di Michele Paris
Nei giorni successivi all’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan il 2 maggio del 2011, la Casa Bianca si era trasformata in una macchina di menzogne da distribuire all’opinione pubblica internazionale al fine di creare una versione accettabile dell’operazione che aveva portato alla morte del leader e fondatore di al-Qaeda. Questa è la conclusione a cui giunge l’ultima esplosiva rivelazione dell’autorevole giornalista investigativo americano, Seymour Hersh, pubblicata in questi giorni dalla London Review of Books.
Il resoconto del raid delle Forze Speciali USA in un edificio della città di Abbottabad proposto dall’amministrazione Obama, sostiene il noto reporter, “potrebbe essere stato scritto da Lewis Carroll”, l’autore di Alice nel Paese delle Meraviglie, vista la quantità di notizie fabbricate ad arte presenti in esso per nascondere la verità dei fatti.
Hersh ha prodotto una lunghissima e dettagliata indagine, uscita significativamente su una rivista letteraria in Gran Bretagna, basandosi sulle testimonianze di fonti anonime e non solo, sia negli Stati Uniti che in Pakistan, tra cui un membro in pensione dell’intelligence americana a conoscenza dei fatti relativi alla preparazione e all’esecuzione dell’operazione conclusasi con la morte di bin Laden.
Per cominciare, Washington aveva sempre assicurato che i vertici militari e dei servizi segreti pakistani non erano al corrente del raid condotto dalle Forze Speciali USA e che erano stati informati solo al termine del blitz. Hersh dimostra al contrario che l’operazione non solo era stata concordata con i due più importanti ufficiali militari pakistani - i generali Ashfaq Pervez Kayani e Ahmed Shuja Pasha, allora rispettivamente capo di stato maggiore dell’esercito e direttore generale della potente agenzia di intelligence ISI (Inter-Services Intelligence) - ma che bin Laden era di fatto prigioniero di Islamabad e che a consegnarlo agli americani era stato un agente segreto del paese centro-asiatico.
La ricostruzione di Hersh è stata sostanzialmente confermata dall’ex generale pakistano Asad Durrani, capo dell’ISI nei primi anni Novanta e inizia con la visita all’ambasciata americana di Islamabad di un ex agente della stessa agenzia di intelligence nell’agosto del 2010.
Quest’ultimo aveva approcciato il numero uno della CIA in Pakistan, Jonathan Bank, proponendogli di rivelare la località in cui si trovava Osama bin Laden in cambio del pagamento della taglia da 25 milioni di dollari messa sulla sua testa dal governo USA dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Accolto con un qualche scetticismo, l’agente pakistano superò il test della macchina della verità e di lì a poco la CIA si sarebbe messa in moto per far fronte ai principali ostacoli all’eliminazione del terrorista saudita, cioè tenere all’oscuro il più a lungo possibile le autorità pakistane e raccogliere prove sulla “qualità dell’informazione” ottenuta.
La CIA aveva allora affittato un’abitazione ad Abbottabad per sorvegliare l’edificio dove viveva bin Laden. Nel mese di ottobre, poi, l’informazione venne comunicata al presidente Obama, il quale, oltre a rimanere sbalordito del fatto che bin Laden si trovasse in Pakistan, chiese alla CIA di raccogliere prove incontrovertibili sulla sua identità.
Per la CIA e il comando delle Operazioni Speciali si rendeva dunque necessario ottenere il DNA di bin Laden, così da avere un riconoscimento certo, e preparare le condizioni per progettare un’incursione senza rischi. Entrambi gli obiettivi avrebbero potuto essere raggiunti solo con la collaborazione dei generali pakistani Kayani e Pasha e delle istituzioni da essi guidate.
D’altra parte, l’agente segreto pakistano che si era presentato all’ambasciata USA aveva rivelato che l’abitazione di bin Laden ad Abbottabad era sotto il controllo dell’ISI. Il leader di al-Qaeda era stato trasferito qui nel 2006 dopo essere stato catturato, grazie alla collaborazione di tribù locali, sulle montagne dell’Hindu Kush, tra l’Afghanistan e il Pakistan, dove aveva vissuto fin dal 2001 con alcune delle sue mogli e svariati figli.
La tesi, sostenuta dal governo americano, che bin Laden avesse vissuto per anni senza essere notato dall’intelligence o dai militari pakistani in una località come Abbottabad aveva da subito suscitato molte perplessità, visto che a circa tre chilometri da quella che era la sua abitazione si trova un’Accademia Militare, a meno di due chilometri il quartier generale di un battagione dell’esercito e a 15 minuti di elicottero la base di Tarbela Ghazi dell’ISI.
Alla CIA venne inoltre rivelato che bin Laden era seriamente malato e fin dall’inizio del suo confino ad Abbottabad l’intelligence pakistana aveva ordinato a un medico dell’esercito, Amir Aziz, di trasferirsi in questa città per assistere il prezioso “ospite”.
