di Emy Muzzi

Londra. Il comunicato stampa con cui il Foreign Office britannico ha annunciato il via libera, con le debite precauzioni, ai cittadini britannici che volessero visitare l’Iran, ha aperto uno squarcio nel cielo grigio e piovoso di uno dei tanti sabati londinesi. Sì è vero, non è altro che l’estensione diplomatica dell’accordo di Vienna per la non proliferazione del nucleare, eppure la decisione ha il suo peso e il suo senso nel marcare quella che è senza dubbio una vittoria della diplomazia che segna la travagliata storia dei rapporti Iran-Occidente.

L’agreement voluto da Obama, Kerry, Rouhani e il ministro degli esterni iraniano Javad Zarif, apre una nuova fase che, se le 111 pagine del trattato saranno rispettate da Tehran, avrà sviluppi politico economici notevoli.

Ma i limiti restano: se da una parte i ‘Brits’ potranno apprezzare la maestosità dell’Impero Persiano a Tehran o a Persepoli, in caso di necessità non ci sarà ancora un’ambasciata britannica a dar loro sostegno.

L’attacco del 2011 contro la sede diplomatica del Regno Unito a Tehran è ancora storia recente. Ci vorrà tempo perché la Union Jack sventoli di nuovo a Tehran, ma il ministro degli esteri Philip Hammond fa capire, tra le parole, che se la riduzione delle sanzioni da una parte e l’abbandono del programma nucleare a fini bellici dall’altra funzioneranno, l’ambasciata potrebbe anche riaprire.

Per il momento i cittadini britannici dovranno evitare i confini con Pakistan, Afghanistan e Iraq e fare riferimento all’ambasciata svedese. Fatta eccezione per queste aree di crisi il capo del Foreign Office ha dichiarato che “In altre aree dell’Iran il rischio per i cittadini britannici è cambiato, e questo in parte è dovuto alla riduzione dell’ostilità sotto il governo del presidente Rouhani”.

La mossa sullo scacchiere della diplomazia internazionale accende su Londra quella luce che nelle settimane scorse a Vienna era stata oscurata da John Kerry e dalla sua dialettica decisa che se da una parte viene regolarmente smentita dalla malafede della ‘necessità’ di una guerra in Siria, dall’altra ha il pregio di aver imposto dei limiti all’Israele oltranzista di Netanyahu che ha tentato, come sempre, di monopolizzare e strumentalizzare il Congresso Usa ai suoi fini.

La smaccata indipendenza delle dinamiche Usa, e (moderatamente di riflesso) anche Britanniche, dalla violenta opposizione di Israele all’accordo con Tehran è il passo in avanti verso quella marginalizzazione del potere di Benjamin Netanyahu che riequilibra, in parte, l’asse internazionale.

A cosa si deve questa svolta? A chi fa, o faceva comodo, un Iran nemico del mondo, minaccia internazionale e minaccia incombente di morte per Israele? Ai conservatori in Usa e Israele sicuramente, all’industria e commercio legale e illegale di armi, e sul fronte politico alla Russia rispetto al margine d’influenza e strumentalizzazione del mondo islamico in funzione anti occidentale in una fase in cui il conflitto in Ucraina ha inaugurato il ‘revival’ della guerra fredda.

Inoltre c’è una cosa che ha cambiato l’ottica dei Democratici Usa su Israele: la vendita illegale delle armi tecnologiche ‘made in Usa’ alla Cina (su cui pende il bando). Questa porcata gli americani non l’hanno dimenticata e, qui ricordiamo, che la strategia di marginalizzazione di Russia e Cina è la strategia a lungo termine che tiene alta la bandiera filo iraniana.

Nel pur necessario scetticismo, bisogna riconoscere che l’accordo è un passo serio, positivo. Una delle conseguenze immediate risuona nella parola chiave comprensibile in tutte le lingue, anche in persiano: ‘business’.

Se il Regno Unito nel ricostruire il business con Tehran procede ancora con cautela, è Berlino a fare il salto in avanti. Pochi giorni fa Bloomberg ha lanciato la notizia: “Il gruppo Basf sta pianificando la ricostruzione del suo business in Iran”. La potente multinazionale chimica tedesca è pronta a fare affari.

Reduce da una visita, (non turistica) nel regno dell’antica Persia assieme al vice della Merkel, Sigmar Gabriel, il ceo della Basf Kurt Bock ha detto entusiasta in una trionfale conferenza stampa: “La tecnologia, la qualità del lavoro e l’attendibilità tedesche sono altamente apprezzate in Iran, per questo abbiamo grandi possibilità di ricucire e sviluppare vecchi legami”.

