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di Mario Lombardo
Il Congresso uscente degli Stati Uniti ha consegnato alla Casa Bianca un nuovo provocatorio pacchetto di sanzioni contro la Russia che il presidente Obama ha annunciato di voler ratificare entro questo fine settimana. Il più recente provvedimento, ridicolmente chiamato “Legge a Sostegno della Libertà in Ucraina” (UFSA), contiene in realtà misure che vanno ben al di là delle sanzioni in risposta alla presunta aggressione di Mosca ai danni di Kiev e rappresenta di fatto poco meno che una dichiarazione di guerra nei confronti del Cremlino.
Le nuove sanzioni sono state però relativamente ammorbidite in seguito a pressioni sui leader del Congresso da parte dell’amministrazione Obama, nel timore che un’eccessiva accelerazione dello scontro con la Russia in questo momento avrebbe potuto provocare non solo una pericolosa escalation della crisi ma anche ulteriori frizioni con gli alleati europei, più cauti nel provocare Mosca per via degli interessi economici in gioco.
Camera e Senato hanno così approvato un pacchetto che prevede sì la possibilità di misure punitive molto pesanti ma assegna in pratica la totale discrezione al presidente per l’effettiva applicazione. Malgrado questa clausola il messaggio lanciato a Putin appare chiaro, mentre gli Stati Uniti avranno a disposizione una nuova arma economica e strategica formidabile per colpire la Russia al cuore dei propri interessi, non solo in relazione all’Ucraina.
Con l’UFSA, ad esempio, potranno essere decise sanzioni contro compagnie russe esportatrici di armi - a cominciare dalla più importante, l’azienda pubblica Rosoboronexport - se il governo di Mosca sarà ritenuto responsabile di attività di “destabilizzazione” in Ucraina, ma anche in Georgia, Moldavia e Siria.
Il presidente americano avrà poi facoltà di penalizzare le compagnie internazionali che intendono investire in progetti petroliferi in Russia, mentre saranno ancora più ristrette le norme che regolano l’export verso la Russia di equipaggiamenti utilizzabili in ambito energetico.
Il gigante pubblico del gas Gazprom, inoltre, continua a essere nel mirino di Washington, vista l’ampiezza dei suoi “asset”, il cui eventuale smembramento suscita gli appetiti dei vertici delle aziende energetiche occidentali. La Casa Bianca, cioè, potrebbe vietare investimenti o prestiti a favore di Gazprom se diminuirà il flusso di gas destinato a Ucraina, Georgia e Moldavia.Dalle implicazioni preoccupanti è poi il meccanismo previsto per autorizzare il presidente ad applicare le cosiddette “sanzioni secondarie”, e dalla più che dubbia legalità, cioè penalizzazioni ai danni di compagnie di paesi terzi che contravvengono alle sanzioni di Washington.
L’altro punto principale del pacchetto sul tavolo di Obama autorizza il governo USA a fornire armamenti “letali” al regime golpista ucraino per 350 milioni di dollari, inclusi missili anti-carro, droni e radar. Il presidente americano e il suo entourage avevano sempre respinto l’ipotesi di trasferire armi offensive a Kiev, visto che ufficialmente gli USA sostengono di voler promuovere una soluzione pacifica della crisi nelle province orientali “ribelli”.
Infine, il Congresso ha stanziato quasi 100 milioni di dollari nei prossimi tre anni per alimentare la macchina della propaganda a stelle e strisce in Ucraina, Georgia e Moldavia, come sempre dietro il paravento della promozione della “democrazia”, della creazione di una “stampa indipendente” e della “lotta alla corruzione”.
Questo denaro finirà in un già ricco capitolo di spesa degli Stati Uniti per la propaganda nei paesi dell’ex blocco sovietico, come aveva confermato mesi fa la stessa assistente al Segretario di Stato, Victoria Nuland. Quest’ultima, in una conversazione telefonica intercettata e pubblicata dalla stampa aveva ammesso che il suo governo aveva “investito” più di 5 miliardi di dollari a partire dal 1991 in Ucraina, così da favorire la crescita della “società civile” e lo sviluppo delle “istituzioni democratiche”, ovvero per sottrarre questo paese all’influenza di Mosca.
Le misure punitive ai danni della Russia contenute nell’UFSA possono in ogni caso non essere applicate oppure sospese se il presidente reputa che ciò sia nell’interesse della sicurezza nazionale americana.
Per comprendere le ragioni dello scontro in atto tra Occidente e Russia - provocato interamente dalle manovre di Washington e, in seconda battuta, di Berlino - gli articoli più significativi del nuovo pacchetto di sanzioni sembrano essere quelli relativi alle misure previste nel caso Mosca dovesse fornire armi a entità ritenute “destabilizzatrici” in Ucraina, Georgia e Moldavia “senza il consenso dei rispettivi governi”.
Come ha spiegato un’analisi apparsa questa settimana sul sito web dell’agenzia di stampa governativa russa Ria Novosti, il riferimento a Georgia e Moldavia in una legge che riguarda l’Ucraina conferma come gli Stati Uniti intendano condurre un attacco a tutto campo contro Mosca, allargando il “terreno di battaglia” all’intera area ex sovietica strategicamente vitale per il Cremlino.
A ciò vanno poi aggiunte iniziative evidenti da tempo, come la possibile incorporazione dell’Ucraina o di altri paesi già parte dell’URSS in una sorta di partnership con la NATO e il posizionamento più e meno permanente di basi militari e soldati lungo i confini russi. Tutto questo contribuisce a rafforzare la tesi, condivisa pubblicamente in questi giorni anche dal ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov nel corso di un’intervista alla TV francese, che gli USA e i loro alleati stiano puntando in maniera sempre più decisa a un cambio di regime anche a Mosca.Forse ancora più rilevante è poi il riferimento alla Siria, dove il ruolo costruttivo della Russia nella ricerca di una risoluzione negoziata del conflitto era stato spesso citato dal governo americano. Il cambio di rotta segnala ora invece un affilamento delle armi dell’imperialismo USA, già ben visibile dalle manovre con al centro l’Arabia Saudita che hanno contribuito al crollo del prezzo del greggio che, assieme alle sanzioni occidentali già applicate, stanno provocando il rapido deterioramento dell’economia russa.
Il desiderio di colpire Putin e il suo governo in un ambito totalmente estraeo alla crsi ucraina ha fatto passare in secondo piano anche le contraddizioni palesi del provvedimento da poco approvato dal Congresso. Mentre nel caso di Ucraina, Georgia e Moldavia le sanzioni sono minacciate in caso di forniture di armi a forze “destabilizzatrici” di questi governi, in Siria le compagnie russe sono diffidate dal vendere armi al governo di Damasco, peraltro di gran lunga più legittimo di quello al potere a Kiev.
Non solo: con un’ironia che deve essere sfuggita ai legislatori americani, nel caso della Siria sono proprio gli Stati Uniti a fornire armi in maniera diretta e indiretta ai gruppi di opposizione, in larga misura fondamentalisti, che hanno provocato la devastazione del paese mediorientale.
La nuova mossa di Washington è stata coordinata come previsto con gli alleati europei, le cui apprensioni per il possibile precipitare della crisi ucraina continuano a essere messe in secondo piano rispetto al dissennato appiattimento sulle posizioni americane in relazione alla Russia.
Ad ogni modo, anche l’Unione Europea ha annunciato questa settimana la propria nuova dose di sanzioni, sia pure “limitate” agli interessi di Mosca in ambito energetico nella penisola di Crimea, tornata con l’approvazione della maggioranza dei propri abitanti entro i confini russi lo scorso mese di marzo.
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di Fabrizio Casari
La notizia che tutte le persone dotate di buon senso attendevano da decadi è arrivata. Gli Stati Uniti rivedono in forma e sostanza la loro politica verso l’isola socialista. Sebbene non sarà facile l'abrogazione del blocco, che potrà darsi solo con il voto del Congresso a maggioranza repubblicana, i poteri presidenziali permetteranno all'Amministrazione Obama di procedere verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Cuba.
Da subito, insieme ad una serie di misure destinate a svuotare il blocco, come primo significativo atto della nuova fase, Obama ha accolto la proposta di Cuba di uno scambio tra Alan Gross, detenuto a L’Avana e i tre cubani prigionieri negli Stati Uniti. Un gesto auspicato da diverso tempo da Cuba e che rappresenta ora un importante inizio di questa nuova fase delle relazioni tra i due paesi.
Fidel l’aveva promesso al suo popolo e così è stato. Volveran (torneranno) era stata la parola che in questi anni aveva accompagnato ogni presa di posizione in ogni parte del mondo che chiedeva il ritorno a Cuba dei suoi eroi antiterroristi imprigionati negli Stati Uniti, giudicati da processi farsa e condannati sulla base dell’odio politico degli USA verso l’isola caraibica. E ora sono liberi e a casa, premio finale di una politica che il governo cubano ha saputo costruire miscelando dialogo e fermezza, decisionismo politico e aperture costanti.
Un atteggiamento che ha reso chiaro all’interlocutore statunitense come il confronto era tra pari e che la soluzione del conflitto su tema degli attacchi terroristici contro Cuba e il diritto di essa a difendersi non avrebbe trovato altro terreno possibile che non vedesse le parti trattare sulla base dell’eguaglianza, come si deve a due paesi che reciprocamente riconoscono il loro diritto alla sicurezza.
A simbolizzare l'accordo, persino nelle comunicazioni ai rispettivi popoli c’è stata uguaglianza, visto il contemporaneo intervento del presidente Usa e di quello cubano a commentare il nuovo cammino intrapreso. Dopo aver entrambi ringraziato Papa Francesco e il governo del Canada per l’opera di mediazione svolta, il Presidente Obama si è detto convinto che “non si possa procedere per sempre con politiche identiche sperando che diano risultati differenti”, riconoscendo quanto meno l'inutilità delle misure adottate fino ad oggi. Affermando in spagnolo “tutti siamo americani” (disarticolando così la Dottrina Monroe), e dicendosi convinto che “dobbiamo imparare l’arte di convivere civilmente con le nostre differenze”, il presidente USA ha chiamato il Congresso “a rimuovere ostacoli ed impedimenti che restringano i vincoli tra i nostri popoli” chiedendo così di approvare rapidamente la fine del blocco contro Cuba.
Concetti simili quelli esposti dal Presidente cubano Raul Castro, che in un discorso alla nazione ha affermato che “L’Avana è pronta a stabilire livelli di cooperazione negli ambiti multilaterali come le Nazioni Unite” e, pur ricordando come i due paesi abbiano “visioni differenti sul tema dei diritti umani e politica estera, da parte di Cuba c’è la volontà di dialogare con gli Usa su questi temi”.
Immediati i complimenti per il cambio di politica da parte di Washington da parte di Papa Francesco e del Segretario delle Nazioni Unite Bank Ki Moon, così come da diversi leader latinoamericani, primo dei quali il Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, che ha affermato si debba riconoscere al Presidente Obama “un gesto valoroso”.
La liberazione di Alan Gross, il contrattista dell’USAID arrivato a Cuba per contribuire alla costruzione di una rete clandestina sovversiva, nell’ambito del progetto governativo statunitense di “attività per lo sviluppo della democrazia a Cuba”, (cioè l’interferenza a scopo di destabilizzazione del clima politico nell’isola), è stata da alcuni anni la richiesta di Washington a L’Avana come viatico per l’apertura di un processo che portasse gradualmente alla “normalizzazione delle relazioni”.Da parte sua, Cuba - che nell’ambito dell’accordo ha deciso di liberare altri 53 detenuti per sovversione ed una spia statunitense di origine cubana - aveva sempre proposto lo scambio del detenuto statunitense con i tre eroi cubani prigionieri con un duplice obiettivo: il primo, ovviamente, era quello di riportare a casa uomini che a buon diritto e senza nessuna retorica è possibile chiamare eroi.
Seppelliti sotto pene detentive pazzesche, in nessun momento hanno accettato di sottomettersi alle esigenze politiche statunitensi fornendo versioni che avrebbero potuto risparmiargli la detenzione. Hanno continuato a subire ogni privazione ed ogni affronto ma gridando al mondo la verità della loro missione: infiltrarsi nella rete terroristico-mafiosa della FNCA e smascherare i loro piani terroristici contro l’isola.
La liberazione di due di essi era già arrivata nei mesi scorsi per lo scadere delle loro condanne, mentre tre rimanevano ancora prigionieri. Contro l’assurdità delle condanne e per la loro liberazione, in ogni dove del mondo si sono pronunciati parlamenti e singole personalità politiche, intellettuali, artisti, uomini e donne di ogni categoria e professione, giuristi ed organi di stampa. Ed è evidente come questa campagna internazionale abbia ottenuto l’effetto di rendere ogni giorno più difficile mantenerli prigionieri e, dunque, ogni giorno più possibile avviare un dialogo che prevedesse la loro liberazione.
Il secondo obbiettivo cubano era invece tutto politico: mettere sulla bilancia la liberazione di Alan Gross e quella dei tre prigionieri cubani significava chiarire al mondo che chi da Miami combatteva le infiltrazioni terroristiche contro Cuba aveva ben ragione di farlo, dato che dette operazioni venivano realizzate anche dalle agenzie statali USA, nell’ambito del progetto di sovvertire l’ordine sociopolitico cubano.
Mettere sullo stesso piano Gross e i tre cubani significava costringere gli Stati Uniti ad ammettere che Gross era a Cuba per conto del governo USA, così come Renè Gonzalez, Gerardo Hernandez, Fernando Gonzalez, Antonio Guerrero e Ramon Labanino erano negli Usa per conto di Cuba. Tutti avevano una missione da compiere
Assai diverse tra loro, però. I cinque lavoravano per fermare gli attentati che in 55 anni sono costati all’isola centinaia di morti e feriti e miliardi di dollari di danni, mentre Gross era a Cuba come soggetto attivo nelle più recenti operazioni di destabilizzazione contro l’isola, realizzate tramite la manipolazione della Rete internet, il sostegno ai cosiddetti “dissidenti”, le attività spionistiche realizzate dalle ONG fintamente indipendenti. Operazioni che si sommavano al blocco economico e commerciale, all’aggressione diplomatica e alla propaganda anticubana, formando i tanti - non tutti - tasselli del puzzle che disegna l’ostilità degli USA verso Cuba.
Da parte cubana si registra una inevitabile soddisfazione per l’esito auspicato in questi anni. Non si tratta, peraltro, solo del riconoscimento implicito da parte degli USA del diritto di Cuba a difendersi ed ottenere comunque un risultato politico indiscutibile nel tenere allo stesso tavolo, con pari dignità, Davide e Golia, ma anche di vedere ora, in una prospettiva politica di breve termine, la fine di una ostilità ed un odio anacronistico che può aprire per entrambi i paesi un cammino diverso.
Per Cuba la normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti rappresenta di per sé un ulteriore conferma di come 55 anni di resistenza non sono stati vani; le aperture già determinatesi con l’evoluzione del socialismo cubano troveranno ulteriore rafforzamento da questo passaggio. Il cui significato sarà, fino a quando non si accompagnerà alla fine formale del blocco economico, soprattutto politico, ma il cui valore simbolico rappresenta la fine di un’era e l’inizio di un nuovo corso della storia.
Per gli Stati Uniti, il riconoscimento dell’interlocuzione politica con Cuba, sollecitato dai suoi mass media più prestigiosi, apre uno scenario interno inedito, giacché riporta per la prima volta in 50 anni la titolarità della politica verso Cuba nelle mani della Casa Bianca. I repubblicani daranno battaglia affinchè il Congresso non approvi la fine del blocco contro Cuba, e d'altra parte ciò dal punto di vista dei loro interessi è comprensibile. Non solo uno dei capisaldi della loro politica viene messo in crisi, e per di più con Congresso e Senato nelle loro mani, ma la Casa Bianca pone il partito repubblicano in totale isolamento nei confronti dell'opinione pubblica interna ed internazionale.
Inoltre, l'iniziativa di Obama riduce enormemente, in un colpo solo, l’influenza della lobby affaristico-mafiosa diretta dalla FNCA in Florida e mette i parlamentari eletti grazie ai suoi voti in una posizione secondaria. Assesta un ulteriore colpo all’area più reazionaria e recalcitrante del partito repubblicano e pone la Florida, uno degli stati-chiave per l’elezione del Presidente, di fronte ad uno scenario che vedrà ripercussioni enormi sul piano dell’equilibrio dei poteri locali quando le leggi anticubane e l’intero blocco dovessero cessare di esistere.
Basti pensare a cosa sarebbe dei colossali affari che la FNCA realizza con l’immigrazione clandestina il giorno che la Ley del pie mojado (“legge del piede bagnato”, con la quale si stabilisce che ogni cubano che arrivi a toccare il territorio americano sia immediatamente residente, mentre di ogni altra nazionalità viene arrestato). Sul traffico di clandestini tra Cuba e Usa la FNCA ha costruito una parte consistente delle sue fortune, con le quali ha continuato a finanziare la sua corte di terroristi anticubani.
Non è un caso che il Senatore Marco Rubio, che rappresenta il volto nuovo della lobby parlamentare anticubana diretta dalla FNCA di Miami, abbia dichiarato immediatamente che “lo scambio rappresenta un precedente pericoloso che mette a rischio gli statunitensi nel mondo”, che la visione di Obama è “ingenua e ignorante e tradisce i valori statunitensi” e la sua ventriloqua, Yoani Sanchez, abbia commentato che “il castrismo ha vinto”. Per lei, come per i suoi compari nell’isola, il vento sarà indubbiamente diverso: la normalizzazione delle relazioni non potrà non determinare la fine degli stanziamenti verso la sovversione, o comunque una sua significativa riduzione.
Per l’analfabeta politica che gli Usa avevano scelto come bandiera della democrazia, si apre una fase diversa, dove i milioni di dollari accumulati avranno bisogno di oculatezza negli investimenti, visto il futuro che si prospetta meno generoso. Nel momento in cui Washington dovesse ritenere superflua la sua esistenza, non basterebbero certo gli Aznar o i Vaclav Havel a garantirle le ricchezze ricevute in cambio delle sue menzogne strampalate diffuse in tutto il mondo con l’aurea di verità indiscutibili. Sotto il profilo della politica interna USA, poi, c’è da sottolineare come il processo di normalizzazione delle relazioni con Cuba sia sempre stato un proposito di Hillary Clinton e che lo stesso Obama, all’inizio del suo mandato, sei anni orsono, aveva ritenuto dover mettere in agenda.
Il compito di rivedere la presenza di Cuba nella lista dei paesi che patrocinano il terrorismo spetterà a John Kerry, che in passato - va ricordato - fu uno dei senatori che denunciarono il loro scetticismo sui finanziamenti statunitensi alla “dissidenza”, arrivando a dubitare fortemente non solo dell’efficacia ma soprattutto della gestione poco trasparente di quei finanziamenti.
Obama ha quindi deciso di assecondare le pressioni che imprese, media e cittadini statunitensi hanno diffuso da ormai molti anni, liberando la Casa Bianca dalla morsa ricattatoria della comunità cubano americana, che dalla Baia dei Porci ad oggi ha rappresentato il più emblematico caso di esercizio lobbistico dannoso per il paese e, cosa altrettanto importante, sul piano dell’immagine sceglie di chiudere uno dei buchi neri storici della politica estera USA.
Evidentemente liberatosi dalla cautela, vista la fase finale del suo ultimo mandato, Barak Obama ha deciso di dare un segnale forte alla sua amministrazione, di passare in qualche modo alla storia come il presidente che mise fine ad una posizione politica ridicola e condannata dal mondo intero, abbattendo così l'ultimo pezzo d'intonaco del muro ereditato dalla guerra fredda. E, così facendo, guadagnandosi almeno una parte di quel Nobel per la pace prematuramente offertogli all’inizio del suo primo mandato.
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di Michele Paris
L’assedio e la liberazione di quasi tutti gli ostaggi da parte di un commando delle forze speciali australiane in un caffè nel centro di Sydney nelle primissime ore di martedì sono stati ancora una volta sfruttati dal governo di Canberra per alimentare il clima di panico nel paese a causa di possibili nuove minacce terroristiche e per proseguire nell’implementazione di misure da stato di polizia.
La ormai nota vicenda relativa al caffè Lindt ha avuto la sua conclusione in maniera tragica dopo che attorno alle due del mattino erano stati sentiti spari provenire dall’interno del locale, dove un rifugiato iraniano da due decenni in Australia stava tenendo in ostaggio una decina di persone.
Le ultime ore dell’assedio appaiono però confuse, visto che la polizia aveva tenuto i giornalisti a distanza e il resoconto di quanto è avvenuto prima e dopo l’irruzione del commando è stato fornito esclusivamente dalle autorità.
Secondo la versione ufficiale, uno degli ostaggi - il 34enne Tori Johnson, direttore del caffè - avrebbe a un certo punto cercato di sottrarre la pistola al sequestratore mentre era sul punto di addormentarsi. Accortosi del tentativo, quest’ultimo avrebbe sparato all’uomo uccidendolo e innescando l’intervento delle forze speciali, in seguito al quale lo stesso sequestratore ha perso la vita assieme a un altro degli ostaggi, una 38enne madre di tre figli.
Anche prendendo per buona questa versione della morte del maganer del locale nel centro di Sydney, non è chiaro da dove siano venuti i colpi che hanno causato il decesso della seconda vittima tra gli ostaggi e il ferimento di altri quattro. Il capo della polizia dello stato del Nuovo Galles del Sud, Andrew Scipione, martedì ha preferito non soffermarsi sulla questione, elogiando piuttosto la polizia per avere “salvato molte vite”.
Com’è quasi sempre accaduto in episodi simili più o meno recenti, un’analisi delle circostanze solleva anche in questo caso due riflessioni piuttosto inquietanti. La prima riguarda i precedenti e l’identità del responsabile dell’atto bollato immediatamente come “terroristico”, mentre la seconda è legata alla risposta delle forze di polizia, del governo e dei media ufficiali.
Ancora una volta, per cominciare, il tentacolare apparato di sorveglianza costruito in Australia, come in molti altri paesi, ha fallito nell’impedire a un individuo ben noto alle autorità di portare a termine un gesto eclatante e dalle conseguenze tragiche.
Il responsabile in questo caso si chiamava Man Haron Monis e aveva più di un precedente con la giustizia australiana. Il 50enne di origine iraniana, autoprocalamatosi membro del clero sciita anche se recentemente convertitosi al sunnismo, era infatti in attesa di giudizio in quanto incriminato come co-responsabile dell’assasinio della ex moglie, mentre era stato condannato ai servizi sociali per avere scritto lettere “offensive” a famigliari di soldati australiani morti durante l’occupazione dell’Afghanistan.
Monis viene descritto come un uomo fortemente disturbato e con profondi sentimenti di rivalsa nei confronti dello stato e del sistema giudiziario del paese che gli aveva concesso asilo dopo avere abbandonato l’Iran.
Negli anni scorsi era inoltre apparso in alcuni articoli e servizi della stampa australiana. Nel 2001, ad esempio, la ABC lo aveva intervistato presentandolo come un rifugiato con inclinazioni moderate e costretto a lasciare la famiglia in Iran a causa di presunte persecuzioni. Sulla stampa alternativa on-line, poi, circola già il sospetto che l’uomo fosse stato in qualche modo utilizzato in passato dal governo in una più o meno deliberata campagna di discredito della Repubblica Islamica.Qualche anno più tardi, in ogni caso, Monis - conosciuto anche col nome di Manteghi Boroujerdi - sarebbe stato segnalato alle autorità come persona sospetta dai leader della comunità sciita australiana, soprattutto perché si spacciava come membro del clero non avendone i titoli per farlo.
In maniera ancora più interessante, la stampa iraniana ha riportato un commento di una portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, secondo la quale il suo governo avrebbe più volte messo in guardia Canberra circa “i precedenti e le condizioni mentali e psicologiche” di Monis/Boroujerdi.
In definitiva, il ritratto di quest’ultimo che è uscito finora smentisce categoricamente l’ipotesi che egli rientri nella categoria dei cosiddetti “lupi solitari”. Questa definizione è assegnata dai governi che si definiscono impegnati nella lotta alle minacce terroristiche entro i propri confini a soggetti impossibili da individuare e da tenere sotto controllo da parte delle forze di polizia, poiché non fanno parte di organizzazioni fondamentaliste ma agiscono in manier autonoma, sia pure con motivazioni politiche o ideologiche, dopo essere passati attraverso un percorso indipendente di radicalizzazione.
Se possibili legami di Monis con i servizi di intelligence australiani, dopo che egli stesso aveva sostenuto di avere avuto contatti con quelli del suo paese d’origine, sono al momento soltanto ipotizzabili, quel che appare evidente è che l’azione di lunedì a Sydney è stata tutt’al più condotta per motivi solo esteriormente riconducibili allo Stato Islamico (ISIS), di cui l’uomo si sarebbe definito membro nel corso del sequestro all’interno del caffè Lindt.
Ciononostante, la vicenda è stata prevedibilmente descritta come l’ennesima prova che il “terrorismo” jihadista è ormai approdato in maniera inesorabile anche in Australia, con la logica conseguenza che il governo deve disporre della piena facoltà di implementare tutte le misure necessarie per proteggere la sicurezza dei propri cittadini.
E infatti, quello che avrebbe dovuto più logicamente essere trattato come un caso di polizia, sia pure grave, è stato subito trasformato in una vera e propria crisi nazionale, con l’attivazione dei protocolli “anti-terrorismo” e la ripetuta apparizione in diretta televisiva del primo ministro, Tony Abbott, per rassicurare gli australiani e aggiornarli sulla situazione all’interno del caffè di Sydney.
Innanzitutto, la città è stata letteralmente invasa dalla polizia che ha chiuso al traffico interi quartieri del centro, così come uffici pubblici e privati. Secondo le procedure previste in casi simili, misure estreme sono state adottate anche in altre città del paese, anche se non erano stati segnalati allarmi né complici di Monis.
Sia i giornali australiani conservatori - in primo luogo del gruppo Murdoch - sia quelli teoricamente “liberal” sono apparsi poi uniti nell’appoggiare la versione del governo, dando per scontate informazioni per nulla provate, come le effettive simpatie del sequestratore per l’ISIS, o chiedendo misure ancora più lesive della privacy e dei diritti civili per fronteggiare la “minaccia del terrorismo” che sembra incombere sull’Australia.
Eventi come quello di questa settimana a Sydney, in definitiva, vengono puntualmente sfruttati dalla classe dirigente in Europa come in Nordamerica o in Oceania proprio per accelerare l’introduzione di norme sempre più anti-democratiche sul controllo della popolazione, salvo poi scoprire ogni volta che i responsabili di atti di “terrorismo” riescono a sfuggire miracolosamente alla rete di sorveglianza creata dalle autorità pur avendo avuto quasi sempre precedenti con la giustizia.
L’elenco di casi simili è lunghissimo e solo poche settimane fa se ne aveva avuto un esempio sempre in Australia, guarda caso nel pieno del lancio dell’avventura bellica in Iraq e in Siria ufficialmente contro l’ISIS, a cui le forze armate di Canberra partecipano al fianco di Washington. A settembre, cioè, la polizia australiana aveva condotto una delle più imponenti operazioni di “anti-terrorismo” mai viste nel paese, con centinaia di agenti impegnati in varie città a perquisire abitazioni, arrestare e interrogare sospettati di avere legami con l’ISIS e altre formazioni integraliste.Lo stesso premier Abbott aveva giustificato l’operazione con il pericolo che simpatizzanti o membri dell’ISIS stessero progettando rapimenti ed esecuzioni sommarie sul suolo australiano. Il risultato dell’intera operazione fu però l’incriminazione di una sola persona con dubbie accuse di reati legati al “terrorismo”.
Il clima di isteria creato ad arte in Australia ha permesso così al governo conservatore, sempre più impopolare a causa delle ripetute misure di austerity messe in atto, di fare approvare dal parlamento una serie di provvedimenti ad hoc.
Le leggi da poco introdotte intendono ad esempio impedire a cittadini australiani di recarsi in Siria o in altri paesi interessati dal fondamentalismo islamico tramite la revoca o la confisca dei passaporti. Un’altra misura prevista criminalizza invece “l’incitamento al terrorismo” sui social media ed è scritta in maniera sufficientemente ampia da includere qualsiasi vaga “minaccia” alla sicurezza o alla stabilità dello stato.
Questa piega preoccupante, come già ricordato, non riguarda solo l’Australia. Vari paesi europei hanno anch’essi deciso la revoca arbitraria dei passaporti dei sospettati di terrorismo, cercando di giustificare questa misura anti-democratica per lo più con arresti di cittadini di fede musulmana descritti come sul punto di unirsi all’ISIS in Medio Oriente, come è accaduto proprio in questi giorni in Francia.
Un altro partner speciale degli Stati Uniti in questa guerra a un’organizzazione fondamentalista che è in sostanza il prodotto delle stesse trame occidentali è infine il Canada. A Ottawa, nel mese di ottobre, l’azione di un altro individuo con una storia di emarginazione e precedenti penali era giunta nel pieno del dibattito su una nuova legge che avrebbe ampliato i poteri delle autorità in materia di “anti-terrorismo” ed era stata seguita dalle stesse reazioni di politici e media e dalle stesse spropositate misure delle forze di polizia osservate questa settimana a Sydney.
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di Michele Paris
Il partito Liberale Democratico (LDP) conservatore del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha vinto come previsto in maniera molto netta le elezioni anticipate indette con una manovra estremamente dubbia a novembre dallo stesso premier e andate in scena nel paese dell’Estremo Oriente nella giornata di domenica. L’LDP ha perso appena 4 seggi rispetto al voto di due anni fa, scendendo da 295 a 291 sui 475 complessivi della camera bassa del Parlamento nipponico (Dieta). Il tradizionale partner di governo dei liberal-democratici, il partito conservatore Komeito di ispirazione buddista, ne ha guadagnati invece 4 (da 31 a 35), consentendo alla coalizione di mantenere una supermaggioranza di due terzi nella Camera dei Rappresentanti.
Quello che era stato propagandato come una sorta di referendum sulle politiche economiche del primo ministro non si è risolto però in un attestato di fiducia, nonostante i numeri. Per cominciare, è stata registrata un’autentica esplosione del tasso di astensione, salito di 7 punti percentuali rispetto al già basso livello del 2012 e attestatosi attorno al 52%, cioè il record negativo dal secondo dopoguerra a oggi.
Il numero enorme di elettori giapponesi che hanno preferito rimanere a casa piuttosto che avallare il colpo di mano di Abe o votare per uno qualsiasi dei partiti del deprimente panorama politico del paese indica sia la sfiducia nei confronti della gestione dell’economia da parte del governo sia la pressoché totale mancanza di alternative credibili all’LDP.
Significativo in questo senso è stato lo slogan della campagna elettorale del partito dello stesso premier, il quale ha cercato di convincere i giapponesi che le cosiddette “Abenomics” - le politiche economiche del governo basate principalmente su un’aggressiva politica monetaria, sull’aumento della spesa pubblica (a beneficio di banche e grandi aziende) e sulla “riforma” del mercato del lavoro - fossero “l’unica strada” possibile.
Anche se non esattamente come nelle intenzioni dei vertici dell’LDP, questo slogan ha fotografato la realtà giapponese prima del voto di domenica, caratterizzata da una clamorosa mancanza di soluzioni diverse dalle consuete ricette ultraliberiste promosse da Abe e che finora non hanno in nessun modo prodotto una ripresa consistente dell’economia reale né tantomeno il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita promesso.
L’unica “strada” a disposizione dei giapponesi è apparsa evidente anche dallo stato comatoso del principale partito di opposizione giapponese, il Partito Democratico (DPJ) di centro-sinistra. Quest’ultimo appare agli occhi degli elettori giapponesi come una parodia di partito politico e non ha praticamente mostrato segni di vita dopo la batosta subita nelle elezioni del 2012, seguita a tre anni in cui aveva governato senza mantenere nessuno degli impegni con gli elettori.
Innumerevoli sondaggi e interviste apparse nelle scorse settimane su vari media nipponici e internazionali avevano messo in luce la profondissima avversione ancora diffusa nei confronti del DPJ, il cui trionfo di cinque anni fa sull’LDP era stato conquistato grazie alla promessa di politiche progressiste delle quali non si è mai vista nemmeno l’ombra.
Sulle condizioni dell’opposizione ha puntato così Abe per assicurarsi un secondo mandato proprio mentre il paese è scivolato in una nuova recessione. Dal momento che il DPJ o altre formazioni non avrebbero rappresentato alcuna minaccia, lo scioglimento anticipato della camera bassa della Dieta è stato deciso per prolungare la sua permanenza alla guida del governo prima che la piena attuazione di impopolari politiche economiche, ma anche di altre iniziative per la militarizzazione del Giappone, si facessero sentire sul gradimento dell’LDP.Nel mese di novembre, i dati economici relativi al terzo trimestre dell’anno avevano mostrato come il Giappone fosse ripiombato in recessione a causa sia della congiuntura globale sia dell’entrata in vigore ad aprile di un aumento della tassa sui consumi, approvata dal precedente governo del DPJ e confermata da Abe.
Il primo ministro aveva allora deciso di rimandare all’aprile del 2017 il secondo aumento della tassa stessa, previsto per il 2015, sia pure di fronte all’opposizione degli ambienti finanziari internazionali e di sezioni della classe dirigente domestica, a cominciare dalla Banca Centrale giapponese. Contestualmente, il premier aveva imposto elezioni anticipate, in modo da ricevere un nuovo mandato e cercare anche di emarginare la fazione dei “falchi” nel suo partito contraria al rinvio dell’aumento della tassa, ritenuto necessario per contenere il debito pubblico nipponico, da tempo il più alto di tutti i paesi industrializzati in rapporto al PIL.
Per quanto riguarda il DPJ, anche se i risultati finali hanno evidenziato la conquista di 11 seggi in più rispetto agli attuali 62, la prestazione elettorale è stata dunque molto deludente, soprattutto alla luce della crescente ostilità nel paese alle politiche governative. Il leader del DPJ, Banri Kaieda, si avvia così verso le dimissioni dopo avere fallito anche nella corsa a un seggio in parlamento, essendo stato sconfitto nel distretto maggioritario di Tokyo in cui era in gara e non avendo nemmeno raccolto il numero di voti sufficienti per essere rispescato con la quota proporzionale.
Quel che è certo, ad ogni modo, è che Abe cercherà ora di sfruttare il successo di domenica per legittimare l’intensificazione del suo programma di “ristrutturazione” economica e i previsti piani di modifica alla costituzione pacifista del Giappone, così da consentire una piena militarizzazione del paese e alle proprie forze armate di partecipare a eventuali conflitti all’estero con compiti di combattimento.
La riuscita dei progetti del premier è comunque tutt’altro che certa, mentre all’interno del suo partito circolano inquietudini giustificate, evidenti anche dai toni non esattamente trionfali dopo la diffusione dei risultati del voto.
La certezza di un nuovo mandato di quattro anni contribuisce infatti ben poco a rendere popolari le misure economiche o le modifiche costituzionali che verrano discusse nel prossimo futuro, così come l’imminente riattivazione dei reattori nucleari dopo il disastro di Fukushima del 2011. Allo stesso modo, nessuna delle “frecce” previste dalle “Abenomics” sarà verosimilmente in grado di rilanciare la crescita del Giappone in modo che sia la maggior parte della popolazione a beneficiarne.
Abe in prima persona pare rendersi conto di questi ostacoli e sarà costretto a procedere in maniera prudente, tanto che vari osservatori dubitano che il governo possa realmente riuscire a portare a termine alcune “riforme”, a cominciare da quella del lavoro. Tanto più che il premier dovrà fare attenzione ai suoi livelli di gradimento in vista dell’appuntamento con il congresso del suo partito nel prossimo mese di settembre, quando verrà scelto il nuovo leader dell’LDP.Per i giornali ufficiali, Abe dovrà combattere contro i cosiddetti “interessi consolidati” nei prossimi mesi, cioè in primo luogo con i lavoratori dipendenti contrari a miracolose “riforme” che prospettano un miglioramento della loro situazione economica attraverso la privazione di diritti e la più che probabile riduzione delle retribuzioni.
L’altra categoria sulla lista degli oppositori del cambiamento è poi quella degli agricoltori, tradizionale base elettorale dell’LDP e fortemente contraria allo smantellamento delle protezioni del loro settore per favorire la concorrenza dei prodotti stranieri. In questo caso, il riferimento è al trattato di libero scambio battezzato “Partnership Trans-Pacifica” (TPP) e promosso dagli Stati Uniti. Il TPP, oltre a essere visto con sospetto da vari paesi, è fermo da tempo anche a causa delle resistenze di Tokyo ad assecondare le richieste di Washington, da dove si spinge per l’abbattimento dei dazi doganali sui prodotti agricoli nipponici che manderebbe di fatto in rovina gli agricoltori indigeni.
Tornando al voto di domenica, le notizie relativamente buone per il partito di governo sono state offuscate in parte dai risultati sull’isola di Okinawa. Qui i quattro distretti che assegnavano altrettanti seggi con il sistema maggioritario hanno visto la sconfitta di tutti i candidati dell’LDP, in conseguenza della fortissima opposizione alla costruzione di una nuova base militare americana al posto di quella attuale che dalla fine della Seconda Guerra mondiale è situata in un’area urbana dell’isola. I quattro candidati del partito di Abe, favorevoli alla base, sono stati comunque eletti ma solo grazie alla quota proporzionale.
Proprio a Okinawa, infine, un candidato del Partito Comunista Giapponese (JCP) è stato eletto in un distretto maggioritario per la prima volta dal 1996. Complessivamente, il JCP ha quasi triplicato il proprio contingente di deputati al parlamento di Tokyo, passando dagli attuali 8 a 21, grazie a una campagna elettorale nella quale i propri candidati sono stati tra i pochi a criticare fermamente le politiche del governo di Shinzo Abe.
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di Emy Muzzi
Londra. E’ stato sufficiente aspettare pochi giorni di assestamento delle breaking news e dei titoli sulle prime pagine, perché la verità sul report - CIA che qui a Londra si sospettava venisse a galla. Per la conferma di Downing Street che i servizi inglesi e americani abbiano avuto diversi incontri prima della pubblicazione del report sulle torture inflitte dalla CIA ai presunti sospetti terroristi, abbiamo dovuto aspettare solo due giorni.
Gli incontri tra l’MI6 ed i colleghi d’oltreoceano erano cominciati subito dopo l’inizio dell’indagine della commissione del Senato Usa nel 2009. Pertanto, è il caso di dedurre, nelle oltre 480 pagine del report rese pubbliche, non c’è alcun riferimento ad alcun coinvolgimento del governo, dell’intelligence, o di agenzie britanniche nelle operazioni di ‘rendition’. Il totale delle pagine ancora segrete, ‘classified’, è di 6mila, i dati raccolti in sei anni ammontano a sei milioni di pagine. Nella sintesi finale si è perso qualcosa...
Quel ‘qualcosa’ di rilevante si è perso probabilmente negli incontri - almeno 21 in due anni secondo il The Guardian - tra l’ambasciatore britannico a Washington, Sir Peter Westmacott, e la senatrice Dianne Feinstein, a capo della Commissione Intelligence del Senato USA. Ma sembra che i ‘meetings’ fossero il proseguimento di una tradizione diplomatica nata con il report stesso. In aggiunta il ministro degli interni inglese, Teresa May, non ha mancato di onorare la Commissione Intelligence Usa con una visita sulla quale è stata chiamata a rispondere in Parlamento.
Il programma anti terrorismo ‘rapimento, internamento e tortura in prigioni nascoste’ (più diplomaticamente conosciuto come rendition), inaugurato da George W Bush dopo gli attacchi dell’11 Settembre, ha coinvolto diversi paesi e governi, inclusa l’Italia, e sembra poco credibile che i cugini inglesi, fronte europeo della lotta contro il terrorismo, non abbiano fatto la loro parte. A quanto denuncia Reprieve, ONG inglese a sostegno dei diritti umani, le torture sarebbero state inflitte nelle prigioni nascoste controllate dalla CIA (black sites) anche in territorio britannico, come l’isola Diego Garcia, atollo nell’Oceano Indiano appartenente alla Corona, sede della più vasta base militare americana in territorio estero e di un ‘black site’ che avrebbe ‘ospitato’ nel 2004 il dissidente libico Abdel Hakim Belhadj o almeno lo scalo del volo che lo rimpatriava in Libia per essere incarcerato e poi torturato dalla polizia segreta di Gheddafi in una operazione congiunta MI6-CIA.
Adesso le autorità britanniche sono chiamate a rendere conto della eventuale responsabilità che i rapimenti dei sospetti e le torture inflittegli possano essere avvenute in territorio britannico. In queste ore trionfa il giustificazionismo: l’ex ministro degli esteri conservatore, William Hague, il giorno la diffusione del report ha preso le distanze: “Penso che tutti noi prima dovremmo leggere il report - ha dichiarato ad una TV londinese - ma ciò che so come ex ministro degli esteri e come responsabile per alcune delle nostre intelligence agencies fino a pochi mesi fa, è che in questo paese i nostri servizi segreti non solo hanno fatto un lavoro fantastico garantendo la sicurezza dei cittadini, ma anche mantenendo una stretta osservanza della legge e dei diritti umani in tutto il mondo. Noi possiamo garantire per le nostre agenzie e dobbiamo vedere cosa il report dice riguardo a ciò che la CIA ha fatto in passato”. Una dichiarazione che equivale ad un no-comment.La pubblicazione del report, del resto, preoccupava Hague da diversi mesi. Nel luglio scorso, quando era ancora a capo del Foreign Office, nel rassicurare che “il governo britannico non ha mai cercato di influenzare il contenuto del report” aveva scritto in una lettera indirizzata ai responsabili di Reprieve riferendosi agli incontri con i rappresentanti del Senato Usa: “Abbiamo formalmente chiesto rassicurazioni affinché fossero seguite le procedure ordinarie che prevedono l’autorizzazione nel caso in cui la documentazione fornita alla Commissione del Senato venga resa pubblica”. La documentazione riguardante il Regno Unito c’è, ma non compare nel report. Diciamo che non è sopravvissuta alla ‘redazione’ finale, al pari di quella riguardante altri paesi.
Nella mappa delle location dell’orrore l’aeroporto di Prestwick (Glasgow) è segnato come uno degli scali principali. Secondo il report del Consiglio d’Europa nel 2006, in alcuni aeroporti britannici (militari e civili?) hanno fatto scalo i voli della CIA con a bordo sospetti rapiti e trasportati in luoghi segreti e remoti per essere sottoposti a torture.
Nello stesso report UE anche Roma è segnata tra gli scali principali ed in altre mappe relative ad inchieste sulle renditions, l’Italia è segnata come uno dei paesi in cui i rapimenti venivano effettuati. Un esempio di ciò fu il caso dell’Imam Abu Omar, rapito a Milano dagli agenti della CIA coadiuvato dal Sismi (allora guidato da Pollari), trasportato segretamente in Egitto, torturato, rilasciato da un tribunale egiziano in quanto innocente con conseguente condanna (simbolica e non effettiva) dei 23 agenti americani nel 2009 da una corte di giustizia italiana.
In quel caso la giustizia ha salvato una delle vittime innocenti del programma anti-terrorismo della CIA; altri non sono sopravvissuti a torture che hanno portato in molti casi anche alla morte di persone considerate sospette senza alcuna prova e private del diritto alla giustizia. Il terrorismo degli "antiterroristi".