Nel frattempo, gli USA non avevano dovuto faticare troppo per convincere le autorità pakistane a collaborare, visto che a Islamabad premeva continuare a ricevere gli aiuti militari tradizionalmente stanziati da Washington e sospesi proprio in quel frangente. Secondo la fonte di Hersh, la CIA era ricorsa anche a qualche “piccolo ricatto”, minacciando Islamabad della possibilità di far sapere ai Talebani e ai gruppi jihadisti attivi nella regione che il Pakistan teneva prigioniero il loro leader.
Qualche complicazione poteva tuttavia presentarsi relativamente alla posizione dell’Arabia Saudita, il cui regime stava finanziando il mantenimento ad Abbottabad del cittadino del regno bin Laden. Riyadh non desiderava infatti che la sua presenza in Pakistan fosse resa nota, soprattutto agli americani, per il timore che Washington avesse potuto spingere sui pakistani per conoscere i legami oscuri tra al-Qaeda e l’Arabia Saudita.
In ogni caso, il Pakistan aveva ormai accettato di collaborare con gli Stati Uniti. Il medico assegnato a bin Laden venne così incaricato di raccogliere campioni del suo DNA in cambio di una parte della già ricordata taglia da 25 milioni offerta dagli USA. In seguito, per non bruciare la copertura del dottor Aziz, gli USA avrebbero sacrificato un altro medico pakistano, Shakil Afridi, indicato pubblicamente come il responsabile del reperimento del DNA di bin Laden durante una campagna di vaccinazioni. Afridi, successivamente arrestato dalle autorità pakistante, era in realtà un informatore occasionale della CIA ma non aveva partecipato all’operazione bin Laden.
Hersh racconta degli scrupoli dell’amministrazione Obama prima di dare l’approvazione al raid per eliminare bin Laden, dal momento che un eventuale fallimento avrebbe potuto scatenare forti polemiche che si sarebbero trascinate fino alle successive elezioni, compromettendo le possibilità del presidente democratico di essere riconfermato alla Casa Bianca.
Alla fine di gennaio del 2011 tra Washington e Islamabad venne finalmente raggiunto l’accordo sulle modalità dell’operazione da lanciare ad Abbottabad. Il capo di stato maggiore pakistano, generale Kayani, aveva richiesto che il raid fosse condotto da un team di pochi uomini e, soprattutto, che si concludesse con la morte di bin Laden.
A questo punto, il comando delle Forze Speciali americane presentò una lunga lista di domande ai vertici dell’ISI, in modo da conoscere nel dettaglio la situazione logistica che si sarebbe presentata ai propri uomini una volta entrati nell’abitazione di bin Laden. In un vecchio sito utilizzato per i test nucleari nel Nevada, addirittura, venne costruita una replica dell’edificio per consentire a una squadra scelta di “Seals” americani di esercitarsi prima del viaggio in Pakistan.
I militari e l’intelligence del Pakistan si impegnarono così a consentire il libero accesso dei velivoli americani addetti alla missione di morte ad Abbottabad, mentre una cellula di agenti USA si sarebbe occupata delle comunicazioni tra l’ISI, i comandanti statunitensi in Afghanistan e la squadra delle Forze Speciali incaricata del blitz.
L’accordo iniziale tra Stati Uniti e Pakistan prevedeva che l’operazione fosse tenuta segreta per almeno una settimana, dopodiché sarebbe stata diffusa una versione fabbricata ad arte per il pubblico. Obama avrebbe cioè annunciato che bin Laden era stato ucciso da un drone americano in una località sul versante afgano delle montagne dell’Hindu Kush. Ai generali Kayani e Pasha era stato poi assicurato che il loro contributo sarebbe rimasto segreto, anche per evitare lo scatenarsi di proteste in Pakistan, dove molti consideravano bin Laden un eroe.
Sia per i pakistani che per gli americani, l’operazione doveva necessariamente portare all’assassinio del numero uno di al-Qaeda. Per i primi, il fatto che gli USA fossero ormai a conoscenza della sua presenza nel paese rappresentava un rischio, mentre a Washington vi era verosimilmente molta preoccupazione per eventuali rivelazioni che il loro principale nemico avrebbe potuto fare riguardo gli intrecci tra la politica estera di Washington e la sua organizzazione fondamentalista.
Quello andato in scena il 2 maggio ad Abbottabad fu perciò “chiaramente e inequivocabilmente un omicidio premeditato”, nascosto dalla ricostruzione della Casa Bianca dei frangenti seguiti all’irruzione delle Forze Speciali nell’abitazione di bin Laden. Ufficialmente, quest’ultimo avrebbe dovuto essere catturato vivo se si fosse arreso in maniera tempestiva ma, secondo la versione ufficiale, era stato alla fine ucciso perché aveva opposto resistenza e cercato di raggiungere un’arma per combattere i soldati americani.