Oddio! Ma la Basf non era multinazionale criminale che costruiva elementi chiave per la costruzione di armi chimiche? Speriamo che l’accordo di Vienna non si risolva in una riconversione dell’industria bellica iraniana dal nucleare al chimico....


di Michele Paris

La pubblicazione avvenuta questa settimana dell’annuale “libro bianco” del ministero della Difesa giapponese ha innescato un nuovo scontro diplomatico con il governo cinese in concomitanza con l’approvazione alla camera bassa del parlamento di Tokyo di un pacchetto legislativo volto a liquidare i principi pacifisti fissati dalla Costituzione nipponica.

Il documento che delinea le sfide globali alla sicurezza del Giappone dedica un’insolitamente ampia sezione alla Cina, il cui comportamento sembra suscitare “forti preoccupazioni” a Tokyo. Il tono del “libro bianco” è di forte critica verso il vicino cinese e, in particolare, contiene rimproveri altamente provocatori in merito alle operazioni di Pechino nelle acque contese dei mari Cinese Orientale e Meridionale.

La Cina, secondo il governo ultra-conservatore del premier Shinzo Abe, agirebbe in maniera “aggressiva”, cercando di forzare il cambiamento dello status quo e di promuovere le proprie rivendicazioni “senza scendere a compromessi”.

L’aspetto più controverso del documento giapponese, e maggiormente contestato da parte della Cina, riguarda la richiesta di interrompere la costruzione di piattaforme per l’esplorazione di giacimenti di gas e petrolio nel Mar Cinese Orientale.

A supporto delle proprie critiche, il ministero della Difesa di Tokyo nella giornata di mercoledì ha diffuso una mappa che indica il posizionamento delle strutture “off-shore” installate dalla Cina, in aggiunta a 14 fotografie aeree degli stessi impianti. Per il segretario generale del Gabinetto giapponese, Yoshihide Suga, le piattaforme accertate sarebbero 16, di cui 12 identificate a partire dal giugno 2013.

Lo stesso Suga ha inoltre spiegato quali sarebbero le ragioni della preoccupazione giapponese per le attività di Pechino. Il governo cinese, cioè, avrebbe costruito le strutture utili all’estrazione di gas e petrolio in un’area dove i confini tra i due paesi non sono stati ancora definiti bilateralmente.

Tokyo invita perciò le autorità cinesi a tornare al tavolo delle trattative sulla base di un accordo raggiunto tra i due paesi nel 2008, nel quale avevano concordato in linea di principio di condurre operazioni esplorative congiunte nel Mar Cinese Orientale.

Il carattere tendenzioso delle accuse formulate da Tokyo è apparso chiaro nel momento in cui il governo Abe ha ribadito che, in assenza di un accordo bilaterale, la propria posizione ufficiale in relazione al Mar Cinese Orientale prevede il riconoscimento di una linea di demarcazione che taglia esattamente a metà l’area marittima in questione. Da questo presupposto, il Giappone ha dovuto ammettere che le strutture costruite da Pechino sono situate sul lato cinese della linea mediana di demarcazione.

L’interpretazione giapponese - sia pure provvisoria - dei confini nel Mar Cinese Orientale ha dato così legittimità alle reazioni del ministero degli Esteri di Pechino, da dove è stato ribadito che le attività di esplorazione per gas e petrolio “vengono condotte in acque indisputabilmente sotto la giurisdizione cinese, la quale è pienamente all’interno della sovranità” della Repubblica Popolare.

Il Giappone, in ogni caso, teme che la propria sicurezza possa essere compromessa se le strutture “off-shore” cinesi dovessero essere utilizzate a scopi militari, ad esempio con il posizionamento di “sistemi radar” o con la creazione di “basi operative per elicotteri o droni destinati a condurre pattugliamenti aerei”. Vari commentatori e analisti citati anche dalla stampa giapponese, tuttavia, hanno espresso parecchie perplessità circa il fatto che le piattaforme esistenti possano essere convertite in strutture militari da parte della Cina.

Come già anticipato, il “libro bianco” del ministero della Difesa nipponico è stato reso noto pochi giorni dopo l’approvazione in parlamento di un provvedimento fortemente voluto dal primo ministro Abe e che dovrebbe consentire l’impiego delle forze armate del Giappone all’estero con minori vincoli. Tra l’altro, la nuova legislazione prevede la possibilità che i militari giapponesi partecipino alle avventure belliche degli alleati, a cominciare dagli Stati Uniti.

