di Emy Muzzi

LONDRA. A volte la giustizia agisce con un tempismo eccellente: proprio nel giorno del summit fallito sull’emergenza immigrazione a Bruxelles, l’Alta Corte della Gran Bretagna ha sospeso con effetto immediato la reclusione in centri di detenzione e rimozione degli immigrati illegali ai quali è stata rifiutata la richiesta d’asilo. I centri sono vere e proprie carceri per rifugiati ai quali vengono concessi solo sette giorni per appellarsi all’asilo negato dal Ministero degli Interni britannico e tentare di restare nel paese evitando il rimpatrio nei paesi d’origine, dove nella maggior parte dei casi rischiano la morte.

Contro il verdetto dell’Alta corte il ministero, guidato da Theresa May, si era appellato, ma il ‘fast–track’ anti-rifugiati è stato infine dichiarato un procedimento illegale.

Nel regno di sua maestà i ‘bunker d’accoglienza’ sono 14. Nei loro racconti i reclusi li definiscono ‘peggio di un carcere’, dove gli internati non hanno alcuna libertà individuale, non possono interagire o comunicare con l’esterno, dove trattamento, cibo e condizioni igieniche sono drammatici.

L’isolamento dall’esterno è totale e alla stampa non viene dato accesso; le rare testimonianze sono state raccolte per telefono con speciale autorizzazione. Molti ricordano ancora la tragica protesta nel campo di Harmondsworth, nel Middlesex dove i gli internati dell’ ‘immigration removal centre’ avevano scritto nel cortile la parola ‘HELP’ con asciugamani e vestiti perché la disperata richiesta d’aiuto venisse ripresa dai media.

Se da una parte lo scandalo dei centri di detenzione è finito, almeno nel Regno Unito, dall’altra il governo Cameron ha ottenuto l’esenzione dalla lista (ancora ignota) dei paesi che dovranno accogliere nei prossimi mesi 40mila richiedenti asilo. L’opportunità per il Regno Unito di chiamarsi fuori dalla scomoda lista è prevista dal Trattato di Lisbona, un opt-out sottoscritto anche da Polonia, Danimarca e Repubblica Ceca nella fase di accesso al Trattato.

Infatti, fallita l’opzione quote, con giusto furore dell’Italia che sta fronteggiando, ancora da sola, un’emergenza storica, l’Unione europea procede adesso a tentoni seguendo il principio random del ‘caso per caso’ e tentando una possibile ridistribuzione di migliaia di profughi in maggioranza siriani, afghani, iracheni e kossovari.

Il caso dell’Ungheria e dei 60mila richiedenti asilo nel 2014 (dati Eurostat) ed altri 60mila quest’anno (dati del governo ungherese) è stato archiviato subito con la stessa arbitraria bonarietà con cui Jean Claude Juncker è solito accogliere il dittatore magiaro Victor Orban a Bruxelles con un simpatico e provocatorio schiaffetto sulla guancia ed amichevole stretta di mano, invece di riservare ad un neonazista la freddezza e la distanza che merita.

Lo stesso verdetto dell’Alta corte britannica contro i centri di detenzione dovrebbe essere un monito anche per i giudici ungheresi in giorni in cui ‘il dittatore’ propone il lavoro forzato per i rifugiati detenuti in attesa d’asilo e spinge fuori dal territorio ungherese verso gli altri stati membri migliaia di rifugiati.

Regno Unito ed Ungheria sono due casi limite di una leadership europea inesistente e del malfunzionamento (sia esso voluto o meno) del sistema giudiziario internazionale. Basti pensare alla mancata adesione dell’Unione Europea alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo: l’adesione comporta un conflitto tra la Corte di Giustizia Europea e la Corte Europea per i Diritti Umani (EctHR) che immobilizza il sistema giudiziario a livelllo europeo in termini di garanzia dei diritti umani.

La fase di stallo di questo processo d’integrazione fa sicuramente comodo a qualche membro dell’Unione: primo fra tutti la Gran Bretagna che punta ad una carta dei diritti umani fatta in casa.

L’enigma su quali stati si faranno carico dei 40mila rifugiati e sulla garanzia del rispetto dei loro diritti è sintomatico di una Unione che si affida all’arbitrarietà della politica, del ‘caso per caso’, e non alla coerenza della legge.  

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