di Michele Paris

A pochi giorni dall’annuncio ufficiale della prossima apertura di un nuovo fronte di guerra contro lo Stato Islamico (ISIS) in territorio siriano, appare sempre più evidente come l’ennesimo sforzo americano in Medio Oriente sia niente di meno che una manovra per raggiungere l’obiettivo dell’abbattimento del regime di Bashar al-Assad. Allo stesso tempo, le promesse del presidente Obama di condurre una campagna senza soldati statunitensi sul campo in Iraq e in Siria sono già state sostanzialmente smentite dagli stessi vertici militari degli Stati Uniti.

Lo scenario delineato martedì dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, nel corso di un’audizione di fronte alla commissione del Senato per le Forze Armate va infatti ben al di là di un’ipotesi teorica, nonostante le rassicurazioni.

L’ufficiale più alto in grado negli Stati Uniti ha affermato che, “per essere chiaro, se dovessimo giungere a un punto tale da farmi ritenere che i nostri consiglieri [militari] debbano accompagnare le truppe irachene nel corso di attacchi specifici contro l’ISIL [ISIS], non esiterei a raccomandare al presidente” una simile escalation.

La sola ipotesi avanzata da Dempsey contraddice quanto sostenuto di fronte al paese in diretta televisiva una settimana fa da Obama, il quale aveva annunciato senza eccezioni una guerra fatta di sole incursioni aeree in Iraq e in Siria, con l’appoggio a operazioni di terra condotte rispettivamente dall’esercito di Baghdad e dalla fantomatica opposizione “moderata” anti-Assad.

Lo stesso Obama, nel corso di un incontro mercoledì in Florida con i vertici del Comando Centrale, responsabile delle operazioni USA in Medio Oriente, ha ribadito che le forze americane già inviate in Iraq “non hanno e non avranno incarichi di combattimento”.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la possibilità di utilizzare forze di terra in entrambi i paesi interessati dall’avanzata dell’ISIS è invece già contemplata dal governo americano. Anzi, le parole del capo di Stato Maggiore USA intendono in qualche modo preparare proprio un tale scenario, poiché Washington, come di consueto, potrebbe facilmente sfruttare qualsiasi situazione negativa - o crearla ad arte - per precipitare la crisi in Medio Oriente, in modo da convincere Congresso e opinione pubblica della necessità di aumentare l’impegno militare con truppe di terra.

La nuova avventura bellica degli Stati Uniti in Medio Oriente ha d’altra parte già fatto segnare una drammatica escalation dall’inizio delle operazioni poco più di un mese fa, senza autorizzazioni del Congresso né particolari dibattiti interni, giustificandola di volta in volta con nuove emergenze che non potevano essere lasciate senza risposta.

Quella che era nata come una semplice azione mirata per rompere l’assedio della minoranza Yazidi in Iraq da parte dell’ISIS si sta per trasformare così in una guerra a tutti gli effetti, da condurre con una coalizione composta da decine di paesi.

Secondo Dempsey, inoltre, i vertici militari USA avrebbero già provato a convincere Obama ad affiancare un certo numero di soldati americani a quelli iracheni “sul campo”. Ciò sarebbe accaduto durante l’offensiva delle forze di Baghdad per riprendere la diga di Mosul in mano all’ISIS nel mese di agosto, quando il numero uno del Comando Centrale, generale Lloyd Austin, avrebbe chiesto alla Casa Bianca di autorizzare il dispiegamento di truppe sul terreno con l’incarico di guidare le incursioni aeree.

La richiesta era stata però respinta e il generale Dempsey aveva optato per l’impiego di “consiglieri” militari nella capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Erbil, da dove hanno contribuito alle manovre belliche seguendo le immagini della battaglia in tempo reale grazie a telecamere montate sui velivoli da guerra americani. Dempsey, comunque, anche in questo caso ha lasciato intendere che le sue raccomandazioni al presidente potrebbero cambiare “a seconda delle condizioni sul campo”.

Questa rivelazione e le precedenti dichiarazioni di Dempsey confermano anche le divisioni circa la strategia da mettere in atto contro l’ISIS e la Siria all’interno del governo e dell’apparato militare americano, impegnati nei preparativi per una guerra che si preannuncia molto lunga e potenzialmente rovinosa.

A confermare poi che l’obiettivo reale del conflitto che sta per esplodere sia il regime di Damasco ha contribuito anche un significativo scambio di battute avvenuto nella stessa audizione al Congresso di martedì tra Dempsey e il segretario alla Difesa Chuck Hagel da una parte e, dall’altra, il senatore repubblicano John McCain, uno dei “falchi” dell’interventismo americano all’estero.

L’ex candidato alla Casa Bianca ha a un certo punto messo in dubbio l’efficacia di una strategia che prevede che le forze di opposizione diano la priorità alla guerra contro l’ISIS rispetto allo sforzo per rovesciare Assad, chiedendo poi se i “ribelli” siriani sarebbero “assistiti” dall’aviazione americana nel caso venissero attaccati dal regime. A rispondere all’anziano senatore dell’Arizona è stato Hagel, il quale non ha escluso l’ipotesi di bombardamenti contro le postazioni del regime siriano, pur ribadendo l’attuale priorità della guerra contro l’ISIS.

La questione sollevata da McCain e la reticenza del numero uno del Pentagono lasciano intendere anche in questo caso che un eventuale attacco - vero o fabbricato - da parte delle forze regolari di Damasco contro i “ribelli” appoggiati dall’Occidente potrebbe nel prossimo futuro fornire la giustificazione per rivolgere la forza di fuoco americana contro Assad.

