di Fabrizio Casari

Alla presenza di circa 40 capi di stato e di governo e con aspettative decisamente positive, comincia oggi a Bruxelles la terza riunione tra l’Unione Europea e la Celac (Comunidad de Estados Latino Americanos y Caribenos), l’organizzazione latinoamericana che annovera tra i suoi membri ben 33 paesi del Centro e Sud America. Ricerca scientifica, scienza, istruzione a livelli universitari ed innovazione tecnologica sono alcune delle tematiche sulle quali si orienterà la volontà di approfondire ed ampliare il livello degli scambi tra le due entità, che raggruppano complessivamente 61 paesi e più di un miliardo di abitanti.

Nata nel 2011 su iniziativa dell’allora presidente venezuelano Hugo Chavez, la Celac - che rappresenta 600 milioni di persone e che non vede la presenza di Stati Uniti e Canada al suo interno - nel giro di pochi anni ha assunto un ruolo politico di primaria importanza, rivelandosi l’unica credibile rappresentanza politica dell’intera America Latina.

Non poteva essere altri se non Chavez, del resto, a dare vita ad un organismo che, nella finalità dichiarata di rappresentare l’integrazione e l’unità latinoamericana, raccoglie l’essenza del pensiero di Simon Bolivar. E il fatto che oggi 33 paesi vi si ritrovino a parlare con una sola posizione, assegna all’organismo una proiezione politica che supera in positivo le pur ovvie differenze tra le nazioni che la compongono.

Non a caso la presenza forte di paesi come Messico e Colombia si è perfettamente integrata con la presidenza cubana della Celac. E lo stesso dicasi per l’attuale presidenza affidata all’Ecuador, che Rafael Correa gestisce con grande decisione e senza cedimenti di natura politica, esercitando - così come fece Cuba nel suo periodo di presidenza - una leadership forte ed autorevole.

Sono paesi, Cuba ed Ecuador, che con il Venezuela, la Bolivia, il Nicaragua, l’Argentina, El Salvador, rappresentano il blocco di sinistra dello schieramento latinoamericano ma che, nel dispiegarsi dell’attività della Celac, trovano un proficuo intendimento anche con paesi come Messico, Colombia, Paraguay, Perù, Honduras e Panama, di tutt’altra inclinazione, o come Brasile, Cile e Uruguay, che rappresentano un’ulteriore e diversa identità politica.

L’assenza di Stati Uniti e Canada certifica la specificità latinoamericana come ricchezza identitaria e come progetto d’integrazione continentale. Con la Celac, l’America Latina ha trovato la giusta dimensione per la sua rappresentanza collettiva. Per risorse, popolazione, impatto sul PIL mondiale, l’America a sud del Rio Bravo ha oggi la forza e il peso di un continente. E, soprattutto, nella relazione con Usa, Canada ed Europa, la Celac consente ad ogni nazione latinoamericana di non sentirsi sola, pur lasciando il più ampio spazio alla relazioni bilaterali di ognuno dei suoi membri. Ognuno diverso, ma tutti insieme. Questa è l’essenza dell’organismo.

Attualmente il dialogo tra Ue e Celac è positivo, al punto che si è reciprocamente stabilita la necessità di una maggiore cooperazione per affrontare le sfide globali come il cambiamento del clima, il traffico di droga e il raggiungimento degli obiettivi del millennio stabiliti dalla FAO. E, a intrecciare (è il caso di dirlo) maggiormente i due blocchi, uno degli accordi che si prevede possano essere firmati in questa occasione riguarda un’intesa per una nuova connessione in fibra ottica destinata alle comunicazioni telefoniche ed informatiche.

Accordo che conferma un dato generale importante, che vede l’Unione Europea come primo investitore straniero nei paesi Celac e suo secondo socio commerciale, sebbene dall’America Latina verso l’Europa le esportazioni in questi anni siano diminuite, passando dal 24,6 per cento del 1990 al 13,6 del 2011. Il che si spiega con l'accresciuto scambio interno al subcontinente ed anche con lo spostamento di risorse verso l'interno di ciascun paese, nell'impegno di riequilibrare le differenze sociali e di ammortizzare lo squilibrio.

Fino a qualche anno fa lo schema di questi vertici tra Europa e Sudamerica poteva essere facilmente letto come la misura dell’aiuto economico che dal Vecchio continente veniva indirizzato verso l’America Latina. Un aiuto sempre fin troppo misurato, stretto tra l’utilità di tenere i piedi in un possibile mercato cui destinare le eccedenze e l’intenzione di non disturbare la manovre degli Stati Uniti sul subcontinente, nei confronti del quale la Dottrina Monroe continuava (e continua) ad essere il principio ispiratore del modello di relazione.

Anche l’Europa ha però dovuto adeguarsi alla nuova dimensione politica ed economica del continente latinoamericano. Come ha affermato il Presidente dell’Ecuador Correa, presidente di turno della Celac, l’America Latina non ha più bisogno di “carità per costruire una piccola scuola, ma di trasferimenti di tecnologia, di appoggi alla formazione dei propri talenti umani e di relazioni internazionali più giuste”.

Un cambio deciso di paradigma. Grazie alla vittoria del blocco democratico latinoamericano in diversi paesi del subcontinente, oggi l’America Latina è infatti una comunità di nazioni e popoli che vive un processo di trasformazione e di crescita economica e sociale in decisa controtendenza rispetto alla crisi violenta nella quale si dibatte l’Europa. E proprio sul piano della cooperazione e dell’integrazione latinoamericana, di cui la Celac è stata strumento indispensabile (sebbene non unico, basti pensare al ruolo straordinario dell’Alba e dell’Unasur in ordine alla dimensione comunitaria) l’Unione europea potrebbe apprendere l’utilità della cooperazione socioeconomica e politica, prima ancora che monetaria.

A testimonianza di quanto fatto nelle politiche inclusive, c’è l’assegnazione di riconoscimenti formali da parte della FAO verso i paesi membri dell’Alba (Alleanza Bolivariana per le Americhe) per aver raggiunto prima della scadenza prevista gli obiettivi del Millennio, ovvero la riduzione della fame e malnutrizione del subcontinente, passato dal 14,7 al 5,5 della popolazione. Il tutto nonostante la caduta del prezzo delle materie prime - petrolio fra tutte - che ha certamente danneggiato le esportazioni in divisa dei paesi latinoamericani, particolarmente Venezuela, Ecuador e Brasile e Messico (che però ha provveduto da solo ad una sorta di suicidio politico ed energetico attraverso la privatizzazione dell’industria petrolifera di stato, la Pemex ndr).

La relazione tra Unione europea e Celac risente ovviamente della necessità per l’Europa di ampliare la sua politica estera e approfitta anche di un peso degli Stati Uniti nel continente decisamente ridotto rispetto a due decenni orsono. Ciò non significa che l’Europa potrà mai sovrapporsi agli USA e men che mai sostituirli nella relazione d’interessi con il continente latinoamericano, ma è pur vero che Bruxelles avverte la necessità di superare vecchi steccati determinati da una divisione per aree d’influenza che non trovano più ragione nella globalizzazione dei mercati. E d'altra parte, visti i sempre più incisivi investimenti della Russia, della Cina e persino dell'Iran in America Latina, quelli europei agli occhi di Washington sono di gran lunga preferibili.

L’assenza di problematiche di tipo strategico e la garantita fedeltà a Washington, vengono interpretate da Bruxelles come premessa implicita nella relazione con il subcontinente, mentre da parte dell’insieme dei paesi latinoamericani, che da tempo ormai non chiedono agli Usa il permesso per sviluppare relazioni politiche e commerciali utili al suo sviluppo e di perseguire il multilateralismo come metodologia nell’approccio alle problematiche internazionali. In questo senso Bruxelles ha molto da imparare. I passi sono ancora brevi, l’incedere può apparire incerto. Ma la direzione è quella giusta.



di Michele Paris

Dopo tredici anni di potere ininterrotto e indiscusso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan potrebbe avere appena imboccato la parabola discendente della sua carriera politica in seguito al considerevole ridimensionamento patito dal suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) nelle elezioni parlamentari andate in scena nel fine settimana.

L’AKP è stato in realtà ancora una volta il partito che ha ottenuto di gran lunga il maggior numero di consensi, ma è passato da quasi il 50% del 2011 a circa il 41% odierno, con una perdita netta di tre milioni di voti. A causa di questa emorragia, il partito di Erdogan e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha fallito per la prima volta dal 2002 l’obiettivo di conquistare la maggioranza assoluta nel parlamento unicamerale turco, necessaria ad assicurare la creazione di un governo monocolore.

Soprattutto, il relativo rovescio patito dall’AKP è dovuto al superamento in maniera piuttosto agevole dell’anti-democratica soglia di sbarramento del 10% da parte del Partito Democratico Popolare (HDP) curdo, in grado di intercettare una fetta dell’elettorato di orientamento progressista, ostile alla deriva imposta al paese da Erdogan, al di là dell’appartenenza etnica.

Il primo partito curdo a entrare nel parlamento turco avrà un’ottantina di seggi, i quali sarebbero stati invece assegnati agli altri partiti, con l’AKP che ne avrebbe beneficiato maggiormente, se non avesse superato lo sbarramento.

Il risultato dell’HDP è la conseguenza del costante declino del partito del presidente, dovuto a una serie di fattori legati alla politica interna ed estera. Già nelle elezioni locali del marzo 2014, l’AKP aveva fatto segnare una flessione di quasi cinque punti percentuali rispetto alle politiche di tre anni prima, mentre la scorsa estate lo stesso Erdogan aveva evitato a malapena il secondo turno alle presidenziali.

