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di Michele Paris
La visita di questa settimana in Turchia del presidente russo, Vladimir Putin, ha segnato un altro capitolo nel processo di allontanamento di Mosca dall’Europa in seguito alla crisi ucraina, provocando inoltre uno scossone nel mercato energetico del vecchio continente. In primo luogo, il vertice tra Putin e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, ha confermato l’estremo pragmatismo dei leader di due governi che si trovano su posizioni diametralmente opposte attorno alla vicenda siriana.
I due presidenti, ad esempio, si sono impegnati a portare gli scambi commerciali bilaterali annui tra le rispettive economie dai poco più di 30 miliardi di dollari attuali a 100 miliardi entro il 2020.
L’intensificazione delle relazioni tra i due paesi risulta però evidente soprattutto in ambito energetico e si sovrappone proprio allo scontro tra Occidente e Russia, mostrando ancora una volta l’inettitudine e le tendenze autolesioniste dei vertici politici europei.
L’arrivo di Putin ad Ankara lunedì era stato accompagnato da un patetico appello alla Turchia del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, a unirsi a Stati Uniti e UE nell’applicazione delle sanzioni economiche imposte ai danni della Russia a causa della presunta invasione del territorio ucraino.
Senza dubbio su richiesta di Washington, l’ex premier laburista norvegese aveva cioè provato disperatamente a sventare quanto è invece accaduto in maniera puntuale nella capitale turca, vale a dire la creazione dell’ennesima partnership energetica con al centro la Russia, sempre più assurdamente definita dall’Occidente come “isolata” sulla scena internazionale per via dell’atteggiamento del suo governo in Ucraina.
D’altra parte, non solo la Turchia non poteva mettere a rischio la propria sicurezza energetica - a differenza di quanto ha fatto Bruxelles - di fronte a una realtà nella quale il 60% delle sue importazioni di gas vengono dalla Russia, ma ha anche approfittato dell’irrazionale politica estera europea, ottenendo da Mosca vantaggi significativi in un settore cruciale per la propria stabilità economica.
Quella che il New York Times ha in maniera ridicola definito come una “rara vittoria diplomatica” per l’UE, è stata quindi annunciata direttamente da Putin in una conferenza stampa con Erdogan. La Russia, cioè, ha decretato la morte dell’ambizioso progetto di costruzione del gasdotto South Stream, il quale avrebbe dovuto attraversare vari paesi europei - tra cui i membri UE Bulgaria, Ungheria, Slovenia e Austria - che raccoglieranno ora probabilmente ben pochi frutti dalla “vittoria” messa a segno da Bruxelles e Washington.I benefici economici di cui questi governi avrebbero potuto godere saranno raccolti invece da Ankara, poiché il Cremlino dirotterà il proprio gas verso un impianto che il gigante Gazprom costruirà al di sotto del Mar Nero e in territorio turco fino al confine con la Grecia. Da qui, se sarà “economicamente giustificato dalle condizioni di mercato in Europa”, il gas sarà venduto ai paesi meridionali dell’Unione, i quali finirebbero così per dipendere per buona parte dei loro approvvigionamenti dalla Turchia, un paese che attende l’ammissione nel blocco continentale da quasi tre decenni e con cui i rapporti si sono sensibilmente raffreddati negli ultimi tempi.
Riflettendo la necessità di convincere Erdogan a non adottare le sanzioni occidentali, Putin ha inoltre concesso uno sconto del 6% a partire dal prossimo anno sulle forniture di gas alla Turchia, la quale otterrà da subito anche 3 miliardi di metri cubi in più rispetto ai livelli attuali attraverso il già attivo gasdotto Blue Stream.
Il motivo dell’abbandono del progetto South Stream da parte della Russia è legato alla decisione del governo bulgaro di congelarne la costruzione. L’iniziativa di Sofia era arrivata tuttavia lo scorso giugno in seguito alle enormi pressioni esercitate da Bruxelles, con la scusa che l’impianto avrebbe violato le norme europee sulla competizione che stabiliscono come il proprietario di un gasdotto, in questo caso Gazprom, non possa allo stesso tempo essere anche il fornitore del gas che vi transita.
La mossa era stata però interamente politica e legata alla vicenda ucraina, tanto più che, come sostiene Mosca, il cosiddetto “Terzo pacchetto energia” UE era entrato in vigore solo dopo che la Russia aveva siglato accordi bilaterali con i vari governi coinvolti nel progetto South Stream.
A spingere Putin ad abbandonare la costruzione del gasdotto ha forse contribuito anche il lievitare dei costi - stimati in oltre 23 miliardi di dollari per il solo tratto sottomarino in Europa orientale - a fronte delle difficoltà delle banche russe a ottenere accesso ai finanziamenti in Occidente dopo l’adozione delle sanzioni da parte di Washington e Bruxelles.
