di Michele Paris

La crisi generata dall’afflusso di rifugiati in Europa sta producendo in questi giorni un acceso dibattito tra i governi occidentali per promuovere un intervento più incisivo soprattutto in Siria, in modo da affrontare le ragioni dell’esodo in corso. Anche per questo motivo, il governo americano ha fatto sapere di volere rivedere il fallimentare piano di addestramento dei “ribelli” anti-Assad da spedire sul fronte siriano, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS).

L’intenzione di modificare le procedure di selezione e preparazione alla battaglia dei membri dell’opposizione armata al regime di Damasco è la conseguenza del misero numero di combattenti uscito finora dal programma di addestramento condotto dalle Forze Speciali USA.

A questo scopo, l’amministrazione Obama lo scorso anno aveva ottenuto dal Congresso lo stanziamento di ben 500 milioni di dollari, in previsione di mettere assieme circa 5 mila uomini da impiegare in territorio siriano contro l’ISIS.

Lo sforzo è tuttavia fallito miseramente, producendo solo qualche decina di militanti. Oltretutto, questi ultimi sono stati mandati allo sbaraglio e nel mese di luglio un gruppo di una sessantina di “ribelli” è subito finito sotto un attacco da parte dell’organizzazione affiliata ad al-Qaeda in Siria - il Fronte al-Nusra - che ha di fatto sciolto il modesto contingente a libro paga di Washington.

Lo scarsissimo successo del programma americano è dovuto all’estrema difficoltà nel trovare uomini in grado di superare i criteri di selezione fissati dal governo USA, in particolare riguardo le simpatie fondamentaliste. In altre parole, l’ambizioso progetto di Obama di favorire una sorta di nuovo esercito di “ribelli” moderati ben addestrati ed equipaggiati per sconfiggere l’ISIS è naufragato di fronte alla quasi impossibilità di individuare candidati pronti a sposare i valori delle “democrazie” occidentali.

Tra gli altri problemi incontrati dagli addestratori, secondo il New York Times, ci sarebbe anche l’assenza di qualsiasi genere di sostegno o consenso raccolto dai pochi arruolati tra la popolazione siriana, a conferma del fatto che l’esistenza di una presunta rivoluzione popolare contro Assad, tuttora in atto in Siria dietro il conflitto legato al fondamentalismo sunnita, non è altro che una fantasia propagandata dai governi occidentali.

Le soluzioni prospettate dal Pentagono, oltre ai prevedibili miglioramenti logistici, sembrano non lasciare dubbi sulla necessità di allentare la rigidità dei requisiti richiesti ai combattenti per entrare nel programma di addestramento. Anche se, prevedibilmente, ciò non viene mai affermato in maniera esplicita, dal già citato articolo del Times traspare come a Washington sia allo studio un approccio più indulgente verso i simpatizzanti jihadisti.

In vista, secondo alcuni osservatori, ci sarebbe una qualche forma di integrazione del Fronte al-Nusra nella guerra patrocinata dall’Occidente contro l’ISIS e, di riflesso, contro Assad. Il giornale newyorchese riporta ad esempio come due comandanti dei minuscoli gruppi addestrati dagli USA e inviati in Siria lo scorso 30 luglio fossero entrati in questo paese con il preciso scopo di incontrare i leader del Fronte al-Nusra per cercare un qualche accomodamento, assicurando alla succursale qaedista che il loro compito era esclusivamente quello di combattere l’ISIS.

Inoltre, qualche giorno fa il generale in pensione David Petraeus, ex direttore della CIA ed ex comandante delle forze USA in Medio Oriente, nonché consulente militare dell’amministrazione Obama, aveva invitato pubblicamente il suo governo a prendere in considerazione proprio l’integrazione degli uomini del Fronte al-Nusra nella guerra all’ISIS, nonostante più di un decennio di propaganda anti-terrorismo che ha dipinto al-Qaeda come il nemico giurato della civilta occidentale.