Delle intenzioni di Washington il primo a esserne consapevole è il regime siriano, il quale, precisamente per cercare di prevenire una spirale di guerra che porti direttamente al confronto militare tra le proprie forze e quelle americane, ha illusoriamente invitato l’amministrazione Obama a collaborare nella guerra contro i terroristi dell’ISIS, denunciando invece come un’aggressione inaccettabile eventuali bombardamenti contro i jihadisti entro i propri confini che non vengano coordinati con Damasco.

Gli USA hanno ovviamente respinto gli inviti, così come nella recente conferenza di Parigi avevano messo il veto all’ipotesi di invitare i governi di Iran e Siria per discutere delle misure da adottare per combattere l’ISIS.

A qualche osservatore non è però sfuggita l’ironia della circostanza, con gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente - dopo essere stati i diretti responsabili della nascita e dei successi dell’ISIS - che hanno promesso di sconfiggere l’organizzazione fondamentalista sunnita escludendo dalla coalizione, nonostante la disponibilità, i due governi che più di ogni altro si sono battuti contro quest’ultima.

Anche nelle dichiarazioni ufficiali di Washington, d’altra parte, l’obiettivo della distruzione dell’ISIS viene proclamato senza riserve solo per quanto riguarda l’Iraq, mentre per la Siria la questione appare più sfumata e qui la lotta ai terroristi sunniti dovrà accompagnarsi allo sforzo per il cambio di regime. Un’ISIS indebolito ma non fuori dai giochi in Siria, infatti, potrebbe tornare a essere utile nella guerra contro Assad, come lo è stato in questi anni godendo del finanziamento e della fornitura di armi da parte di svariati alleati degli USA nella regione.

A riprova di ciò può essere citata l’adesione convinta - almeno a livello ufficiale - di paesi come Arabia Saudita o Qatar alla guerra lanciata da Obama. La loro partecpazione non può infatti essere spiegata semplicemente con la possibile minaccia che i jihadisti finerebbero per rappresentare per Riyadh o Doha se lasciati liberi di agire, soprattutto dopo che questi regimi hanno speso centinaia di milioni di dollari a favore proprio dell’ISIS e di altre organizzazioni estremiste attive in Siria.

Più probabilmente, i sovrani assoluti delle monarchie ultra-reazionarie del Golfo hanno deciso di assicurare la propria disponibilità allo sforzo militare statunitense nella convinzione che i loro investimenti in Siria saranno alla fine ripagati da Washington con la tanto sospirata offensiva che dovrebbe portare al rovesciamento dell’odiato regime alauita (sciita) di Damasco.

di Michele Paris

Con una decisione a dir poco insolita, qualche giorno fa l’amministrazione Obama è intervenuta in una causa legale, nella quale non è in nessun modo coinvolto il governo americano, per difendere la parte sotto accusa, facendo riferimento niente meno che al segreto di stato. La causa in questione è stata intentata da un armatore greco, Victor Restis, nei confronti di un’organizzazione “no-profit” accesamente anti-Iraniana - United Against Nuclear Iran (UANI) - che lo aveva accusato di fare affari con la Repubblica Islamica in violazione delle sanzioni internazionali.

Gli avvocati di Restis, già la scorsa primavera, avevano chiesto a un giudice del tribunale del distretto meridionale di New York di ordinare all’UANI di mostrare il contenuto di una serie di documenti che avrebbero rivelato come questo gruppo sia finanziato da “interessi stranieri”. Inoltre, gli stessi avvocati speravano di ottenere le testimonianze di Meir Dagan, l’ex capo del Mossad israeliano e membro del comitato consultivo dell’UANI, e di un uomo d’affari anch’esso israeliano, entrambi accusati di avere passato all’organizzazione anti-iraniana informazioni sul loro cliente.

Successivamente è però intervenuto il governo di Washington, dapprima chiedendo al giudice un rinvio della sua decisione circa l’ordine all’UANI di rendere noti i documenti richiesti e qualche giorno fa, come previsto, appellandosi al segreto di Stato. L’amministrazione Obama non vuole soltanto impedire che i documenti richiesti dall’imprenditore greco vengano presentati in tribunale, ma ha addirittura invitato il giudice a lasciar cadere l’intero procedimento.

Per il ministro della Giutizia americano, Eric Holder, se le richieste dell’accusa dovessero essere accolte, la sicurezza nazionale degli Stati Uniti sarebbe messa in pericolo. Sia il nome dell’agenzia federale che ha stabilito la necessità del segreto di stato sia il genere di informazioni nelle mani dell’UANI che metterebbero a repentaglio la sicurezza del paese e le basi su cui poggia la decisione del governo non sono state né verranno rese note.

La vicenda ha suscitato lo stupore anche tra i sostenitori della Casa Bianca e i media ufficiali, dal momento che, come ha spiegato un legale di Restis, “non esiste letteralmente alcun precedente per quello che il governo sta cercando di fare”. Mai in nessuna circostanza nel passato, cioè, il governo americano si era appellato al segreto di stato per far naufragare una causa legale tra privati adducendo ragioni legate alla sicurezza nazionale.

La decisione appare poi ancora più sconcertante alla luce delle cosiddette modifiche decise nel 2009 dallo stesso Holder per ridurre i casi nei quali il governo può fare appello al segreto di stato nei procedimenti legali, dopo che l’amministrazione Bush ne aveva ampiamente abusato.

La dottrina del segreto di stato, secondo un’analisi del blog Firedoglake, è stata utilizzata dal governo degli Stati Uniti almeno dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, quasi sempre per ostacolare la giustizia in casi di frode o attività criminali che vedevano coinvolte agenzie federali.

Negli anni successivi al lancio della “guerra al terrore”, poi, il segreto di stato è diventato uno degli strumenti utilizzati dal governo per condurre operazioni gravemente lesive dei diritti democratici dei cittadini senza doverne rendere conto in un’aula di tribunale.

In questo modo, le amministrazioni Bush e Obama hanno decretato la fine di cause legali riguardanti, tra l’altro, le rendition della CIA, i programmi di sorveglianza della NSA e l’assassinio arbitrario di cittadini americani all’estero su ordine del presidente, impedendo in sostanza alle vittime delle attività illegali del governo di ottenere giustizia o risarcimenti.

Il caso relativo all’UANI non vede però coinvolto il governo americano, almeno ufficialmente, così che i sospetti e gli interrogativi appaiono molteplici. Per cominciare, l’UANI annovera tra le proprie fila numerosi importanti ex membri del governo, i cui contatti potrebbero essere utili per il reperimento di informazioni su compagnie che fanno affari con l’Iran aggirando le sanzioni.

In questo modo, l’UANI può condurre le sue tradizionali campagne diffamatorie, in modo da convincere le aziende in questione a sganciarsi da Teheran e, allo stesso tempo, istigare l’opinione pubblica contro il presunto programma nucleare militare della Repubblica Islamica.

Lo scopo dichiarato dell’UANI è d’altra parte proprio quello di impedire all’Iran, attraverso campagne pubbliche, di ottenere armi atomiche ma, non essendoci alcuna prova dell’esistenza di un programma volto a questo scopo a Teheran, l’attività dell’organizzazione fondata nel 2008 risulta in definitiva interamente politica e i suoi obiettivi coincidono in gran parte con quelli del governo degli Stati Uniti.

Tra le personalità che orbitano attorno all’UANI spiccano oltretutto numerosi “falchi” della politica estera USA. I fondatori, ad esempio, sono Mark Wallace, già ambasciatore americano presso le Nazioni Unite durante l’amministrazione Bush, il defunto Richard Holbrook, instancabile diplomatico al servizio dell’imperialismo a stelle e strisce in varie amministrazioni, Jim Woolsey, ex direttore della CIA, e Dennis Ross, più volte “inviato” in Medio Oriente a partire dall’amministrazione Clinton.

L’attuale presidente dell’UANI è inoltre Gary Samore, dal 2009 al 2013 “coordinatore” alla Casa Bianca per le questioni legate al “terrorismo” e alle “armi di distruzione di massa”, nonché presenza fissa nel circuito dei media americani “mainstream” con il ruolo di accusatore dell’Iran.

Nell’advisory board dell’UANI spiccano infine molti altri personaggi discutibili, se non criminali a tutti gli effetti (sia pure impuniti). Tra gli altri vanno ricordati almeno il già citato ex direttore del Mossad israeliano, Meir Dagan, l’ex diplomatico USA sostenitore di dittature e pianificatore di vari colpi di stato in America latina, Roger Noriega, l’ideatore del golpe contro Hugo Chavez in Venezuela e protagonista in tutte le trame degli Stati Uniti in Sudamerica, Otto Reich, e l’ex numero uno dell’MI6 britannico, Richard Dearlove.

Un simile elenco e il recente intervento del ministro Holder fanno dunque ipotizzare il possesso da parte dell’UANI di informazioni di intelligence riservate relative all’Iran che, se rese note, si tradurrebbero non tanto in una possibile minaccia per la sicurezza nazionale USA, bensì in un grave imbarazzo per il governo e risulterebbero dannose per la già modesta credibilità dell’organizzazione stessa.

In particolare, la mozione presentata dal governo nella causa intentata dall’armatore greco Restis afferma che la pubblicazione dei documenti in mano all’UANI potrebbe compromettere, oltre alle capacità degli Stati Uniti di difendere la propria sicurezza, le “relazioni diplomatiche con governi stranieri”, a cominciare, con ogni probabilità, con quello di Israele.

Grazie allo zelo dell’amministrazione Obama, comunque, qualsiasi informazione che faccia luce sul mistero dell’UANI è destinata a rimanere segreta ancora a lungo. Ad esempio, non è dato sapere il motivo per cui un’organizzazione privata sarebbe in possesso di segreti di stato e da che fonti li ha reperiti. Ancora, i dubbi più che legittimi circa la possibilità che l’UANI rappresenti una copertura per consentire ad agenzie del governo di mettere in atto operazioni illegali di disinformazione sulla questione iraniana non potranno essere dissolti.

Quel che è certo, però, è l’insolito e molto sospetto atteggiamento dell’amministrazione Obama, la quale, pur avendo fatto registrare in questi anni un numero record di incriminazioni per fughe di notizie riservate dall’interno del governo, non solo non intende muovere un dito nel caso dell’UANI, ma si è mossa con tutta la propria autorità per proteggere questa stessa organizzazione da qualsiasi fastidio legale.

di Mario Lombardo

Le elezioni parlamentari andate in scena domenica in Svezia hanno decretato la sconfitta della coalizione di centro-destra al governo, assegnando un’esilissima e poco confortante vittoria al Partito Socialdemocratico (SAP) e ai suoi possibili alleati di centro-sinistra. A testimonianza dell’anemica prestazione del partito del probabile nuovo primo ministro, Stefan Löfven, il risultato fatto segnare nel fine settimana è stato solo di poco migliore rispetto a quello del 2010, quando il SAP fece segnare la peggiore performance alle urne negli ultimi cento anni della sua storia.