In ogni caso, questi ultimi sviluppi segnano un’occasione mancata dall’Europa per assicurarsi con un certo vantaggio economico la fornitura stabile di un gas russo che, nonostante i proclami circa la necessità di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, dovrà essere necessariamente acquistato ancora per molti anni. Il South Stream, infatti, era nato con l’intenzione di aggirare le attuali rotte che passano attraverso l’Ucraina, dove la crisi politica ed economica in atto appare lontana dall’essere risolta.L’accordo appena siglato dalla Russia con la Turchia segue inoltre quelli ben più consistenti sottoscritti quest’anno in due occasioni con la Cina, la quale potrebbe diventare nel prossimo futuro il primo mercato del gas russo nel quadro di una crescente partnership strategica ed economica tra Mosca e Pechino. Quest’ultima evoluzione è considerata come una minaccia da Washington ai propri interessi strategici ma risulta di fatto accelerata proprio dallo scontro attorno alla vicenda ucraina provocato dagli Stati Uniti stessi e dalla Germania.
La decisione di Putin di questa settimana avrà qualche effetto infine anche sull’Italia, nonostante il nostro paese fosse stato tagliato fuori dal South Stream qualche mese fa. ENI, innanzitutto, è socia al 20% del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto - assieme alla francese EDF, alla tedesca Wintershall e, ovviamente, a Gazprom - nonostante i suoi vertici avessero recentemente ipotizzato un ritiro dal progetto a causa dei costi eccessivi.
A essere colpita è poi anche Saipem, la società d’ingegneria controllata da ENI, che, come ha scritto martedì IlSole24Ore, “per la tratta sottomarina [nel Mar Nero] ha già cominciato a lavorare, grazie a tre contratti di appalto, l'ultimo dei quali - il più ricco, da 2 miliardi di dollari - era stato assegnato soltanto in marzo”.
Saipem, secondo Repubblica, “ha delle clausole di protezione nel contratto che tuttavia coprono solo una parte limitata del progetto”. L’azienda ha comunque diffuso una dichiarazione nella quale ha precisato di “non avere ricevuto alcuna comunicazione di formale interruzione del contratto dal cliente South Stream Transport”, senza riuscire però a evitare un pesante tonfo in Borsa nella giornata di martedì.
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di Michele Paris
Gli Stati Uniti e la Turchia avrebbero fatto significativi passi avanti nel raggiungimento di un’intesa sulla collaborazione militare ritenuta necessaria per intensificare il conflitto in corso in Iraq e in Siria, lanciato ufficialmente per sconfiggere i militanti dello Stato Islamico (ISIS). Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, i due paesi alleati avrebbero appianato quasi tutte le divergenze in merito alla nuova guerra in Medio Oriente, essendo ormai vicini a un accordo che, in cambio dell’accesso a basi militari in territorio turco da parte americana, prevede un’iniziativa fin qui sempre respinta dall’amministrazione Obama e che rappresenterebbe poco meno di un’aperta dichiarazione di guerra al regime di Damasco.
La misura, richiesta dal governo del presidente Erdogan, consiste nella creazione di una sorta di area-cuscinetto in Siria nei pressi del confine settentrionale con la Turchia. Questa zona verrebbe controllata dai militari di Ankara e protetta dalla forza bellica statunitense, così da costituire un rifugio sicuro per l’impalpabile opposizione filo-occidentale anti-Assad, esposta agli attacchi del regime e dell’ISIS. Per la versione ufficiale, la zona-cuscinetto dovrebbe servire anche a garantire il flusso indistrurbato di aiuti “umanitari” dalla Turchia agli stessi “ribelli” siriani considerati affidabili.
In realtà, è la creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria per cui il governo di Erdogan e del premier Davutoglu spinge da tempo, nel tentativo di condurre un assalto diretto contro il regime di Assad per risolvere la crisi interna causata dalla propria stessa condotta. Washington, però, ritiene una simile iniziativa troppo rischiosa, almeno per il momento, visto che, oltre a smascherare definitivamente le vere intenzioni americane nel conflitto contro l’ISIS, accelererebbe lo scontro diretto con Damasco.
Inoltre, una dichiarazione di guerra contro la Siria metterebbe a repentaglio la collaborazione con l’Iran attorno al programma nucleare di Teheran e, soprattutto, nell’ambito della battaglia contro l’ISIS sul fronte iracheno.
L’istituzione di una zona-cuscinetto, secondo le fonti citate dal Journal, a differenza di una “no-fly zone” non richiederebbe il bombardamento e la distruzione dei sistemi anti-aerei siriani, ma si limiterebbe a rappresentare “un tacito segnale al regime di evitare di inoltrarsi nell’area in questione se non a rischio di ritorsioni”.
Nel concreto, in ogni caso, anche la misura allo studio a Washington dopo una lunga serie di vertici bilaterali in Turchia, tra cui la recente visita del vice-presidente Biden, ammonterebbe a una dichiarazione di guerra nei confronti della Siria. Questa realtà appare del tutto evidente nonostante l’iniziativa sia stata battezzata col nome apparentemente inoffensivo di “zona di esclusione al volo”.