L’ISI aveva dunque preparato accuratamente l’arrivo delle Forze Speciali USA ad Abbottabad, garantendo ad esempio il black-out elettrico nella città e l’assenza totale di guardie a sorveglianza dell’edificio. Un’agente di collegamento dell’ISI guidò poi i “Seals” americani all’interno, fino al terzo piano dove, indisturbati, raggiunsero la stanza di bin Laden. Qui, due soldati spararono a ripetizione contro un uomo totalmente indifeso e, al contrario di quanto avrebbe successivamente sostenuto l’amministrazione Obama, senza che ci fosse stata alcuna sparatoria o che altre persone fossero state uccise nell’abitazione.
L’indagine di Hersh smentirebbe anche un’altra menzogna del governo americano, quella relativa al presunto ritrovamento di computer e dispositivi digitali di archiviazione contenenti importanti informazioni su al-Qaeda e possibili trame terroristiche. I soldati americani raccolsero soltanto alcuni libri e documenti ritrovati nella stanza di bin Laden, il quale, a differenza di quanto dichiarato dal governo USA per convenienza politica e per giustificare l’operazione, in quanto prigioniero dei militari pakistani non poteva agire da comandante operativo dell’organizzazione terroristica da Abbottabad.
Al termine dell’operazione, all’interno della Casa Bianca iniziò un’accesa discussione circa l’opportunità di rivelare immediatamente l’accaduto, sia pure in maniera manipolata, o di attenersi agli accordi con i pakistani e attendere alcuni giorni.
Il presidente Obama insisteva per la prima opzione e questa scelta venne facilitata dallo schianto di uno degli elicotteri della squadra inviata ad assassinare bin Laden contro il perimetro esterno dell’edificio di Abbottabad. L’incidente aveva reso infatti più complicato lo sforzo di mantenere segreta l’operazione e far credere alla versione del drone.
Questa decisione fece infuriare le autorità pakistane e fu seguita da una ricostruzione ufficiale degli eventi messa assieme in maniera frettolosa, producendo una serie di contraddizioni che avrebbero suscitato non pochi dubbi sulla sua veridicità. La Casa Bianca, ad ogni modo, finì per basare la propria versione nuovamente su una serie di menzogne.
Oltre a quelle relative ai fatti avvenuti all’intero dell’abitazione di bin Laden e alla collaborazione delle autorità pakistane, Hersh ha smascherato anche le dichiarazioni fuorvianti circa le modalità con cui gli USA erano arrivati al leader di al-Qaeda e alla sorte riservata al suo cadavere.
Obama aveva sostenuto che a partire dall’agosto del 2010 l’intelligence americana stava seguendo indizi che portavano al presunto “corriere” di bin Laden e controllando i suoi spostamenti era stato possibile individuare l’abitazione di Abbottabad. Per confermare l’esistenza della fantomatica figura del “corriere”, la Casa Bianca avrebbe poi riferito che il suo cadavere era stato rinvenuto dopo la sparatoria all’interno dell’edificio di Abbottabad, nonostante l’unica vittima dell’operazione fosse appunto bin Laden.
Il corpo del terrorista più ricercato del pianeta sarebbe stato infine portato prima in una base militare americana a Jalalabad, in Afghanistan, e poi a bordo della nave da guerra “Carl Vinson” che si trovava nel Mare Arabico settentrionale. Dopo essere stato trattato secondo quanto previsto dalla religione islamica, il cadavere sarebbe stato “seppellito in mare”.
Secondo Hersh e la sua fonte, invece, le cose andarono diversamente. I resti gravemente dilaniati di bin Laden erano stati identificati e fotografati in Afghanistan e poi presi in consegna dalla CIA per essere gettati da un elicottero sulle montagne dell’Hindu Kush.
Le rivelazioni di Seymor Hersh sulla fine di Osama bin Laden confermano dunque ancora una volta come le dichiarazioni rilasciate dal governo americano e le notizie diffuse dalla stampa ufficiale debbano essere prese in ogni occasione quanto meno con le molle, se non come vere e proprie menzogne, soprattutto nei casi legati a questioni controverse o alla “sicurezza nazionale”.
Prevedibilmente, l’indagine di Hersh, poiché basata in buona parte su fonti anonime, è stata subito attaccata dall’amministrazione Obama e da molti giornali “mainstream”, molti dei quali operano da autentiche casse di risonanza della propaganda di Washington, spesso riportando “rivelazioni” utili al governo fornite da fonti anonime all’interno di esso.
Nonostante le critiche subite, Hersh vanta in fin dei conti una credibilità infinitamente superiore a quella dei giornali ufficiali sostanzialmente allineati alle posizioni del governo. L’accuratezza delle sue indagini è confermata da decenni di rivelazioni che hanno alzato il velo sui crimini dell’imperialismo a stelle e strisce, dal massacro di My Lai in Vietnam nel 1968 alle torture dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib nel 2004, fino alla più recente devastante smentita dell’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, impiegate al contrario dai “ribelli” sostenuti dall’Occidente con l’aiuto del governo turco.