I Socialdemocratici hanno raccolto il 31,2% dei consensi, contro il 30,7% di quattro anni fa, mentre il Partito Moderato del premier uscente, Fredrik Reinfeldt, ha perso quasi sette punti percentuali, scendendo dal 30,1% al 23,2%. Il crollo della principale forza politica di centro-destra la dice lunga sul livello reale di popolarità di un governo responsabile della “trasformazione” del paese scandinavo, continuamente indicata come un modello e una storia di successo da politici e media occidentali.

Reinfeldt e il suo ministro delle Finanze, Anders Borg, vengono considerati tra i più accaniti sostenitori in Europa del rigore fiscale e delle politiche di libero mercato, teoricamente volte a migliorare la “competitività” dei sistemi economici del vecchio continente. A partire dal successo elettorale sui Socialdemocratici del 2006, il centro-destra svedese ha infatti accelerato una serie di “riforme” già impostate in precedenza e destinate a cambiare definitivamente il modello sociale scandinavo, basato su tasse elevate, servizi pubblici di prima qualità e relativo livellamento dei redditi.

La Svezia, sotto la guida di Reinfeldt, ha visto così attuati ben cinque round di tagli alle tasse, da quelle sulla ricchezza a quelle sul reddito e per le aziende. Allo stesso tempo, il governo ha perseguito la strada delle privatizzazioni, aprendo ai privati alcuni settori come quelli dell’educazione e della sanità, con risultati spesso nefasti.

I successi ottenuti da Reinfeldt in questi otto anni consisterebbero, tra l’altro, in una sostenuta crescita del PIL nonstante la crisi globale, nella riduzione dell’indebitamento e del livello di spesa pubblica, passato dal 68% del PIL due decenni fa al 50% odierno.

Di fronte ai sondaggi che annunciavano da tempo la sconfitta del centro-destra e al risultato del voto di domenica, in molti si sono chiesti le ragioni della sconfitta del governo, con l’Economist che qualche giorno fa ha addirittura bollato come “ingrati” gli elettori svedesi.

Al di là dei benefici assicurati ad una classe relativamente ristretta, ma molto ben rappresentata nella stampa ufficiale, gli otto anni del governo Reinfeldt si sono tradotti in un peggioramento delle condizioni di vita per la maggioranza degli svedesi.

Il nuovo modello scandinavo, infatti, ha portato con sé una crescita vertiginosa delle disparità di reddito - la più marcata tra i paesi dell’OCSE negli ultimi anni - assieme alla riduzione dei servizi e dei benefit sociali, a fronte di una disoccupazione attestata attorno all’8%, nonché al grave deterioramento della qualità della scuola e dell’assistenza pubblica.

Una serie di scandali che hanno interessato alcune compagnie operanti proprio in questi ultimi due settori ha infine messo in luce i rischi dell’affidamento di servizi essenziali ai privati, convincendo molti elettori a ritirare la fiducia al centro-destra svedese.

Come già anticipato, la débacle del partito di Reinfeldt e dei suoi alleati non si è tradotta in un chiaro successo dei Socialdemocratici. Anzi, anche alleandosi con i Verdi (MP) e il Partito della Sinistra (V), la possibile nuova coalizione di governo non raggiungerebbe la maggioranza assoluta in Parlamento, mancando di 17 seggi difficilmente reperibili altrove se non a prezzo di concessioni e instabilità.

Come i Socialdemocratici, anche il gradimento dei Verdi e del Partito della Sinistra è rimasto pressoché invariato rispetto al voto del 2010, attestandosi rispettivamente al 6,8% e al 5,7%. Le speranze di mettere assieme una coalizione numericamente più ampia di centro-sinistra sono state frustrate anche dal mancato raggiungimento della soglia di sbarramento del 4% del partito Iniziativa Femminista, fermatosi al 3,1%.

Il voto di protesta e quello degli elettori delusi dal centro-destra è confluito così anche in Svezia in buona parte verso l’estrema destra xenofoba. I Democratici Svedesi (SD), anche grazie a una campagna per ripulire la propria immagine condotta dal loro leader, il 35enne Jimmie Åkesson, sono l’unico partito realmente soddisfatto dai risultati delle urne, essendo passato dal 5,7% e 20 seggi nel 2010 al 12,9% e ben 49 seggi.

Nei confronti dei Democratici Svedesi, gli altri partiti nazionali continuano però a mantenere almeno ufficialmente un netto distacco, anche se la nascita di un eventuale governo di minoranza a guida socialdemocratica garantirebbe di fatto al partito di estrema destra e all’alleanza di governo uscente un potere di veto sulle iniziative del centro-sinistra.

In Svezia come altrove, il successo di formazioni estreme come l’SD è dovuto in larga misura sia all’impopolarità dei partiti tradizionali sia alle politiche e ai proclami populisti e più o meno xenofobi dei leader di questi ultimi. Lo stesso premier uscente Reinfeldt, infatti, alla vigilia del voto aveva giocato questa carta, annunciando possibili nuove riduzioni della spesa pubblica non a causa dei tagli alle tasse decisi dal suo governo in questi anni, ma dell’arrivo nel paese di alcune migliaia di profughi, provenienti soprattutto dalla Siria.