Queste leggi, oltre a essere di molto dubbia costituzionalità, sono estremamente impopolari in Giappone e la loro promozione da parte di Abe ha già provocato un vero e proprio crollo dell’indice di gradimento del premier nel paese. Il ricorso a una retorica aggressiva per demonizzare la Cina intende dunque sollecitare il sentimento nazionalista giapponese, così da contrastare la diffusa opposizione alla svolta militarista impressa dal capo del governo.

Su questo punto ha insistito la reazione cinese alla pubblicazione del documento strategico giapponese. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che Tokyo “ha maliziosamente ingigantito le questioni riguardanti il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale”, ma anche quelle sulla “sicurezza del web e la trasparenza militare”.

Tutto ciò, secondo quanto affermato giovedì dall’ambasciatore cinese a Tokyo, Cheng Yonghua, allo scopo di “alimentare la minaccia cinese” e favorire l’implementazione del controverso pacchetto legislativo sulla sicurezza. Lo stesso ambasciatore ha poi aggiunto che trasformare la Cina in un “nemico immaginario” non può che ostacolare il miglioramento dei rapporti tra i due paesi.

La strumentalizzazione del “libro bianco” giapponese e delle accuse alla Cina in esso contenute è stata confermata da quanto ha scritto giovedì il quotidiano nipponico conservatore Yomiuri Shimbun, secondo il quale il governo di Tokyo ha chiesto almeno dal 2013 lo stop delle operazioni esplorative di Pechino nel Mar Cinese Orientale, ma ha atteso solo ora - in contemporanea con il voto in parlamento sulla legislazione militarista - per pubblicare le immagini e la mappa delle installazioni “off-shore”.

Con la mossa di questi ultimi giorni, il governo giapponese ha aggiunto quindi un nuovo motivo di scontro con la Cina, facendo salire ulteriormente le tensioni in Estremo Oriente. L’aggravamento di conflitti territoriali considerati relativamente trascurabili per decenni nel continente asiatico è legato principalmente al ritorno ad aggressive politiche all’insegna del militarismo da parte di Tokyo.

Allo stesso tempo, queste stesse politiche sono in parte il riflesso del riassetto strategico in fase di elaborazione degli Stati Uniti, a sua volta determinato dall’espansione dell’influenza cinese in un’area del globo strategicamente ed economicamente sempre più importante.

Washington, nel tentativo di invertire il proprio declino, ha lanciato un ambizioso quanto pericoloso piano di riposizionamento delle proprie forze navali in Asia orientale, perseguendo in parallelo legami diplomatici e militari più profondi con vari paesi, molti dei quali da qualche tempo nell’orbita economica di Pechino.

In questo processo, dal Giappone alle Filippine al Vietnam, gli USA hanno incoraggiato rivendicazioni territoriali e atteggiamenti provocatori nei confronti della Cina, in una strategia di accerchiamento che rischia seriamente di portare le tensioni fino al punto di rottura.

di Michele Paris

Nel corso di una recente intervista televisiva al network americano MSNBC, uno degli ex alti ufficiali più autorevoli e influenti degli Stati Uniti ha apertamente invocato misure di controllo e repressione del dissenso tipiche del regime nazista. Il generale in pensione Wesley Clark, già due volte brevemente candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca, ha infatti prospettato la detenzione in campi di internamento per coloro che ha definito come “americani sleali”.

L’inquietante proposta è stata illustrata nel corso di un intervento seguito alla recente sparatoria in un centro di reclutamento delle forze armate USA a Chattanooga, nel Tennessee, per mano di un giovane di origine kuwaitiana che avrebbe manifestato simpatie fondamentaliste.

Per trovare una soluzione alla presunta minaccia terroristica che incomberebbe sugli Stati Uniti, Clark ha fatto riferimento al periodo della Seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto, cioè, “se qualcuno appoggiava la Germania nazista a spese degli Stati Uniti”, ha spiegato l’ex generale, “veniva rinchiuso in un campo come prigioniero di guerra”, visto che questa opinione non era considerata come una manifestazione della libertà di espressione.

Allo stesso modo, nella situazione odierna, per queste persone con tendenze fondamentaliste, “diventare radicalizzate, non appoggiare gli Stati Uniti ed essere sleali verso gli Stati Uniti, in linea di principio è un loro diritto”, secondo Clark. Tuttavia, “è nostro diritto e obbligo di isolarli dalla comunità per la durata del conflitto” in corso contro il terrorismo internazionale.

