di Michele Paris

Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia ha assegnato come previsto il successo definitivo all’ex esponente del deposto regime di Ben Ali, Béji Caïd Essebsi, contribuendo al consolidamento del potere da parte del suo partito, Nidaa Tounes, grazie principalmente al fallimento politico delle forze che avevano cavalcato la rivoluzione popolare del 2011.

Subito dopo la chisura dei seggi nella giornata di domenica, il team dell’88enne Essebsi aveva dichiarato vittoria basandosi sui dati diffusi da almeno tre exit poll che gli assegnavano un vantaggio incolmabile sul suo rivale, il presidente ad interim Moncef Marzouki, inizialmente non disposto a riconoscere la sconfitta.

I risultati definitivi hanno alla fine sostanzialmente confermato i numeri provvisori, con Essebsi che si è aggiudicato il 55,7% dei consensi espressi e Marzouki il 44,3%. Al primo turno nel mese di novembre, il primo aveva ottenuto il 39,5% dei voti contro il 33,4% di Marzouki.

L’epilogo del voto per la carica di presidente è stato salutato dai media internazionali come il coronamento del processo di transizione democratica seguito alla fine del regime e che aveva avuto le sue tappe più significative nella stesura di una nuova costituzione e nelle elezioni legislative dell’ottobre scorso.

Il modello tunisino, in particolare, è stato promosso come valida alternativa al percorso accidentato sulla strada della “democrazia” di altri paesi nordafricani e mediorientali attraversati dalle rivolte contro i precedenti regimi, a cominciare dai vicini Egitto e Libia, sfociate rispettivamente in una nuova dittatura militare e nella totale devastazione del tessuto sociale a causa dell’intervento “umanitario” delle forze armate della NATO.

L’evoluzione del quadro politico tunisino, però, ha appunto finito col riportare al potere i membri del regime di Ben Ali e, a ben vedere, è stata anch’essa estremamente travagliata, sia pure senza la violenza estrema registrata altrove. Soprattutto, la Tunisia convidide con gli altri paesi interessati dalla “Primavera Araba” la mancata soddisfazione delle legittime aspirazioni della popolazione scesa nelle piazze.

Il voto per la creazione di un’Assemblea Costituente nell’ottobre 2011 aveva visto prevalere il partito islamista moderato Ennahda, anche se la mancanza di una maggioranza assoluta aveva costretto quest’ultimo a entrare in una coalizione con altre due formazioni: il partito social-democratico Ettakatol e quello secolare dello stesso Marzouki (Congresso per la Repubblica o CPR).

Il governo guidato da Ennahda, con la supervisione di Marzouki come presidente ad interim, ha messo in atto politiche economiche liberiste che hanno finito addirittura per peggiorare la situazione della maggior parte dei tunisini, mentre allo stesso tempo le forze islamiste nel paese hanno acquistato progressivamene maggiore fiducia.

Il gabinetto di transizione è poi precipitato in una crisi irreversibile nel 2013 in seguito agli assassini ad opera di militanti islamici di Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, due politici appartenenti ad altrettanti partiti facenti parte della coalizione di sinistra Fronte Popolare.

La rabbia per queste morti si è così saldata con quella dovuta al persistente stato di disagio di giovani, lavoratori e disoccupati, spingendo la classe dirigente ad avviare una sorta di “dialogo nazionale” per cercare di calmare gli animi nel paese. Ciò si è tradotto in un accordo politico tra le forze al potere e, principalmente, il partito Nidaa Tounes di Essebsi, con il risultato che il governo islamista ha rassegnato le proprie dimissioni all’inizio del 2014 per lasciare spazio a un esecutivo di “tecnici”.

Nidaa Tounes e il neo-presidente hanno così sfruttato la disillusione dei tunisini dopo quasi quattro anni di promesse rivoluzionarie mancate, conquistando, oltre alla presidenza in questi giorni, il 38% dei consensi e 86 seggi sui 217 che formano il parlamento unicamerale di Tunisi nelle elezioni di ottobre.

Il partito di Essebsi è stato fondato soltanto nel giugno del 2012 e vede tra i propri esponenti di spicco ex membri del partito di Ben Ali messo fuori legge (Raggruppamento Costituzionale Democratico o RCD), ma anche politici secolari di “sinistra” e sostenitori dell’ex dittatore Habib Bourguiba. Nidaa Tounes è inoltre appoggiato sia dal principale sindacato tunisino (UGTT) sia dall’associazione degli imprenditori (UTICA) e individua nell’anti-islamismo il proprio principale collante.

Il programma economico del partito include misure che dovrebbero teoricamente stimolare la crescita come privatizzazioni, taglio dei sussidi statali e dei servizi sociali, ma anche un rafforzamento dei poteri dello stato per il mantenimento dell’ordine pubblico, soprattutto in vista di possibili nuove manifestazioni di protesta nel paese.

Lo scarso entusiasmo mostrato dai tunisini nel secondo turno delle elezioni presidenziali è apparso comunque evidente anche dal livello di astensione, attestatosi secondo l’Alta Autorità Indipendente per le Elezioni attorno al 41%. Significativamente, l’affluenza più bassa (43,6%) è stata registrata nel distretto elettorale di Sidi Bouzid, nel centro del paese, da dove nel 2011 partirono le proteste che avrebbero dato vita alla rivoluzione.

Le impressioni di molti elettori raccolte dai media occidentali hanno fatto trasparire più di una preoccupazione per i precedenti di Essebsi, anche se a prevalere è sembrata essere la sfiducia nei confronti di Marzouki, identificato con i più che deludenti governi post-rivoluzionari e, almeno in parte, con gli islamisti di cui il suo partito era alleato.

Il presidente eletto, da parte sua, ha ricoperto molte cariche importanti in mezzo secolo di carriera politica. Ad esempio, Essebsi è stato ministro dell’Interno, della Difesa e degli Esteri durante il regime repressivo di Bourguiba, mentre sotto Ben Ali è stato tra l’altro presidente della Camera dei Deputati. Il suo curriculum non gli aveva però impedito di essere nominato primo ministro ad interim a fine febbraio 2011 dopo la cacciata di Ben Ali.

Essebsi, così come Nidaa Tounes, ha in ogni caso raccolto molti consensi tra la borghesia urbana tunisina, preoccupata per l’assenza di un potere centrale forte in grado di tenere a bada il malcontento tra le classi più disagiate e di implementare misure economiche che diano un qualche impulso al business privato.

di Michele Paris

Lo scontro in atto tra il governo degli Stati Uniti e quello della Corea del Nord si è intensificato nel fine settimana con l’intervento diretto del presidente Obama in seguito al presunto attacco informatico ai danni di Sony Pictures da parte di hacker riconducibili - secondo Washington - al regime stalinista di Pyongyang. Nell’ultima conferenza stampa dell’anno alla Casa Bianca, il presidente democratico ha affermato che gli USA si riserveranno il diritto di “rispondere in maniera proporzionata” alla Corea del Nord, scegliendo “un momento e un luogo” favorevoli.

Sabato, poi, i nordcoreani hanno replicato minacciando “serie conseguenze” in caso di ritorsioni da parte americana, mentre si sono allo stesso tempo offerti di partecipare a un’improbabile indagine proprio con le autorità di Washington per identificare i veri colpevoli dell’intrusione nei sistemi informatici del colosso della distribuzione cinematografica di Hollywood facente parte dell’omonima multinazionale giapponese.

Com’è noto, un attacco informatico contro Sony Pictures aveva fatto apparire in rete una serie di e-mail confidenziali della stessa compagnia assieme ad alcuni film non ancora usciti nelle sale.

Inoltre, Sony Pictures aveva deciso di cancellare la prima del film “The Interview”, co-diretto da Seth Rogen e interpretato dallo stesso attore comico canadese e da James Franco, prevista per il giorno di Natale a causa di minacce di possibili attentati nelle sale cinematografiche che lo avrebbero proiettato. La pellicola parla di due giornalisti americani che vengono assoldati dalla CIA per assassinare il giovane leader nordcoreano, Kim Jong-un.

Come spesso accade in casi simili, anche in questa occasione le accuse del governo americano verso Pyongyang sono state prese per buone dalla maggioranza della stampa d’oltreoceano. In realtà, prove concrete che gli hacker responsabili dell’attacco a Sony Pictures siano legati al regime nordcoreano non sono state presentate.

L’opinione pubblica americana e internazionale dovrebbe in definitiva fidarsi del governo USA e dell’FBI, il quale ha assicurato di possedere informazioni sufficienti a collegare l’atto di hackeraggio al regime della Corea del Nord.

Secondo la polizia federale americana, infatti, sarebbe stato riscontrato un “malware” con un codice utilizzato in precedenti attacchi informatici provenienti dal paese asiatico, come ad esempio su banche e network sudcoreani nel 2013. Vari esperti citati dai media americani hanno tuttavia espresso dubbi sulla possibilità che il regime di Kim Jong-un possa essere effettivamente dietro l’attacco.

Obama, in ogni caso, non ha escluso esplicitamente la possibilità di una ritorsione di tipo militare contro la Corea del Nord e ha poi sostenuto che “un qualsiasi dittatore” non può avere il potere di “imporre la censura negli Stati Uniti”, per poi lasciarsi andare alla consueta tirata sul presunto paradiso delle libertà civili che sarebbe l’America.

Il clamore creato nei giorni scorsi dalla Casa Bianca e dai media statunitensi attorno al caso Sony induce a una serie di considerazioni. In primo luogo, l’attacco informatico, le cui responsabilità sono tutt’altro che chiare, è stato subito sfruttato dall’amministrazione Obama per aprire un nuovo capitolo della campagna contro la Corea del Nord.

Se questo paese impoverito rappresenta una scarsa minaccia per gli USA e la Corea del Sud, nonostante possegga rudimentali armi con testate nucleari, il vero obiettivo di ogni invettiva nei suoi confronti è in realtà il suo principale alleato, la Cina, contro cui Washington sta costruendo da tempo un’aggressiva strategia di contenimento. Non a caso, le critiche verso Pechino da parte americana riguardano frequentemente proprio presunte violazioni dei sistemi informatici di aziende private o uffici del governo negli Stati Uniti.

Inoltre, le lezioni di democrazia come quella impartita da Obama nel fine settimana sono semplicemente ridicole. Non solo un presidente che si è auto-assegnato il diritto di assassinare qualsiasi sospettato di “terrorismo” in ogni angolo del pianeta presiede a un sistema di controllo della popolazione che farebbe impallidire qualsiasi regime dittatoriale, ma il suo stesso governo è il primo responsabile di attacchi informatici contro paesi “ostili”.

L’Iran, ad esempio, è stato il bersaglio di varie operazioni di hackeraggio, condotte dagli Stati Uniti in collaborazione con Israele, con l’obiettivo di sabotare il suo programma nucleare civile. Agenzie governative e aziende pubbliche cinesi sono poi spesso al centro delle trame degli esperti informatici americani, come avevano dimostrato documenti dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) rivelati nel recente passato da Edward Snowden.

Infine e soprattutto, l’intera vicenda esplosa attorno al film “The Interview” appare come una provocazione orchestrata proprio dal governo americano. Secondo quanto scritto qualche giorno fa dalla testata on-line The Daily Beast, lo scambio di alcune e-mail tra i vertici di Sony Pictures mostrerebbe come i due registi fossero inizialmente intenzionati a realizzare un film che aveva al centro della storia un leader anonimo di un paese non individuato.

A spingere per identificare Kim Jong-un con la vittima della CIA nella pellicola e per includere una scena con il suo raccapricciante assassinio sarebbe stato l’amministratore delegato di Sony Pictures, Michael Lynton.

Quest’ultimo, guarda caso, fa parte del consiglio di amministrazione della Rand Corporation, un think tank che vanta stretti legami con la CIA. Inoltre, l’analista della Rand specializzato sulla Corea del Nord, Bruce Bennett, avrebbe fornito la propria consulenza alla produzione del film.

In un’e-mail, anzi, Bennett comunicava a Lynton che la rappresentazione dell’assassinio di Kim avrebbe potuto contribuire addirittura alla caduta del regime di Pyongyang. “Ritengo”, scrive l’analista della Rand, “che una storia imperniata sulla rimozione del regime famigliare di Kim e sulla creazione di un nuovo governo da parte del popolo della Corea del Nord (o almeno da parte delle élites) produrrebbe qualche seria riflessione in Corea del Sud e, credo, anche in quella del Nord”, se qui dovesse essere introdotto clandestinamente il DVD del film.

Lo stesso Dipartimento di Stato americano avrebbe avuto infine una parte nella realizzazione del film sul leader nordorcoreano, con un l’assistente segretario, Daniel Russel, e il diplomatico Robert King, inviato speciale per la Nordcorea e le questioni legate ai “diritti umani” in questo paese, che hanno collaborato in maniera attiva.

La scelta di raccontare l’assassinio di un leader in carica di un qualsiasi paese appare d’altra parte estremamente insolita, per non dire unica, da parte di un casa di produzione, anche se in toni da commedia.

Per giudicare il livello di buona fede del governo USA in questa vicenda basti immaginare come avrebbe reagito la Casa Bianca a parti invertite, cioè alla distribuzione di un film nordcoreano, ma anche russo o iraniano, su un piano per l’uccisione del presidente americano.

di Mario Lombardo

Il Congresso uscente degli Stati Uniti ha consegnato alla Casa Bianca un nuovo provocatorio pacchetto di sanzioni contro la Russia che il presidente Obama ha annunciato di voler ratificare entro questo fine settimana. Il più recente provvedimento, ridicolmente chiamato “Legge a Sostegno della Libertà in Ucraina” (UFSA), contiene in realtà misure che vanno ben al di là delle sanzioni in risposta alla presunta aggressione di Mosca ai danni di Kiev e rappresenta di fatto poco meno che una dichiarazione di guerra nei confronti del Cremlino.

Le nuove sanzioni sono state però relativamente ammorbidite in seguito a pressioni sui leader del Congresso da parte dell’amministrazione Obama, nel timore che un’eccessiva accelerazione dello scontro con la Russia in questo momento avrebbe potuto provocare non solo una pericolosa escalation della crisi ma anche ulteriori frizioni con gli alleati europei, più cauti nel provocare Mosca per via degli interessi economici in gioco.

Camera e Senato hanno così approvato un pacchetto che prevede sì la possibilità di misure punitive molto pesanti ma assegna in pratica la totale discrezione al presidente per l’effettiva applicazione. Malgrado questa clausola il messaggio lanciato a Putin appare chiaro, mentre gli Stati Uniti avranno a disposizione una nuova arma economica e strategica formidabile per colpire la Russia al cuore dei propri interessi, non solo in relazione all’Ucraina.

Con l’UFSA, ad esempio, potranno essere decise sanzioni contro compagnie russe esportatrici di armi - a cominciare dalla più importante, l’azienda pubblica Rosoboronexport - se il governo di Mosca sarà ritenuto responsabile di attività di “destabilizzazione” in Ucraina, ma anche in Georgia, Moldavia e Siria.

Il presidente americano avrà poi facoltà di penalizzare le compagnie internazionali che intendono investire in progetti petroliferi in Russia, mentre saranno ancora più ristrette le norme che regolano l’export verso la Russia di equipaggiamenti utilizzabili in ambito energetico.

Il gigante pubblico del gas Gazprom, inoltre, continua a essere nel mirino di Washington, vista l’ampiezza dei suoi “asset”, il cui eventuale smembramento suscita gli appetiti dei vertici delle aziende energetiche occidentali. La Casa Bianca, cioè, potrebbe vietare investimenti o prestiti a favore di Gazprom se diminuirà il flusso di gas destinato a Ucraina, Georgia e Moldavia.

Dalle implicazioni preoccupanti è poi il meccanismo previsto per autorizzare il presidente ad applicare le cosiddette “sanzioni secondarie”, e dalla più che dubbia legalità, cioè penalizzazioni ai danni di compagnie di paesi terzi che contravvengono alle sanzioni di Washington.

L’altro punto principale del pacchetto sul tavolo di Obama autorizza il governo USA a fornire armamenti “letali” al regime golpista ucraino per 350 milioni di dollari, inclusi missili anti-carro, droni e radar. Il presidente americano e il suo entourage avevano sempre respinto l’ipotesi di trasferire armi offensive a Kiev, visto che ufficialmente gli USA sostengono di voler promuovere una soluzione pacifica della crisi nelle province orientali “ribelli”.

Infine, il Congresso ha stanziato quasi 100 milioni di dollari nei prossimi tre anni per alimentare la macchina della propaganda a stelle e strisce in Ucraina, Georgia e Moldavia, come sempre dietro il paravento della promozione della “democrazia”, della creazione di una “stampa indipendente” e della “lotta alla corruzione”.

Questo denaro finirà in un già ricco capitolo di spesa degli Stati Uniti per la propaganda nei paesi dell’ex blocco sovietico, come aveva confermato mesi fa la stessa assistente al Segretario di Stato, Victoria Nuland. Quest’ultima, in una conversazione telefonica intercettata e pubblicata dalla stampa aveva ammesso che il suo governo aveva “investito” più di 5 miliardi di dollari a partire dal 1991 in Ucraina, così da favorire la crescita della “società civile” e lo sviluppo delle “istituzioni democratiche”, ovvero per sottrarre questo paese all’influenza di Mosca.

Le misure punitive ai danni della Russia contenute nell’UFSA possono in ogni caso non essere applicate oppure sospese se il presidente reputa che ciò sia nell’interesse della sicurezza nazionale americana.

Per comprendere le ragioni dello scontro in atto tra Occidente e Russia - provocato interamente dalle manovre di Washington e, in seconda battuta, di Berlino - gli articoli più significativi del nuovo pacchetto di sanzioni sembrano essere quelli relativi alle misure previste nel caso Mosca dovesse fornire armi a entità ritenute “destabilizzatrici” in Ucraina, Georgia e Moldavia “senza il consenso dei rispettivi governi”.

Come ha spiegato un’analisi apparsa questa settimana sul sito web dell’agenzia di stampa governativa russa Ria Novosti, il riferimento a Georgia e Moldavia in una legge che riguarda l’Ucraina conferma come gli Stati Uniti intendano condurre un attacco a tutto campo contro Mosca, allargando il “terreno di battaglia” all’intera area ex sovietica strategicamente vitale per il Cremlino.

A ciò vanno poi aggiunte iniziative evidenti da tempo, come la possibile incorporazione dell’Ucraina o di altri paesi già parte dell’URSS in una sorta di partnership con la NATO e il posizionamento più e meno permanente di basi militari e soldati lungo i confini russi. Tutto questo contribuisce a rafforzare la tesi, condivisa pubblicamente in questi giorni anche dal ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov nel corso di un’intervista alla TV francese, che gli USA e i loro alleati stiano puntando in maniera sempre più decisa a un cambio di regime anche a Mosca.

Forse ancora più rilevante è poi il riferimento alla Siria, dove il ruolo costruttivo della Russia nella ricerca di una risoluzione negoziata del conflitto era stato spesso citato dal governo americano. Il cambio di rotta segnala ora invece un affilamento delle armi dell’imperialismo USA, già ben visibile dalle manovre con al centro l’Arabia Saudita che hanno contribuito al crollo del prezzo del greggio che, assieme alle sanzioni occidentali già applicate, stanno provocando il rapido deterioramento dell’economia russa.

Il desiderio di colpire Putin e il suo governo in un ambito totalmente estraeo alla crsi ucraina ha fatto passare in secondo piano anche le contraddizioni palesi del provvedimento da poco approvato dal Congresso. Mentre nel caso di Ucraina, Georgia e Moldavia le sanzioni sono minacciate in caso di forniture di armi a forze “destabilizzatrici” di questi governi, in Siria le compagnie russe sono diffidate dal vendere armi al governo di Damasco, peraltro di gran lunga più legittimo di quello al potere a Kiev.

Non solo: con un’ironia che deve essere sfuggita ai legislatori americani, nel caso della Siria sono proprio gli Stati Uniti a fornire armi in maniera diretta e indiretta ai gruppi di opposizione, in larga misura fondamentalisti, che hanno provocato la devastazione del paese mediorientale.

La nuova mossa di Washington è stata coordinata come previsto con gli alleati europei, le cui apprensioni per il possibile precipitare della crisi ucraina continuano a essere messe in secondo piano rispetto al dissennato appiattimento sulle posizioni americane in relazione alla Russia.

Ad ogni modo, anche l’Unione Europea ha annunciato questa settimana la propria nuova dose di sanzioni, sia pure “limitate” agli interessi di Mosca in ambito energetico nella penisola di Crimea, tornata con l’approvazione della maggioranza dei propri abitanti entro i confini russi lo scorso mese di marzo.

di Fabrizio Casari

La notizia che tutte le persone dotate di buon senso attendevano da decadi è arrivata. Gli Stati Uniti rivedono in forma e sostanza la loro politica verso l’isola socialista. Sebbene non sarà facile l'abrogazione del blocco, che potrà darsi solo con il voto del Congresso a maggioranza repubblicana, i poteri presidenziali permetteranno all'Amministrazione Obama di procedere verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Cuba.

Da subito, insieme ad una serie di misure destinate a svuotare il blocco, come primo significativo atto della nuova fase, Obama ha accolto la proposta di Cuba di uno scambio tra Alan Gross, detenuto a L’Avana e i tre cubani prigionieri negli Stati Uniti. Un gesto auspicato da diverso tempo da Cuba e che rappresenta ora un importante inizio di questa nuova fase delle relazioni tra i due paesi.

Fidel l’aveva promesso al suo popolo e così è stato. Volveran (torneranno) era stata la parola che in questi anni aveva accompagnato ogni presa di posizione in ogni parte del mondo che chiedeva il ritorno a Cuba dei suoi eroi antiterroristi imprigionati negli Stati Uniti, giudicati da processi farsa e condannati sulla base dell’odio politico degli USA verso l’isola caraibica. E ora sono liberi e a casa, premio finale di una politica che il governo cubano ha saputo costruire miscelando dialogo e fermezza, decisionismo politico e aperture costanti.

Un atteggiamento che ha reso chiaro all’interlocutore statunitense come il confronto era tra pari e che la soluzione del conflitto su tema degli attacchi terroristici contro Cuba e il diritto di essa a difendersi non avrebbe trovato altro terreno possibile che non vedesse le parti trattare sulla base dell’eguaglianza, come si deve a due paesi che reciprocamente riconoscono il loro diritto alla sicurezza.

A simbolizzare l'accordo, persino nelle comunicazioni ai rispettivi popoli c’è stata uguaglianza, visto il contemporaneo intervento del presidente Usa e di quello cubano a commentare il nuovo cammino intrapreso. Dopo aver entrambi ringraziato Papa Francesco e il governo del Canada per l’opera di mediazione svolta, il Presidente Obama si è detto convinto che “non si possa procedere per sempre con politiche identiche sperando che diano risultati differenti”, riconoscendo quanto meno l'inutilità delle misure adottate fino ad oggi. Affermando in spagnolo “tutti siamo americani” (disarticolando così la Dottrina Monroe), e dicendosi convinto che “dobbiamo imparare l’arte di convivere civilmente con le nostre differenze”, il presidente USA ha chiamato il Congresso “a rimuovere ostacoli ed impedimenti che restringano i vincoli tra i nostri popoli” chiedendo così di approvare rapidamente la fine del blocco contro Cuba.

Concetti simili quelli esposti dal Presidente cubano Raul Castro, che in un discorso alla nazione ha affermato che “L’Avana è pronta a stabilire livelli di cooperazione negli ambiti multilaterali come le Nazioni Unite” e, pur ricordando come i due paesi abbiano “visioni differenti sul tema dei diritti umani e politica estera, da parte di Cuba c’è la volontà di dialogare con gli Usa su questi temi”.

Immediati i complimenti per il cambio di politica da parte di Washington da parte di Papa Francesco e del Segretario delle Nazioni Unite Bank Ki Moon, così come da diversi leader latinoamericani, primo dei quali il Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, che ha affermato si debba riconoscere al Presidente Obama “un gesto valoroso”.

La liberazione di Alan Gross, il contrattista dell’USAID arrivato a Cuba per contribuire alla costruzione di una rete clandestina sovversiva, nell’ambito del progetto governativo statunitense di “attività per lo sviluppo della democrazia a Cuba”, (cioè l’interferenza a scopo di destabilizzazione del clima politico nell’isola), è stata da alcuni anni la richiesta di Washington a L’Avana come viatico per l’apertura di un processo che portasse gradualmente alla “normalizzazione delle relazioni”.

Da parte sua, Cuba - che nell’ambito dell’accordo ha deciso di liberare altri 53 detenuti per sovversione ed una spia statunitense di origine cubana - aveva sempre proposto lo scambio del detenuto statunitense con i tre eroi cubani prigionieri con un duplice obiettivo: il primo, ovviamente, era quello di riportare a casa uomini che a buon diritto e senza nessuna retorica è possibile chiamare eroi.

Seppelliti sotto pene detentive pazzesche, in nessun momento hanno accettato di sottomettersi alle esigenze politiche statunitensi fornendo versioni che avrebbero potuto risparmiargli la detenzione. Hanno continuato a subire ogni privazione ed ogni affronto ma gridando al mondo la verità della loro missione: infiltrarsi nella rete terroristico-mafiosa della FNCA e smascherare i loro piani terroristici contro l’isola.

La liberazione di due di essi era già arrivata nei mesi scorsi per lo scadere delle loro condanne, mentre tre rimanevano ancora prigionieri. Contro l’assurdità delle condanne e per la loro liberazione, in ogni dove del mondo si sono pronunciati parlamenti e singole personalità politiche, intellettuali, artisti, uomini e donne di ogni categoria e professione, giuristi ed organi di stampa. Ed è evidente come questa campagna internazionale abbia ottenuto l’effetto di rendere ogni giorno più difficile mantenerli prigionieri e, dunque, ogni giorno più possibile avviare un dialogo che prevedesse la loro liberazione.

Il secondo obbiettivo cubano era invece tutto politico: mettere sulla bilancia la liberazione di Alan Gross e quella dei tre prigionieri cubani significava chiarire al mondo che chi da Miami combatteva le infiltrazioni terroristiche contro Cuba aveva ben ragione di farlo, dato che dette operazioni venivano realizzate anche dalle agenzie statali USA, nell’ambito del progetto di sovvertire l’ordine sociopolitico cubano.

Mettere sullo stesso piano Gross e i tre cubani significava costringere gli Stati Uniti ad ammettere che Gross era a Cuba per conto del governo USA, così come Renè Gonzalez, Gerardo Hernandez, Fernando Gonzalez, Antonio Guerrero e Ramon Labanino erano negli Usa per conto di Cuba. Tutti avevano una missione da compiere

Assai diverse tra loro, però. I cinque lavoravano per fermare gli attentati che in 55 anni sono costati all’isola centinaia di morti e feriti e miliardi di dollari di danni, mentre Gross era a Cuba come soggetto attivo nelle più recenti operazioni di destabilizzazione contro l’isola, realizzate tramite la manipolazione della Rete internet, il sostegno ai cosiddetti “dissidenti”, le attività spionistiche realizzate dalle ONG fintamente indipendenti. Operazioni che si sommavano al blocco economico e commerciale, all’aggressione diplomatica e alla propaganda anticubana, formando i tanti - non tutti - tasselli del puzzle che disegna l’ostilità degli USA verso Cuba.

Da parte cubana si registra una inevitabile soddisfazione per l’esito auspicato in questi anni. Non si tratta, peraltro, solo del riconoscimento implicito da parte degli USA del diritto di Cuba a difendersi ed ottenere comunque un risultato politico indiscutibile nel tenere allo stesso tavolo, con pari dignità, Davide e Golia, ma anche di vedere ora, in una prospettiva politica di breve termine, la fine di una ostilità ed un odio anacronistico che può aprire per entrambi i paesi un cammino diverso.

Per Cuba la normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti rappresenta di per sé un ulteriore conferma di come 55 anni di resistenza non sono stati vani; le aperture già determinatesi con l’evoluzione del socialismo cubano troveranno ulteriore rafforzamento da questo passaggio. Il cui significato sarà, fino a quando non si accompagnerà alla fine formale del blocco economico, soprattutto politico, ma il cui valore simbolico rappresenta la fine di un’era e l’inizio di un nuovo corso della storia.

Per gli Stati Uniti, il riconoscimento dell’interlocuzione politica con Cuba, sollecitato dai suoi mass media più prestigiosi, apre uno scenario interno inedito, giacché riporta per la prima volta in 50 anni la titolarità della politica verso Cuba nelle mani della Casa Bianca. I repubblicani daranno battaglia affinchè il Congresso non approvi la fine del blocco contro Cuba, e d'altra parte ciò dal punto di vista dei loro interessi è comprensibile. Non solo uno dei capisaldi della loro politica viene messo in crisi, e per di più con Congresso e Senato nelle loro mani, ma la Casa Bianca pone il partito repubblicano in totale isolamento nei confronti dell'opinione pubblica interna ed internazionale.

Inoltre, l'iniziativa di Obama riduce enormemente, in un colpo solo, l’influenza della lobby affaristico-mafiosa diretta dalla FNCA in Florida e mette i parlamentari eletti grazie ai suoi voti in una posizione secondaria. Assesta un ulteriore colpo all’area più reazionaria e recalcitrante del partito repubblicano e pone la Florida, uno degli stati-chiave per l’elezione del Presidente, di fronte ad uno scenario che vedrà ripercussioni enormi sul piano dell’equilibrio dei poteri locali quando le leggi anticubane e l’intero blocco dovessero cessare di esistere.

Basti pensare a cosa sarebbe dei colossali affari che la FNCA realizza con l’immigrazione clandestina il giorno che la Ley del pie mojado (“legge del piede bagnato”, con la quale si stabilisce che ogni cubano che arrivi a toccare il territorio americano sia immediatamente residente, mentre di ogni altra nazionalità viene arrestato). Sul traffico di clandestini tra Cuba e Usa la FNCA ha costruito una parte consistente delle sue fortune, con le quali ha continuato a finanziare la sua corte di terroristi anticubani.

Non è un caso che il Senatore Marco Rubio, che rappresenta il volto nuovo della lobby parlamentare anticubana diretta dalla FNCA di Miami, abbia dichiarato immediatamente che “lo scambio rappresenta un precedente pericoloso che mette a rischio gli statunitensi nel mondo”, che la visione di Obama è “ingenua e ignorante e tradisce i valori statunitensi” e la sua ventriloqua, Yoani Sanchez, abbia commentato che “il castrismo ha vinto”. Per lei, come per i suoi compari nell’isola, il vento sarà indubbiamente diverso: la normalizzazione delle relazioni non potrà non determinare la fine degli stanziamenti verso la sovversione, o comunque una sua significativa riduzione.

Per l’analfabeta politica che gli Usa avevano scelto come bandiera della democrazia, si apre una fase diversa, dove i milioni di dollari accumulati avranno bisogno di oculatezza negli investimenti, visto il futuro che si prospetta meno generoso. Nel momento in cui Washington dovesse ritenere superflua la sua esistenza, non basterebbero certo gli Aznar o i Vaclav Havel a garantirle le ricchezze ricevute in cambio delle sue menzogne strampalate diffuse in tutto il mondo con l’aurea di verità indiscutibili.

Sotto il profilo della politica interna USA, poi, c’è da sottolineare come il processo di normalizzazione delle relazioni con Cuba sia sempre stato un proposito di Hillary Clinton e che lo stesso Obama, all’inizio del suo mandato, sei anni orsono, aveva ritenuto dover mettere in agenda.

Il compito di rivedere la presenza di Cuba nella lista dei paesi che patrocinano il terrorismo spetterà a John Kerry, che in passato - va ricordato - fu uno dei senatori che denunciarono il loro scetticismo sui finanziamenti statunitensi alla “dissidenza”, arrivando a dubitare fortemente non solo dell’efficacia ma soprattutto della gestione poco trasparente di quei finanziamenti.

Obama ha quindi deciso di assecondare le pressioni che imprese, media e cittadini statunitensi hanno diffuso da ormai molti anni, liberando la Casa Bianca dalla morsa ricattatoria della comunità cubano americana, che dalla Baia dei Porci ad oggi ha rappresentato il più emblematico caso di esercizio lobbistico dannoso per il paese e, cosa altrettanto importante, sul piano dell’immagine sceglie di chiudere uno dei buchi neri storici della politica estera USA.

Evidentemente liberatosi dalla cautela, vista la fase finale del suo ultimo mandato, Barak Obama ha deciso di dare un segnale forte alla sua amministrazione, di passare in qualche modo alla storia come il presidente che mise fine ad una posizione politica ridicola e condannata dal mondo intero, abbattendo così l'ultimo pezzo d'intonaco del muro ereditato dalla guerra fredda. E, così facendo, guadagnandosi almeno una parte di quel Nobel per la pace prematuramente offertogli all’inizio del suo primo mandato.

di Michele Paris

L’assedio e la liberazione di quasi tutti gli ostaggi da parte di un commando delle forze speciali australiane in un caffè nel centro di Sydney nelle primissime ore di martedì sono stati ancora una volta sfruttati dal governo di Canberra per alimentare il clima di panico nel paese a causa di possibili nuove minacce terroristiche e per proseguire nell’implementazione di misure da stato di polizia.

La ormai nota vicenda relativa al caffè Lindt ha avuto la sua conclusione in maniera tragica dopo che attorno alle due del mattino erano stati sentiti spari provenire dall’interno del locale, dove un rifugiato iraniano da due decenni in Australia stava tenendo in ostaggio una decina di persone.

Le ultime ore dell’assedio appaiono però confuse, visto che la polizia aveva tenuto i giornalisti a distanza e il resoconto di quanto è avvenuto prima e dopo l’irruzione del commando è stato fornito esclusivamente dalle autorità.

Secondo la versione ufficiale, uno degli ostaggi - il 34enne Tori Johnson, direttore del caffè - avrebbe a un certo punto cercato di sottrarre la pistola al sequestratore mentre era sul punto di addormentarsi. Accortosi del tentativo, quest’ultimo avrebbe sparato all’uomo uccidendolo e innescando l’intervento delle forze speciali, in seguito al quale lo stesso sequestratore ha perso la vita assieme a un altro degli ostaggi, una 38enne madre di tre figli.

Anche prendendo per buona questa versione della morte del maganer del locale nel centro di Sydney, non è chiaro da dove siano venuti i colpi che hanno causato il decesso della seconda vittima tra gli ostaggi e il ferimento di altri quattro. Il capo della polizia dello stato del Nuovo Galles del Sud, Andrew Scipione, martedì ha preferito non soffermarsi sulla questione, elogiando piuttosto la polizia per avere “salvato molte vite”.

Com’è quasi sempre accaduto in episodi simili più o meno recenti, un’analisi delle circostanze solleva anche in questo caso due riflessioni piuttosto inquietanti. La prima riguarda i precedenti e l’identità del responsabile dell’atto bollato immediatamente come “terroristico”, mentre la seconda è legata alla risposta delle forze di polizia, del governo e dei media ufficiali.

Ancora una volta, per cominciare, il tentacolare apparato di sorveglianza costruito in Australia, come in molti altri paesi, ha fallito nell’impedire a un individuo ben noto alle autorità di portare a termine un gesto eclatante e dalle conseguenze tragiche.

Il responsabile in questo caso si chiamava Man Haron Monis e aveva più di un precedente con la giustizia australiana. Il 50enne di origine iraniana, autoprocalamatosi membro del clero sciita anche se recentemente convertitosi al sunnismo, era infatti in attesa di giudizio in quanto incriminato come co-responsabile dell’assasinio della ex moglie, mentre era stato condannato ai servizi sociali per avere scritto lettere “offensive” a famigliari di soldati australiani morti durante l’occupazione dell’Afghanistan.

Monis viene descritto come un uomo fortemente disturbato e con profondi sentimenti di rivalsa nei confronti dello stato e del sistema giudiziario del paese che gli aveva concesso asilo dopo avere abbandonato l’Iran.

Negli anni scorsi era inoltre apparso in alcuni articoli e servizi della stampa australiana. Nel 2001, ad esempio, la ABC lo aveva intervistato presentandolo come un rifugiato con inclinazioni moderate e costretto a lasciare la famiglia in Iran a causa di presunte persecuzioni. Sulla stampa alternativa on-line, poi, circola già il sospetto che l’uomo fosse stato in qualche modo utilizzato in passato dal governo in una più o meno deliberata campagna di discredito della Repubblica Islamica.

Qualche anno più tardi, in ogni caso, Monis - conosciuto anche col nome di Manteghi Boroujerdi - sarebbe stato segnalato alle autorità come persona sospetta dai leader della comunità sciita australiana, soprattutto perché si spacciava come membro del clero non avendone i titoli per farlo.

In maniera ancora più interessante, la stampa iraniana ha riportato un commento di una portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, secondo la quale il suo governo avrebbe più volte messo in guardia Canberra circa “i precedenti e le condizioni mentali e psicologiche” di Monis/Boroujerdi.

In definitiva, il ritratto di quest’ultimo che è uscito finora smentisce categoricamente l’ipotesi che egli rientri nella categoria dei cosiddetti “lupi solitari”. Questa definizione è assegnata dai governi che si definiscono impegnati nella lotta alle minacce terroristiche entro i propri confini a soggetti impossibili da individuare e da tenere sotto controllo da parte delle forze di polizia, poiché non fanno parte di organizzazioni fondamentaliste ma agiscono in manier autonoma, sia pure con motivazioni politiche o ideologiche, dopo essere passati attraverso un percorso indipendente di radicalizzazione.

Se possibili legami di Monis con i servizi di intelligence australiani, dopo che egli stesso aveva sostenuto di avere avuto contatti con quelli del suo paese d’origine, sono al momento soltanto ipotizzabili, quel che appare evidente è che l’azione di lunedì a Sydney è stata tutt’al più condotta per motivi solo esteriormente riconducibili allo Stato Islamico (ISIS), di cui l’uomo si sarebbe definito membro nel corso del sequestro all’interno del caffè Lindt.

Ciononostante, la vicenda è stata prevedibilmente descritta come l’ennesima prova che il “terrorismo” jihadista è ormai approdato in maniera inesorabile anche in Australia, con la logica conseguenza che il governo deve disporre della piena facoltà di implementare tutte le misure necessarie per proteggere la sicurezza dei propri cittadini.

E infatti, quello che avrebbe dovuto più logicamente essere trattato come un caso di polizia, sia pure grave, è stato subito trasformato in una vera e propria crisi nazionale, con l’attivazione dei protocolli “anti-terrorismo” e la ripetuta apparizione in diretta televisiva del primo ministro, Tony Abbott, per rassicurare gli australiani e aggiornarli sulla situazione all’interno del caffè di Sydney.

Innanzitutto, la città è stata letteralmente invasa dalla polizia che ha chiuso al traffico interi quartieri del centro, così come uffici pubblici e privati. Secondo le procedure previste in casi simili, misure estreme sono state adottate anche in altre città del paese, anche se non erano stati segnalati allarmi né complici di Monis.

Sia i giornali australiani conservatori - in primo luogo del gruppo Murdoch - sia quelli teoricamente “liberal” sono apparsi poi uniti nell’appoggiare la versione del governo, dando per scontate informazioni per nulla provate, come le effettive simpatie del sequestratore per l’ISIS, o chiedendo misure ancora più lesive della privacy e dei diritti civili per fronteggiare la “minaccia del terrorismo” che sembra incombere sull’Australia.

Eventi come quello di questa settimana a Sydney, in definitiva, vengono puntualmente sfruttati dalla classe dirigente in Europa come in Nordamerica o in Oceania proprio per accelerare l’introduzione di norme sempre più anti-democratiche sul controllo della popolazione, salvo poi scoprire ogni volta che i responsabili di atti di “terrorismo” riescono a sfuggire miracolosamente alla rete di sorveglianza creata dalle autorità pur avendo avuto quasi sempre precedenti con la giustizia.

L’elenco di casi simili è lunghissimo e solo poche settimane fa se ne aveva avuto un esempio sempre in Australia, guarda caso nel pieno del lancio dell’avventura bellica in Iraq e in Siria ufficialmente contro l’ISIS, a cui le forze armate di Canberra partecipano al fianco di Washington. A settembre, cioè, la polizia australiana aveva condotto una delle più imponenti operazioni di “anti-terrorismo” mai viste nel paese, con centinaia di agenti impegnati in varie città a perquisire abitazioni, arrestare e interrogare sospettati di avere legami con l’ISIS e altre formazioni integraliste.

Lo stesso premier Abbott aveva giustificato l’operazione con il pericolo che simpatizzanti o membri dell’ISIS stessero progettando rapimenti ed esecuzioni sommarie sul suolo australiano. Il risultato dell’intera operazione fu però l’incriminazione di una sola persona con dubbie accuse di reati legati al “terrorismo”.

Il clima di isteria creato ad arte in Australia ha permesso così al governo conservatore, sempre più impopolare a causa delle ripetute misure di austerity messe in atto, di fare approvare dal parlamento una serie di provvedimenti ad hoc.

Le leggi da poco introdotte intendono ad esempio impedire a cittadini australiani di recarsi in Siria o in altri paesi interessati dal fondamentalismo islamico tramite la revoca o la confisca dei passaporti. Un’altra misura prevista criminalizza invece “l’incitamento al terrorismo” sui social media ed è scritta in maniera sufficientemente ampia da includere qualsiasi vaga “minaccia” alla sicurezza o alla stabilità dello stato.

Questa piega preoccupante, come già ricordato, non riguarda solo l’Australia. Vari paesi europei hanno anch’essi deciso la revoca arbitraria dei passaporti dei sospettati di terrorismo, cercando di giustificare questa misura anti-democratica per lo più con arresti di cittadini di fede musulmana descritti come sul punto di unirsi all’ISIS in Medio Oriente, come è accaduto proprio in questi giorni in Francia.

Un altro partner speciale degli Stati Uniti in questa guerra a un’organizzazione fondamentalista che è in sostanza il prodotto delle stesse trame occidentali è infine il Canada. A Ottawa, nel mese di ottobre, l’azione di un altro individuo con una storia di emarginazione e precedenti penali era giunta nel pieno del dibattito su una nuova legge che avrebbe ampliato i poteri delle autorità in materia di “anti-terrorismo” ed era stata seguita dalle stesse reazioni di politici e media e dalle stesse spropositate misure delle forze di polizia osservate questa settimana a Sydney.


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