di Michele Paris

I sospetti che i metodi criminali utilizzati all’estero dal governo americano nell’ambito della “guerra al terrore” siano serviti anche da modello per le operazioni di polizia sul suolo domestico hanno trovato una nuova conferma qualche giorno fa in seguito a un’indagine pubblicata dal Guardian. Secondo la testata britannica, il dipartimento di Polizia di Chicago gestisce cioè una struttura detentiva segreta in un edificio anonimo della metropoli dell’Illinois, dove avvengono interrogatori in totale violazione dei diritti umani e costituzionali dei detenuti.

Nella struttura, conosciuta come Homan Square, gli arrestati sono sottoposti a percosse oppure rimangono incatenati per lunghi periodi, mentre viene loro negata qualsiasi consulenza legale. Il tutto senza che la permanenza dei detenuti nell’edificio semi-clandestino sia registrata nei database della polizia.

L’articolo del Guardian giunge a pochi giorni di distanza da un’altra rivelazione dello stesso giornale, nella quale si raccontava di un detective reclutato come guardia carceraria nel lager di Guantanamo dopo che aveva praticato torture per trent’anni a Chicago per ottenere confessioni e condanne dei sospettati finiti agli arresti.

A Horman Square i detenuti possono restare rinchiusi anche per un giorno intero e nella struttura sono stati “ospitati” addirittura ragazzi di 15 anni. Il Guardian, poi, ha individuato almeno un caso di decesso, quando nel febbraio del 2013 un sospettato sottoposto a interrogatorio era stato trovato privo di sensi e successivamente dichiarato morto per “intossicazione da cocaina”.

Tra le testimonianze raccolte dal quotidiano britannico, l’unica non anomina di ex detenuti è quella di Brian Church, uno dei cosiddetti “NATO Three”, tre attivisti incastrati dalla polizia di Chicago nel 2012 con l’accusa di terrorismo dopo essere stati inflitrati dall’FBI alla vigilia di un vertice dell’Alleanza Atlantica.

“Homan Square è un posto decisamente insolito”, ha rivelato Church. “Ricorda le strutture per gli interrogatori in Medio Oriente, quelli che la CIA chiama ‘buchi neri’. Si tratta di un ‘buco nero’ domestico. Una volta che ci finisci dentro, nessuno sa ciò che ti è successo”. Brian Church era stato tenuto per quasi un giorno a Homan Square, senza che gli fossero letti i suoi diritti, prima di ricevere la visita di un legale ed essere registrato in una vicina stazione di polizia, dove sarebbe stato accusato in maniera formale.

Un avvocato di Chicago sentito dal Guardian, Julia Bartmes, ha affermato che tra i legali della città è più o meno risaputo che, nei casi in cui non è possibile rintracciare i propri clienti, questi ultimi sono probabilmente detenuti a Homan Square. Per l’avvocato dei diritti umani Flint Taylor, invece, la struttura detentiva abusiva rappresenta l’istituzionalizzazione di pratiche che la polizia della città mette in atto da più di 40 anni.

“Semplicemente scompaiono”, ha riassuno l’avvocato Anthony Hill in riferimento alla sorte di alcuni clienti finiti a Homan Square, “fino a quando non riappaiono in un distretto di polizia per essere incriminati oppure vengono rilasciati”.

La struttura di Homan Square ospita non solo interrogatori nell’ambito di presunti casi di “terrorismo” ma permette anche alle forze di polizia di ottenere informazioni legate ad esempio alle attività delle gang della città o al traffico di droga senza il fastidio del rispetto delle norme costituzionali.

Se quanto accade a Homan Square ricorda sinistramente gli abusi del dopo 11 settembre, le pratiche illegali raccontate dal Guardian non sono cosa nuova per la polizia di Chicago. A partire dai primi anni Settanta, infatti, in molti casi gli arrestati della città finivano nella cosiddetta “Area 2”, una stazione di polizia dove venivano appunto somministrate torture varie per estorcere confessioni sotto la supervisione del famigerato comandante Jon Burge.

Nello stesso sito di Homan Square, come ha confermato la testimonianza di Brian Church, la polizia conserva anche veicoli da guerra, simili a quelli “utilizzati dai militari americani in Medio Oriente”. La questione così sollevata da Church fa luce su un altro aspetto legato all’importazione dei metodi di repressione utilizzati nel corso delle guerre degli Stati Uniti all’estero.