Ancora più sbalorditiva è stata la tesi successiva dell’ex comandante NATO in Europa, per il quale il rischio rappresentato dai musulmani “radicalizzati” autorizzerebbe misure preventive. Il governo dovrebbe così “identificare le persone che hanno maggiori probabilità di seguire un percorso di radicalizzazione”, in modo da “interromperlo precocemente”. Il consiglio di Clark non è indirizzato infine soltanto alle autorità americane, ma anche ai “paesi alleati come Regno Unito, Germania e Francia”, i quali dovrebbero “rivedere le loro procedure legali”, ovvero procedere con lo smantellamento delle più fondamentali garanzie democratiche.

In sostanza, il consiglio avanzato da Clark implica che il governo dovrebbe prendere di mira individui non solo che non hanno commesso alcun crimine ma che non hanno nemmeno manifestato l’intenzione di commettere qualche atto vagamente illegale. Un’iniziativa di questo genere – evidentemente adeguata a uno stato di polizia – dovrebbe comportare un’ulteriore espansione della sorveglianza di massa ai danni della popolazione americana, così da identificare potenziali “terroristi” sulla base delle loro idee o, ancora peggio, delle loro ipotetiche tendenze o inclinazioni.

La gravità delle parole di Wesley Clark è difficile da sopravvalutare. Com’è evidente, il concetto di “slealtà” verso gli Stati Uniti evocato dall’ex generale, nonostante sia stato collegato da egli stesso alla minaccia del terrorismo islamista, è sufficientemente indefinito da includere virtualmente ogni genere di opposizione alle politiche repressive, imperialiste e al servizio dei grandi interessi economici del governo americano.

Al di fuori di ogni vincolo legale, Clark auspica inoltre la detenzione in campi di internamento per l’intera durata della “guerra” senza fine che gli USA starebbero combattendo contro il terrorismo, risultando di fatto in una prigionia indefinita.

La sua citazione del clima di paranoia durante la Seconda Guerra Mondiale è poi ulteriormente allarmante per i musulmani, visto che fa riferimento alle decine di migliaia di americani di origine tedesca e, soprattutto, giapponese, internati praticamente soltanto a causa del loro paese di provenienza, in quello che viene ormai comunemente riconosciuto come un crimine commesso dal governo USA.

Il cenno alle simpatie naziste che avrebbero giustificato in passato la detenzione di civili innocenti in suolo americano è inoltre tristemente ironico, poiché la proposta avanzata settimana scorsa da Clark è perfettamente in linea con i provvedimenti adottati proprio da Adolf Hitler a partire dal 1933 contro i suoi oppositori con la scusa di combattere un’inesistente minaccia “terroristica” che gravava sul Reich.

Sconcertante quasi come le parole dell’ex generale Clark è stato il quasi completo silenzio della stampa ufficiale negli Stati Uniti. I suoi commenti sui campi di internamento non sono stati riportati dalle principali pubblicazioni, nemmeno quelle teoricamente “liberal” come New York Times e Washington Post.

I pochi media, soprattutto alternativi, che ne hanno dato notizia hanno spesso ricordato come questa proposta non sia giunta da una delle varie figure di agitatori della galassia dell’estrema destra americana, bensì da un ex alto ufficiale che, secondo la testata on-line The Intercept, “si è fatto un nome all’interno dei circoli politici progressisti”.

Affiliato al Partito Democratico, per il quale, come già ricordato, ha corso in due occasioni senza successo per la Casa Bianca, Clark è un sostenitore della candidatura alla presidenza di Hillary Clinton. Nel passato più o meno recente, inoltre, l’ex generale era stato molto critico degli abusi dell’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre.

La maschera “progressista” di Clark è però caduta definitivamente, assieme a quella della classe dirigente americana, dal momento che il pensiero dell’ex generale è con ogni probabilità condiviso da molti nelle stanze del potere a Washington.

Già sul finire degli anni Ottanta, nell’ambito dello scandalo Iran-Contras gli americani erano venuti a conoscenza della cosiddetta “Operazione Rex 84” che prevedeva, in una situazione di crisi, la sospensione della Costituzione, l’entrata in vigore della legge marziale, l’assegnazione dei compiti di governo ai militari e il trasferimento forzato in campi di detenzione di coloro che erano considerati una minaccia alla sicurezza nazionale.

