomatica internazionale durata anni non sono ad ogni modo legate soltanto alle manovre o ai calcoli aritmetici dei membri del Congresso americano. I contrasti osservabili a Washington su un accordo dalle potenziali conseguenze strategiche enormi riflettono piuttosto le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente d’oltreoceano circa l’approccio da tenere nei confronti dell’Iran e, ancor più, sulle prospettive del declinante imperialismo statunitense.
Se il Partito Repubblicano, spostato sempre più a destra, continua a rappresentare in larghissima misura i sentimenti irriducibilmente guerrafondai dell’apparato militare e dell’intelligence, nonché del mondo degli affari che ruota attorno ad esso, buona parte di quello democratico predilige un atteggiamento parzialmente diverso.
Questa inclinazione risulta prevalente all’interno dell’amministrazione Obama e, pur non escludendo in nessun modo il ricorso all’aggressione militare, almeno per quanto riguarda l’Iran prevede per ora il tentativo di percorrere la strada della diplomazia come opzione più idonea alla difesa degli interessi americani.
In questo modo, e senza comunque escludere minacce o la reintroduzione delle sanzioni una volta revocate, permette teoricamente di evitare nel breve periodo il ripetersi delle conseguenze destabilizzanti provocate dalle disastrose avventure belliche promosse dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio.