di Michele Paris

L’operazione più o meno mascherata di cambio di regime in Sri Lanka diretta da Washington sembra essere riuscita alla perfezione dopo che le elezioni presidenziali di giovedì scorso hanno decretato la sconfitta di Mahinda Rajapaksa e il successo del candidato dell’opposizione, Maithripala Sirisena. Apparentemente senza resistenza, il presidente uscente ha ammesso la sconfitta il giorno successivo, abbandonando il palazzo presidenziale per consentire un passaggio di consegne senza scosse alla guida del paese del sud-est asiatico.

L’ex ministro della Sanità Sirisena ha ottenuto il 51,3% dei voti, contro il 47,6% del suo ex compagno di partito Rajapaksa, rimosso dalla carica di presidente dopo dieci anni e un progressivo consolidamento del potere. Piuttosto elevata è risultata l’affluenza alle urne, attestatasi attorno all’81,5% rispetto al 74,5% di cinque anni fa.

Dietro ai commenti dei giornali internazionali di questi giorni circa il probabile “riequilibrio” della politica estera di Colombo in seguito all’insediamento del nuovo governo si nasconde in realtà un vero e proprio ribaltamento delle alleanze di questo paese o, per lo meno, ciò è quanto si aspettano gli Stati Uniti e l’India.

Rajapaksa aveva costruito in questi anni una strettissima partnership con la Cina, concretizzatasi, come ha scritto qualche giorno fa Bloomberg News, in un aumento dei prestiti allo Sri Lanka di cinquanta volte in dieci anni e in investimenti diretti pari a 4 miliardi di dollari.

Ciò ha provocato parecchi malumori a Washington e, soprattutto, a Delhi, dove il vicino sud-orientale è tradizionalmente considerato all’interno della sfera di influenza indiana. Più in generale, lo Sri Lanka si trova al centro di rotte marittime strategiche, il controllo delle quali consente potenzialmente di ostacolare i traffici da e per la Cina.

Le manovre americane in concerto con l’opposizione cingalese sono andate a buon fine grazie alla vasta ostilità popolare per le tendenze dittatoriali dell’amministrazione Rajapaksa. Sirisena ha ottenuto un largo consenso nei distretti operai della capitale, nonché nelle aree a maggioranza musulmana e Tamil, dove il risentimento nei confronti del presidente uscente rimane fortissimo dopo il brutale soffocamento della ribellione delle “Tigri” nel 2009.

Proprio la campagna militare contro le Tigri Tamil aveva offerto agli Stati Uniti e ai loro alleati la possibilità di esercitare pressioni su un Rajapaksa avvicinatosi pericolosamente alla Cina. Poco meno di un anno fa, infatti, l’amministrazione Obama aveva sponsorizzato alle Nazioni Unite una mozione di condanna del governo dello Sri Lanka per le diffuse violazioni dei diritti umani durante le fasi finali della guerra civile.

Gli stessi USA, tuttavia, avevano appoggiato Rajapaksa nella sua guerra contro la minoranza Tamil, salvo poi accusarlo di crimini contro i civili in una delle consuete manipolazioni della questione dei diritti umani da parte dei governi occidentali in base alle necessità strategiche del momento.

A decidere il proprio destino era stato inaspettatamente lo stesso Rajapaksa, il quale lo scorso novembre aveva indetto nuove elezioni dopo avere modificato la costituzione in modo da consentirgli di correre per un terzo mandato. Il presidente intendeva così consolidare il potere di fronte alla crescente opposizione popolare a causa degli spazi democratici sempre più ristretti nel paese e delle conseguenze dell’implementazione di misure di “rigore” dettate dal Fondo Monetario Internazionale, protagonista nel 2009 di un prestito erogato allo Sri Lanka da quasi 3 miliardi di dollari.

Pochi giorni dopo l’annuncio delle elezioni, dunque, Sirisena aveva dato le dimissioni dal governo e dalla carica di segretario generale del Partito della Libertà dello Sri Lanka (SLFP) di Rajapaksa per diventare il candidato alla presidenza dell’opposizione.

Secondo molti, la scelta di Sirisena come candidato comune dell’opposizione sarebbe stata pilotata dalla ex presidente ed ex primo ministro, Chandrika Kumaratunga, anch’essa già membro dell’SLFP ma con profondi legami con gli Stati Uniti e, in particolare, con la famiglia Clinton.

Attorno a Sirisena si sono raccolti i principali partiti di opposizione, a cominciare dal Partito Nazionale Unito (UNP) di centro-destra, ma anche il partito estremista buddista JHU e il Partito Democratico dell’ex generale e sfidante di Rajapaksa nelle presidenziali del 2010, Sarath Fonseka. Forse determinante per il successo di Sirisena è stato poi il sostegno ottenuto da vari partiti musulmani e Tamil.

La defezione di Sirisena dal partito di governo ha provocato un’ondata di diserzioni che ha riguardato decine di parlamentari e una manciata di ministri. Una dinamica, quest’ultima, che rivela come una parte molto consistente della classe dirigente cingalese abbia deciso di imprimere una svolta alla politica estera del proprio paese, con lo scopo di allinearlo a Washington.

Questa intenzione è evidente anche dalle dichiarazioni dello stesso neo-presidente, intenzionato ad esempio a “rompere l’isolamento” internazionale dello Sri Lanka o a “rivedere” i progetti cinesi di investimento nel paese.

La stessa accettazione della sconfitta da parte di Rajapaksa riflette le pressioni esercitate dagli Stati Uniti sul suo governo, apparse chiare ad esempio dall’intervento pubblico poco prima del voto del segretario di Stato USA, John Kerry, per invitare il regime a garantire elezioni “credibili e trasparenti”, nonché senza violenze o intimidazioni.

Rajapaksa, tuttavia, deve avere pensato a un colpo di mano per rimanere alla guida del paese, vista anche la sua scarsa predisposizione per le norme democratiche. Nel 2010, ad esempio, dopo la vittoria su Fonseka aveva ordinato l’arresto del rivale quando quest’ultimo aveva cercato di denunciare irregolarità nel voto.

In questa occasione, Rajapaksa si è però trovato di fronte a forze ben più importanti sia internamente che a livello internazionale. Visti i precedenti in molti altri paesi, un intervento per mantenere il presidente al potere avrebbe con ogni probabilità dato vita a una sorta di “rivoluzione colorata” pilotata dall’Occidente anche in Sri Lanka.

Nella giornata di domenica, in ogni caso, un alleato del neo-presidente Sirisena ha affermato che Rajapaksa aveva dato ordine ai vertici militari di schierare truppe nel paese in seguito ad una sua possibile dichiarazione unilaterale di vittoria nelle elezioni. Dopo il rifiuto degli alti ufficiali cingalesi, Rajapaksa deve avere realizzato di non avere altre possibilità di rimanere al suo posto, convincendosi così ad ammettere la sconfitta e a passare la mano al suo ex ministro.

L’indisponibilità dei militari ad assecondare l’ormai decaduto presidente è estremamente indicativa delle forze schierate contro Rajapaksa e le sue politiche di allineamento alla Cina. Anche le forze armate, cioè, devono avere scommesso sulla svolta strategica a favore degli Stati Uniti e dell’India, visto che il loro impegno per la democrazia è molto poco credibile, come confermano i massacri di cui si sono rese responsabili nel corso della guerra contro la minoranza Tamil nel 2009.

Ciò che resta da verificare sarà ora la capacità effettiva di Sirisena di operare lo sganciamento da Pechino richiesto da Washington e Delhi. La Cina, infatti, svolge ormai un ruolo pressoché imprescindibile nell’economia cingalese e difficilmente potrà essere sostituita in questo ambito dai nuovi sponsor del regime entrante a Colombo.

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