Löfven, in ogni caso, ha già annunciato di volere cercare sostegno tra la coalizione di governo uscente, puntando in particolare sul Partito Popolare Liberale (FP) e sul Partito di Centro (C), prospettando dunque un possibile ulteriore annacquamento del programma di governo moderatamente progressista dei Socialdemocratici.

Questi ultimi, cavalcando l’insoddisfazione diffusa nei confronti del governo Reinfeldt, avevano condotto una campagna elettorale all’insegna delle promesse di ristabilire almeno parzialmente i livelli di spesa pubblica degli anni passati e di rilanciare l’inizativa pubblica nei settori dell’educazione e dell’assistenza sanitaria, pur continuando a garantire in entrambi un certo ruolo ai privati. I Socialdemocratici avevano promesso inoltre un qualche aumento del carico fiscale per tornare a finanziare in maniera adeguata il welfare svedese, anche se i livelli di tassazione rimarranno comunque inferiori a quelli precedenti il 2006.

Al di là dei proclami, tuttavia, vista l’aria che tira in tutta Europa e la necessità del nuovo governo di Stoccolma di contare con ogni probabilità su una o più stampelle nel centro-destra, i cambiamenti saranno tutt’altro che drastici rispetto agli ultimi otto anni.

Sempre l’Economist, poi, ha definito la candidata alla carica di ministro delle Finanze, l’economista Magdalena Andersson, come una “moderata” che intende aumentare “qualche tassa” ma non ai livelli dei decenni scorsi. Inoltre, la Andersson non avrebbe obiezioni riguardo l’attuale stato delle finanze svedesi e, anzi, vorrebbe raggiungere un surplus di bilancio in tempi più rapidi rispetto al ministro uscente Borg.

Lo scarso appeal dei Socialdemocratici e dell’ex saldatore e leader sindacale Löfven, che ha portato tra l’altro a sciupare un vantaggio sul centro-destra che fino a qualche mese fa sfiorava i 20 punti percentuali, è dovuto in definitiva al ruolo che questo partito ha giocato negli ultimi decenni in preparazione delle “riforme” operate dal governo Reinfeldt.

Come le altre socialdemocrazie nel resto dell’Occidente, infatti, anche quella svedese in concomitanza con i cambiamenti strutturali determinati dalla globalizzazione dell’economia è stata protagonista negli anni scorsi dell’avvio della liquidazione del welfare e delle conquiste dei lavoratori nei decenni precedenti.

Questa evoluzione, accelerata drammaticamente dopo la crisi finanziaria del 2008, ha determinato in Svezia l’allontanamento sempre più marcato dal modello scandinavo che per decenni – proprio sotto la guida socialdemocratica – aveva assicurato stabilità sociale e livelli di vita invidiabili grazie soprattutto a un welfare generoso e alla funzione regolatrice dello Stato nell’economia.

La fine di questo stesso modello ha pesato dunque come un macigno sulle fortune dei partiti che ne portano la responsabilità, a destra come a sinistra. Tuttavia, nonostante il parere espresso dagli elettori, in Svezia come altrove, questo processo non sarà invertito se non in maniera trascurabile, e soprattutto non da un nuovo governo debole e instabile come quello che si preannuncia a Stoccolma nell’immediato futuro.

di Vincenzo Maddaloni

Se come usa dire “il buongiorno si vede dal mattino” - di là del risultato del referendum che il prossimo  18 settembre si  terrà in Scozia per decidere l’indipendenza dal Regno Unito - tutto lascia prevedere che John Henry, il barista del “Beadnell Towers” continuerà a negare l’esistenza del “The Famous Grouse”, benché sia il whisky più venduto in Scozia. Lo si intuisce da come rotea gli occhi quando gli se ne chiede un bicchiere. Probabilmente per un sussulto di orgoglio nazionale.

Succede che il “Beadnell Towers” sia un albergo sulla costa del  Northumberland, famosa per le distese di dune, di scogliere, e per le torri fortificate lungo il litorale che rammentano le guerre tra gli inglesi e scozzesi che si sono alternate nel corso dei secoli in questa zona di confine. Infatti risale al 1455 l’ordinanza del Parlamento inglese con la quale si esige che sulla sommità delle torri ci siano accesi dei fuochi con tutto l’occorrente per i segnali di fumo, “giorno e notte e sempre a portata di mano”.

Le torri rimasero operative per almeno trecento anni, tanto dura infatti la storia dell’indipendentismo scozzese. Nel 1707, il regno di Scozia entrò a far parte del Regno di Gran Bretagna insieme all’Inghilterra, e i due parlamenti vennero fusi insieme. Una convivenza però che non fu tranquilla né pacifica, e che si concluse nel 1746, a Culloden, dove i sostenitori dell’antica casata reale scozzese, quella degli Stuart, combatterono e persero l’ultima battaglia.

Guglielmo di Cumberland, che la vinse e passò alla Storia con l’appellativo “il macellaio”, ordinò lo sterminio di tutti gli scozzesi feriti mentre i prigionieri d’alto lignaggio furono giustiziati. Ma per gli scozzesi il peggio doveva ancora arrivare: nei mesi successivi la Corona prese provvedimenti draconiani per distruggere il loro retaggio, arrivando a vietare perfino il kilt e la cornamusa e perseguitando la lingua gaelica fino a quel momento predominante nelle Highlands e lungo la costa occidentale del Paese.

Tuttavia l’indipendenza è rimasto un tema ricorrente nel discorso politico della Scozia. Si tenga a mente che lo Scottish National Party, il Partito Nazionale Scozzese, (SNP), il partito promotore del referendum, fu fondato nel 1934 e per larga parte della storia recente scozzese ha esteso il suo consenso elettorale sottraendolo alle emanazioni locali dei due maggiori partiti britannici, chiedendo più autonomia e poteri per la regione. Nel 1979 l’SNP, riuscì a organizzare un referendum per la formazione di un parlamento scozzese, ma non raggiunse il quorum (avrebbe dovuto votare per il sì almeno il 40 per cento dell’elettorato, ma l’affluenza fu piuttosto bassa).

Fu un secondo referendum, tenutosi nel 1997, a portare alla formazione di un parlamento locale scozzese. E’  quello il periodo nel quale Tony Blair diventa primo ministro e si affretta a mantenere ciò che aveva promesso agli scozzesi che lo avevano aiutato a battere i Tories. L’11 settembre si tiene il referendum sul trasferimento dei poteri a un governo nazionale scozzese, l’ormai famosa “devolution”, e vincono i "Sì" con i tre quarti dei voti. Ma la coalizione tra laburisti e liberaldemocratici che governa dal 1999 al 2007 poté ben poco: l’indipendenza “riconquistata” si concretizzò in qualche parata di cornamuse in più. Le speranze di un nuovo futuro, soprattutto economico, svanirono.

Negli ultimi anni, e dopo la vittoria elettorale dell’SNP alle politiche del 2011, si è posta con maggiore insistenza la questione di un’indipendenza completa dal Regno Unito: nell’ottobre del 2012 il primo ministro inglese David Cameron e quello scozzese Alex Salmond - che è anche l’attuale capo dell’SNP, che complessivamente si trova su posizioni più vicine a quelle dei Labour che dei Conservatori - si accordarono per un referendum sull’indipendenza da tenere nell’autunno del 2014, come infatti sta avvenendo.

Ad ogni modo un’identità scozzese ben distinta da quella inglese è riuscita a sopravvivere eccome, e se ne sentono gli effetti anche nelle piccole cose, soprattutto da queste parti nelle Lowlands e della costa orientale, nelle quali vivono almeno i quattro quinti degli scozzesi.

Probabilmente è questa diversità che infastidisce persone come il barista del “Beadnell Towers” John Henry, inglese doc che, in quanto tale, ha bene in mente che  gli scozzesi non rinunciarono mai a sfidare la supremazia londinese. A cominciare dalla morte della regina Anna, quando supportarono massicciamente la causa della dinastia Stuart soppiantata da quella degli Hannover che invece era gradita agli inglesi.

Raccontano i libri di Storia che siccome i partigiani degli Stuart furono detti “giacobiti”, dal nome di Giacomo II Stuart che nel 1688 era stato deposto da Guglielmo d’Orange, la parola “giacobita” diventò sinonimo di scozzese. Nel 1746, come detto, essi andarono tuttavia incontro a una terribile sconfitta sulla radura di Culloden. Tuttavia la lotta identitaria scozzese non si esaurì con la brutale repressione dei giacobiti, ma è riemersa progressivamente con passaggi controversi e tormentati fino ai nostri giorni.

Naturalmente i britannici la vivono con terrore. Sentimento non del tutto immotivato, perché se prevalessero i "Sì" scomparirebbe tra l’altro anche la bandiera del Regno Unito, nata  dalla sovrapposizione delle bandiere dell’Inghilterra e della Scozia. La perdita della Union Jack, qualora la Scozia votasse a favore dell’indipendenza, non avrebbe solo un grande impatto emotivo scrive l’Independent.

E spiega che secondo diversi economisti ed esperti di marketing anche l’economia e le esportazioni ne risentirebbero: «Il dinamismo del rosso, del bianco e del blu sono riconosciuti immediatamente e ovunque. La Union Jack è anche un simbolo di solidità e fiducia nel mondo degli affari: aiuta le società britanniche a commerciare all’estero e trovare porte aperte».

Poi, benché il referendum non rimetta in discussione l’Unione delle Corone - dal 1603, infatti, con Giacomo I, Inghilterra e Scozia condividevano la monarchia pur mantenendo parlamenti sovrani - quella dell’indipendenza della Scozia rimane una questione piuttosto complicata che potrebbe avere importanti conseguenze politiche. La questione monetaria è una di queste ed è stata usata da entrambe le parti come argomento a favore o sfavore delle rispettive posizioni.

Alex Salmond, primo ministro scozzese, socialdemocratico e sostenitore dell’indipendenza, ha promesso che se vinceranno i "Sì" manterrà la sterlina e negozierà con la Banca d’Inghilterra e il Regno Unito un’unione monetaria, cosa che rassicurerebbe i mercati.

Ma egli ha anche ribadito che se la Scozia indipendente resterà senza la sterlina si rifiuterà anche di farsi carico di parte del debito pubblico della Gran Bretagna, che è in totale di circa mille e duecento miliardi di sterline.

Alistair Darling, (nato a Londra da famiglia scozzese) ex ministro laburista anti indipendentista, ha ribattuto che non è in gioco il patriottismo ma «il destino delle generazioni future: se prendiamo questa decisione, non ci sarà poi modo di tornare indietro. Non ci sarà nessuna seconda possibilità. Per noi la scelta è molto, molto chiara. Voglio usare la forza del Regno Unito per rendere più forte la Scozia», aggiungendo che una Scozia indipendente andrebbe incontro a grandi difficoltà economiche.