Il malcontento ampiamente presente in Turchia verso il governo dell’AKP, sprattutto tra la popolazione secolare e delle principali città, era apparso evidente anche da una lunga serie di manifestazioni di protesta, iniziate nell’estate del 2013 per contestare un progetto urbanistico in un noto parco pubblico di Istanbul.

Il principale partito di opposizione - il kemalista Partito Popolare Repubblicano (CHP) - aveva però faticato a guadagnare consensi e anche nel voto di domenica ha registrato una leggera flessione, pur confermandosi attorno al 25%. Il quarto e ultimo partito in grado di superare il 10% è stato infine il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), salito a oltre il 16% dal 13% del 2011.

Se il premier Davutoglu nella serata di domenica ha sostenuto che i risultati del voto hanno confermato la forza dell’AKP, l’obiettivo di Erdogan era senza dubbio la conquista di una nuova solidissima maggioranza per imporre una riforma costituzionale che traghettasse la Turchia verso un sistema presidenziale.

Erdogan aveva infatti scommesso sulla sua popolarità lo scorso anno quando, da primo ministro, si era candidato a presidente, nonostante questa carica in Turchia preveda un ruolo largamente cerimoniale.

Per modificare a proprio piacimento la costituzione, l’AKP avrebbe avuto bisogno di ottenere almeno 330 seggi sui 550 totali dell’Assemblea di Ankara. Con una tale maggioranza avrebbe però dovuto sottoporre gli eventuali emendamenti a un referendum popolare, per evitare il quale i seggi su cui contare avrebbero dovuto essere 367. Alla fine, l’AKP non è nemmeno riuscito a toccare quota 276, cioè la soglia necessaria a governare in autonomia.

Il dato più preoccupante per Erdogan è rappresentato dal fatto che tutti i segnali di queste ultime settimane indicano come egli stesso sia stato la causa della consistente perdita di consensi del suo partito. Il presidente aveva d’altra parte accettato la trasformazione della campagna elettorale in una sorta di referendum su di lui e sulle sue mire di riforma costituzionale, partecipando attivamente a comizi pubblici nonostante il suo ruolo teoricamente super partes.

Dopo la diffusione dei risultati del voto, Erdogan è rimasto a lungo in silenzio prima di emettere un comunicato ufficiale, giunto solo nella tarda mattinata di lunedì. Il presidente è apparso cauto, invitando tutti i partiti a “valutare in maniera accurata e realistica” l’esito delle elezioni, dal momento che “nessun partito sarà in grado di formare autonomamente un governo”.

Per governare, l’AKP dovrebbe quindi trovare un accordo con un possibile partner. Il candidato naturale a entrare in una coalizione con Erdogan e Davutoglu è l’MHP ma il suo leader, Devlet Bahçeli, ha già escluso questa ipotesi, suggerendo singolarmente come l’AKP debba prima esplorare altre opzioni, vale a dire la possibilità di un governo con l’HDP o con lo stesso HDP e il CHP.

La situazione politica in Turchia si presenta comunque estremamente fluida e, secondo la legge, ci saranno 45 giorni di tempo per formare un nuovo governo, dopodiché, in assenza di sviluppi positivi, il presidente avrà la facoltà di indire una nuova tornata elettorale.

Media vicini all’AKP e alcuni esponenti di questo partito hanno già ipotizzato elezioni a breve ma simili dichiarazioni potrebbero essere solo un modo per fare pressioni sugli altri partiti, visto che un nuovo appuntamento con gli elettori rischierebbe di accelerare il declino di Erdogan e della sua formazione politica.

Se nel breve periodo Erdogan e l’AKP rimarranno le forze dominanti nel panorama politico turco, sono in molti a credere che le mire del presidente sulla costituzione per attribuire maggiori poteri alla sua carica siano state sconfitte. Ad affermarlo è stato anche il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas, secondo il quale “il dibattito sulla presidenza, ovvero sulla dittatura, è finito” e la Turchia “ha evitato per poco il disastro”.

Secondo alcuni commentatori turchi, proprio l’abbandono delle velleità presidenzialiste di Erdogan potrebbe consentire la nascita di un governo di coalizione, verosimilmente con l’MHP, i cui vertici vedono con preoccupazione il già strisiciante ampliamento dei poteri messo in atto dall’ex premier.

Nei prossimi giorni sarà comunque interessante osservare le mosse di Erdogan, il quale deve avere già da qualche tempo preso in considerazione la seria possibilità di un ridimensionamento delle sue ambizioni di potere.

Il clima internazionale non troppo favorevole venutosi a creare attorno al governo del suo partito era infatti evidente. Alla vigilia del voto, ad esempio, il Wall Street Journal aveva dato voce alle inquietudini degli “investitori internazionali”, ansiosi di vedere ad Ankara la formazione di un governo stabile ma spaventati dalla possibilità che l’AKP potesse ottenere una supermaggioranza per cambiare a piacimento la costituzione.

Questa disposizione appare altamente significativa dei timori di un’accelerazione delle politiche impopolari perseguite da Erdogan e dall’AKP nell’ultimo decennio e, in particolare, in questi ultimi anni. La volontà del presidente di trasformare la Turchia in una potenza euro-asiatica e di provare a neutralizzare gli effetti del rallentamento dell’economia e delle contraddizioni della crescita impressa al paese ha infatti prodotto gravi tensioni interne, così come in Medio Oriente e nei rapporti con i tradizionali alleati.

In primo luogo, il ruolo del governo turco nella crisi della vicina Siria ha avuto effetti rovinosi. Ankara continua a sostenere l’opposizione armata al regime di Assad e, anzi, il proprio atteggiamento nei confronti di formazioni armate terroristiche è a dir poco ambiguo. Pur condividendo con gli Stati Uniti l’obiettivo finale del cambio di regime a Damasco, Erdogan viene visto con sospetto a Washington, da dove a partire dallo scorso anno almeno ufficialmente il nemico numero uno risulta essere lo Stato Islamico (ISIS).

La campagna anti-Assad dell’AKP è inoltre osteggiata dalla gran parte della popolazione turca e la permanenza di Assad al potere dopo quattro anni di guerra ha indebolito sensibilmente la posizione di Erdogan.

Sul fronte domestico, poi, i problemi per Erdogan sembrano essere altrettanto spinosi, come confermano i numerosi scioperi che continuano a essere organizzati in varie fabbriche del paese. Le note tendenze autoritarie del presidente e della sua cerchia, poi, si sono aggravate nell’ultimo periodo in concomitanza con l’atmosfera di crisi. Il giro di vite alla libertà di stampa si è concretizzato con la detenzione di decine di giornalisti, proprio mentre il governo e i vertici dello stato erano finiti al centro di una clamorosa indagine per corruzione.

Erdogan e i suoi avevano però attribuito le accuse a una cospirazione orchestrata dagli affiliati al movimento del “Gülenisti”, cioè i seguaci del predicatore in esilio volontario negli USA, Fethullah Gülen, ex alleato del presidente. Il governo aveva così scatenato una campagna per rimuovere i “Gülenisti” dalle forze di polizia, dai tribunali e dagli altri organi dello stato, suscitando ulteriori critiche per la propria attitudine anti-democratica.

In attesa degli sviluppi post-elettorali, a mettere pressioni su Erdogan e un AKP privato della maggioranza assoluta in parlamento è stata intanto la risposta dei mercati, con la borsa di Istanbul che nella giornata di lunedì ha aperto con un -8%, mentre la lira turca ha toccato il livello più basso mai registrato nel cambio con il dollaro prima di far segnare una lieve ripresa.

Se vi erano insomma apprensioni per lo strapotere di Erdogan, allo stesso modo negli ambienti finanziari internazionali stanno emergendo ora i timori per l’impossibilità di creare ad Ankara un esecutivo stabile che sia in grado di mettere in atto le “riforme” ritenute necessarie per far fronte a una situazione economica sempre più precaria.

di Michele Paris

Il fragilissimo cessate il fuoco siglato lo scorso mese di febbraio a Minsk e ufficialmente tuttora in vigore in Ucraina appare sempre più in pericolo in questi giorni dopo l’esplosione dei combattimenti più duri da vari mesi a questa parte tra le forze del regime golpista di Kiev e i separatisti filo-russi delle autonominate “repubbliche popolari” nel sud-est del paese.

Le due parti in conflitto si sono scambiate reciproche accuse su chi abbia riaperto per primo le ostilità. Il governo ucraino ha puntato il dito contro i “ribelli” per avere iniziato a bombardare le località di Maryinka e Krasnohorivka - entrambe sotto il controllo di Kiev - nella mattinata di mercoledì. I separatisti, al contrario, hanno denunciato colpi di artiglieria sulla città di Donetsk che hanno causato una decina di vittime e la distruzione di abitazioni ed esercizi commerciali.

Allo stesso modo, da Mosca sono giunte accuse verso il regime ucraino, responsabile di ripetute provocazioni anche nei giorni scorsi. Le violazioni delle norme del cessate il fuoco mediato da Francia, Germania e Russia erano state registrate in realtà da entrambe le parti fin dal mese di febbraio, ma appare comunque evidente la volontà di Kiev di far saltare l’accordo e innescare nuovamente il conflitto armato.

Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno come al solito utilizzato il riesplodere delle violenze in Ucraina orientale per fare pressioni sulla Russia. Rivelatrici dell’attitudine USA ad assegnare meccanicamente le responsabilità al Cremlino sono state le parole della portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf.

Nel corso di una conferenza stampa, quest’ultima ha affermato che “la Russia ha la diretta responsabilità” degli attacchi in corso e delle violazioni del cessate il fuoco, commesse “per la maggior parte” dai separatisti. In realtà, la stessa Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), i cui uomini stanno monitorando il rispetto dell’accordo di Minsk, ha rilevato sostanzialmente lo stesso numero di violazioni da parte delle forze di Kiev e dei “ribelli” negli ultimi due mesi.

Alla nuova escalation di tensioni in Ucraina avevano d’altra parte contribuito varie provocazioni dello stesso governo di Kiev e degli Stati Uniti. Tra di essi va ricordato l’avvio del programma di addestramento di soldati ucraini in seguito all’arrivo nel paese di militari americani, coadiuvati da altri provenienti da Canada e Gran Bretagna.

Inoltre, il presidente Petro Poroshenko ha recentemente nominato governatore della provincia di Odessa l’ex presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, dopo avergli conferito la cittadinanza ucraina. La nomina del responsabile dell’esplosione della guerra tra Georgia e Russia nell’estate del 2008 appare decisamente provocatoria, sia perché in questa provincia vive una forte minoranza russofona sia perché nel maggio del 2014 la città di Odessa fu teatro del massacro di 42 manifestanti filo-russi per opera di una milizia neo-fascista sostenitrice del governo di Kiev.

Vari commentatori indipendenti hanno sottolineato come le autorità ucraine abbiano deciso di rilanciare le operazioni militari, sia pure per il momento su scala relativamente ridotta, in concomitanza con i prossimi appuntamenti dei governi occidentali nei quali si dovrà discutere della crisi in atto.

Questo atteggiamento da parte del regime di Poroshenko è tutt’altro che nuovo ed è stato sottolineato ad esempio dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, il quale ha fatto notare come le nuove tensioni siano riesplose a poche settimane dal summit UE di Bruxelles, previsto per il 25 e il 26 giugno.

In quell’occasione, i paesi membri dovranno stabilire se prolungare fino al gennaio 2016 le sanzioni punitive adottate nei confronti della Russia. Prima di questo evento, tra il 7 e l’8 giugno andrà in scena anche un vertice dei G-7 in Baviera.

Se la conferma delle sanzioni non appare in dubbio, come ha rivelato mercoledì il Wall Street Journal citando anonime fonti diplomatiche europee, nondimeno le iniziative ucraine servono a mantenere alto il livello di interesse per l’Ucraina tra i governi in Occidente, da dove era iniziato a trapelare qualche segnale di impazienza nei confronti di Kiev.

Soprattutto, il regime ucraino aveva acconsentito a sottoscrivere il cessate il fuoco di Minsk solo dietro le pressioni di Francia e Germania, preoccupate per una possibile escalation delle ostilità che avrebbe potuto trascinare direttamente la Russia nel conflitto.

Come ha spiegato giovedì l’analista Alexander Mercouris, infatti, Poroshenko e la sua cerchia di potere continuano a “non essere realmente interessati all’implementazione del Memorandum di Minsk”, poiché ciò “comporterebbe la fine del progetto Maidan”, ovvero del disegno strategico iniziato con il colpo di stato dello scorso anno per sganciare l’Ucraina dalla Russia e riorientarla verso l’Occidente.

Trattare con i “ribelli” e concedere alle loro province un’ampia autonomia significherebbe dunque riconoscere la sostanziale vittoria della Russia, la quale manterrebbe così quella che ritiene una legittima influenza su almeno una parte dell’Ucraina.

Un altro importante fattore da considerare nelle più recenti provocazioni di Kiev è poi il “continuo e rapido declino dell’economia dell’Ucraina, nonché la crescente impopolarità dei suoi leader”, così che l’opzione della guerra sembra essere un modo per recuperare consensi tra la popolazione.

Da questa prospettiva, la retorica russofoba risulta sempre lo strumento preferito dei vertici ucraini, come ha confermato questa settimana Poroshenko in un discorso di fronte al parlamento di Kiev, durante il quale ha messo in guardia da una fantomatica “invasione su vasta scala” da parte della Russia. Il presidente-oligarca ha parlato di una “minaccia colossale” che graverebbe sull’Ucraina e per questa ragione nelle province orientali sono già schierati 50 mila soldati pronti a “difendere il paese”.

La prospettiva di un inasprirsi dello scontro, infine, è apparsa evidente in maniera inquietante anche dall’annuncio fatto in questi giorni da un portavoce dell’organizzazione neo-fascista “Settore Destro” per mobilitare le milizie armate ultra-nazionaliste, già impiegate a fianco dell’esercito di Kiev nella violenta campagna di repressione contro i separatisti filo-russi.

di Michele Paris

Nella notte tra domenica e lunedì, una controversa sezione del famigerato Patriot Act è scaduta senza che il Congresso americano fosse in grado di rinnovarla, privando teoricamente l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) di uno strumento cruciale per combattere la minaccia terroristica, ovvero per intercettare in maniera indiscriminata le comunicazioni elettroniche di milioni di persone.

A nulla sono servite le suppliche del presidente Obama ai membri del Senato né gli appelli pubblici di vari membri della sua amministrazione che avevano dipinto in toni apocalittici lo scenario che si sarebbe venuto a creare negli Stati Uniti dal primo giorno di giugno con il venir meno dell’autorizzazione della sorveglianza a tappeto assegnata alla NSA.

Il leader di maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell, aveva addirittura convocato una insolita seduta nella giornata di domenica dopo la settimana di stop ai lavori per il Memorial Day, ma le “divisioni” in aula sono risultate insanabili ed è stato impossibile raggiungere un accordo entro la mezzanotte di domenica.

Il desiderio dello stesso McConnell e di altri “falchi” repubblicani era quello di ottenere un’estensione almeno temporanea della cosiddetta “Sezione 215” del Patriot Act, così da evitare lo stop, sia pure molto relativo, alle intercettazioni e avviare nuove trattative su un testo condiviso. Questa soluzione era apparsa sempre più improbabile nei giorni scorsi, dopo che un tribunale federale aveva dichiarato illegale questa parte della legge approvata all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

I titoli apparsi lunedì mattina sui media americani hanno così annunciato la fine della raccolta dei dati telefonici da parte della NSA. Tuttavia, dietro l’apparenza di un duro scontro tra favorevoli e contrari alle intercettazioni o tra favorevoli e contrari al rispetto della privacy dei cittadini USA, sempre domenica il Senato ha fatto un passo decisivo verso la salvaguardia di gran parte delle facoltà della NSA.

Una legge approvata qualche settimana fa dalla Camera dei Rappresentanti, il cosiddetto Freedom Act, ha superato senza problemi un ostacolo procedurale (“filibuster”), trovandosi la strada spianata verso il voto in aula nel corso della settimana. Un voto finale prima della scadenza della Sezione 215 del Patriot Act nella serata di domenica era risultato impossibile a causa dell’opposizione manifestata dal senatore di tendenze libertarie, nonché candidato alla nomination repubblicana, Rand Paul.

Il Freedom Act è una riforma cosmetica della NSA che toglie a quest’ultima agenzia l’autorità per raccogliere e archiviare direttamente i dati telefonici, i quali verranno invece conservati dalle compagnie di telecomunicazioni. La NSA o l’FBI potranno comunque continuare ad avere accesso alle informazioni ma solo dopo avere ricevuto l’approvazione del docilissimo Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) e sulla base di richieste circostanziate, legate cioè a ipotetiche minacce “terroristiche”.

Il percorso del Freedom Act al Senato potrebbe però non essere così semplice. Alcuni repubblicani hanno infatti intenzione di adottare emendamenti alla versione della Camera, ad esempio per portare da sei mesi a un anno il periodo di tempo a disposizione della NSA per passare al nuovo regime. Eventuali cambiamenti al testo attuale richiederebbero un ulteriore passaggio in aula alla Camera, dove nuovi malumori potrebbero emergere allungando i tempi per l’approvazione definitiva.

Ad ogni modo, gli scenari catastrofici dipinti dalla Casa Bianca e dai “falchi” del Congresso sono pura fantascienza. Per cominciare, come hanno confermato ai giornali vari esperti di intelligence, uno stop di pochi giorni alle intercettazioni non avrà conseguenze particolari, visto che la NSA potrà continuare a raccogliere informazioni su individui al centro di indagini già avviate entro il 31 maggio.

Inoltre, anche secondo una speciale commissione istituita da Obama nel 2013, il programma autorizzato dal Patriot Act non ha avuto alcun ruolo nel prevenire attacchi terroristici, mentre altri programmi previsti dalla stessa Sezione 215 sono stati raramente usati in questi anni.

La NSA dispone infine di almeno altri due strumenti pseudo-legali per continuare le proprie operazioni di sorveglianza, come la Sezione 702 del “FISA Amendments Act” del 2008 e l’oscuro Ordine Esecutivo 12333 del 1981. Secondo il primo provvedimento, il governo USA può intercettare le comunicazioni elettroniche di cittadini non americani che si trovano in un paese diverso dagli Stati Uniti anche in assenza di un ragionevole sospetto, ma anche di americani se essi finiscono nella rete della NSA in maniera “accidentale”.

Il secondo consente invece intercettazioni virtualmente illimitate ai danni di chiunque si trovi all’estero ma, anche in questo caso, nella rete possono finire i cittadini americani, poiché i loro dati che transitano sui server delle compagnie private si trovano spesso fisicamente in un paese straniero.

Alla luce della disposizione alla legalità e del rispetto dei principi costituzionali della NSA e dell’intero apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti è comunque inverosimile che possa essere adottata qualsiasi limitazione significativa dei poteri invasivi attuali. La stessa raccolta di informazioni telefoniche sulla base del Patriot Act, come ha stabilito la già ricordata sentenza di una corte federale, è ad esempio avvenuta nella completa illegalità per quasi 14 anni.

Visti i formidabili strumenti comunque nelle mani della NSA e la sostanziale inutilità delle norme appena prescritte ai fini della lotta al terrorismo, appare evidente che lo sforzo messo in atto dalla classe politica americana per salvare le prerogative fissate nel Patriot Act nasconda ben altri fini.

La raccolta di massa dei dati relativi al traffico telefonico e internet di virtualmente tutta la popolazione americana serve cioè al governo USA per creare un archivio illimitato di informazioni, utili non tanto al controllo di attività di natura terroristica bensì del dissenso politico.

La propensione alla repressione è d’altra parte documentata quotidianamente negli Stati Uniti, dal numero esorbitante di omicidi commessi dalla polizia alla risposta puntuale in assetto da guerra alle manifestazioni di protesta, esplose negli ultimi mesi proprio contro la brutalità delle forze dell’ordine.

Con la sempre più difficile sostenibilità di alcune norme che assegnano poteri vastissimi alla NSA, sia per la crescente opposizione popolare sia a seguito di opinioni espresse dai tribunali, il governo e il Congresso di Washington stanno tentando di apportare cambiamenti di facciata alle leggi approvate dopo il 2001.

Il Freedom Act su cui si appresta ad esprimersi il Senato, quindi, serve per ridare basi pseudo-legali ai crimini della NSA, consentendo alla propaganda ufficiale di dichiarare - assurdamente - ormai finita l’era delle intercettazioni extra-giudiziarie ai danni dei cittadini americani.

di Mario Lombardo

Per la prima volta da oltre quarant’anni, questa settimana uno stato americano considerato di orientamento conservatore ha abolito in maniera formale la pena di morte. A prendere questa decisione è stato il parlamento statale unicamerale del Nebraska, al termine di un lungo processo legislativo e sulla spinta di motivazioni diverse, tra cui quelle di ordine morale sono apparse minoritarie.

Nel corso del 2015, la legge che abroga la pena capitale era stata approvata a larga maggioranza per ben tre volte dall’assemblea del Nebraska, come previsto dalle regole dello stato. Il provvedimento era poi finito sul tavolo del governatore repubblicano, Pete Ricketts, il quale aveva posto il proprio veto dopo avere condotto una durissima battaglia a favore della pena di morte nel suo stato.

Nonostante il parlamento del Nebraska – nominalmente composto da deputati indipendenti – sia anch’esso a maggioranza repubblicana, una coalizione bipartisan composta dai tre quinti dei membri ha annullato il veto nella giornata di mercoledì con un voto decisivo di 30 favorevoli e 19 contrari. Mentre una maggioranza a prova di veto era considerata sicura da tempo, nei momenti che hanno preceduto il voto due deputati che avevano sostenuto l’abolizione hanno deciso a sorpresa di appoggiare il governatore, rischiando di far naufragare la legge.

Il Nebraska è diventato in ogni caso il 19esimo stato americano - più il District of Columbia - a non prevedere nel proprio ordinamento l’estrema punizione, sostituita dal carcere a vita. L’ultimo stato conservatore a prendere una simile decisione era stato il North Dakota nel 1973. Prevedibilmente, in uno stato rurale come il Nebraska le pressioni per mantenere la pena di morte sono state notevoli, alimentate dai politici più reazionari, impegnati a incitare nella popolazione sentimenti retrogradi di vendetta.

Lo stesso governatore Ricketts aveva rilasciato svariate interviste per denunciare l’abrogazione e durante la cerimonia della firma del veto nella giornata di martedì era apparso assieme ad alcuni familiari di una donna uccisa nel corso di una rapina nel 2002. Mercoledì, poi, Ricketts ha commentato il voto dell’assemblea statale con toni apocalittici, dichiarandosi “sconvolto” da una decisione che avrebbe sottratto “uno strumento cruciale per la protezione delle famiglie del Nebraska”.

Come in vari altri stati americani che prevedono la pena di morte, anche nel Nebraska non viene eseguita nessuna condanna da anni. L’ultimo caso risale al 1997 e dalla reintroduzione della pena capitale negli Stati Uniti nel 1976 le esecuzioni in questo stato sono state solo tre, tutte con il metodo della sedia elettrica, mentre i condannati detenuti nel braccio della morte sono dieci.