I reparti di polizia americani ricevono cioè da anni armi ed equipaggiamenti da combattimento di vario genere, trasferiti – spesso a titolo gratuito – dal Pentagono, ufficialmente per far fronte alla crescente minaccia terroristica che graverebbe sulle città USA.

La stessa polizia della contea di Cook nell’Illinois, che include Chicago, ha ricevuto finora circa 1.700 articoli militari dal Dipartimento della Difesa, tra cui un veicolo resistente alle esplosioni (MRAP) e un altro da ricognizione (Humvee), difficilmente riconducibili a normali attività di ordine pubblico.

Quella che è in atto negli USA è piuttosto una progressiva militarizzazione delle forze di polizia che, assieme alle torture e alle detenzioni extra-giudiziarie praticate a Chicago, conferma l’approdo sul suolo americano dei metodi inaugurati in Medio Oriente e altrove con la “guerra al terrore”.

Mentre all’estero questi stessi metodi sono impiegati per la difesa e la promozione degli interessi imperialistici statunitensi, in patria hanno il preciso obiettivo di gettare le fondamenta di una sistematica strategia di repressione del dissenso e di qualsiasi traccia di opposizione a una classe dirigente screditata e al servizio di una cerchia sempre più ristretta.

di Michele Paris

La pubblicazione questa settimana di alcuni documenti classificati di intelligence da parte del network panarabo Al Jazeera e del quotidiano britannico Guardian ha confermato il profondo stato di paranoia che caratterizza la posizione ufficiale del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, circa il discusso programma nucleare iraniano. Sulla Repubblica Islamica, il premier di estrema destra, atteso da un delicato voto anticipato tra poche settimane, sostiene tesi più estreme anche dei servizi segreti di Tel Aviv, i quali sembrano infatti essere più preoccupati per la fissazione di Netanyahu che della presunta minaccia iraniana.

Il documento prodotto da Al Jazeera e dal Guardian è una comunicazione indirizzata nell’ottobre del 2012 dal Mossad alla propria controparte sudafricana, l’Agenzia per la Sicurezza dello Stato (SSA), per aggiornarla sui progressi del programma nucleare di Teheran.

Il cablo in questione sarebbe stato redatto circa tre settimane dopo la famosa quanto patetica apparizione dello stesso Netanyahu all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove mostrò un cartello con disegnata una bomba divisa in tre sezioni che avrebbero dovuto rappresentare altrettanti “stadi” nella preparazione di un ordingo nucleare da parte iraniana.

In quell’occasione, il premier di Israele aveva raccontato del superamento da parte di Teheran del secondo “stadio” di arricchimento dell’uranio, ovvero del 70% del procedimento per la costruzione di un’arma atomica. Inoltre, a detta di Netanyahu l’Iran avrebbe potuto completare le operazioni necessarie a questo fine in “pochi mesi o forse settimane”, al più tardi “entro la prossima estate [del 2013]”.

Il rapporto del Mossad citato dalla SSA sudafricana affermava invece che l’Iran “non sembra essere pronto ad arricchire l’uranio oltre il 20%”, senza indicare i tempi previsti per una possibile accelerazione del procedimento. Parallelamente, il servizio segreto israeliano riteneva che la Repubblica Islamica stava producendo “grandi sforzi” per attivare il reattore di Arak, potenzialmente destinato alla produzione di plutonio utilizzabile a scopi militari, ma che ciò non sarebbe avvenuto prima della metà del 2014.

Nello stesso documento si aggiungeva poi che l’Iran stava lavorando per rimediare alle carenze in “settori legittimi”, come quello dell’arricchimento, in modo da “ridurre i tempi necessari alla produzione di armi [nucleari]” a partire dal momento in cui sarebbe partito l’ordine dai vertici del regime.

Quest’ultima considerazione da parte del Mossad appare del tutto arbitraria, visto che non esisteva né esiste alcuna prova della volontà iraniana di lavorare a un ordigno nucleare, ma il riferimento a operazioni di arricchimento “legittime” - come quelle messe in atto da molti altri paesi - conferma il sostanziale rispetto di Teheran delle norme internazionali sul nucleare civile.