Ma siccome nonostante le invocazioni di Darling gli elettori favorevoli all'indipendenza della Scozia la percentuale dei “Sì” è in costante aumento, meglio si capisce la stizza del barista del “Beadnell Towers”, il quale con un solo vortice di pupille mi aveva seppellito un whisky scozzese famoso assieme al popolo che ne fa un vessillo di orgoglio nazionale.

Beninteso, sull’esito dei sondaggi e sulle reazioni che essi provocano non se ne stupiscono all’ Old Course di St Andrews, il più antico campo da golf del mondo che annovera tra i suoi giocatori Giacomo IV re di Scozia (anno 1504), e Tom Morris che con Allan Robertson (XIX secolo) furono i primi professionisti riconosciuti di questo sport.

Sicché non attendetevi delle sparate alla Borghezio, dagli scozzesi seduti al bar davanti a un  tappeto erboso di un verde incredibile, mentre sorseggiano “The Famous  Grouse”, “Il Famoso Urogallo”. Anzi, essi usano toni pacatissimi nell’evidenziarmi l’inaffidabilità dei sondaggi.

Infatti, quelli pubblicati giovedì 11 settembre, condotti dall’istituto YouGov per il quotidiano britannico Times, mostrano che il 52 per cento degli elettori e delle elettrici scozzesi intervistati negli ultimi tre giorni vuole rimanere con il Regno Unito.

Nel sondaggio precedente, condotto dallo stesso istituto - che tanto amareggiò il barista del “Beadnell Towers” - erano in vantaggio di un punto gli indipendentisti. Insomma, la situazione - essi sottolineano - è molto incerta, benché secondo gli ultimi dati, la percentuale dei “Sì” abbia guadagnato quasi dieci punti rispetto all’inizio di agosto.

Si tenga a mente che in Scozia gli unionisti sono ancor adesso, in parte non trascurabile, espressione di quelle classi abbienti per secoli favorite da Londra, poiché emanazione “britannizante” del lealismo orangista da opporre al “tradimento” giacobita. In breve, un confronto tra il sì e il no che fa leva sulla rivendicazione sociale che col tempo si è andata stemperando. E siccome gli elementi culturali, linguistici e non da ultimo religiosi non sono mai stati la molla decisiva dell’indipendentismo scozzese, meglio si comprende il valore che hanno i sondaggi quando si basano su delle reazioni prevalentemente umorali, che poco giovano agli scenari difficilissimi da districare. Per esempio quello delle Forze armate.

Infatti, secondo i dati diffusi dal Ministero della Difesa citati dal Guardian, 14.510 persone lavorano in Scozia per l’Esercito: 3.910 sono civili e 10.600 sono militari. Poi da un recente sondaggio si evince che il 46 per cento degli scozzesi si oppone al possesso di armi nucleari, contro il 37 per cento che invece lo sostiene. Sicché a seguito di questi dati, nel caso la Scozia diventasse indipendente è stato dichiarato dal governo che il paese abbandonerà il programma entro il 2020. Anche perché il Partito Nazionale Scozzese (SNP) e i suoi alleati, sono da sempre contrari alle avventure militari di Londra e al suo costante sostegno alle politiche americane, come negli  ultimi interventi in Medio Oriente.

Insomma, “Siete d’accordo che la Scozia diventi una nazione indipendente?”. E’ questa la domanda a cui si dovrà rispondere dopodomani. Il risultato? Molto dipenderà dall’umore della giornata delle elettrici e degli elettori.



di Fabrizio Casari

David Haines, cooperante inglese, è l’ennesima vittima occidentale dei barbari che sognano il califfato. Alla vigilia della Conferenza di Parigi e in risposta alla dichiarazione di guerra o quasi lanciata da Obama 48 ore prima, l’ISIS ha reagito su due piani: con quello truce e spettacolare della decapitazione del prigioniero inglese e - aspetto decisamente più complesso - siglando un accordo con le altre componenti della guerriglia islamica tra le quali Al Nusra, di estrazione quedista, e il cosiddetto ”Esercito libero siriano”, creatura decisamente inglese.

La mossa di Al-Baghdadi funziona, perché da un lato provoca Londra e Washington e li sfida, dall’altro riduce le possibilità di risposta angloamericane, poiché l’ISIS è ora alleato con gli alleati di Washington e Londra e dunque attaccarlo dal cielo diverrebbe un attacco all’insieme delle forze anti-Assad. L'Occidente è ora obbligato a dividere in due le risposte: una per quanto riguarda la Siria, l'altra per quanto riguarda l'Iraq, perchè l'ISIS è nello stesso tempo alleato e nemico a seconda dello scenario. E se non è chiaro chi e cosa colpiranno i droni USA in Siria, in Iraq l’intervento di terra è l’unico in grado di distruggere l’ISIS ma è anche l’unica opzione esclusa dagli USA. La sostanziale dichiarazione di guerra all’ipotetico califfo, al momento, sembra così essere più una reazione obbligata.

Obama dunque sembrerebbe all’angolo: se bombardasse l’ISIS bombarderebbe gli alleati dei suoi amici e, indirettamente, aiuterebbe Assad, la cui caduta resta l’obiettivo primario, ma non potrà nemmeno restare con le mani in mano dopo aver chiamato alle armi mezzo mondo. Ma qui sta la prossima mossa statunitense: l’intenzione di Obama di bombardare la Siria, ove non fosse coordinato con il governo di Assad, non sarà tanto quella di colpire l’ISIS ma, con ogni evidenza, quella di colpire Damasco.