La legge appena approvata è stata possibile grazie all’accordo trovato tra esponenti politici di diverso orientamento, tra i quali hanno prevalso, soprattutto nello schieramento repubblicano, coloro che appoggiano l’abolizione della pena di morte perché troppo costosa e vincolata a lunghi procedimenti burocratici.

L’appello dei leader religiosi dello stato ha inoltre avuto un qualche peso. In particolare, la Chiesa cattolica aveva preso una posizione netta contro la pena di morte, con i vescovi del Nebraska che erano giunti a criticare apertamente il governatore per avere esercitato il proprio diritto di veto.

A influire sull’abolizione è stata infine probabilmente anche la controversia in atto negli Stati Uniti relativa ai farmaci da impiegare nella procedura dell’iniezione letale. Da qualche anno, le scorte dei prodotti tradizionalmente usati si sono ridotte sensibilmente o risultano esaurite. Ciò è dovuto allo stop alle forniture deciso dai produttori, soprattutto europei, che non desiderano legare il proprio nome alla pena di morte, principalmente per motivi d’immagine.

I farmaci alternativi testati dalle autorità in molti stati hanno spesso prodotto scenari raccapriccianti durante le esecuzioni, con i condannati non sufficientemente anestetizzati e quindi sottoposti ad atroci sofferenze.

La stessa Corte Suprema del Nebraska nel 2011 aveva imposto una moratoria alle condanne capitali, accogliendo un ricorso che ipotizzava il mancato rispetto delle norme farmaceutiche americane dell’anestetico “tiopental sodico”, acquistato dallo stato in India.

Se gli ostacoli legali e quelli relativi all’approvvigionamento dei farmaci hanno contribuito all’abolizione della pena di morte in Nebraska, appare improbabile che questo esempio possa essere seguito a breve da altri stati conservatori. Anzi, in molti di essi dove le condanne vengono eseguite con regolarità a dominare continuano a essere politici e giudici reazionari che incoraggiano un giustizialismo dai connotati brutali.

Uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalle autorità dello stato meridionale dell’Alabama. Qui, le caratteristiche della macchina della morte sanzionata dalla legge sono emerse da un recente articolo apparso sul magazine The Atlantic. Dopo avere esaurito le scorte di tiopental sodico, lo stato dell’Alabama a partire dal 2010 aveva addirittura acquistato questo e altri anestetici da usare nelle escuzioni sul mercato nero.

Nel 2011, era poi intervenuta l’agenzia federale per i farmaci e gli alimenti (FDA) che aveva sequestrato le riserve di tiopental sodico reperite illegalmente dall’Alabama. Le autorità dello stato avevano allora deciso di optare per un prodotto dall’effetto più blando, il midazolam, responsabile infatti di alcune esecuzioni finite male. La compagnia produttrice del midazolam - Akorn - aveva tuttavia negato di avere venduto questo prodotto allo stato dell’Alabama, facendo riesplodere le polemiche sulla provenienza dei farmaci usati per mettere a morte i condannati.

L’intera vicenda ha determinato un irrigidimento dei membri del parlamento statale dell’Alabama, tanto che nuove leggi sono state presentate per espandere il numero di reati punibili con la condanna a morte e per mantenere il segreto sui dettagli dei metodi di esecuzione impiegati.

L’Alabama, d’altra parte, giustizia un numero più alto di condannati di qualsiasi altro stato americano in proporzione ai propri abitanti e ciò grazie a una legislazione che rende estremamente facili le sentenze capitali. In più di un’occasione negli ultimi anni, ad esempio, i tribunali dell’Alabama - dove vivono nemmeno cinque milioni di abitanti - hanno emesso più condanne a morte del Texas, la cui popolazione sfiora i 28 milioni.

Se la pena di morte è stata abolita da sei stati USA dal 2007 a oggi - Maryland, Connecticut, Illinois, New Mexico, New Jersey e, appunto, Nebraska - e la percentuale di americani che la sostiene è in costante calo, i recenti sviluppi registrati in altri stati non sono incoraggianti.

La carenza di medicinali adeguati per l’iniezione letale ha infatti in molti casi portato alla reintroduzione di sistemi barbari per le esecuzioni capitali, almeno come metodi alternativi. Nei mesi scorsi, lo stato dello Utah ha reintrodotto nel proprio ordinamento la fucilazione, metodo a cui potrebbero ricorrere a breve anche l’Arkansas, l’Idaho e il Wyoming.

La sedia elettrica, tuttora teoricamente prevista in alcune giurisdizioni, era stata infine presa in considerazione dalla Virginia come prima alternativa all’iniezione letale, cosa che ha effettivamente fatto nel 2014 lo stato del Tennessee.


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