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di Michele Paris
Nonostante le proteste degli abitanti della cittadina di Ferguson, nel Missouri, siano sensibilmente diminuite negli ultimi giorni, la repressione delle forze di polizia contro i manifestanti pacifici in seguito alla morte del 18enne di colore Michael Brown continua a suscitare un forte senso di repulsione in tutti gli Stati Uniti.
L’avanzato processo di militarizzazione della polizia americana, in particolare, è risultato evidente, spingendo il governo di Washington a moltiplicare i propri sforzi per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica sia dai metodi sempre più autoritari a cui ricorrono le forze dell’ordine sia dalle esplosive questioni sociali che hanno determinato la clamorosa esplosione di rabbia nel cuore del paese.
L’inquietante spettacolo offerto dalla polizia dopo l’esecuzione di Brown il 9 agosto scorso da parte dell’agente Darren Wilson, ha presentato agli americani una realtà con la quale dovranno fare i conti in maniera sempre più frequente nel prossimo futuro e decisamente più consona ad uno stato di polizia che ad un’autentica democrazia.
Le proteste contro l’ennesimo assassinio di cittadini disarmati da parte della polizia sono state cioè accolte dalle autorità con il ricorso a mezzi militari, ad agenti in tenuta da combattimento, a gas lacrimogeni, a proiettili di gomma e ad aperte minacce con fucili puntati contro manifestanti e giornalisti. Il governatore democratico del Missouri, Jay Nixon, aveva inoltre dichiarato lo stato di emergenza e il coprifuoco per svariati giorni.
Questa manifestazione di forza è stata la diretta conseguenza di una serie di programmi promossi dal governo federale con l’apposito scopo di militarizzare le forze di polizia. Attraverso di essi, i dipartimenti di polizia degli Stati Uniti ricevono da anni armamenti ed equipaggiamenti militari direttamente dal Pentagono, spesso grazie a finanziamenti a fondo perduto.
Uno di questi programmi è denominato “1033” ed è gestito appunto dal Dipartimento della Difesa. Grazie ad esso, le forze di polizia locali americane hanno già ottenuto materiale bellico per oltre 4 miliardi di dollari. Uniformi da combattimento, strumenti per la visione notturna, armi da guerra, elicotteri militari, veicoli blindati e altro ancora sono i mezzi utilizzati solitamente dai soldati americani per reprimere ogni resistenza contro l’imperialismo USA in paesi come Iraq e Afghanistan, ma sempre più frequentemente gli stessi mezzi e metodi vengono impiegati sul suolo domestico per spegnere qualsiasi focolaio di protesta contro una classe dirigente screditata e in una situazione di grave crisi sociale.
Sui programmi di fornitura di armi alle forze di polizia si è così aperto un certo dibattito pubblico negli Stati Uniti, tanto che lo stesso presidente Obama si è visto costretto ad annunciare una “revisione” dei criteri con cui il governo opera in questo ambito.
Secondo i principali media, la Casa Bianca potrebbe addirittura prendere in considerazione lo stop ai trasferimenti di equipaggiamenti militari ma, più probabilmente, ci si limiterà tutt’al più a verificare se “alle forze di polizia statali e locali viene fornito adeguato addestramento e se il governo federale controlla a sufficienza il corretto uso del materiale” ottenuto da queste ultime.
Voci autorevoli all’interno dell’establishment politico di Washington hanno d’altra parte già fatto capire che non ci sarà alcuna marcia indietro in merito ad un programma di militarizzazione che è stato intensificato dopo l’11 settembre del 2001, ufficialmente per meglio combattere la minaccia terroristica.
La senatrice democratica del Missouri, Claire McCaskill, nel fine settimana ha ad esempio sottolineato l’efficacia degli equipaggiamenti militari a disposizione delle forze di polizia locali. La “revisione” voluta da Obama si concretizzerà, tra l’altro, in alcune audizioni di fronte a commissioni del Congresso, tra cui quella del Senato per la Sicurezza Nazionale di cui la stessa McCaskill fa parte.
Il modo di procedere della classe dirigente americana in presenza di eventi che rivelano gravissime violazioni dei diritti democratici negli Stati Uniti appare ormai consolidato, così come evidenti risultano gli obiettivi.
L’esempio più macroscopico era stata la risposta alle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi di intercettazione illegali dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA). In questo caso, l’amministrazione Obama aveva dato l’impressione di prestare attenzione al malcontento provocato nel paese dalle colossali violazioni della privacy, appoggiando l’operato di una speciale commissione con l’incarico di proporre idee di “riforma” della NSA e una legislazione volta ufficialmente a “limitare” il monitoraggio di massa dei cittadini.
In realtà, nonostante alcune limitazioni del tutto trascurabili, queste iniziative hanno portato all’istituzionalizzazione dei programmi di intercettazione e la stessa cosa punta a fare ora la Casa Bianca attorno alla questione della militarizzazione delle forze di polizia.
Il punto di partenza della “revisione” annunciata da Obama è infatti l’indiscussa legittimità - in realtà tutt’altro che certa - dei programmi federali che prevedono il trasferimento di equipaggiamenti militari alla polizia. Dal momento che essi vengono considerati legittimi, ciò che resta da fare non sarebbe altro che garantire la massima professionalità degli agenti che ne fanno uso e limitare il ricorso ad essi soltanto in caso di reale necessità.
Con un’iniziativa che dovrebbe portare alla correzione degli eccessi visti a Ferguson, dunque, ogni possibile discussione sul processo di trasformazione della polizia americana in una forza militare o para-militare viene neutralizzata sul nascere.
Prima ancora dello sforzo appena descritto, la classe dirigente americana aveva poi cercato di soffocare le proteste in Missouri e in altre località del paese con un altro sistema consolidato, quello delle politiche identitarie.
Tutti i commenti e le dichiarazioni di opinionisti “mainstream” e politici di entrambi gli schieramenti in questi giorni hanno cioè mancato deliberatamente di citare, in merito ai fatti di Ferguson, le fondamentali questioni di classe legate alle proteste e alla violenza endemica della polizia americana, concentrandosi convenientemente su quelle razziali.
In questo modo, le tensioni sociali, frutto dei crescenti livelli di povertà e delle gigantesche disuguaglianze di reddito che gravano sia sui bianchi sia sui neri negli Stati Uniti, vengono contenute, sia pure sempre più faticosamente, con la mobilitazione di leader o personalità di spicco di colore che invitano alla calma e al dialogo.
Ciò è apparso evidente in seguito alla nomina dell’afro-americano Ron Johnson, capo della polizia stradale dello stato del Missouri, a responsabile dell’ordine a Ferguson dopo i primi scontri tra i manifestanti e il dipartimento di polizia cittadino.
Ancor più, il ruolo di veri e propri professionisti del contenimento delle tensioni sociali è ricoperto dai politici democratici di colore e dai leader della comunità afro-americana, come il reverendo Al Sharpton. Quest’ultimo, recentemente rivelatosi ex informatore dell’FBI, si è adoperato per calmare gli animi a Ferguson, chiedendo ai manifestanti di avere fiducia nell’amministrazione Obama e nella stessa polizia del Missouri, confermando così la sua funzione di agente della Casa Bianca con l’incarico di incanalare le proteste contro il sistema in ciò che resta dell’ormai innocuo “progressismo” Democratico.
Lo stesso Sharpton, dopo avere partecipato sabato a una manifestazione contro la polizia nel “borough” di Staten Island, a New York, in seguito all’assassinio nel mese di luglio da parte di un agente del venditore ambulante di sigarette Eric Garner, ha parlato lunedì a Ferguson in occasione dei funerali di Michael Brown.
Sulla morte di Brown, intanto, un apposito “grand jury” sta valutando i fatti del 9 agosto per avviare un eventuale procedimento di incriminazione contro l’agente di polizia responsabile. I timori per un possibile scagionamento di quest’ultimo sono ampiamente diffusi vista l’impunità di cui regolarmente godono i poliziotti responsabili di decine di omicidi negli USA solo negli ultimi mesi.
A mettere in guardia da un esito di questo tipo sono ancora una volta soprattutto i leader di colore, giustamente preoccupati che un’altra ingiustizia possa innescare nuove manifestazioni di protesta sempre più difficili da tenere sotto controllo, non solo tra la popolazione di Ferguson ma anche nel resto degli Stati Uniti.
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di Michele Paris
I più recenti massacri settari registrati in varie località dell’Iraq stanno minacciando seriamente la strategia americana nel paese mediorientale per contenere l’avanzata dei militanti dello Stato Islamico (ISIS) e sottrarre il governo di Baghdad all’influenza iraniana. Il complicarsi della situazione ha visto inoltre l’amministrazione Obama minacciare un possibile allargamento delle operazioni militari in corso in Iraq alla Siria, dove l’ISIS continua ad operare, sia pure tra molti dubbi sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime di Bashar al-Assad.
Due esplosioni nel fine settimana a Baghdad e nella città settentrionale di Kirkuk hanno fatto più di 40 morti e sono seguite al gravissimo attentato di venerdì in una moschea sunnita nella provincia di Diyala con una settantina vittime. Quest’ultima operazione, la cui responsabilità non risulta ancora chiara, è stata da molti attribuita a membri di milizie sciite, provocando ripercussioni politiche nella capitale.
Poche ore dopo l’esplosione, cioè, alcuni leader sunniti hanno annunciato il boicottaggio delle trattative per la formazione del nuovo governo del primo ministro incaricato, Haider al-Abadi. Il nuovo capo del governo sciita in pectore aveva sostituito Nouri Kamal al-Maliki dopo le pressioni soprattutto statunitensi e il suo compito dovrebbe essere quello di raccogliere il consenso della minoranza sunnita, così da sottrarre il supporto popolare alla ribellione anti-governativa che aveva favorito l’avanzata dell’ISIS.
Le nuove violenze rischiano però di gettare ancor più l’Iraq nel baratro dello scontro settario che era esploso in particolare tra il 2006 e il 2007 durante l’occupazione americana.
Il delinearsi del nuovo scenario nel paese che fu di Saddam Hussein si è accompagnato anche ad un innalzamento dei toni negli Stati Uniti che fa intravedere un ulteriore allargamento del conflitto in Medio Oriente.
La campagna retorica orchestrata a Washington per favorire un possibile aumento dell’impegno militare americano era stata inaugurata giovedì scorso dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, il quale aveva descritto l’ISIS come una “minaccia imminente” per gli interessi del suo paese.
Le dichiarazioni del segretario alla Difesa sono state seguite il giorno successivo da quelle del vice consigliere per la Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes, per il quale atti come la decapitazione del giornalista americano James Foley rappresenterebbero attacchi diretti contro gli Stati Uniti, tali da giustificare ritorsioni che non possono essere limitate dai confini dei singoli paesi.
Lo stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, aveva a sua volta rivelato come il Pentagono stia valutando l’ipotesi di un conflitto più ampio contro i militanti islamisti dell’ISIS, la cui eventuale sconfitta dovrebbe appunto passare attraverso un’operazione militare americana diretta contro “la parte della loro organizzazione in territorio siriano”.
Le modalità di un simile nuovo impegno degli Stati Uniti sono però oggetto di un acceso dibattito a Washington. L’amministrazione Obama continua infatti ad essere molto cauta nei confronti di un intervento diretto in Siria contro un’organizzazione fondamentalista che appare a tutti gli effetti una creatura stessa della propria strategia mediorientale.
Se fonti governative hanno parlato apertamente di un possibile utilizzo di droni o addirittura dell’invio di squadre delle Forze Speciali in Siria, altri ritengono che ciò debba essere evitato e che si debba piuttosto puntare sulla creazione di una sorta di coalizione di paesi mediorientali alleati degli USA - alcuni dei quali sono stati peraltro finanziatori dell’ISIS - o sull’ennesima operazione di rilancio delle cosiddette forze “moderate” di dubbia esistenza all’interno dell’opposizione siriana, se non sulla fornitura di armi ai curdi siriani.
Dal momento che l’ISIS rappresenta la principale forza anti-regime in Siria, incursioni americane in quest’ultimo paese potrebbero risolversi in un favore per Assad. Ciò ha inevitabilmente prodotto un acceso dibattito a Washington sull’opportunità di un intervento di questo genere e sui suoi obiettivi finali, soprattutto alla luce dell’inconsistenza dell’opposizione “secolare”, ancora più impopolare del regime, che in questi anni media e governi occidentali hanno cercato di promuovere senza successo.
Per molti all’interno dell’establishment statunitense la battaglia contro l’ISIS dovrebbe procedere in parallelo con lo sforzo in corso per la deposizione di Assad, mentre altri ritengono che Washington debba mettere finalmente da parte l’avversione per Damasco e coordinare in maniera più o meno aperta con il regime alauita la lotta ai terroristi sunniti.
Questa seconda ipotesi è sembrata essere supportata nei giorni scorsi almeno da due media arabi, i quali hanno riportato una qualche collaborazione - peraltro non confermata - tra gli USA e il governo siriano, con l’intelligence americana che avrebbe fornito informazioni alle forze di Assad per colpire con bombardamenti aerei le postazioni dell’ISIS in Siria.
Una simile evoluzione della vicenda siriana segnerebbe l’ennesima contorsione di una politica estera statunitense completamente destituita da ogni logica. Infatti, dopo avere fomentato una rivolta settaria per abbattere il regime di Damasco con la creazione di formazioni integraliste violente come l’ISIS, l’amministrazione Obama potrebbe ora rivolgere la propria potenza di fuoco e quella dei suoi alleati contro quest’ultima in Siria, finendo per garantire la sopravvivenza dell’odiato regime di Bashar al-Assad.
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di Fabrizio Casari
La notizia di oggi è che inviamo vecchi fucili ai peshmerga curdi e nuove ovvietà al governo iracheno. L’irruzione di Renzi nella politica estera si spiega con l’intenzione di marcare il territorio: il semestre è italiano? Eccoci qui. L’Iraq diventa così una mossa della partita che si gioca in Europa. Quale miglior spot per sostenere la candidatura della Mogherini a Mr. Pesc?
Un colpo intelligente e mediaticamente utile alle sorti di quel braccio di ferro che, a dire il vero, non è poi così difficile da vincere. C’è poi un secondo elemento da considerare: il viaggio di Renzi è gradito sia a Bruxelles che a Washington.
La UE è ben lieta di assegnare all’Italia l’esposizione immediata. Pur convinta della pericolosità dell’IS, la UE non ha nessuna intenzione d’infilarsi nell’ennesima guerra mediorientale, stanca d’inseguire i disastri combinati dalle diverse Amministrazioni Usa in Medio Oriente e nel Golfo Persico. L’Iraq non è strategico ne per Londra né per Parigi né per Berlino.
Nello stesso tempo, la Casa Bianca apprezza decisamente la missione di Renzi, che corre a sostegno dell’iniziativa USA e dimostra di sapersi muovere velocemente nell’invio di armi e nell’iniziativa politica, insinuando agli europei una modalità della politica diversa dalle paludi nella quale, doverosamente, la teneva la Ashton.
Con il blitz in iraq Renzi coglie due obiettivi: il primo, importantissimo, è quello di proporsi sulla scena internazionale come fedelissimo interprete delle scelte di Washigton e, in questa chiave, propone il suo governo come locomotiva della politica estera europea ben oltre i restanti quattro mesi del semestre a guida italiana della UE. Il secondo è quello, in conseguenza, di ottenere il plauso di Washington per la possibile nomina della Mogherini a Mr. Pesc. Il consenso degli USA è infatti decisivo, molto più di qualunque opposizione continentale, per la scelta di chi deve rappresentare Esteri e Difesa della UE, anche per i vincoli NATO. Da ieri, perciò, le possibilità della Mogherini di spuntarla sono di gran lunga maggiori.
In fondo, nella sostanziale indifferenza dei partner europei principali, l’opposizione sostanziale alla nomina europea della ministro degli Esteri italiana è rappresentata solo da alcuni paesi dell’Europa dell’Est: non certo un peso politico insormontabile. Le argomentazioni che gli ex Oltrecortina oppongono, risiedono nell’accusa alla Mogherini di essere troppo “tenera” con la Russia di Putin.
Ma in realtà, dietro le dichiarazioni di facciata per non disturbare il conducente a stelle e strisce, Germania, Gran Bretagna e Francia lavorano quanto e più dell’Italia per non esasperare i toni contro Mosca. E’ l’Europa che conta, che non ha mai avuto una politica estera unitaria a livello continentale ma che - sebbene in ordine sparso - dispone di robusti interessi sia ad Est che a Sud.
L’ostilità antirussa, che utilizza strumentalmente qualunque tema per alzare l’asticella dello scontro, è in realtà prodotto della volontà politica statunitense preoccupata oltre misura del nuovo assetto internazionale che potrebbe prefigurarsi nella nuova alleanza tra Mosca e Pechino. Lo sfondamento - più che l’allargamento ad Est - della Nato, così come il sostegno al riarmo giapponese e le minacce alla Cina nel Pacifico, sono gli strumenti per alzare la tensione e mettere Mosca e Pechino di fonte ad una sfida che oggi è ancora a vantaggio degli Usa ma che presto potrebbe veder mutare condizioni e scenario.
Tema non meno delicato, è poi quello della crescente pressione che i Brics esercitano sulle leve dell’economia mondiale, soprattutto in seguito alla dichiarata intenzione di valutare la sostituzione del dollaro come moneta ufficiale negli scambi, mandando così a ramengo Bretton Woods e l’economia USA, drogata da possenti iniezioni di moneta stampata quotidianamente per sostenere una economia con un deficit mostruoso.
Se si aggiunge che una quota oltremodo significativa dei titoli a garanzia del debito USA sia nelle mani della Cina, si capisce come il declino della superpotenza, pure in un’epoca di unilateralismo assoluto, possa risiedere non più nella supremazia del modello e del ruolo, ma solo nel limitare in ogni modo la crescita delle altre potenze. Potenze che, per quanto dotate di armamento nucleare ed economicamente forti, prive di sostegno politico e di un disegno strategico globale restano comunque, per ora, superpotenze regionali.
La partita è straordinariamente complessa ed ha valore strategico nel controllo globale. L’Europa, che conferma ogni giorno il suo nanismo politico a fronte del gigantismo economico, in attesa di decidere se e come vorrà diventare un continente e non solo un’area finanziaria e commerciale di libero accesso per capitali speculativi e di divieto d’accesso per modelli socio-economici d’integrazione, assiste quindi stancamente - e forse con qualche fastidio - agli show del premier italiano, cui potrà anche riconoscere la sua piccola vittoria di Pirro con la nomina della Mogherini. Tanto i temi che contano si affrontano a sipario chiuso e telecamere assenti.
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di Michele Paris
Mentre gli aerei da guerra e i droni americani continuano i bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS) nel nord dell’Iraq, il presidente Obama alla vigilia della sua partenza per le vacanze estive ha tenuto a chiarire che il nuovo intervento degli Stati Uniti nel paese che fu di Saddam Hussein con ogni probabilità non si concluderà nel breve periodo.
Le incursioni USA si stanno concentrando nell’area del monte Sinjar, dove membri della minoranza religiosa Yazidis sono assediati dai militanti jihadisti sunniti. Secondo i resoconti dei media, i bombardamenti americani avrebbero permesso a un certo numero di Yazidi di fuggire verso la Siria e il territorio controllato dai curdi in Iraq. A quelli rimasti nei pressi del monte Sinjar i cargo americani stanno fornendo cibo e acqua dal cielo.
Di fronte alla situazione di crisi nel nord dell’Iraq, nel fine settimana Obama ha dunque avvertito che le forze armate del suo paese non saranno in grado di “risolvere il problema nell’arco di qualche settimana” e che l’operazione in corso “è un progetto a lungo termine”. Come tutti gli interventi militari americani all’estero di questi anni hanno dimostrato, quasi certamente anche quello in corso in Iraq non farà che peggiorare la situazione sul campo.
I sostenitori della Casa Bianca hanno subito espresso preoccupazione per il nuovo coinvolgimento in un conflitto da sempre impopolare e a cui lo stesso presidente si era mostrato contrario fin dal lancio della sua candidatura alla guida del paese.
Le complicazioni per i democratici sono amplificate dall’imminente tornata elettorale di “medio termine” e dalle pressioni repubblicane per un impegno ancora maggiore in Iraq, come ha confermato in questi giorni la consueta incursione sui media d’oltreoceano del falco John McCain, il quale ha criticato l’amministrazione Obama per avere optato per “un’operazione troppo limitata” contro i militanti dell’ISIS.
Secondo il Pentagono, in ogni caso, relativamente semplice sarebbe il raggiungimento dell’obiettivo di impedire ai jihadisti di marciare verso Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Più complicato sarà invece risolvere la crisi umanitaria degli Yazidis e neutralizzare la minaccia islamista su Baghdad.
Proprio le sconfitte patite dai peshmerga curdi nei giorni scorsi per mano dei militanti dell’ISIS avevano spinto Obama ad autorizzare - senza l’approvazione del Congresso - i bombardamenti nel nord dell’Iraq. Il Kurdistan iracheno rappresenta d’altra parte un partner strategico per Washington nel quadro del mantenimento di una qualche influenza statunitense in questo paese mediorientale.
Più cauti sono apparsi al contrario gli americani nell’assistere il governo centrale di Baghdad, vista la diffidenza nutrita nei confronti del primo ministro sciita, Nouri Kamal al-Maliki, considerato troppo vicino all’Iran. Ad esempio, l’amministrazione Obama ha respinto l’ipotesi di fornire armamenti direttamente al governo di Baghdad, assumendosi la responsabilità diretta dei bombardamenti contro l’ISIS e suscitando le critiche delle élite sciite indigene.
Gli Stati Uniti intendono d’altra parte fare pressioni su Maliki per convincerlo a rinunciare alla sua candidatura per un terzo mandato alla guida del governo dopo le elezioni parlamentari dell’aprile scorso. Ciononostante, lo stallo politico a Baghdad è sembrato continuare nel fine settimana, con il rinvio a lunedì di una sessione dell’assemblea legislativa che dovrebbe portare alla nomina di un nuovo primo ministro dopo che il blocco parlamentare che appoggia Maliki ha annunciato di volere candidare nuovamente l’attuale premier.
Gli americani, inoltre, continuano a ritenere Maliki responsabile della crisi in cui è precipitato l’Iraq, principalmente a causa della marginalizzazione della minoranza sunnita nel paese, tra la quale in molti avevano almeno inizialmente appoggiato l’offensiva dei ribelli dell’ISIS.
Nelle parole dei leader americani e della stampa non viene invece mai sollevata la questione delle enormi responsabilità degli Stati Uniti nella situazione che sta attraversando l’Iraq.
Come ha confermato in un’intervista concessa questa settimana all’editorialista del New York Times, nonché sostenitore dell’invasione illegale del 2003, Thomas Friedman, lo stesso presidente Obama continua a dipingere una realtà immaginaria nella quale gli USA intervengono disinteressatamente in Iraq per difendere la popolazione inerme e aiutare un governo incapace di mettere a frutto il “sacrificio” dei soldati americani nell’ultimo decennio.
Le radici della catastrofe irachena, al contrario, affondano nelle decisioni dei governi statunitensi a partire dalla prima guerra del Golfo nel 1991, seguita da pesantissime sanzioni, bombardamenti e dall’invasione voluta dall’amministrazione Bush sulla base di menzogne come l’esistenza di fantomatiche “armi di distruzione di massa” e l’inesistente collaborazione del regime di Saddam con al-Qaeda.
Dopo l’invasione, erano stati gli stessi americani ad avere fomentato le divisioni settarie in Iraq, così da affievolire la resistenza all’occupazione.
Ancor più, l’attuale amministrazione democratica ha apertamente coltivato forze integraliste sunnite come ISIS per destabilizzare governi sgraditi nel mondo arabo. Ciò è accaduto in Libia, dove l’intervento della NATO in appoggio a formazioni “ribelli” che hanno gettato ora il paese nordafricano nel caos aveva provocato oltre 50 mila morti e l’assassinio brutale di Gheddafi.
Soprattutto, la consolidata strategia USA di puntare su gruppi fondamentalisti, che teoricamente dovrebbero essere i nemici giurati della “civiltà occidentale”, è apparsa evidente in Siria, la cui crisi ha portato direttamente a quella irachena.
Proprio in Siria, le forze di ISIS si battono da tempo contro il regime di Bashar al-Assad in una guerra che ha fatto più di 100 mila morti e milioni di profughi. Qui, tuttavia, gli USA non solo non hanno mai condannato le forze integraliste anti-governative come stanno facendo in Iraq, ma hanno anzi di fatto appoggiato i ribelli.
Nella retorica ufficiale, gli Stati Uniti e i loro alleati affermano di sostenere soltanto i ribelli “moderati” o “secolari”, ma in realtà paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia hanno finanziato e armato le forze jihadiste, le uniche in grado di costituire una seria minaccia per il regime di Assad.
Le contraddizioni della politica estera del governo americano risultano addirittura moltiplicate proprio in Iraq, dal momento che i militanti dell’ISIS, oltre ad essere una creatura stessa delle manovre degli USA e dei loro alleati arabi, vengono combattuti con bombardamenti aerei pur rappresentando da un lato la giustificazione per il nuovo intervento di Washington nelle vicende di un Iraq sempre più orbitante verso Teheran e dall’altro lo strumento per rafforzare i tentativi di mettere da parte il premier “ultrasettario” Maliki e installare un governo meglio disposto verso l’Occidente.
In questo quadro, appare superfluo ricordarlo, ad uscire sconfitta è ancora una volta la popolazione civile già provata da due decenni di guerre e sanzioni. Una popolazione civile quella irachena che condivide dunque la sorte di quella in Ucraina orientale e a Gaza, i cui responsabili - il regime golpista neo-fascista di Kiev e il governo di estrema destra israeliano - hanno però mano libera per i loro crimini grazie al “senso di giustizia” altamente selettivo degli Stati Uniti d’America.
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di Fabrizio Casari
Estela Carlotto è una donna meravigliosa. Una persona affabile, dotata di un sorriso dolcissimo ed una grazia naturale che rappresentano la veste estetica di un carattere tenace, indomabile. Ha una forza interiore ed uno spessore umano che raramente s’incontra. Ha trascorso la seconda parte della sua vita impegnata nell’Associazione che presiede, quella delle Abuelas de Plaza de Mayo (le Nonne di Plaza de Mayo ndr), fondata da dodici madri e nonne che, insieme all’altra associazione de Las Madres de Plaza de Mayo, si è battuta e si batte per il ritrovamento in vita dei figli e dei nipoti.
Da 36 anni Estela combatte la sua battaglia per ritrovare i figli rubati ai loro genitori dai militari argentini e fino ad oggi sono ben 114 i figli dei desaparecidos che l’associazione è riuscita a rintracciare ed a restituire alle loro famiglie naturali e legittime.
Per Estela l’altro ieri è stata però una giornata speciale, dal momento che ha ritrovato suo nipote Guido, da lei mai conosciuto, figlio di Laura, la sua figlia arrestata, torturata e quindi fatta scomparire nel 1977. Grazie all’esame del DNA, che suo nipote (cui avevano messo il nome di Ignacio Hurban) ha chiesto volontariamente di eseguire, si è potuto determinare il grado stretto di parentela con la Presidente de las Abuelas. Estela ha dichiarato che non verranno a breve diffuse sue foto per ragioni di riservatezza, aggiungendo che, appena avuta la notizia, ha telefonato alla Presidente Cristina Kirschner e che entrambe sono scoppiate a piangere per l'emozione.
Stando ad un dispaccio dell’agenzia di stampa ufficiale Telam, Guido oggi ha 36 anni, è sposato e vive a Olavarria, nella provincia di Buenos Aires, dove lavora come musicista. E’ nato il 26 Giugno del 1978, nel pieno della dittatura militare argentina, nel centro clandestino di detenzione “la Cancha” (il campo), uno dei tanti dove i prigionieri politici venivano indirizzati e dove, dopo essere stati torturati, venivano eliminati nei modi che di volta in volta i funzionari del terrore sceglievano.
I militari argentini che, alle dipendenze di Washington, inondarono di sangue e terrore il paese sudamericano dal 1976 al 1983, si distinsero infatti per ferocia tra le varie dittature militari che oppressero l’intero subcontinente. In particolare, due furono le modalità che i funzionari del terrore scelsero per distinguersi: i voli della morte e il sequestro dei figli dei prigionieri.
Benedetti dalla Curia locale, che attraverso il Cardinale Pio Laghi s’inginocchiava davanti ai militari torturatori, nel nome della "lotta al comunismo", gli aerei dell’aereonautica militare gettavano ancora vivi nel Rio de la Plata coloro che non venivano scaraventati nelle fosse comuni.
Era il tentativo di cancellare ogni possibile riesumazione e, con essa, la ricerca della verità futura, allo scopo di cancellare le tracce della loro malefica esistenza. Precauzioni inutili: anche grazie al lavoro di madri e nonne degli scomparsi, i generali argentini hanno avuto la loro Norimberga.
La ESMA, la scuola della marina militare era uno dei centri di torture e uccisioni più tristemente noti: dei 500 prigionieri che vi entrarono, il 90% venne ucciso o fatto scomparire nel nulla. Il generale della marina Alfredo Astiz, soprannominato “L’angelo della morte”, era il principale funzionario preposto allo smaltimento aereo dell’ingombro umano.
Infiltrò tre dei suoi sicari nel movimento delle madri e fece uccidere Azucena Villaflor, Esther Ballestrino e Maria Ponce, tre delle fondatrici dell'associazione. Trentamila morti in sette anni: la dottrina di sicurezza nazionale della ditttura argentina era grosso modo simile alla “soluzione finale” di hitleriana memoria.
L’altra pratica, forse appresa alla Escuela de las Americas, cioè la scuola di formazione militare statunitense a Panama, dove vennero addestrati tutti gli ufficiali e i torturatori agli ordini delle dittature latinoamericane negli anni ‘70 e ‘80, era quella di sequestrare i figli alle prigioniere che avevano appena partorito. Alle loro prigioniere rubavano prima la vita e poi i figli. Dopo averle uccise, infatti, offrivano le loro creature alle famiglie della borghesia argentina fedeli alla dittatura che, impossibilitate ad avere figli, “adottavano” i piccoli rubati alle loro madri.
Il ritorno della democrazia in Argentina e le leggi che il governo di Nestor Kirschner approvò per arrestare e condannare all’ergastolo i vertici militari golpisti e i responsabili di torture e repressione, sono state decisive per abolire il clima d’impunità. Ma sono state le nonne e le madri dei desaparecidos a fornire la tenacia necessaria nella richiesta di verità, per ottenere almeno solo in parte la purificazione dell’Argentina.
Dall’Argentina dove gli avvoltoi della finanza, parenti stretti di quelli del passato terrore, volano radenti al suolo per cercare di strappare il futuro al paese, arrivano però anche buone notizie. Da tempo, infatti, numerose voci si sono levate in favore di una candidatura al Premio Nobel per la pace per Estela Carlotto, argomentando che l’incessante, encomiabile attività, meriti un riconoscimento dall’alto valore simbolico.
L’augurio è che succeda presto, che il riconoscimento le venga assegnato anche come monito a chi dei diritti umani fa strage e a chi, nell’ombra, sostiene e aiuta i funzionari del terrore. Nell’attesa del premio intitolato ad Alfred Nobel, ieri Estela ha ritirato quello più importante, dedicato alla memoria di sua figlia Laura. Si chiama Guido.