Più recentemente, la questione dei campi di internamento è tornata a circolare negli Stati Uniti. Lo scorso anno, ad esempio, il giudice ultra-reazionario della Corte Suprema, Antonin Scalia, nel corso di un discorso pubblico aveva citato una sentenza del 1944 che autorizzava le detenzioni di massa in campi di internamento sul territorio americano, avvertendo i suoi ascoltatori che si sarebbero “auto-ingannati se avessero pensato che la stessa cosa non potrebbe succedere ancora”.

Senza evocare teorie cospirazioniste, è dunque tutt’altro che improbabile che all’interno dell’apparato politico-militare americano da qualche tempo si sia tornati a discutere di misure estreme come la detenzione di massa di individui “radicalizzati” o semplicemente di oppositori del governo.

Una misura di questo genere è d’altra parte in linea con molte altre adottate nell’ultimo decennio per rafforzare i poteri di controllo dell’apparato della sicurezza nazionale, dal Patriot Act ai provvedimenti pseudo-legali che autorizzano il monitoraggio di massa delle comunicazioni elettroniche.

Vista la reale entità della minaccia del terrorismo islamista, di gran lunga inferiore ad esempio a quella rappresentata dalle forze di polizia USA, responsabili in media di più di mille uccisioni di civili ogni anno, le ragioni della creazione delle fondamenta di uno stato di polizia sono da ricercare altrove.

La classe dirigente americana è attraversata cioè dal timore quotidiano per una possibile esplosione sociale, alimentata da politiche destabilizzanti e distruttive sul fronte internazionale e, su quello domestico, da disuguaglianze economiche gigantesche e sempre meno compatibili con sistemi di governo anche solo apparentemente democratici.

di Mario Lombardo

Quando nell’estate del 2013 il Parlamento di Londra fu chiamato a esprimersi sulla richiesta del governo Cameron di autorizzare l’aggressione militare contro il regime di Bashar al-Assad in Siria, il voto si risolse in una clamorosa sconfitta per il gabinetto conservatore-liberaldemocratico. I deputati britannici, riflettendo il diffusissimo sentimento anti-bellico nel paese, contribuirono di fatto a impedire un nuovo conflitto in Medio Oriente.

Ma a distanza di due anni è emerso come il governo abbia deciso di agire in maniera illegale e nella quasi totale segretezza, autorizzando la partecipazione delle proprie forze aeree alla campagna di bombardamenti guidata dagli Stati Uniti in territorio siriano.

Com’è noto, meno di un anno dopo la marcia indietro di Obama sulla guerra in Siria, il cui lancio doveva basarsi su accuse infondate rivolte a Damasco di avere utilizzato armi chimiche contro i “ribelli”, Washington avrebbe ugualmente avviato la propria offensiva nel paese mediorientale. La giustificazione, in questo caso, era stata il dilagare dello Stato Islamico (ISIS).

Nel settembre del 2014, il Parlamento britannico avrebbe dato a sua volta il via libera alla partecipazione delle proprie forze armate alla guerra aerea, ma solo ed esclusivamente in territorio iracheno. Il provvedimento approvato a Londra affermava, in maniera difficilmente equivocabile, che non veniva concessa alcuna autorizzazione a bombardare la Siria ma, per fare ciò, il governo avrebbe dovuto passare attraverso “un voto separato del Parlamento”.

La rivelazione che un certo numero di piloti britannici sono stati e continuano a essere coinvolti nella campagna di bombardamenti in Siria è giunta in seguito all’accoglimento di un’istanza presentata dall’organizzazione umanitaria Reprieve in base alla legge sulla libertà di informazione. Il Ministero della Difesa di Londra ha dovuto così ammettere che i propri uomini fin dall’autunno dello scorso anno avevano iniziato a partecipare a missioni di guerra ufficialmente proibite per le forze britanniche.

Inizialmente, una portavoce del premier aveva cercato di minimizzare la vicenda, sostenendo che fin dagli anni Cinquanta è “pratica comune” per il personale militare britannico partecipare a operazioni di guerra con paesi alleati. Dopo queste dichiarazioni era giunta però la conferma che Cameron era a conoscenza del fatto che soldati del Regno erano impegnati segretamente in operazioni aeree in Siria.

Lunedì, poi, il ministro della Difesa conservatore, Michael Fallon, è apparso alla Camera dei Comuni per rispondere alle domande dell’opposizione sulla questione dell’impiego di militari britannici in Siria. Nonostante le azioni del governo siano state palesemente ingannevoli nei confronti del Parlamento e dei cittadini, non solo Fallon ha potuto chiudere il suo intervento senza troppe difficoltà, ma ha rilanciato le intenzioni del suo gabinetto di intensificare l’impegno in Siria.

Il ministro ha ammesso che cinque piloti britannici hanno partecipato ai bombardamenti aerei in Siria contro l’ISIS e altri 75 soldati hanno preso parte a diverse operazioni militari in questo paese assieme agli alleati.

Fallon ha assicurato che le operazioni erano state preventivamente approvate dal governo e che sono rimaste regrete per “ragioni di sicurezza”. Se, però, al governo fossero state chieste informazioni in proposito da parte dei membri del Parlamento, ha aggiunto Fallon, “ogni dettaglio sarebbe stato certamente fornito”.

Le ragioni suggerite dal ministro della Difesa per avere preso una decisione illegale di estrema gravità sono state molteplici nel corso del suo intervento di lunedì, anche se nessuna legittima. Ad esempio, Fallon ha sostenuto che il voto contrario al governo nell’agosto del 2013 si riferiva a operazioni belliche contro le forze di Assad e non contro l’ISIS.

La campagna contro quest’ultima organizzazione sarebbe inoltre un altro motivo dell’impiego segreto di piloti britannici in Siria, visto che la Gran Bretagna - in questo caso con un voto favorevole del Parlamento - è parte integrante della coalizione messa assieme dagli Stati Uniti per combattere un nemico che opera in buona parte in questo paese.

Inevitabile è stato anche il riferimento alla recente strage in una località turistica della Tunisia, commessa da seguaci dell’ISIS, nella quale sono stati uccisi una trentina di cittadini britannici. Il colpo di genio di Fallon e del governo Cameron, però, è stato la giustificazione che le operazioni aeree a cui hanno partecipato i propri piloti non erano di iniziativa britannica, bensì delle forze alleate americane o canadesi, e ciò non comportava quindi la necessità di un’autorizzazione parlamentare.

Nonostante il fatto di avere agito in contravvenzione di ben due risoluzioni del Parlamento, né Fallon né tantomeno Cameron sono stati sfiorati da ipotesi di dimissioni. Gli stessi membri dell’opposizione, pur avendo espresso critiche più o meno deboli nei confronti del governo, non hanno sostanzialmente messo in discussione la posizione del ministro della Difesa.

La docilità dell’opposizione ha così contribuito al contrattacco del governo, intenzionato a non fare nessuna marcia indietro. Quando lunedì alla Camera è stato chiesto ad esempio a Fallon se la Difesa intendeva sospendere la partecipazione dei piloti britannici alle operazioni militari in Siria finché il governo non avesse ottenuto un voto favorevole del Parlamento, il ministro ha escluso categoricamente questa possibilità.

Anzi, il governo appare “determinato a impiegare tutte le forze a disposizione per fare ancora di più per combattere l’ISIS” in Siria. Secondo i media britannici, Cameron e Fallon potrebbero chiedere al Parlamento già in autunno l’autorizzazione per condurre incursioni militari “dirette” – ovvero interamente sotto il comando di Londra – contro l’ISIS anche in Siria.

Il primo ministro, parlando domenica al network americano NBC, ha ribadito la necessità di “distruggere il Califfato” in Iraq e in Siria ma, per quanto riguarda le operazioni in quest’ultimo paese, con l’accordo del Parlamento.

Il gabinetto conservatore è ben consapevole di avere agito nella completa illegalità e, pur affrontando la vicenda con un mix di arroganza e ostentata sicurezza, intende ricomporre la relativa frattura creatasi con il Parlamento per timore che altre decisioni unilaterali nell’ambito della guerra in Medio Oriente alimentino ulteriori sentimenti anti-bellici nella popolazione.

Il vero obiettivo del governo Cameron, in ogni caso, coincide con quello degli alleati americani in Iraq e in Siria, vale a dire l’intensificazione dello sforzo militare per rovesciare il regime di Assad, anche se dietro il paravento della lotta all’ISIS.

La classe dirigente di Londra, così come quella di Washington, non intende perciò accettare vincoli legali né l’opinione della popolazione nell’avanzamento dei propri interessi, tanto che alcune voci all’interno dell’establishment della sicurezza in Gran Bretagna già prospettano un’ulteriore escalation del conflitto in atto.

L’ex comandante delle forze armate del Regno, Lord Richards, solo qualche giorno fa ha ad esempio affermato in un’intervista alla BBC che una strategia efficace per sconfiggere l’ISIS dovrà prima poi includere il dispiegamento di truppe di terra.

di Michele Paris

Uno dei riflessi dell’accordo sul nucleare iraniano, siglato la scorsa settimana a Vienna e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lunedì, è stata la reazione più o meno accesa degli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, preoccupati per le conseguenze strategiche vere o presunte del riavvicinamento tra Washington e Teheran. Israele e Arabia Saudita, in particolare, continuano a nutrire serie preoccupazioni sul ruolo da protagonista che la Repubblica Islamica potrebbe tornare a giocare nella regione, costringendo l’amministrazione Obama a intervenire con iniziative volte a placare le ansie degli inquieti alleati.

Non solo il fronte interno americano è apparso subito caldo all’indomani della firma dell’intesa nella capitale austriaca, con la maggioranza repubblicana al Congresso e parte dei democratici pronti a bocciare il testo dell’accordo, ma soprattutto il governo israeliano ha sparato a zero su quello che i giornali d’oltreoceano hanno definito come il principale successo in politica estera del presidente Obama.

Note sono ormai le sfuriate del premier Netanyahu, intervenuto più volte pubblicamente per condannare l’accordo di Vienna, bollandolo come uno “storico errore” e assicurando di essere pronto a morire pur di bloccarne l’implementazione. Lo stesso primo ministro è apparso anche in alcuni show domenicali negli Stati Uniti nel fine settimana, ribadendo le sue dichiarazioni deliranti circa il pericolo rappresentato dalla “macchina del terrore iraniana”.

Secondo Israele, l’accordo sottoscritto con il gruppo dei P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) dopo quasi due anni di negoziati consentirebbe alla Repubblica Islamica di proseguire i progetti per la costruzione di ordigni nucleari e di mettere le mani su oltre 100 miliardi di dollari congelati all’estero a causa delle sanzioni, con i quali potrebbe finanziare e armare forze nemiche di Tel Aviv, come Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.

Decisamente più sommesse sono state al contrario le reazioni pubbliche della monarchia saudita, con poche voci che hanno esplicitamente criticato gli USA. Una di queste è stata quella dell’ex potente capo dei servizi segreti sauditi, Bandar bin Sultan, per il quale l’accordo sul nucleare permetterà all’Iran di “seminare il caos nella regione”.

Sia Israele sia l’Arabia Saudita sono evidentemente impegnati in un esercizio di rovesciamento della realtà mediorientale, dove a destabilizzare la regione e a generare caos e morte sarebbe Teheran e non i governi di questi due stessi paesi, alternativamente responsabili - assieme agli Stati Uniti - del massacro indiscriminato di civili palestinesi, della dissoluzione dello stato siriano, dell’aggressione contro lo Yemen e del proliferare di organizzazioni fondamentaliste.

Nel caso di Israele, oltretutto, l’iprocrisia sfiora l’incredibile, poiché questo paese, oltre ad agire regolarmente in violazione del diritto internazionale, possiede un numero imprecisato di armi nucleari non dichiarate e, a differenza dell’Iran, non ha mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione.

L’atteggiamento di Tel Aviv e Riyadh rischia dunque di ostacolare l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare ma, dal momento che per molti versi i disegni strategici dei due paesi coincidono sostanzialmente con quelli americani, gli Stati Uniti non possono che provare a ricucire gli strappi con entrambi. A questo scopo, lunedì ha preso il via la trasferta in Medio Oriente del segretario alla Difesa, Ashton Carter. La prima tappa di quest’ultimo è Israele, da dove raggiungerà la Giordania e, infine, l’Arabia Saudita.

Il viaggio di Carter è accompagnato dalle voci di un’offerta, fatta probabilmente dallo stesso Obama a Netanyahu nel corso di un colloquio telefonico la scorsa settimana, di consolidare la partnership tra i due alleati nell’ambito della sicurezza. In concreto, Washington intende placare la rabbia di Netanyahu con maggiori aiuti militari, secondo alcuni passando dagli attuali 3 miliardi di dollari all’anno a 4,5 miliardi.

L’amministrazione Obama teme che le manovre del governo di estrema destra di Tel Aviv possano riuscire a far naufragare l’accordo sul nucleare ora all’esame del Congresso americano, i cui membri saranno chiamati a votarlo entro 60 giorni. Inoltre, non del tutto da escludere continua a essere una possibile iniziativa militare unilaterale da parte di Israele contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze difficili da calcolare.