Una decisione finale sulla zona-cuscinetto oltre il confine turco dovrebbe comunque farsi attendere ancora qualche settimana, poiché essa sembra essere tutt’altro che condivisa oltreoceano e i possibili punti d’intesa tra Washington e Ankara sono iniziati a essere discussi all’interno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca solo qualche giorno fa.
Sia per Washington sia per Ankara appare evidente come l’accordo allo studio, rivelato dal Wall Street Journal, comporti il rischio concreto di aggravare la guerra in atto. Che le conseguenze della creazione di una “zona di esclusione al volo” possano essere difficili da contenere si può dedurre anche da una delle condizioni previste, secondo la quale la Turchia potrebbe dispiegare un proprio contingente militare direttamente in territorio siriano.Le truppe turche, come scrive assurdamente il Journal, avrebbero il compito principale di “aiutare a identificare i bersagli legati allo Stato Islamico” da colpire con i bombardamenti della “coalizione”. In realtà, la zona-cuscinetto in territorio siriano non sarebbe altro che un modo per stabilire una presenza militare in questo paese come trampolino di lancio per un’offensiva contro Damasco con il contributo delle formazioni “ribelli”.
L’eventuale e legittimo tentativo da parte di Assad di liberare il proprio paese da una presenza straniera illegittima e illegale verrebbe inoltre utilizzato come pretesto per colpire direttamente le forze del regime, in primo luogo proprio con l’istituzione di una “no-fly zone”.
Queste ultime rivelazioni si sono accompagnate alla descrizione delle divisioni che persistono all’interno dell’amministrazione Obama circa l’indirizzo da dare alla guerra in Siria. Il licenziamento del segretario alla Difesa, Chuck Hagel, con ogni probabilità anche per avere manifestato perplessità in merito alle decisioni della Casa Bianca sulla Siria, non ha insomma prodotto finora una visione univoca degli eventi a Washington.
Come ha affermato un anonimo ex funzionario del Pentagono in un’intervista all’agenzia di stampa Bloomberg, d’altra parte, “non è possibile creare una zona di esclusione al volo senza entrare in conflitto con il regime” di Assad. In molti nel governo USA temono infatti che l’accettazione, sia pure parziale, delle richieste turche possa far precipitare gli eventi in Siria, aggiungendo in maniera definitiva questo paese ai cosiddetti “failed states” - come Afghanistan, Iraq e Libia - oggetto degli interventi “umanitari” americani nel recente passato.
Il crollo del regime a Damasco, poi, anche se è di fatto il vero obiettivo americano della guerra all’ISIS, si tradurrebbe in un salto nel vuoto per la Siria, creando una realtà nella quale l’asse della resistenza anti-USA e anti-sunnita (con Iran e Hezbollah in Libano) verrebbe sì fortemente indebolito ma producendo una fortissima incognita riguardo al nuovo regime che finirebbe per installarsi, con tutte le conseguenze del caso sul fronte degli equilibri strategici in Medio Oriente.
Se gli USA desiderano insomma non meno della Turchia la fine di Assad, le differenze sono di natura strategica e riguardano la scelta delle modalità che permettano di conciliare i rispettivi interessi con il raggiungimento dell’obiettivo finale.Gli americani ritengono principalmente che il lavoro sporco in Siria debba essere delegato a terzi, con le proprie forze armate a svolgere tutt’al più compiti di assistenza, ma allo stesso tempo si rendono conto dell’impossibilità di contare su un’opposizione “moderata” che sia in grado di abbattere il regime e garantirne uno nuovo che assicuri stabilità e obbedienza all’Occidente.
In questa situazione, Washington si trova a non disporre di un’adeguata strategia che consenta la realizzazione coerente delle proprie politiche imperialistiche, finendo così per soccombere alle lacerazioni interne alla sua classe dirigente e lasciandosi trascinare pericolosamente in un maggiore coinvolgimento nel conflitto sulla spinta di alleati come Turchia, Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi, per nulla interessati alle aspirazioni della popolazione siriana ma ben intenzionati a rovesciare con ogni mezzo il nemico che governa a Damasco.
Lo scivolamento verso una guerra sempre più complessa e sanguinosa, così come le contraddizioni in cui continua a dibattersi Washington, è in definitiva il risultato delle decisioni prese negli ultimi anni dall’amministrazione Obama per forzare il cambio di regime in Siria.
Un obiettivo, quest’ultimo, impossibile da confessare ma perseguito senza sosta, a costo di far salire vertiginosamente il bilancio delle vittime innocenti, di destabilizzare ancor più la regione mediorientale e di favorire l’ascesa di forze fondamentaliste ormai fuori controllo.