In maniera clandestina, peraltro, gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a sostenere finanziariamente e militarmente le forze di opposizione, tra l’altro con un programma di addestramento parallelo operato dalla CIA che, con ogni probabilità, coinvolge un numero imprecisato di guerriglieri non esattamente moderati.

Più in generale, secondo i media ufficiali e i governi, il persistere del conflitto in Siria e la situazione esplosiva dei rifugiati di questo paese sarebbero la conseguenza di un approccio troppo distaccato da parte dell’Occidente.

A questo presunto disinteresse per le vicende siriane andrebbe messa una fine, neutralizzando sia l’ISIS sia, soprattutto, il regime di Damasco, considerato assurdamente come la causa del dilagare del fondamentalismo violento in Siria, con iniziative come una no-fly zone o un attacco frontale contro le forze governative.

Al contrario, il disastro umanitario nel paese mediorientale è esattamente la conseguenza delle manovre fin troppo invasive dei governi occidentali e dei loro alleati in Medio Oriente, i quali continuano a far piovere armi e denaro sulle varie formazioni in lotta in Siria con l’obiettivo di rimuovere il regime, responsabile non tanto di violazioni dei diritti democratici del suo popolo, bensì di essere allineato alla resistenza anti-americana nella regione.

Ciò che si prospetta, come previsto da tempo e scandalosamente ancora una volta in nome di ragioni umanitarie, è quindi un intensificarsi dell’impegno occidentale in Siria, con la conseguenza non di mettere fine alla devastazione e alla sofferenza della popolazione civile ma di moltiplicarle esponenzialmente.

La competizione per la Siria si è poi aggravata sempre nei giorni scorsi in seguito ad alcune dichiarazioni del presidente russo Putin, lette dai giornali americani come la prova delle intenzioni di Mosca di intervenire militarmente in Siria a fianco di Assad.

Parlando nel corso di un forum economico a Vladivostok, Putin ha sottolineato l’inefficacia dei bombardamenti americani contro l’ISIS, lasciando intendere secondo alcuni un possibile futuro intervento a sostegno dell’alleato Assad. A ciò si sono aggiunte voci fatte circolare dall’intelligence USA circa presunti movimenti presso la base militare russa di Latakia, sulla costa mediterranea della Siria, che farebbero presagire l’invio di un migliaio di uomini.

Come al solito senza traccia di imbarazzo, visto il ruolo distruttivo di Washington nelle vicende siriane e non solo, il governo USA ha immediatamente ammonito Mosca a evitare mosse che potrebbero determinare un’escalation dello scontro, se non un confronto diretto delle forze russe con quelle della “coalizione” guidata dagli americani contro l’ISIS in Siria.

Se l’intensificazione degli assalti contro Assad rende non troppo remota l’ipotesi di un impegno diretto della Russia a difesa dell’alleato, al momento non sembrano comunque esserci segnali concreti di un imminente coinvolgimento delle forze del Cremlino in Siria.

Alla luce del caos generato in gran parte da essi stessi in questo paese, gli Stati Uniti appaiono però estremamente nervosi, viste le difficoltà a leggere il grado di sostegno tuttora assicurato da Mosca - o da Teheran - al regime di Damasco, tanto più che Putin continua ad adoperarsi per una difficilissima soluzione diplomatica alla crisi in Siria dopo i fallimenti degli sforzi guidati dall’Occidente.

Un altro chiaro segnale dell’attitudine americana verso la Russia è emerso infine dalle rivelazioni del ministero degli Esteri greco, il quale ha reso noto nel fine settimana come Washington abbia chiesto ad Atene di negare il permesso di sorvolare lo spazio aereo greco ai velivoli russi diretti in Siria. Secondo l’agenzia di stampa russa RIA Novosti, Mosca avrebbe chiesto alla Grecia di potere usare il proprio spazio aereo per voli umanitari diretti in Siria nel mese di settembre e Atene, almeno per il momento, avrebbe risposto positivamente.

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