di Michele Paris

Migliaia di lavoratori delle raffinerie di petrolio americane sono in sciopero da ormai dieci giorni nell’ambito delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale, scaduto il primo febbraio scorso. La mobilitazione in questo settore cruciale è la prima negli Stati Uniti dal 1980 e, nonostante i tentativi di contenerla messi in atto dal sindacato del settore siderurgico (United Steelworkers, USW), si sta allargando in maniera relativamente rapida nelle decine di impianti sparsi per il paese.

A tutt’oggi risultano in sciopero più di 5 mila lavoratori in 11 delle 63 raffinerie che operano sul suolo americano. Le trattative sono affidate ai rappresentanti dello USW e della dirigenza di Royal Dutch Shell, a sua volta in rappresentanza dell’intera industria petrolifera che gestisce le raffinerie USA.

Le discussioni erano iniziate il 21 gennaio e non hanno dato finora alcun risultato per i 30 mila lavoratori interessati e costretti a fare i conti non solo con stipendi sempre meno pesanti e costi per pensione e assistenza sanitaria sempre più gravosi, ma anche con rischi estremamente elevati nello svolgimento delle loro mansioni.

Lo USW, nell’avviare lo sciopero, aveva deliberatamente limitato la protesta a nove raffinerie negli stati di California, Kentucky, Texas e Washington. La linea dura mantenuta da Shell ha però determinato la chiusura di altri due impianti nel fine settimana: quelli della BP a Whiting, nell’Indiana, e della stessa BP e di Husky Energy a Toledo, nell’Ohio.

In un altro tentativo di bloccare una mobilitazione generale, il sindacato ha inoltre dichiarato ufficialmente che le richieste avanzate non riguardano l’aspetto economico – per il quale avrebbero di cui lamentarsi praticamente tutti i lavoratori americani – bensì soltanto questioni legate alla sicurezza e alle condizioni di lavoro.

Finora, nonostante le dichiarazioni di disponiblità dell’industria petrolifera, non sembrano esserci state concessioni significative ai lavoratori. Anzi, Shell e le altre compagnie intendono utilizzare il rinnovo del contratto per ottenere ulteriori tagli del costo del lavoro.

Nel 2014, le cinque principali compagnie petrolifere - BP, Chevron, ConocoPhillips, ExxonMobil e Shell - hanno registrato complessivamente quasi 90 miliardi di profitti, di cui la gran parte sono finiti nel pagamento di dividendi agli azionisti o nel riacquisto di azioni proprie. Il crollo del prezzo del greggio non ha inoltre penalizzato le compagnie, visto che la nuova realtà ha permesso di aumentare i loro margini di profitto sulle operazioni di raffinamento.

La mobilitazione dei lavoratori americani in questo settore è stata seguita finora in maniera approssimativa dai principali giornali americani, ma la classe dirigente d’oltreoceano vede lo sciopero in atto con una certa preoccupazione.

Il solo fatto che l’ultima azione dei dipendenti delle raffinerie di petrolio sia stata messa in atto ben 35 anni fa testimonia delle tensioni sociali sempre più difficili da soffocare, sia pure in presenza di sindacati che cercano in tutti i modi di isolare le proteste dei lavoratori.

La stessa decisione dello USW di limitare lo sciopero a pochi impianti è il sintomo di come il sindacato non intenda esercitare particolari pressioni sulle compagnie petrolifere. Infatti, il livello attuale di mobilitazione comporta la perdita di appena il 13% delle capacità di raffinazione degli impianti americani, mentre la chiusura di tutti e 63 gli impianti determinerebbe un calo pari ai due terzi del totale. Nel 1980, lo sciopero in questo settore coinvolse 60 mila lavoratori e durò 14 settimane, prima di chiudersi con l’ottenimento di un aumento delle retribuzioni di oltre il 30%.

Azioni simili sono oggi bloccate principalmente dai sindacati per una ragione che ha a che fare con il ruolo che essi stessi sono ormai chiamati a svolgere, ovvero far digerire ai lavoratori i diktat dei vertici aziendali.

Se gli scioperi, che pure negli ultimi anni sono tornati ad animare la società americana, fossero accompagnati da una mobilitazione generale dei lavoratori dei vari settori industriali per riconquistare i diritti e il potere d’acquisto persi in tre decenni di sconfitte, i sindacati nella loro attuale forma non potrebbero che essere messi totalmente in discussione.

Il sistema preferito dai sindacati USA per soffocare le proteste dei lavoratori è quello di incanalarle in un’azione sterile subordinata al Partito Democratico. Non a caso, perciò, la Casa Bianca qualche giorno fa era intervenuta sullo sciopero nelle raffinerie, facendo appello alle compagnie e allo USW per implementare il “metodo ben testato della contrattazione collettiva” e porre fine alla mobilitazione.