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di Emanuela Muzzi
LONDRA. Se nell’immaginario collettivo del comune cittadino europeo, gli inglesi sono simbolo di self control e razionalità, allora vuol dire che gli inglesi non sono più europei. Almeno a giudicare da chi li rappresenta al momento. Prendiamo il recente discorso di Cameron sull’immigrazione, ad esempio. C’è un punto che, nell’elenco di proposte elettorali anti-immigrazione, colpisce non solo il senso comune ma anche il buon senso di chi si definisca europeo.
Il punto prevede il rimpatrio degli immigrati europei che non abbiano trovato lavoro in Gran Bretagna entro sei mesi. Adesso, che Cameron sia in competizione con l’estrema destra di Farage è chiaro, ma non avremmo mai creduto che si spingesse a tanto.
I rimpatri di normali cittadini di paesi dell’Unione è fuori da qualsiasi parametro legale e logico. A meno ché non si voglia fare carta straccia di Schengen. Per mantenere la propria credibilità a livello politico, sia nazionale che internazionale, il Primo ministro Tory dovrebbe presentare la proposta direttamente a Bruxelles dopo una discussione con i partner Europei: primi tra tutti Germania e Italia.
Sono questi i due paesi che Cameron ha chiamato in causa nel discorso di venerdì 30 Novembre: “L’Italia sta affrontando il grave problema dell’immigrazione dal nord Africa...La Germania ha molti più immigrati dai paesi europei che del Regno Unito. Ma la Germania è in una situazione diversa, lì la popolazione è in diminuzione, qui è in aumento”.
Dalla preoccupazione per la minaccia del terrorismo a quella demografica, a quella per il welfare e per la disoccupazione, ci sono una miriade di motivi per i Conservatives per fare dell’immigrazione il primo problema nazionale.
Se da una parte non si può e non si deve negare l’impatto dei flussi migratori, dall’altra non si possono trasformare questi ultimi nello slogan elettorale da sbandierare fino al prossimo maggio solo perché se si ricordasse invece all’elettorato inglese che si sta smantellando la sanità pubblica, il sistema della difesa, e il sistema dell’accesso ai benefits anche degli stessi cittadini britannici, i Tories non prenderebbero un voto.Forse Cameron ovrebbe fare una gita a Bruxelles. Il monito di Barroso del resto non era sbagliato riguardo al fatto che la Gran Bretagna sulla possibilità del ‘Brexit’ sta facendo un errore storico. Sinceramente, la chiara sensazione di chi in Gran Bretagna ci vive da anni e con gli inglesi ci vive e ci parla, sia al lavoro che al pub, la sensazione comune è che sì, è vero gli inglesi temono una ‘massive immigration’ dall’Europa dell’Est, ma non ne fanno un problema primario.
C’è in questo senso il rischio da parte dei politici di perdere il contatto con il paese con l’intenzione e l’arroganza di stabilire la cosiddetta ‘agenda setting’ ovvero le issues di cui la gente ‘deve parlare’.
Il discorso del Primo Ministro britannico ha fatto un effetto negativo, sia all’estero che ‘in casa’. Sembra un paradosso che mentre oltreoceano Obama apre simbolicamente le porte a milioni di immigrati clandestini, i cugini nella vecchia Europa si dibattano come un topo in trappola alla ricerca del tempo perduto, di un benessere conosciuto trent’anni fa che forse non potrà più tornare.
Perché la verità, in fondo, è che il risorgere del nazionalismo e della xenofobia che sono l’eredità più pericolosa della crisi finanziaria, sono la proiezione politica del bisogno delle nuove generazioni di tornare al benessere del secondo dopoguerra conosciuto attraverso la famiglia d’origine. Accade in Gran Bretagna come in Italia del resto.
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di Fabrizio Casari
Le recenti elezioni di mid term che hanno consegnato ai Repubblicani il controllo del Senato e rinforzato quello sul Congresso, sembrano aver ulteriormente complicato la politica di Barak Obama. Le contraddizioni di una leadership tutt’altro che autorevole, che non riesce a disegnare una strategia chiara per la regione mediorientale e l’Asia minore, in difficoltà a chiudere l’accordo sul nucleare con l’Iran e ambigua nel decidere come impegnarsi in Afghanistan e Siria, sembrano essere la cifra di una presidenza che pare avviata ad una fine mandato irta di scogli difficili da superare.
Il recente licenziamento del Segretario alla Difesa Hagel, di per sé non certo una consuetudine nella politica statunitense, indica le difficoltà a disegnare una politica estera e militare (due facce della stessa medaglia) da parte della Casa Bianca, ormai prigioniera delle logiche dell’impero e dall’esaurimento di credibilità riformatrice del suo presidente.
Se non ci si vuole rassegnare alla narrazione propagandistica della politica statunitense, che racconta di un portatore sano di democrazia e baluardo di valori e diritti, occupato a garantire la sicurezza del mondo, si può constatare come la realtà sia molto diversa. Quanto avviene in Iraq e Siria dice che Obama sembra prigioniero di una storica dualità tipica dell’impero USA. Quella di combattere l’estremismo islamico a parole mentre lo si sostiene nei fatti.
Due forni e due tempi: quello del sostegno organizzativo per costituire utili armate da impiegare nella scacchiera internazionale contro i suoi avversari, salvo trasformarle poi in utilissimo nemico quando le milizie si sganciano dall’orbita statunitense e non servono più a perseguire gli obiettivi di politica estera di Washington. In entrambe le circostanze gli armati svolgono un ruolo importante: nel primo caso, dove conducono guerre per procura, sostituiscono l’impegno diretto di Washington che comunque s’intesta la dimensione politica dei conflitti, utilizzandoli come clava e monito. Nel secondo caso, gli armati e le loro operazioni divengono la principale giustificazione ad un ingaggio degli USA nelle nuove guerre, con il risultato di rimettere in moto l’industria bellica e i suoi apparati di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per sostenere la loro economia interna e la loro leadership internazionale. Sono ormai diversi i casi di alleati di un tempo divenuti nemici in un secondo tempo, da Manuel Noriega a Panama fino a Saddam Hussein in Iraq, da Osama bin Ladin fino ad Al Baghdadi. La storia si ripete e le vicende attuali sembrano confermarlo.
In Siria, come in Iraq, nelle file dei tagliatori di teste che usano l’Islam per spiegare la loro criminale frustrazione, oltre alle componenti sunnite giunte da diversi paesi grazie ai soldi del Qatar e all’aiuto dell’Arabia Saudita, combattono anche uomini che provengono dai Balcani. In particolare da Kosovo e Bosnia, ma anche dalla Macedonia. Per non parlare di quanti ne arrivano dalla Cecenia. Alcuni di essi, stando a quanto riferiscono le indagini, hanno lavorato addirittura in basi statunitensi, che ormai sono ovunque a garantire che la destabilizzazione ad uso e convenienza del primato del dollaro sia ovunque.Dall’Afghanistan al Pakistan, dallo Yemen alla Somalia, dalla Bosnia Erzegovina al Kosovo, dalla Libia fino alla stessa Siria, le truppe dell’orrore si sono formate dagli anni ’80 ad oggi in ragione e forza delle guerre scatenate dagli Stati Uniti con l’accodamento servile e puntuale dell’Europa.
Gli Stati Uniti si dicono in prima fila contro il terrorismo islamico, ma è un falso storico, propaganda allo stato puro, occultamento delle verità storiche e delle responsabilità politiche. Sono infatti gli Stati Uniti che finanziarono, addestrarono e diressero i mujaheddin che combatterono contro l’invasione russa dell’Afghanistan e che, nel 1996, si unirono ai Talebani permettendo la conquista del paese. E sono gli stessi Stati Uniti che, nella guerra dei Balcani, si adoperarono in ogni modo per sostenere i musulmani della Bosnia Erzegovina, così come anni dopo aiutarono clandestinamente i musulmani ceceni.
Nella logica dello scontro con l’Unione Sovietica prima e con la Russia poi, Washington costruì con denaro e assistenza militare quasi tutti i reparti militari che oggi combattono, perlomeno a livello di linee di comando. Washington non è innocente: volle lo smembramento della ex-Jugoslavia in quanto retroterra determinante per la sicurezza russa e, quindi, ostacolo da superare per allargare ad Est la NATO ed estendere così il controllo militare degli Stati Uniti sull’Europa orientale.
Con gli integralisti islamici gli Stati Uniti hanno sempre lanciato moniti pubblici mentre tessevano buonissime relazioni e accordi inconfessabili sotto il tavolo. Con gli ayatollah iraniani, in pieno embargo e assenza delle relazioni diplomatiche, gli Stati Uniti organizzarono il traffico d’armi destinato ai Contras in Nicaragua, le truppe terroriste che Washington addestrava e finanziava in funzione antisandinista.
Nell’area del Golfo Persico va ricordato che la famiglia di Osama bin Ladin è stata per anni partner commerciale e politico del Pentagono e che lo stesso, inserito nei quadri irregolari della CIA, iniziò la costruzione della sua Al-Queda con la benedizione politica statunitense, il denaro dell’Arabia Saudita e la collaborazione attiva dei servizi segreti pakistani, da sempre paese alleato degli USA. Si costruì il mostro pur di combattere il nemico. E dunque perché stupirsi oggi dell’irriducibilità dell’Isis che da Al-Queda proviene? Come ebbe a dire Hillary Clinton, “non puoi tenere serpenti nel giardino e poi sperare che mordano solo i tuoi nemici”.Sono proprio le ripercussioni delle due guerre nel Golfo e delle cosiddette “primavere arabe” che segnano l’aggiornamento della strategia statunitense in Medio Oriente. Le primavere arabe, che pure hanno avuto elementi decisivi endogeni, esplosero perché abilmente sollecitate dall’esterno. Le gravi responsabilità dei regimi di Egitto, Libia, Siria ed altri hanno certamente contribuito in misura determinante alle rivolte, che hanno però trovato la benzina che le ha alimentate generosamente offerta dallo Zio Sam e da Ryad.
Non ovunque però “il virus della democrazia” attecchì: in Barheim le proteste vennero represse nel sangue ed il regime restò in sella, ma lì gli interessi sauditi e americani imposero il silenzio. Idem in Giordania, dove l’interesse strategico di Israele per la monarchia giordana impedì che la protesta trovasse aiuti e sostegno politico dall’Occidente, con il risultato che il tentativo morì sul nascere.
Invece nei paesi un tempo membri del “Fronte del rifiuto” e ancora governati dal partito Baath ad ispirazione panarabista, le cose andarono diversamente e l’Occidente soffiò sul fuoco dell’islamismo. Non furono forse gli Stati Uniti che sostennero i Fratelli Musulmani in Egitto, poi abbandonati su pressione di Israele per l’appoggio logistico ad Hamas a Gaza? E non furono gli Stati Uniti che misero il peso politico decisivo per deporre Gheddafi e consegnare la Libia alle tribù islamiste della Cirenaica? E non furono sempre gli Stati Uniti a decidere la guerra alla Siria, soffiando sul fuoco della follia sunnita e tentando di deporre con la forza Assad, grazie anche all’aiuto dell’alleato turco, che attraverso la frontiera con la Siria fa transitare armi e mezzi per i guerriglieri sunniti?
Certo, Erdogan ha il suo interesse nel far virare la Turchia verso l’islamizzazione, anche come risposta al sacrosanto rifiuto dell’Europa ad accogliere Ankara nella Ue. Ma davvero un paese membro della Nato, così militarmente ed economicamente legato agli USA avrebbe messo in campo i suoi servizi e la sua aviazione senza che da Washington fosse giunto il via libera? Più credibilmente, Erdogan esegue il lavoro sporco che Obama non può fare.
Molti osservatori statunitensi ritengono che la strategia messa a punto da Obama per le primavere arabe abbia fallito, che la Casa Bianca sia ostaggio della sua politica confusa. Ma se per la pace in Medio Oriente è senz’altro così, per gli interessi statunitensi il discorso cambia. Nonostante la narrazione favolistica sui diritti umani e sull’anelare alla democrazia da parte di popoli che non l’hanno mai nemmeno conosciuta, cosa sono state, a consuntivo, le cosiddette “primavere arabe” se non il disarcionare con la forza i regimi laici non completamente disponibili ad accettare il nuovo comando saudita e salafita voluto da Ryad e Doha e sostenuto da Washington e Tel Aviv?
Dal punto di vista USA le primavere arabe non sono affatto state inutili. Lungi dall’iniettare democrazia, esse avevano lo scopo di disegnare una mappa completamente diversa dell’area e rispondevano alle esigenze di espansionismo politico di Ryad e Doha; in qualche modo l’obiettivo è stato raggiunto. Le monarchie saudite, infatti, ritengono sia arrivato il momento di giocare un ruolo di direzione politica nell’area, convinti che le ricchezze di cui dispongono e lo stretto legame con Washington siano armi decisive nella lotta per il dominio politico della regione.
Ma non tutto è semplice e l’innescarsi del conflitto interreligioso apre scenari difficili da valutare una volta e per tutte. C’è da fare i conti con l’Iran e con la divergenza d’interessi che esso determina tra gli USA e i suoi alleati; Washington, che comunque ritiene di non dover lasciare troppo spazio ai sauditi, anche solo in funzione di limitazione delle loro ambizioni ha bisogno di un accordo con gli Ayatollah, cui magari delegare anche la soluzione del problema ISIS. Ma a Ryad e a Doha, così come a Tel Aviv, le cose vengono viste con molta preoccupazione e le rassicurazioni statunitensi non sono evidentemente ritenute sufficienti. E' notorio che senza la protezione americana la famiglia reale saudita e tutti gli emiri del Golfo non durerebbero una settimana di fronte ad una resa dei conti con l’Iran.Se salafiti e wahabbiti vogliono controllare il Golfo Persico, non possono non tener conto della forza degli sciiti al potere a Teheran. Impossibile ignorare il peso di una potenza regionale e, benché il regime iraniano sia in parte scosso dalle spinte verso un almeno parziale ma urgente processo riformatore, il suo peso politico, militare e religioso resta rilevante.
Per questo risulta così difficile il raggiungimento di un accordo a Vienna sul nucleare: gli interessi diretti di Washington da un lato e di Ryad e Tel Aviv dall’altro configgono, ma gli USA, che pure vogliono ricucire con l'Iran, non possono permettersi d’ignorare le esigenze dei loro alleati.
D’altra parte la destabilizzazione permanente del Medio Oriente come dell’Est Europa è sempre stato e ancor più è diventato oggi, di fronte alla crisi della leadership statunitense, l’elemento decisivo per il mantenimento di una presenza militare diretta e indiretta.
Il messaggio era ed è chiaro: per quanto la nostra economia possa essere in difficoltà, per quanto la nostra leadership non sia più incontestabile, sebbene altre aggregazioni di paesi emergenti, di grande peso demografico e con grandi prospettive socioeconomiche, possano ergersi a partner possibili della governance globale, sono sempre e solo gli Stati Uniti che dominano il pianeta grazie alla forza militare ed al vassallaggio dei loro alleati.
Il mondo è certamente un luogo pericoloso, ma il mantenimento del comando unipolare non può essere messo in discussione; dove succede, la destabilizzazione interna e l’aggressione esterna saranno i passi che gli USA muoveranno a difesa della loro supremazia, condizione necessaria nella battaglia globale per la difesa dei propri interessi.
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di Mario Lombardo
Mentre sono entrate nella terza notte consecutiva le proteste contro il verdetto che ha scagionato un ufficiale di polizia di Ferguson, nel Missouri, per l’uccisione di un 18enne di colore disarmato lo scorso agosto, le notizie emerse sulla decisione dell’apposito “grand jury” hanno confermato come l’intero procedimento giudiziario sia stato nient’altro che una farsa orchestrata dalle autorità locali con l’appoggio del governo di Washington.
Il procuratore della contea di St. Louis incaricato del caso, Robert McCulloch, aveva annunciato già nella serata di lunedì la pubblicazione dei documenti relativi alle udienze dello stesso grand jury per dimostrare, a suo dire, la correttezza del procedimento e l’inevitabilità della sua conclusione senza l’incriminazione dell’agente Darren Wilson.
Le trascrizioni, in realtà, hanno evidenziato un chiaro pregiudizio da parte dell’accusa a favore del responsabile dell’omicidio. In primo luogo, è stata la deposizione di Wilson a risultare decisiva nel verdetto emesso dai giurati. Tutti i testimoni che avevano raccontato i fatti del 9 agosto scorso in un modo che si discostava dalla versione di Wilson sono stati inoltre affrontati in maniera aggressiva dagli uomini dello staff del procuratore McCulloch, ben intenzionati a rilevare ogni possibile contraddizione.
La testimonianza del poliziotto è stata invece accolta praticamente senza obiezioni da parte dell’accusa, la quale è sembrata spesso incanalare la deposizione in maniera tale da favorire la tesi dell’auto-difesa.
McCulloch, inoltre, ha giudicato maggiormente credibili quelle testimonianze che supportavano l’innocenza di Wilson – poiché compatibili con le presunte “evidenze fisiche” - bollando al contrario come inconsistenti o prive di riscontri quelle, sia pure numerose, che hanno descritto l’atteggiamento del 18enne Michael Brown tutt’altro che minaccioso nei confronti dell’agente di polizia.
Nel complesso, il dibattimento di fronte al grand jury è sembrato risolversi, grazie agli sforzi degli uomini del procuratore, in una sorta di processo ai danni della vittima e non del suo assassino.
Tutto ciò ha rafforzato i sospetti che si erano concentrati sul procuratore McCulloch fin dallo scorso agosto, poiché il suo atteggiamento aveva rivelato da subito il tentativo di evitare un’incriminazione anche di fronte al dilagare delle manifestazioni popolari nelle strade di Ferguson.
Per cominciare, la stessa decisione presa da McCulloch di non arrestare Darren Wilson ma di rimettere la sorte di quest’ultimo al giudizio di un grand jury era stata criticata da molti. Tanto più che, insolitamente, il procuratore non aveva raccomandato ai giurati di contestare al poliziotto nessuna accusa specifica.
McCulloch, peraltro, dopo l’avvio delle indagini era finito al centro di un’accesa polemica, con i rappresentanti della comunità nera di Ferguson che gli avevano chiesto di ricusare se stesso nel caso di Michael Brown, visti i suoi legami con la polizia e per il fatto che suo padre, egli stesso un agente, era stato ucciso in servizio da un afro-americano.L’atteggiamento dell’ufficio del procuratore è stato così determinante per il destino di Darren Wilson, dal momento che, come hanno ricordato molti giornali americani in questi giorni, le decisioni dei grand jury vengono tradizionalmente pilotate dall’accusa e riflettono perciò la volontà di quest’ultima in relazione ai casi in esame.
Come hanno spiegato i legali della famiglia Brown, in altre parole, se il procuratore “presenta [al grand jury] prove per ottenere un’incriminazione, si ottiene un’incriminazione”, mentre “se vengono presentate prove per evitare un’incriminazione, non si ottiene un’incriminazione”.