A simili conclusioni era giunta peraltro anche l’Intelligence Nazionale americana nel 2012, la quale nella sua analisi della situazione relativa all’Iran non aveva riscontrato prove dell’esistenza di un programma per costruire armi nucleari né dell’intenzione di resuscitare le ricerche in questo ambito, messe da parte fin dal 2003.

Le rivelazioni di Guardian e Al Jazeera sono state snobbate dai media conservatori israeliani, poiché sarebbero di seconda mano in quanto provenienti non direttamente dal Mossad ma dall’intelligence sudafricana, cioè da un paese che negli ultimi anni ha visto peggiorare i propri rapporti con Tel Aviv.

Tuttavia, l’analisi attribuita al Mossad da parte della SSA sudafricana conferma le differenze emerse più volte negli ultimi anni tra l’intelligence e Netanhyanu sull’avanzamento del programma nucleare iraniano e la presunta minaccia che esso rappresenterebbe per lo stato ebraico.

L’ex numero uno del Mossad, Meir Dagan, nel 2012 aveva ad esempio puntato il dito contro i guerrafondai come Netanyahu che avrebbero potuto trascinare Israele in una guerra rovinosa ancora prima di “esplorare tutti gli altri approcci” possibili nei confronti dell’Iran. Lo stesso Dagan, capo del Mossad fino al 2010, aveva rivelato di essersi opposto a un ordine di Netanyahu di preparare la sua agenzia per un imminente attacco militare contro l’Iran.

Il successore di Dagan, Tamir Pardo, in una discussione privata giunta alla stampa avrebbe da parte sua sostenuto che la minaccia principale per Israele non era l’Iran, bensì la questione palestinese.

Le divisioni all’interno della classe dirigente israeliana sono emerse pubblicamente anche lo scorso mese di gennaio, quando i giornali hanno riportato un’iniziativa del Mossad per avvertire l’amministrazione Obama che possibili nuove sanzioni contro l’Iran avrebbero fatto naufragare i negoziati sul nucleare in corso tra Teheran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania).

Netanyahu, al contrario, continua a essere il più acceso oppositore delle trattative sul nucleare e non perde occasione per dipingere l’Iran e il suo inesistente programma militare come una minaccia “esistenziale” per Israele. Nuove invettive contro Teheran sono previste anche nel controverso intervento che il premier terrà al Congresso USA il prossimo 3 marzo dopo essere stato invitato dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, senza avere avvertito l’amministrazione Obama.

L’isteria del primo ministro del Likud rischia dunque di fare apparire “moderati” anche i vertici di un’agenzia come il Mossad, all’interno della quale sembrano esserci serie preoccupazioni per i pericoli che possono derivare da una simile campagna contro la Repubblica Islamica.

L’ossessione di Netanyahu per l’Iran rischia in primo luogo di scatenare un conflitto dall’esito molto dubbio e nel quale Israele, pur con il più che probabile appoggio americano, sarebbe esposto alla ritorsione non solo di Teheran, ma anche di Hamas a Gaza e, soprattutto, di Hezbollah in Libano, nonostante l’impegno della milizia sciita in Siria al fianco di Assad.

Inoltre, la denuncia incondizionata del premier di qualsiasi ipotesi di accordo sul nucleare iraniano sta già mettendo a repentaglio i rapporti con Washington, probabilmente al livello più basso da decenni a questa parte. Anche se al momento appare uno scenario quasi fantascientifico, l’eventuale venir meno della relazione speciale con gli Stati Uniti accentuerebbe in maniera catastrofica il già crescente isolamento internazionale di Israele.

Netanyahu, comunque, al di là della sua effettiva percezione del pericolo rappresentato dall’Iran per un paese, come Israele, che detiene centinaia di testate nucleari non dichiarate, continua ad agitare lo spettro di una Repubblica Islamica con armi atomiche per ragioni di natura essenzialmente politica.

Durante questi anni alla guida del paese, Netanyahu ha presieduto al progressivo discredito della classe politica indigena, dovuta principalmente alla repressione del popolo palestinese, resa drammaticamente evidente dalla continua appropriazione illegale di porzioni di territorio che dovrebbero far parte di un futuro nuovo stato arabo e dai crimini commessi a Gaza e in Cisgiordania.

Oltre a ciò, i vari governi Netanyahu hanno determinato un drastico aggravamento delle differenze sociali ed economiche in Israele, producendo tensioni senza precedenti, esplose qualche anno fa in insolite manifestazioni di protesta in varie città del paese.

Nonostante Netanyahu sia già oggi il secondo primo ministro più longevo della storia di Israele, dopo David Ben Gurion, e abbia concrete chances di conquistare un quarto mandato dopo le elezioni di marzo, la sua permanenza al potere resta dunque caratterizzata da un profondo stato di crisi, evidenziato anche dalle manovre politiche degli ultimi anni e dalla decisione di sciogliere anticipatamente il parlamento (Knesset) per due volte consecutive (2012 e 2014).

Per questa ragione, la destra israeliana e Netanyahu hanno bisogno di creare uno stato di emergenza permanente, in modo sia da promuovere le proprie presunte credenziali in materia di sicurezza nazionale sia da dirottare verso l’esterno le tensioni esplosive che si vanno accumulando minacciosamente sul fronte domestico.

di Carlo Musilli

Il governo Tsipras è alle prese con la prima lista di riforme da presentare a Bruxelles, ma deve fare i conti con la frangia di Syriza che vede nel compromesso con l'Europa una sconfitta insopportabile. Per sbloccare la proroga di quattro mesi al piano d'aiuti concordata venerdì con l'Eurogruppo, la Grecia deve inviare una lista delle misure che intende varare in deroga al precedente memorandum con la Troika (si parla d'interventi per 7,3 miliardi di euro, che comprenderebbero una patrimoniale, la lotta al contrabbando e all'evasione).

La lettera era attesa entro la mezzanotte di ieri, poi però la scadenza è slittata di 24 ore, presumibilmente perché Atene ha difficoltà a bilanciare le necessità negoziali e gli equilibri interni al governo.

Il tempo a disposizione, però, sta per terminare. Il 28 febbraio scade il vecchio accordo con i creditori: prima di allora, l'Esecutivo greco deve presentare la lista e sottoporla al giudizio dell'Eurogruppo. Una volta ottenuto questo primo via libera, l'intesa dovrà essere ratificata da una serie di Parlamenti nazionali, inclusi quelli di Paesi ostili ai piani di Tsipras (come Germania, Olanda e Finlandia), oltre che dalla stessa assemblea di Atene.

Se tutto questo non avverrà in tempi rapidi, la Grecia si ritroverà ben presto a corto dei liquidi necessari a far sopravvivere la macchina dello Stato. Un'urgenza di cui però in molti sembrano non rendersi conto. L'economista e deputato di Syriza Costas Lapavitsas ha chiesto ieri una riunione immediata del partito, esprimendo "profonda preoccupazione" per l'intesa del governo con l'Eurogruppo, perché "è difficile vedere come attraverso questo accordo sarà attuato il programma elettorale di Tsipras". Particolare attenzione ha destato Manolis Glezos, ultranovantenne eroe della Resistenza greca contro i nazisti e oggi eurodeputato di Syriza, che ha criticato l'accordo con l'Eurogruppo chiedendo "scusa al popolo greco" per aver "partecipato a questa illusione".

E' un vero peccato che nessuno di questi rivoluzionari duri e puri si scomodi a indicare come avrebbe fatto la Grecia a pagare stipendi pubblici e pensioni senza raggiungere un compromesso con Bruxelles. Chi entra in politica pensando di camminare dritto per la propria strada, senza mai concedere nulla a nessuno, ha semplicemente sbagliato mestiere. L'intransigenza è un atteggiamento tipico di chi, privo di respnsabilità generali, parla per se stesso compiacendosi della propria coerenza e allo stesso tempo condannandosi alla più totale irrilevanza nel mondo reale.

E' vero, il governo Tsipras non ha cacciato la Troika, non ha stracciato il memorandum con i creditori e non ha cancellato l'austerità dalla sera alla mattina. Ma la verità è che mettere in pratica questi propositi nell'arco di poche settimane era semplicemente impossibile, a meno di non voler gettare migliaia di greci in un baratro ancor più profondo di quello in cui già si trovano. Pensare che Atene avrebbe potuto trionfare nel braccio di ferro con l'Eurogruppo imponendo al 100% le proprie condizioni significa dar prova d'ingenuità e di miopia.

Innanzitutto, perché Bruxelles avrebbe preferito di gran lunga far uscire la Grecia dall'Euro (ormai le banche tedesche e francesi sono al sicuro) piuttosto che creare un precedente simile e favorire l'ascesa di altri movimenti indipendenti in Europa (su tutti, lo spagnolo Podemos). Qualcuno potrebbe obiettare che il famigerato Grexit sarebbe una soluzione (e non lo è), ma la questione non si pone, dal momento che il 75% dei greci non vuole abbandonare la moneta unica.

In secondo luogo, non è affatto vero che il governo Tsipras ha ceduto su tutta la linea. Partendo da una posizione negoziale debole, ha accettato il miglior compromesso che è riuscito a spuntare, portando a casa qualcosa invece di niente: l'opzione tutto non è mai stata sul tavolo.

Oltre ai quattro mesi in più per allestire un nuovo programma di riforme, ora Atene ha anche la speranza di ridurre l'avanzo primario da ottenere nel 2015, in modo da recuperare fondi per sostenere l'economia reale (le trattative andranno in scena nei prossimi mesi, ma su questo vincolo l'Eurogruppo sembra orientato a concedere flessibilità).

Quanto alle misure della lista in arrivo, secondo alcune anticipazioni del giornale tedesco "Bild" dovrebbero portare 2,5 miliardi con una tassa sui grandi patrimoni di oligarchi e armatori e altrettanti con il recupero dell'arretrato fiscale di privati e imprese. Un altro miliardo e mezzo dovrebbe arrivare dalla lotta al traffico di benzina e 800 milioni da quella contro il contrabbando di sigarette.

Tutto ciò con l'obiettivo, fra l'altro, d'impedire l'entrata in vigore delle misure previste dal precedente governo Samaras per questo mese, ovvero un aumento dell'Iva e nuovi tagli per 2,5 miliardi. Pare sia in arrivo anche il blocco alla confisca delle case. Nessuno vieta il dissenso, ma è difficile sostenere che nulla sia cambiato.

di Michele Paris

Il giorno dopo la gravissima umiliazione patita dalle forze armate del regime golpista di Kiev a Debaltsevo, i quattro protagonisti dell’accordo per il cessate il fuoco raggiunto settimana scorsa a Minsk - Hollande, Merkel, Poroshenko, Putin - hanno ribadito il loro impegno per la sospensione delle ostilità in Ucraina sud-orientale. La momentanea fiducia nella tregua ribadita dai leader occidentali e da Kiev a fronte del più recente successo dei “ribelli” filo-russi conferma le condizioni disperate in cui versa il regime, scosso da una situazione militare probabilmente irrimediabile e da una crisi economica di proporzioni drammatiche.

Ufficialmente, da Washington a Parigi e da Berlino a Kiev, le “violazioni” del cessate il fuoco da parte delle forze armate delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk sono state duramente condannate, ma nessuno degli sponsor di Kiev ha ritenuto finora di dover dichiarare defunto l’accordo di Minsk.

I filo-russi, da parte loro, subito dopo Minsk avevano fatto sapere di non considerare valide le condizioni della tregua in relazione alla città di Debaltsevo, punto nevralgico che connette Donetsk e Lugansk. Per questa località, l’amministrazione Poroshenko si era rifiutata di riconoscere che i propri militari erano da tempo sotto l’assedio dei “ribelli”, escludendo perciò di fatto lo stop immediato degli scontri e prolungandoli così di qualche giorno con la perdita di un numero imprecisato di soldati ucraini.

I leader dei separatisti avevano da giorni invitato i soldati ucraini rimasti a Debaltsevo ad arrendersi e a consegnare le armi, così come aveva fatto lo stesso presidente russo, ma l’ordine del ritiro da parte di Poroshenko è arrivato solo nella giornata di mercoledì.

Con la ritirata delle truppe governative da Debaltsevo, le due parti hanno lasciato intendere che i termini della tregua cominceranno a essere implementati. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) ha fatto sapere giovedì che i suoi osservatori non hanno ancora riscontrato alcun ritiro delle armi pesanti dalle “linee di contatto” stabilite a Minsk. Tuttavia, ciò dovrebbe iniziare non appena le ostilità saranno definitivamente cessate lungo tutta la linea del fronte. Nella giornata di giovedì, fuoco di artiglieria è stato registrato sia a Debaltsevo sia in altre località dell’Ucraina sud-orientale.

La perdita di Debaltsevo ha suggellato una campagna disastrosa fatta di sconfitte nelle ultime settimane per le forze di Kiev e, pur apparendo inevitabile, rischia di avere pesanti ripercussioni per il regime, sia dal punto di vista strategico che politico.

Per molti osservatori indipendenti del conflitto, il territorio ora in mano ai filo-russi consentirà loro di affrontare un’eventuale ripresa della guerra da una posizione di forza, rendendo probabilmente inefficaci anche possibili forniture massicce di armi a favore di Kiev da parte dei governi occidentali.

Sul fronte domestico, il presidente Poroshenko appare poi ulteriormente indebolito, con i rivali interni - a cominciare dal primo ministro Yatseniuk - che potrebbero accelerare le manovre allo studio da tempo per costringerlo a farsi da parte.

La nuova offensiva contro i “ribelli”, tentata a partire dallo scorso gennaio da parte del governo ucraino, era stata infine un tentativo per far fronte ai problemi interni con una campagna militare sanguinosa. Questa strategia si è però ritorta contro Poroshenko e ha finito per evidenziare tutte le debolezze del suo governo e, a giudicare dai risultati sul campo, la sostanziale mancanza di consenso nel paese per un conflitto fratricida alimentato dalle mire strategiche dell’Occidente.

La disperazione del presidente e dei suoi sostenitori si è manifestata anche nella richiesta avanzata mercoledì di una presenza di caschi blu dell’ONU in Ucraina sud-orientale. La supplica di Poroshenko è dettata da vari fattori, a cominciare dalla consapevolezza della fragilità delle proprie forze armate, difficilmente in grado di sostenere una nuova avanzata dei separatisti.

Parallelamente, almeno secondo le repliche dei leader di Donetsk e Lugansk, il regime di Kiev intenderebbe in questo modo sottrarsi agli impegni sottoscritti a Minsk. L’inviato della Repubblica Popolare di Donetsk presso il cosiddetto “Gruppo di Contatto”, Denis Pushilin, è stato citato giovedì sull’argomento dall’agenzia di stampa russa Tass, secondo la quale avrebbe sostenuto che il dispiegamento di “forze di peacekeeping lungo la frontiera russo-ucraina del Donbass sarebbe una violazione dell’accordo del 12 Febbraio”.

L’intesa sottoscritta la scorsa settimana richiede infatti che il governo di Kiev “negozi le questioni relative alla linea di confine con le forze di auto-difesa”, ovvero i separatisti filo-russi, “dopo elezioni municipali e riforme costituzionali” in senso federalista o autonomista.

Sempre giovedì, la richiesta di Poroshenko è stata bocciata anche da Mosca. Il portavoce del ministero degli Esteri, Alexander Lukashevich, ha ricordato che la base per una risoluzione del conflitto è rappresentata esclusivamente dagli accordi di Minsk. L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, ha aggiunto che nell’intesa del 12 febbraio non sono previsti ruoli di garanzia per l’ONU o l’UE - bensì solo per l’OSCE - e che, di conseguenza, Kiev dovrebbe “lavorare per implementare quanto ha sottoscritto” piuttosto che proporre nuove soluzioni.

Il sempre più evidente fallimento del disegno occidentale in Ucraina per sottrarre interamente questo paese all’influenza di Mosca non comporta comunque in nessun modo il venir meno del rischio di una ripresa del conflitto tra le forze di Kiev e i separatisti o, nella peggiore delle ipotesi, di una guerra catastrofica tra potenze nucleari.

L’irresponsabilità dei governi occidentali, con Washington in prima fila, nel perseguimento dei propri obiettivi strategici non va infatti sottovalutata. Allo stesso modo, il regime di Kiev ha già utilizzato precedenti sospensioni del conflitto per riorganizzare le proprie truppe e rilanciare le operazioni militari contro i separatisti.

L’amministrazione Obama, inoltre, non sembra intenzionata a recedere dalle minacce e dalle pressioni sulla Russia. Questa settimana, ad esempio, la portavoce del Dipartimento di Stato USA, Jen Psaki, ha confermato che l’ipotesi di fornire armi al regime ucraino rimane “sul tavolo”, nonostante il cessate il fuoco e nonostante il Cremlino abbia fatto sapere che questa mossa verrebbe considerata come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale russa.

L’atteggiamento dell’Unione Europea appare invece più sfumato visti gli interessi in gioco in relazione ai rapporti con Mosca, ben maggiori da questa parte dell’oceano rispetto a Washington. Tra i paesi membri ci sono anche profonde differenze, risultate nuovamente molto chiare qualche giorno fa con la visita di Putin a Budapest, conclusasi con una critica non troppo velata da parte del premier ungherese, Viktor Orbán, alla posizione di Bruxelles sulla questione ucraina.

In ogni caso, almeno ufficialmente l’UE continua a mostrare il proprio sostanziale allineamento agli Stati Uniti, sia pure escludendo l’ipotesi di inviare armi a Kiev. La numero uno della politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha ribadito mercoledì che i 28 governi membri “rimangono pronti a intraprendere le misure appropriate nel caso dovessero continuare gli scontri o [verificarsi] altri sviluppi negativi in violazione degli accordi di Minsk”.

di Michele Paris

Al fine di implementare le “riforme” di libero mercato ordinate dai centri del potere economico-finanziario e osteggiate dalla gran parte delle popolazioni, i governi europei continuano a mostrare una totale assenza di scupoli nel calpestare o, quanto meno, forzare le regole democratiche consolidate. Un caso esemplare di questa attitudine si è osservato martedì in Francia, quando il governo “socialista” del primo ministro, Manuel Valls, e del presidente, François Hollande, ha fatto ricorso a una discussa norma costituzionale per fare approvare un pacchetto di legge senza il voto dell’Assemblea Nazionale, ovvero la camera bassa del parlamento di Parigi.

La manovra si è resa necessaria in seguito alla probabile bocciatura che attendeva la cosiddetta “Legge Macron” (“Loi Macron”), contro la quale avevano dichiarato di voler votare anche svariati deputati del Partito Socialista. La legge in questione prende il nome dal ministro dell’Economia, l’ex banchiere d’investimenti Emmanuel Macron, e contiene, tra l’altro, misure per liberalizzare il mercato del lavoro e una serie di professioni, limitare alcuni diritti dei lavoratori dipendenti e privatizzare numerose aziende pubbliche.

Contro la legge, alcuni mesi fa erano state registrate varie proteste in Francia e la sua presentazione da parte del governo ha contribuito al livello infimo di gradimento goduto attualmente dal presidente Hollande e dal suo partito.

Le politiche di austerity e di liberalizzazione dell’economia perseguite dai governi “socialisti” succedutisi negli ultimi tre anni non solo hanno provocato un’esplosione del conflitto sociale in Francia ma, di riflesso, hanno aperto profonde divisioni all’interno dello stesso partito al potere. Una consistente “fronda” è infatti critica verso il nettissimo spostamento a destra del governo e minaccia costantemente di negare il proprio appoggio alle iniziative di legge d’impronta liberista presentate in Parlamento.

Nell’estate del 2014 lo scontro interno al Partito Socialista era addirittura sfociato nel licenziamento di alcuni ministri, tra cui quello dell’Economia, Arnaud Montebourg, dopo che questi ultimi avevano criticato pubblicamente la deriva reazionaria dell’esecutivo guidato da Valls.

Le difficoltà e gli espedienti anti-democratici intrapresi dal primo ministro e da Hollande per fare avanzare la propria agenda ultra-liberista sono la conseguenza della crescente impopolarità della loro azione politica. L’approvazione di iniziative come quella avanzata forzatamente questa settimana è dunque possibile solo grazie a manovre di più che dubbia legittimità, necessarie per piegare l’opposizione dalla maggior parte dei francesi.

Per quanto riguarda la Legge Macron, il governo sembrava inizialmente certo di ottenere i voti per la sua approvazione ma, con l’approssimarsi dell’appuntamento in aula, alcuni deputati della “fronda” socialista hanno manifestato l’intenzione di votare contro il provvedimento invece di astenersi, come avevano fatto finora sulle questioni più delicate per non mettere a rischio l’esecutivo.

Secondo il quotidiano Libération, Valls si è trovato di fronte al rischio di vedere bocciato il provvedimento per una manciata di voti e ha deciso così di chiedere al presidente Hollande di ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione transalpina. Questo articolo consente al governo di far passare un testo di legge all’Assemblea Nazionale senza un voto dell’aula e di inviarlo direttamente al Senato.

Una “mozione di censura” può essere però presentata dall’Assemblea per bloccare la legge, ma essa necessita del voto della maggioranza assoluta dei suoi membri e, in caso di esito positivo, determina automaticamente la caduta del governo.

Il calcolo di Hollande e del governo è apparso subito evidente. Mentre i deputati socialisti rivoltosi erano pronti a bocciare la Legge Macron, essi non saranno con ogni probabilità disposti a prendersi il rischio di mettere in crisi il governo e forzare nuove elezioni che penalizzerebbero severamente il loro partito, favorendo in primo luogo il Fronte Nazionale di Marine Le Pen.

Allo stesso tempo, il presidente spera di ricompattare in qualche modo la sua maggioranza, almeno momentaneamente, offrendo inoltre ai deputati “dissidenti” la copertura politica necessaria per appoggiare il governo pur mostrandosi contrari ad approvare la Legge Macron.

Una “mozione di censura” è stata comunque presentata dai deputati dei principali partiti di opposizione di centro-destra - UMP (Unione per un Movimento Popolare) e UDI (Unione dei Democratici e Indipendenti) - ma, nel dibattito previsto per giovedì, le possibilità che venga approvata risultano praticamente nulle vista la maggioranza detenuta dai “socialisti” e dal loro partner di governo (Partito Radicale di Sinistra, PRG).

La presa di posizione delle opposizioni, in ogni caso, non comporta una critica al pacchetto di legge Macron, ma è a sua volta una manovra politica per provare a far cadere il governo o, per lo meno, acuire le divisioni nel Partito Socialista.

In Francia, all’articolo 49.3 della Costituzione viene fatto raramente ricorso da parte dei presidenti. L’ultima volta fu nel 2006 con Jacques Chirac all’Eliseo e Dominique de Villepin alla guida di un governo che cercava di imporre un’altra “riforma” del mercato del lavoro nonostante le proteste di piazza. In quell’occasione, lo stesso Hollande aveva condannato duramente l’iniziativa, bollandola come “un atto di brutalità”, “la negazione della democrazia” e un modo per “impedire il dibattito parlamentare”.

I tre leader “socialisti” - Hollande, Valls e Macron - hanno ad ogni modo difeso la decisione di fare appello all’articolo 49.3, motivandola con la necessità di approvare a tutti i costi un provvedimento che servirebbe “per il bene del paese”. Il presidente ha mostrato tutte le sue inclinazioni democratiche mercoledì, affermando che il governo “non aveva tempo da perdere né rischi da prendere”. Il ministro Macron ha invece ricordato la presunta disponibilità del governo a discutere la legge che porta il suo nome, alla quale sarebbero stati accettati “più di mille emendamenti”.

Gli sviluppi di questa settimana in Francia confermano l’aggravamento della crisi in un cui si dibattono il presidente Hollande e il suo governo. La leadership “socialista” ha scelto di rischiare uno scontro frontale con i parlamentari “ribelli” del partito pur di riuscire a mandare in porto un pacchetto di “riforme” profondamente impopolari ma chieste a gran voce dai vertici europei, da Berlino e, più in generale, dagli ambienti del business domestico e internazionale.

Leggendo tra le righe di quanto ha scritto mercoledì il Wall Street Journal, risultano chiare le forze che agiscono sull’adozione di politiche di destra a Parigi come altrove in Europa. La testata americana ha ricordato come, “da anni, Hollande sia esposto alle pressioni di Germania e UE per implementare le riforme economiche”.

“Con una crescita ferma allo 0,4% negli ultimi tre anni e la disoccupazione in doppia cifra”, spiega il Journal, “la Francia è in ritardo anche rispetto alla timida ripresa economica dell’eurozona”. Il prossimo 27 febbraio, infine, “il ramo esecutivo dell’Unione Europea [Commissione Europea] dovrà decidere se applicare sanzioni contro la Francia per avere ripetutamente mancato le scadenze fissate per la riduzione del deficit di bilancio”.


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