Le compagnie petrolifere, in sostanza, dovrebbero fare alcune trascurabili concessioni ai lavoratori, così che il sindacato possa presentare il negoziato come una vittoria e terminare lo sciopero. Una radicalizzazione della protesta rischierebbe infatti di rinvigorire non solo le altre decine di migliaia di lavoratori delle raffinerie paralizzati dai sindacati, ma anche quelli di altri settori dell’industria, a cominciare da quello automobilistico, visto che la prossima estate scadrà il contratto collettivo di quasi 140 mila lavoratori di Chrysler, Ford e General Motors.

L’appoggio dell’amministrazione Obama allo USW e alla stipula del nuovo contratto nelle raffinerie suona comunque come un avvertimento per i lavoratori americani. Infatti, il presidente democratico ha favorito fin dal 2009 politiche di impoverimento di questi ultimi nell’ambito di una strategia volta a rendere competitiva l’industria USA e a convincere le grandi aziende a investire nuovamente nel settore manifatturiero del paese.

La Casa Bianca ha infine precedenti poco incoraggianti sul fronte dei rapporti con l’industria petrolifera. Ad esempio, solo l’anno scorso il governo americano aveva chiuso senza nessuna incriminazione le indagini sulla gravissima esplosione che nel 2010 costò la vita a 7 operai della raffineria di Anacortes, nello stato di Washington, di proprietà della compagnia texana Tesoro.

Proprio il problema del mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro, fortemente sentito nei pericolosi impianti di raffinazione, si è poi aggravato negli ultimi anni, dopo che i tagli alla spesa pubblica sotto la supervisione di Obama hanno causato la drastica riduzione del personale della Occupational Safety and Health Administration (OSHA), cioè l’agenzia federale incaricata di eseguire gli ormai sempre più sporadici controlli sul campo.

di Michele Paris

Lo scontro politico in atto da alcuni mesi a questa parte nello Yemen continua a dare segnali di aggravamento in seguito alla persistente impossibilità anche solo di sedere al tavolo delle trattative dei rappresentanti delle fazioni coinvolte nella crisi del più povero dei paesi arabi. L’avanzata del gruppo sciita degli Houthi (Ansar Allah) aveva provocato la settimana scorsa il crollo definitivo del governo installato da Stati Uniti e Arabia Saudita, scatenando una valanga di condanne di quello che è stato definito da più parti come un vero e proprio colpo di stato.

A favorire un qualche dialogo tra i vertici degli Houthi e i principali partiti politici yemeniti ci stanno provando le stesse Nazioni Unite, ma la ripresa dei negoziati dopo il caos dei giorni precedenti è subito naufragata nella giornata di lunedì. I leader del partito Nasserita e di quello islamista sunnita Islah hanno infatti abbandonato le discussioni denunciando la minaccia, espressa a loro dire da uno dei negoziatori Houthi, di usare la forza per costringere le proprie controparti ad accettare un piano di transizione per il paese, studiato e implementato dalla stessa organizzazione sciita.

Il piano in questione consiste in una “dichiarazione costituzionale” e, secondo gli Houthi, sarebbe stato adottato in seguito al vuoto di potere venutosi a creare in Yemen dopo le dimissioni del presidente filo-americano, Rabbu Mansour Hadi, il 22 gennaio scorso.

Hadi e vari membri del suo governo erano stati di fatto tenuti agli arresti domiciliari dagli stessi Houthi per forzare il regime a dare finalmente attuazione a un piano per l’integrazione dei leader del movimento che rappresenta le tribù sciite del nord dello Yemen nelle istituzioni del paese dopo decenni di repressione e marginalizzazione.

Dopo questi sviluppi, le Nazioni Unite hanno cercato di organizzare colloqui di pace tra le parti ma, spazientiti dallo stallo, gli Houthi hanno alla fine lanciato un ultimatum di tre giorni per trovare un accordo. Scaduto questo termine, gli Houthi hanno deciso di passare all’azione, assumendo il potere in maniera diretta e portando a compimento una rapidissima ascesa iniziata nel settembre 2014 con la presa della capitale, Sanaa.

La già citata “dichiarazione costituzionale” ha così dissolto il parlamento yemenita per sostituirlo con un Consiglio Nazionale di Transizione di 551 membri guidato da un Consiglio Presidenziale di 5 membri. A supervisionare il nuovo governo “tecnico” dovrebbe essere poi un Comitato Rivoluzionario degli Houthi, presieduto dal loro leader, Mohammad Al-Houthi.

L’unica strada verso una soluzione pacifica della crisi nel paese della penisola arabica appare quella del negoziato promosso dall’ONU, rappresentato dall’inviato speciale Jamar Benomar. Tuttavia, il livello dello scontro non lascia intravedere progressi, tanto più che lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, continua a chiedere il reintegro del presidente Hadi, mentre quest’ultimo avrebbe dichiarato lunedì la sua indisponibilità a riassumere l’incarico che aveva abbandonato sotto pressione a gennaio.

Il dilagare in Yemen degli Houthi rappresenta un duro colpo per gli interessi dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, i cui governi, dopo i disordini provocati dalla “Primavera Araba” del 2011, erano riusciti a mandare in porto un piano di transizione per mettere da parte l’odiato presidente, Ali Abdullah Saleh, e continuare a mantenere il controllo sul paese.

Nel 2012, così, a seguito di negoziati tra i leader politici e alle spalle della popolazione, era stata organizzata un’elezione-farsa con un solo candidato alla presidenza – Hadi, allora vice di Saleh – il quale, una volta assunto il potere, si è mostrato ancora più disponibile del suo predecessore a garantire a Washington l’utilizzo del proprio paese come base per condurre operazioni militari nell’ambito della “guerra al terrore”.

Da qualche anno, lo Yemen viene infatti indicato come uno dei poli di attrazione del terrorismo qaedista, come confermerebbe il fatto che qui sarebbero stati progettati alcuni degli attentati in Occidente nel recente passato, andati a buon fine o, per lo più, sventati. La stessa programmazione del massacro di gennaio nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo viene ricondotta dai governi occidentali all’organizzazione al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), di stanza appunto in Yemen.

Lo Yemen è così uno dei campi di battaglia dei droni americani, ma dietro la retorica che prende di mira il fondamentalismo sunnita si nascondono interessi di altra natura. La preoccupazione principale degli USA in relazione allo Yemen è legata cioè all’importanza strategica di questo paese che confina con l’Arabia Saudita e si affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb, il quale congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden e quindi l’Oceano Indiano.

Da qui transitano importantissime rotte commerciali, come quelle che consentono il trasporto del petrolio nordafricano o dell’export europeo e americano verso i paesi asiatici. Le preoccupazioni di Washington o Riyadh per la situazione in Yemen sono dunque facilmente comprensibili, soprattutto in considerazione del fatto che gli Houthi sciiti, secondo molti, sarebbero appoggiati dall’Iran.

Nonostante la retorica “rivoluzionaria” degli Houthi, tuttavia, i leader di questo movimento non intendono sconvolgere i rapporti sociali o le strutture del potere in Yemen, bensì desiderano ottenere un certo ruolo nella gestione dello stato e mettere fine alle persecuzioni a lungo patite dalla minoranza sciita per mano del governo centrale. Inoltre, gli Houthi si sono mostrati più volte disponibili al compromesso sia con gli altri partiti politici yemeniti sia con le potenze internazionali interessate alla stabilità del loro paese, a cominciare dagli Stati Uniti.

Proprio a Washington, infatti, sembrano essere in corso valutazioni circa la natura dei nuovi padroni dello Yemen, in modo da assodare, come ha scritto recentemente il Los Angeles Times, “se il prossimo governo [degli Houthi] possa essere convinto a prendere parte alla guerra contro al-Qaeda”, sia pure “con meno entusiasmo dei precedenti” di Saleh e Hadi.

La battaglia condotta dagli Houthi aveva comunque trovato un certo sostegno tra una popolazione sempre più ostile al governo filo-americano e filo-saudita. Secondo alcune rivelazioni, inoltre, gli stessi sostenitori del deposto presidente Saleh avrebbero appoggiato più o meno direttamente gli Houthi nel tentativo di rimuovere il governo di Hadi.

Ben presto, però, l’offensiva di un gruppo settario che rappresenta solo una minoranza della popolazione dello Yemen ha suscitato svariate proteste popolari e l’avversione delle forze politiche tradizionali, estromesse dal potere.

Lo scenario venutosi a creare, poi, rischia seriamente di far scivolare il paese nella guerra civile, dal momento che gli Houthi sono in conflitto con i militanti di al-Qaeda e, soprattutto, il loro tentativo di espandere il controllo ad altre regioni dello Yemen sta provocando pericolose spinte indipendentiste.

Il baratro in cui sta scivolando lo Yemen è in definitiva il risultato del fallimento dell’impopolare progetto politico imposto da USA e Arabia Saudita nel 2012. In maniera tutt’altro che sorprendente, tuttavia, proprio l’implosione dell’apparato statale e il caos dilagante potrebbero fornire l’ennesima occasione per giustificare un nuovo intervento militare da parte di questi stessi governi, in modo da cercare di “stabilizzare” la situazione e controllare direttamente le sorti di un paese strategicamente fondamentale e teatro di scontro delle crescenti rivalità regionali.

di Mario Lombardo

Il primo ministro conservatore australiano, Tony Abbott, è sopravvissuto lunedì a una mozione di sfiducia presentata da membri del suo stesso Partito Liberale, sempre più preoccupati per il crollo di consensi del partito di governo. Il premier, al potere da nemmeno 18 mesi, è riuscito per ora a sventare la minaccia alla propria leadership, ma la crisi politica in cui il suo gabinetto continua a dibattersi appare tutt’altro che risolta.

A scatenare l’ennesima resa dei conti all’interno di un partito di governo in Australia era stata la recente batosta patita dai liberali nelle elezioni per il rinnovo del parlamento locale nello stato del Queensland. Qui, il partito di Abbott aveva perso la maggioranza in maniera clamorosa dopo che appena tre anni prima aveva rifilato una pesantissima sconfitta al Partito Laburista.

Il voto nel Queensland era stato però solo l’ultimo segnale del tracollo del governo, evidenziato già da un altro rovescio elettorale a dicembre nello stato di Victoria e, soprattutto, dalla crescente opposizione nel paese alle politiche di rigore volute da Abbott.

In particolare, gli elettori australiani che avevano punito il governo laburista per avere perseguito a sua volta politiche anti-sociali di impronta neo-liberista si sono rapidamente resi conto della natura dell’Esecutivo premiato nelle elezioni del 2013. Abbott, infatti, alla presentazione del suo primo bilancio in parlamento aveva fatto marcia indietro su tutte le principali promesse elettorali.

Ad esempio, su richiesta degli ambienti del business australiano e internazionale, il governo liberale aveva proposto una serie di tagli ai programmi pubblici destinati alle fasce più deboli della popolazione, in particolare in ambito sanitario e dell’educazione, dopo avere escluso iniziative di questo genere durante la campagna elettorale.

La legge di bilancio rimane così in buona parte bloccata fin dal maggio dello scorso anno al Senato, dove il governo non dispone di una maggioranza, in seguito all’ostruzionismo del Partito Laburista e di altre formazioni minori, costrette ad agire in questo modo per la diffusa ostilità popolare verso le misure volute da Abbott.

L’immediato abbandono da parte del governo anche di minime iniziative a difesa delle classi più disagiate è stato determinato dal rapido deterioramento delle condizioni dell’economia australiana, a sua volta colpita duramente dal rallentamento dell’economia globale e, in particolar modo, di quella cinese, nonché dal crollo delle quotazioni dei materiali ferrosi e del carbone, le cui esportazioni avevano alimentato nel recente passato un certo boom di crescita nel paese del continente oceanico.

Di fronte a questo scenario e a un sempre più probabile rovescio elettorale nel 2016, una parte significativa del Partito Liberale, assieme a potenti sezioni del business e dei media, ha orchestrato una sorta di mozione di sfiducia ai danni di Tony Abbott, per sostituirlo alla guida del governo e dello stesso partito, così da provare a invertire la tendenza.

Una simile mozione, se approvata, si risolve in quello che nel sistema politico australiano viene definito “leadership spill”, cioè una dichiarazione che la leadership di un partito è vacante e che quindi il nuovo occupante di questa posizione deve essere scelto tramite una votazione dei parlamentari dello stesso partito. Nel caso del partito di maggioranza, l’eventuale cambio al suo vertice coincide con un cambio alla guida del governo.

La mozione contro Abbott è stata presentata lunedì da due parlamentari dell’ala destra del partito ma è stata sconfitta con 61 voti contrari e 39 a favore. La “vittoria” del primo ministro è stata possibile probabilmente anche grazie alle manovre messe in atto nei giorni scorsi dai suoi fedelissimi, concretizzatesi tra l’altro nell’anticipazione di un giorno del voto in modo da limitare la progressiva emorragia di consensi all’interno del partito.

Nel disperato tentativo di rimanere al suo posto, Abbott avrebbe fatto una serie di promesse ai suoi compagni di partito. Per cominciare, il premier ha assicurato che la sua amministrazione d’ora in avanti prenderà decisioni in maniera “più collegiale”, mentre concretamente potrebbero arrivare misure simboliche di stampo populista, tra cui un taglio alle tasse per le piccole imprese e qualche agevolazione fiscale per le famiglie.

Dopo il voto, un Abbott visibilmente abbattuto ha provato a dichiarare in diretta TV che la lotta intestina dei giorni scorsi è ormai “alle spalle”, ma la realtà politica australiana si è vista consegnare un premier fortemente indebolito e seriamente esposto a possibili nuove sfide interne nel prossimo futuro.

Innanzitutto, i voti favorevoli alla rimozione di Abbott sono stati più numerosi di quanto il premier auspicava e quest’ultimo si ritroverà ora a fronteggiare un’agguerrita opposizione interna pronta a lanciare una nuova sfida per la leadership del partito al primo passo falso del governo.

A questo proposito, molti osservatori in Australia hanno descritto il voto di lunedì come una prova generale per un prossimo cambio al vertice del partito e per testare i possibili equilibri tra i liberali. Gli oppositori interni di Abbott, d’altra parte, non avevano nemmeno proposto un proprio candidato ufficiale per sostituire il premier nel caso la mozione di sfiducia fosse andata a buon fine.

Secondo i media australiani, il più probabile sfidante di Abbott potrebbe essere l’attuale ministro per le Comunicazioni, Malcolm Turnbull, ex banchiere e milionario strettamente legato agli ambienti finanziari del paese, sconfitto di misura dal premier sei anni fa nella corsa alla guida del Partito Liberale. Un’altra contendente potrebbe essere poi il ministro degli Esteri, Julie Bishop, la quale ha però finora escluso di essere interessata alla posizione occupata da Abbott, a fianco del quale si è presentata lunedì alla votazione tenuta nella capitale, Canberra.

Le sorti del primo ministro Abbott rivelano in ogni caso la grave crisi non solo del suo governo ma dello stesso sistema rappresentativo australiano, e non solo. Ciò è determinato dalla profonda ostilità della maggior parte della popolazione nei confronti di una politica che, in parrallelo con il peggioramento delle condizioni dell’economia, non è in grado di fornire risposte o soluzioni diverse da quelle viste finora un po’ ovunque e che consistono nel far pagare il prezzo del salvataggio del capitalismo a lavoratori, giovani, pensionati e disoccupati.

La crisi del sistema parlamentare, osservabile in Australia nel rapidissimo declino di un governo che aveva trionfato alle elezioni meno di un anno e mezzo fa, è dunque la conseguenza delle pressioni che vengono esercitate sulle classi politiche nazionali dai rappresentanti delle élites economiche e finanziarie per implementare, di fronte alla crisi economica globale, misure socialmente devastanti contro il volere della grande maggioranza degli elettori.

Lo stesso processo in atto oggi nel Partito Liberale australiano aveva interessato anche quello Laburista negli anni scorsi, nel tentativo di arrestare – inutilmente – un crollo di consensi dovuto ancora una volta all’applicazione di politiche ultra-liberiste. In questo partito teoricamente di centro-sinistra si erano verificati due cambi al vertice, uno nel 2010 con Julia Gillard che, grazie anche alle manovre di Washington, aveva rimpiazzato il primo ministro Kevin Rudd e l’altro nel 2013 con quest’ultimo che aveva scalzato la stessa Gillard alla vigilia del voto.

Dietro alla precaria posizione dei primi ministri australiani vi sono infine anche le frustrazioni che attraversano gli ambienti di potere, sia in patria sia a livello internazionale. Questi ultimi non si fanno infatti scrupoli nel muovere critiche accese o nell’orchestare campagne di discredito nei confronti di quei governi giudicati incapaci di portare a compimento politiche che si traducono in assalti alle condizioni di vita della popolazione, sia pure nascoste dietro la definizione apparentemente innocua o benevola di “riforme”.

Nel caso attuale dell’Australia, le posizioni dei poteri forti sono espresse dai media “mainstream”, con ad esempio i giornali del colosso editoriale Fairfax che appoggiano più o meno apertamente un cambio alla guida del paese a favore del ministro Turnbull, mentre il gruppo di proprietà di Rupert Murdoch continua per il momento a sostenere il premier Abbott.

La crisi del sistema esclude comunque qualsiasi cambiamento di rotta significativo, se non per il peggio, visto che gli stessi leader laburisti australiani, pur mantenendo a livello ufficiale posizioni critiche verso il governo per ragioni di opportunità politica, hanno già più volte ammesso che ciò che attende lavoratori e classe media saranno ancora a lungo le conseguenze di “decisioni difficili” e “impopolari”.

di Michele Paris

Il precipitare della situazione in Ucraina sta portando alla luce tutte le divisioni e le contraddizioni che attraversano i governi occidentali, costretti a fare i conti con una crisi che essi stessi hanno creato e che si sta rapidamente ritorcendo contro i loro interessi. La distanza che separa la Germania e gli Stati Uniti è apparsa evidente nel fine settimana, quando, di ritorno da Mosca, dove ha incontrato Putin assieme al presidente francese Hollande, Angela Merkel è stata protagonista a Monaco di Baviera di uno scontro verbale a distanza con alcuni senatori americani.

La cancelliera tedesca ha messo in guardia dall’eventuale fornitura di armi, sia pure ufficialmente “difensive”, al regime di Kiev per reprimere la rivolta nelle province sud-orientali, dopo che nei giorni scorsi alcuni giornali americani avevano parlato di un’amministrazione Obama pronta a valutare questa opzione.

La Merkel ha affermato di non volere “immaginare una situazione nella quale l’invio di armi all’esercito ucraino spinge il presidente Putin a credere in una sconfitta militare”. Chiaramente, il capo del governo di Berlino comprende come uno scenario del genere non possa che trascinare la Russia in un intervento diretto nel conflitto in Ucraina, scatenando una guerra che i primi a non volere sono proprio i governi europei.

La soluzione non può essere militare, ha aggiunto perciò la Merkel, così che “la comunità internazionale deve pensare a una soluzione diversa”. Questi timori e la necessità di stabilizzare la situazione disperata in cui si trova il governo di Kiev, sia economicamente che militarmente, sono stati la ragione principale della missione - conclusasi senza risultati di rilievo - della stessa Cancelliera e di Hollande al Cremlino venerdì scorso.

Se alcuni giornali hanno parlato di un’iniziativa che non è stata coordinata con Washington, è probabile invece che la trasferta moscovita dei due leader europei abbia avuto quanto meno il tacito assenso della Casa Bianca.

Negli Stati Uniti sembrano esserci infatti ulteriori divisioni interne tra i “falchi”, principalmente al Congresso e in misura minore al Pentagono, e una fazione più moderata, verosimilmente alla Casa Bianca. Se così fosse, la notizia apparsa sul New York Times la scorsa settimana sulla disponibilità di Obama a valutare la fornitura di armi a Kiev, potrebbe essere per lo più un tentativo di fare pressioni su Putin per accettare una soluzione diplomatica favorevole all’Occidente.

La questione degli aiuti militari all’Ucraina ha tuttavia galvanizzato i fautori di un intervento più deciso in questo paese, come è apparso chiaro dalle parole del senatore repubblicano Lindsey Graham all’annuale conferenza sulla sicurezza di Monaco. Quest’ultimo ha avuto parole molto dure per Angela Merkel, affermando che il governo tedesco “sta voltando le spalle a una democrazia in difficoltà”.

La posizione della Casa Bianca non è dunque del tutto chiara sulla questione delle armi al regime golpista ucraino. Il vice-presidente, Joe Biden, a Monaco ha ad esempio toccato solo indirettamente l’argomento, ma qualche giorno fa il prossimo capo del Pentagono, Ashton Carter, nel corso di un’audizione al Senato si era detto “incline” a garantire forniture più massicce di armamenti al governo-fantoccio di Kiev.

In ogni caso, dopo che la Merkel e Hollande hanno lasciato Mosca, nella capitale russa sono rimasti i negoziatori di Germania e Francia per lavorare a un accordo che prenda le mosse da quello raggiunto a settembre a Minsk. Proprio nella capitale bielorussa si incontreranno mercoledì i leader di Russia, Ucraina, Germania e Francia, mentre oggi la Merkel avrà un faccia a faccia a Washington con il presidente americano Obama.

Il desiderio dei governi occidentali di trovare un via d’uscita pacifica alla crisi non comporta tuttavia che quest’ultima sia a portata di mano. L’ostacolo principale, oltre naturalmente ai diversi punti di vista di Washington da una parte e Berlino e Parigi dall’altra, è rappresentato dalla forma federale da dare all’Ucraina e le conquiste territoriali dei separatisti filo-russi.

I “ribelli” sono infatti avanzati sensibilmente negli ultimi mesi e sembrano ora ben decisi a respingere le richieste di Kiev e dell’Occidente di ritirarsi oltre la linea di demarcazione originariamente fissata a Minsk. Inoltre, se anche un qualche accordo dovesse essere raggiunto a breve, resta da vedere fino a che punto i governi occidentali riusciranno a fare pressioni sul regime ucraino per rispettarne i termini. Kiev, d’altra parte, ha finora utilizzato accordi e tregue varie per riorganizzare le proprie forze e lanciare nuove offensive contro i filo-russi.

Le dissennate decisioni prese da Washington e Berlino nell’ultimo anno hanno comunque complicato enormemente la situazione in Ucraina, portando l’Europa sull’orlo di una guerra tra potenze nucleari. Ciò è riconosciuto anche dagli stessi membri dei governi occidentali, anche se la responsabilità della crisi continua a essere assegnata invariabilmente alla Russia.

Anche coloro, come la stessa Merkel, che mettono in guardia da possibili pericolose escalation militari sono nondimeno protagonisti nell’esercitare pressioni sul Cremlino, come appare evidente dalle nuove e continue sanzioni economiche decise per penalizzare la Russia e dalle manovre della NATO per stanziare un numero sempre maggiore di truppe nei paesi dell’Europa orientale.

L’offensiva contro Mosca per portare l’Ucraina sotto l’influenza occidentale, così, non solo ha prodotto un regime poggiato su forze apertamente neo-naziste, come quello al potere a Kiev, ma ha anche contribuito a scatenare un conflitto inevitabile nelle regioni filo-russe, la cui soluzione appare oggi lontanissima e, anzi, rischia di infiammare l’intero continente con conseguenze difficili da calcolare.

di Michele Paris

Il segretario alla Difesa americano in pectore, Ashton Carter, è apparso questa settimana di fronte alla Commissione per le Forze Armate del Senato nella tradizionale audizione che precede il voto in aula per la conferma del nuovo incarico. L’ex numero due del Pentagono, come previsto, ha raccolto ampi consensi tra i senatori, soprattutto repubblicani, promettendo di mantenere un certo grado di indipendenza dalla Casa Bianca, anche se le capacità di incidere sulle più importanti questioni militari e di politica estera da parte di quello che sembra essere sostanzialmente un abile burocrate saranno tutte da dimostrare.

Lo scambio di battute che ha suscitato l’interesse maggiore dei media negli Stati Uniti ha riguardato l’escalation del conflitto provocato da Washington in Ucraina. I membri della commissione del Senato ascrivibili alla fazione dei “falchi” si sono rallegrati nel sentire le parole di Carter. Quest’ultimo si è detto infatti “molto propenso” a fornire “armi letali” al regime di Kiev nella guerra contro i “separatisti” filo-russi.

La posizione espressa dal prossimo segretario alla Difesa è peraltro in linea con l’evoluzione del pensiero di Obama e del suo staff nelle ultime settimane, confermata da una recente rivelazione del New York Times, nella quale si sosteneva appunto che il presidente sarebbe ora decisamente più incline a valutare il trasferimento di armi al governo ucraino per sostenere il conflitto nel sud-est del paese.

Diligentemente, Carter ha poi snocciolato le solite tesi assurde proposte da governi e media occidentali in questi mesi sulla crisi in Europa orientale, affermando ad esempio che l’Ucraina necessita supporto militare per ragioni di “autodifesa” e che le “possibilità [di Kiev] di trovare la propria strada per diventare un paese indipendente” sono a rischio, visto che la Russia, “ovviamente, non ha rispettato l’integrità territoriale” ucraina.

La linea apparentemente più dura sull’Ucraina rispetto alla Casa Bianca, mantenuta da Carter durante l’audizione, contribuisce forse a spiegare il senso stesso della sua nomina a successore del “dimissionato” Chuck Hagel alla guida della macchina da guerra USA.

Se è innegabile che la scelta di Carter sia stata un ripiego dovuto alla rinuncia delle prime scelte di Obama - dalla ex vice-segretaria alla Difesa e fedelissima dei Clinton, Michèle Flournoy, al senatore democratico del Rhode Island, Jack Reed, al segretario alla Sicurezza Interna, Jeh Johnson - la sua nomina risponde nondimeno a una logica politica.

Carter, cioè, è considerato egli stesso un “falco” negli ambienti democratici di Washington e i suoi precedenti raccontano di scelte e prese di posizione a favore delle avventure imperialiste americane oltreoceano. Anzi, non solo Carter aveva appoggiato l’invasione dell’Iraq nel 2003, ma era giunto anche a proporre bombardamenti preventivi sia sulla Corea del Nord, per spazzare via il programma missilistico del regime stalinista, sia sull’Iran, per colpire le installazioni nucleari della Repubblica Islamica.

Ashton Carter è sembrato essere dunque l’uomo giusto per assecondare quello che a tutti gli effetti appare come un radicalizzarsi delle posizioni americane riguardo le principali crisi di politica estera in atto, tanto più in presenza di un Congresso a maggioranza repubblicana attestato su posizioni ancora più a destra della Casa Bianca, e talvolta dello stesso apparato militare e dell’intelligence, sulle questioni relative alla promozione degli interessi del capitalismo USA nel pianeta.

Nel curriculum di Carter vi sono poi elementi che fanno pensare come la sua attenzione nei prossimi due anni possa rivolgersi soprattutto proprio al confronto con Mosca. Il capo entrante del Pentagono si era infatti occupato di questioni legate all’integrazione nella NATO dei paesi dell’ex blocco sovietico durante la presidenza Clinton, in quella che può essere considerata la prima fase della strategia USA di accerchiamento della Russia oggi in pieno svolgimento.

Sulle altre questioni affrontate durante l’audizione di mercoledì, Carter ha cercato di fornire ai senatori le risposte desiderate, provando a mettere un certo spazio tra le sue posizioni e quelle dell’amministrazione Obama.

In particolare, Carter ha assicurato che non cederà alle pressioni della Casa Bianca per accelerare i trasferimenti dei detenuti nel lager di Guantánamo. Molti membri del Congresso di entrambi gli schieramenti si oppongono alla chiusura del carcere a Cuba e nell’audizione di mercoledì alcuni senatori hanno chiesto a Carter di utilizzare il potere del segretario alla Difesa per ritardare l’approvazione del trasferimento dei prigionieri.

Un’altra apprensione comune a Carter e ai membri della commissione per le Forze Armate è quella relativa ai tagli automatici degli stanziamenti destinati al Dipartimento della Difesa previsti dal cosiddetto “sequester”, conseguenza delle manovre dei due partiti sul bilancio federale negli anni scorsi.

In questo caso, è stato Carter a fare appello ai senatori per limitare i tagli alla spesa militare, anche se la discussione ha sfiorato il paradosso, visto che il Pentagono continua ad avere in dotazione una quantità enorme di denaro. Lo stesso Obama, nel presentare qualche giorno fa la sua proposta di bilancio per l’anno fiscale 2016, ha chiesto ben 561 miliardi di dollari per il Dipartimento alla Difesa, sforando di circa 40 miliardi gli stessi limiti del “sequester” previsti dal Congresso.

I senatori della commissione hanno infine affrontato con Ashton Carter l’inevitabile questione della guerra all’ISIS in Iraq e in Siria. Il presidente della commissione per le Forze Armate John McCain, in particolare, ha nuovamente accusato la Casa Bianca di non avere una strategia ben definita e, precisamente per questa ragione, gli USA e i loro alleati starebbero perdendo la guerra.

La parte più delicata del dibattito su questo punto è stata quella relativa alla sorte del presidente siriano Assad. Carter ha lasciato intravedere, sia pure in maniera prudente, la svolta strategica a cui guarda la Casa Bianca, vale a dire il passaggio dalla guerra all’ISIS al regime di Damasco nel medio periodo, ribadendo che Assad avrebbe “perso ogni legittimità” a governare la Siria e che non potrà perciò far “parte del futuro” del suo paese.

Al di là delle proprie posizioni personali, i veri interrogativi riguardo la nomina di Carter non avevano molte possibilità di essere chiariti nel corso dell’audizione al Senato. I problemi che Carter potrebbe trovare una volta insediato al Pentagono sono cioè gli stessi che hanno dovuto affrontare i suoi predecessori e, soprattutto, Hagel.

Come hanno spiegato molti osservatori negli Stati Uniti, il nuovo segretario alla Difesa dovrà guadagnarsi un grado di autonomia e autorità in un sistema di gestione delle decisioni militari e di politica estera monopolizzato dalla cerchia dei fedelissimi di Obama alla Casa Bianca, nella quale spiccano il capo di gabinetto, Denis McDonough, e la consigliera per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice.

Al di fuori di questo possibile conflitto, che è sembrato costare il posto a Chuck Hagel, le modalità con cui verranno perseguite le esigenze dell’imperialismo americano non cambieranno tuttavia in maniera significativa con un nuovo nome alla guida del Pentagono.

Lo forza militare rimarrà infatti il principale strumento utilizzato da Washington per cercare di difendere la declinante egemonia degli Stati Uniti in un mondo che tende sempre più al multipolarismo, con il rischio concreto di scatenare guerre rovinose.

Ad ogni modo, Ashton Carter dovrebbe essere confermato dal Senato senza ostacoli, come già accadde nel 2009 e nel 2011 quando la ratifica delle sue nomine rispettivamente a sotto-segretario alla Difesa per gli approvvigionamenti e a vice-segretario ottennero il voto di tutti i membri della camera alta del Congresso USA. Secondo McCain, il Senato dovrebbe sanzionare il successore di Hagel già prima della prossima sospensione delle attività del Congresso di Washington, prevista per il 16 febbraio.


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