La parodia della giustizia andata in scena nel Missouri è dunque evidente, soprattutto perché la decisione del grand jury non riguardava in nessun modo l’eventuale colpevolezza di Darren Wilson, ma unicamente l’opportunità di aprire un procedimento giudiziario nei suoi confronti, ovvero un processo nel quale le prove e le testimonianze circa l’uccisione di Michael Brown sarebbero state dibattute pubblicamente.
Alla luce delle prove e delle testimonianze contro Wilson o, quanto meno, dei resoconti contraddittori dell’uccisione del giovane afro-americano, è più che ragionevole ritenere che le condizioni per l’istruzione di un processo fossero interamente presenti.
Per questa ragione, visto anche il livello di rabbia manifestato dalla popolazione di Ferguson e non solo dopo i fatti del 9 agosto, così come le pressioni popolari nei confronti della classe dirigente dello stato del Missouri per ottenere giustizia nell’ennesimo caso di violenza della polizia contro un civile disarmato, la decisione del grand jury meriterebbe una profonda riflessione.
Lo scagionamento di Darren Wilson è infatti ancora più significativo se si considera che un eventuale processo, se pure avesse contribuito a calmare gli animi tra la popolazione, avrebbe potuto tranquillamente risolversi ancora nel proscioglimento dell’agente di polizia, vista l’attitudine dell’accusa.
Ciononostante, l’intero procedimento messo in piedi dopo la morte del 18enne di colore ha avuto il preciso scopo di salvare Wilson dall’incriminazione per qualsiasi genere di reato, anche di una gravità relativamente trascurabile.
Quello che è accaduto a Ferguson sembra essere quindi legato a uno scenario più ampio che, negli Stati Uniti, vede gli ultimi anni caratterizzati da un crescente livello di violenza gratuita delle forze dell’ordine contro gli appartenenti alle classi più disagiate – preferibilmente di colore - di fronte all’inasprirsi del conflitto sociale causato dal peggioramento delle condizioni economiche generali.
La linea dura dello stato del Missouri, con l’assenso di Washington, risponde in sostanza a una logica che vede la classe dirigente d’oltreoceano ricorrere sempre più spesso a metodi da regime dittatoriale, all’interno del quale qualsiasi concessione alle classi subalterne - in questo caso, l’incriminazione di un poliziotto omicida - risulta inconcepibile.
Non a caso, pur mancando statistiche ufficiali sulla violenza della polizia, processi e condanne per agenti responsabili della morte di civili innocenti sono eventi più unici che rari, mentre non viene persa una sola occasione per criminalizzare le proteste pacifiche, da fronteggiare puntualmente con la mano pesante, che spesso seguono gli omicidi.
Collegato a tutto questo vi è poi la gestione in maniera profondamente anti-democratica della vicenda di Ferguson da parte delle autorità locali. In previsione di un verdetto da parte del grand jury che ci si aspettava favorevole a Wilson, ad esempio, il governatore democratico del Missouri, Jay Nixon, aveva imposto lo stato di emergenza preventivo, accompagnato dal dispiegamento di migliaia di uomini della Guardia Nazionale.Inevitabilmente, come era accaduto dopo l’uccisione di Michael Brown ad agosto, l’annuncio della decisione del grand jury ha scatenato le proteste non solo a Ferguson ma in moltissime altre città degli Stati Uniti, dove le forze di polizia hanno frequentemente accolto in assetto da guerra manifestanti in larga misura pacifici.
La vicenda di Ferguson e il radicalizzarsi dello scontro sociale in America sono visti in ogni caso con crescente appresione da molti all’interno della classe dirigente, come confermano vari commenti critici circa la gestione del caso Brown-Wilson apparsi sui principali giornali USA.
Il timore, in sostanza, è che l’impunità garantita alla polizia contribuisca a screditare ancor più le strutture del potere, mostrando a un numero sempre maggiore di americani la reale natura dell’attuale sistema, manipolato cioè per favorire le élite e proteggere i loro guardiani delle forze dell’ordine, con il rischio di alimentare ulteriormente il malcontento se non l’aperta rivolta.
Per questa ragione, media ufficiali e uomini politici si sono adoperati nei giorni scorsi per cercare di calmare gli animi e, soprattutto, ricondurre le ragioni delle tensioni sociali a una questione puramente razziale, svincolata dal fattore principale, anche se innominabile nel panorama “mainstream” americano, che rimane quello di classe e delle colossali disuguaglianze sociali.
Lo stesso Obama, nell’annunciare la prosecuzione di un’inutile indagine federale del Dipartimento di Giustizia contro Darren Wilson ed esprimendo cinicamente una certa simpatia per gli abitanti di Ferguson che chiedevano giustizia, ha infatti lasciato intendere che il nodo principale da risolvere nella società americana sarebbe legato non ai rapporti economici ormai insostenibili, bensì ai rimanenti problemi causati dai rapporti razziali.