Si può pensare che gli Stati Uniti siano stati colti di sorpresa dall’accordo tra le componenti che ricevono da Washington e Londra armi e denaro, ma non è così. Non è infatti minimamente credibile che la CIA e il non meno attivo MI-5 britannico, anelli di congiunzione operativa tra i vari gruppi anti-Assad, non sapessero cosa succedeva nelle file dei terroristi sunniti. E meno che mai si può rimanere stupiti dall’accordo tra loro, dal momento che solo la propaganda occidentale racconta la storiella della divisione tra “moderati” ed “estremisti” tra le fila degli oppositori al regime siriano.

C’è da ridere nello scoprire che Al-Nusra e gli jahidisti del cosiddetto “esercito libero siriano” siano moderati, ma il racconto delle loro presunte differenze prosegue senza sosta. Sono invece la stessa cosa, hanno lo stesso credo e gli stessi padroni; si scontrano tra loro per stabilire chi deve avere l’egemonia della guerriglia, chi deve drenare e gestire i miliardi di dollari di finanziamenti e il flusso ininterrotto di armi che giungono da Arabia Saudita e Qatar. Ma vengono dallo stesso ceppo sunnita e hanno identico odio per gli sciiti, hanno gli stessi alleati e gli stessi nemici.

Ma da dove viene l’ISIS e come nasce? Da un punto di vista organizzativo, l’ISIS nasce da una scissione di Al-Queda in Siria. Ma primi nuclei di quello che poi diverrà l’ISIS nascono in Libia nel 2011. Caduto il rais libico, le milizie sunnite passano in Siria per provare a bissare con Assad quanto avvenuto con Gheddafi. E’ qui che nasce l’ISIS, armato e finanziato da Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e in qualche modo sostenuto da Turchia e Giordania.

Il livello operativo sul terreno è coordinato  dalla CIA, e che il ruolo degli USA anche in questo caso non sia marginale lo prova l’incontro in Siria - nel maggio 2013 - tra gli uomini di Al-Baghdadi e il senatore USA John Mc Cain, che da Obama viene incaricato di dirigere politicamente le missioni d’intelligence nell’area.

La polemica di cui fin troppo si è scritto tra ISIS, Al-Queda, Al Nusra e Esercito Libero Siriano è derivata da due diverse visioni circa il chi e il come combattere. Mentre Al-Queda ritiene di dover individuare nell’Occidente il nemico esclusivo e di chiamare a raccolta nella Jihad ogni musulmano, l’ISIS fa della guerra agli sciiti una parte decisiva della sua volontà di supremazia nell’Islam. Da questo dissenso ne sono poi derivati altri circa la strategia della guerra contro il governo siriano e anche sulle politiche predatorie che Al Baghdadi impone nei territori sotto il suo controllo, che vengono spremuti come fossero un protettorato in attesa di diventare parte del suo Califfato.

Insomma, questi ed altri elementi di dissenso interno hanno spinto a gonfiare le presunte divisioni interne, ma l’escalation delle operazioni in Iraq, parallelamente al mutamento a favore del governo siriano delle sorti della guerra, li hanno ora spinti a mettere in secondo piano le differenze di vedute tattiche per seguire il comune disegno strategico.


Le truppe dell’ISIS contano oggi con migliaia di uomini e di importanti risorse finanziarie, ma sono tutt’altro che invincibili. Basterebbero decise azioni di commandos e il blocco dei rifornimenti da parte dei migliori amici di Washington (Qatar e Arabia Saudita in primo luogo). Ma nonostante le indignazioni ufficiali, le dichiarate disponibilità di tutti, i passi sarenno limitati e lenti. Si preferisce assistere all'avanzata dell'ISIS e si spera che i reparti scelti iraniani già operativi di cui tutti fanno finta di non sapere ma a cui tutti devono dire grazie) li blocchino al Nord e che i peshmerga curdi facciano altrettanto almeno limitatamente al loro territorio.

Perchè a Washington il gioco è scappato di mano e il nuovo protagonismo militare iraniano in Iraq, come quello dei suoi alleati storici di Hezbollah in Libano e in Siria, rischia di portare il mondo a dover riconoscere il ruolo di Teheran come interlocutore regionale. E questo a Tel Aviv, e dunque anche Washington, non piace nemmeno un po’.

Cosa fare dunque? Il nemico del mio nemico è in qualche modo un amico e l’ISIS - non c'è dubbio - combatte contro Teheran e Damasco. E allora non vi sono dubbi che a Washington si chiedano se davvero vada distrutto o se basti un'azione limitata per recuperarne una futura utilità. Magari con una sigla nuova, ma con il solito lavoro.

In vista della guerra permanente con la quale l’economia si tiene, l’impero si amplia e la leadership globale si consolida, la distruzione dell'ISIS o comunque lo si chiamerà di un esercito islamico che agisce agli ordini delle ambizioni egemoniche saudite nel Golfo Persico e nel resto del Medio Oriente, non è detto sia utile al disegno imperiale.

Certo, se non verranno fermati potrebbero determinare una divisione in tre parti dell’Iraq, ma in fondo era il progetto dell’Amministrazione Bush che prevedeva una parte per i sunniti, una per gli sciiti e una per i curdi. E dunque, se Al Baghdadi o chi per lui riuscisse ad imporre un simile status, davvero risulterebbe così controproducente? Il raggiungimento degli obiettivi di domani renderebbe così sconvenienti le loro azioni di oggi?


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