Ad ogni modo, secondo quanto riportato dai giornali americani nei giorni scorsi, Netanyahu non appare ancora pronto a discutere i nuovi “aiuti” militari con gli alleati americani, ma preferisce appunto attendere l’esito del voto al Congresso sull’accordo con l’Iran.

Apparentemente più malleabili sembrano essere invece i vertici sauditi, forse non convinti dell’opportunità della soluzione pacifica della vicenda del nucleare iraniano ma ben disposti verso il rafforzamento dei legami militari con Washington. Già a maggio, infatti, Obama aveva ospitato a Camp David un summit con i rappresentanti delle monarchie assolute del Golfo Persico, confermando l’impegno americano per la sicurezza di queste ultime.

La settimana scorsa, poi, il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, si era recato a Washington per altre discussioni su questi argomenti che, prevedibilmente, saranno sull’agenda del numero uno del Pentagono nella sua imminente visita a Riyadh. Carter, da parte sua, alla vigilia della partenza per il Medio Oriente ha ricordato come “nelle 100 pagine [dell’accordo sul nucleare] non ci sia nulla che limiti gli Stati Uniti nella difesa dei propri alleati, incluso Israele”.

Come ha spiegato domenica il Wall Street Journal, infatti, gli USA starebbero valutando di accelerare “le forniture di armi ai paesi arabi del Golfo Persico”, nonché i “piani per sviluppare un sistema regionale integrato di difesa missilistica”.

A ciò vanno aggiunte anche le decine di miliardi di dollari spesi negli ultimi anni da questi stessi regimi per acquistare nuovi armamenti letali dagli Stati Uniti. Una vera e propria corsa al riarmo, quella in atto in Medio Oriente con il beneplacito di Washington, che stride fortemente sia con le intenzioni di pace manifestate dall’amministrazione Obama all’indomani della firma sull’accordo con l’Iran sia con l’ostinazione con cui gli USA e i loro alleati nei P5+1 hanno perseguito a Vienna il mantenimento dell’embargo sulle armi che pesa sulla Repubblica Islamica.

L’importanza assegnata dalla Casa Bianca ai rapporti con Israele e le monarchie del Golfo, in funzione della necessità di vedere ratificato l’accordo sul nucleare, è comunque evidente dagli sforzi diplomatici in atto. Dopo la trasferta di Carter, ai primi di agosto toccherà al segretario di Stato, John Kerry, fare visita agli alleati arabi, in preparazione dei probabili colloqui che il presidente Obama terrà a settembre con alcuni esponenti di questi ultimi – e forse con lo stesso Netanyahu – a margine dell’annuale Assemblea Generale dell’ONU.

Paesi come Israele e Arabia Saudita, come gli Stati Uniti e gli altri paesi impegnati nei negoziati di Vienna, sono perfettamente a conoscenza del fatto che l’Iran non stia sviluppando alcun programma nucleare a scopi militari, così che il loro agitarsi per far fallire l’accordo nasconde apprensioni di diversa natura.

Entrambi, cioè, paventano la scelta strategica americana in questo ambito perché un’eventuale distensione tra Teheran e Washington potrebbe determinare un ridimensionamento della loro posizione di principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, con tutte le conseguenze sfavorevoli che ne deriverebbero in termini di equilibri militari, politici e strategici.

L’amministrazione Obama è però determinata a mandare in porto l’accordo appena firmato, visto che l’esplorazione di un processo di allentamento delle tensioni con l’Iran è strettamente legata alle sfide immediate e future alla posizione dominante degli USA nel pianeta rappresentate da Cina e Russia e, ancor più, da una possibile integrazione economico-politica euroasiatica.

Una qualche riconciliazione con la Repubblica Islamica potrebbe comportare per il governo americano anche la neutralizzazione di un rivale importante, favorita dagli orientamenti relativamente filo-occidentali della leadership moderata del presidente Hassan Rouhani e del suo ministro degli Esteri, Mohammad Javaz Zarif, e il tentativo quanto meno di rallentare lo spostamento definitivo di questo stesso paese verso l’asse Mosca-Pechino in fase di formazione.

Per perseguire questo obiettivo, tuttavia, Washington dovrà muoversi con estrema cautela per non danneggiare in maniera irreparabile i rapporti con i propri alleati mediorientali, come ha già in qualche modo avvertito l’Arabia Saudita attraverso recenti accordi economico-militari negoziati con Mosca. Questo equilibrio precario ancora tutto da raggiungere, perciò, rende già da ora estremamente complicata la scommessa americana suggellata con il neonato accordo sul nucleare iraniano.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy