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di Emanuela Pessina
BERLINO. Un nuovo vento femminista sta attraversando il Vecchio continente da nord a sud e, a quanto pare, ha raggiunto anche l’Italia, dove si discuterà in questi giorni in Senato per l’eventuale introduzione delle quote rosa ai vertici dell’economia. Inevitabile il confronto con gli altri Stati europei, in particolare con la Norvegia, dove la misura è stata applicata già da qualche anno, e dove si cominciano ad analizzare i primi risultati. Rimane ancora da chiarire quanto le quote di genere possano essere effettivamente aiutare il genere femminile del Belpaese, una società in cui le donne si trovano ancora oggi a combattere con l’immagine di sé stesse.
La Norvegia ha scelto di applicare le quote rosa nei consigli di amministrazione delle società già dal 2006. Qui, la legge prevede che le aziende quotate in Borsa abbiano una direzione composta al 40% da donne. Oslo è intransigente e non ammette eccezioni: i gruppi finanziari che non riescono a conformarsi a quest’ordinamento tutto al femminile, rischiano di chiudere i battenti. E ora, dopo cinque anni, ai sociologi il compito di tirare le prime conclusioni.
Tanto per cominciare, la radicale riorganizzazione dei Cda secondo le quote rosa non ha portato, in Norvegia, alle trasformazioni catastrofiche che i più pessimisti vagheggiavano. Le aziende di successo hanno sofferto leggermente all’inizio per poi riprendersi molto velocemente, osservano gli studiosi, mentre i gruppi che navigavano in cattive acque ci hanno soltanto guadagnato.
Certo, lo stile di direzione non è cambiato, si affrettano a spiegare i sociologi: sono poche le donne che hanno tentato o proposto una linea amministrativa completamente diversa da quella che c’era. Punto fondamentale, decisamente a favore, sembra che il gentil sesso abbia dato nuovi spunti alla discussione culturale e sociale ai vertici dell’economia. A conti fatti, insomma, una rivoluzione percettibilmente positiva.
Ma non è tutto. Le statistiche norvegesi segnalano una quantità d’imprenditrici che, già ora, vantano un susseguirsi di ruoli di primo piano nella direzione di varie aziende. Carriere ineccepibili e fulminee, apprezzano i sociologi: alcune personalità femminili siedono contemporaneamente nei Cda di più società e godono di privilegi di cui hanno goduto finora soltanto (pochi) uomini. Gli esperti intravedono il prototipo di una nuova generazione di donna d’affari, sicura di sé e cosciente del proprio potere e l’inizio di una parità dei sessi vera e propria. Anche perché, per gli uomini della finanza, appartenere ai direttivi di più aziende è ordinaria quotidianità.
Eppure, a qualcuno i risultati appaiono fin troppo clamorosi se si pensano riferiti a un solo quinquennio: le norvegesi che hanno presieduto in più Cda si sono già attirate l’attenzione negativa della stampa e il soprannome sarcastico di Gullskjortene, le gonnelline d’oro. Per i più scettici, l’incredibile e innaturale performance di queste signore non è altro che la prova tangibile della faziosità della linea politica imposta dalle quote rosa: obbligare un’azienda a un nucleo direzionale costituito quasi per la metà da donne non può che portare a un femminismo direzionale di stato. Sarà una semplice espressione dell’invidia degli uomini, o la critica va a snocciolare un metodo sbagliato di risolvere una differenza che ci trasciniamo da generazioni e generazioni?
Pioniera nell’introduzione delle quote di genere, la Norvegia funge ora da campo di prova per gli economisti e i femministi di tutto il mondo. Qui si raccolgono i primi frutti di una decisione politica a tutti gli effetti e il destino del Paese nordico potrebbe segnare il passo anche per il resto d’Europa. La Francia e il Belgio hanno introdotto un sistema di quote rosa rispettivamente nel 1999 e nel 2002, ma si è trattato più che altro di norme che hanno riformato le candidature in ambito politico. E’ di quest’anno l’estensione della proposta delle quote rosa ai Cda delle società, private o pubbliche che siano: e ora, in Francia, i direttivi delle aziende con più di 500 dipendenti hanno tempo fino al 2017 per adeguarsi.
Tentativi di quote di genere sono stati fatti anche in Spagna, Portogallo e Slovenia, mentre in Germania la discussione occupa le prime pagine di tutti i giornali da ormai qualche settimana. Da sottolineare che, nel frattempo, ai vertici della Bundesbank tedesca è stata eletta una donna: la nuova vicepresidentessa della Banca federale si chiama Sabine Lautenschlaeger ed è la prima donna nella storia del paese a ricoprire tale carica. Senza contare la Cancelliera Angela Merkel, figura chiave della politica tedesca ed europea già da quasi un decennio che, per certi versi, va a rassicurare le aspettative professionali delle donne tedesche.
E ora, con qualche anno di ritardo, il dibattito sulle quote rosa sembra aver raggiunto anche l’Italia. Questa settimana si discuterà in Senato il disegno di legge Golfo-Mosca, che prevede consigli e collegi sindacali di società quotate e statali composti per un terzo dal gentil sesso. Anche se i diritti delle donne sono uno di quei beni poco adatti all’export, e già ci si chiede se il popolo femminile del Belpaese abbia le basi sociali per usufruire veramente di una riforma dell’economia incentrata sulle quote rosa.
Per quel che riguarda i diritti delle donne, la Norvegia è stata da sempre all’avanguardia. Il diritto al voto è stato introdotto per il popolo femminile nel 1913 e, da oltre vent’anni, lo Stato paga alle neomamme uno stipendio dell’80% per gli anni di maternità previsti. In Norvegia, le quote rosa sono il fiore all’occhiello di una società abituata a stimare il gentil sesso da diversi decenni non soltanto in funzione del lato b, una delle qualità che sembrano più apprezzate invece in Italia.
Nel Belpaese, probabilmente, il genere femminile ha problematiche più basilari da risolvere prima di arrivare alle quote di genere. Come scrollarsi di dosso il ruolo che il sistema mediatico italiano - in testa la televisione commerciale - gli attribuisce da trent’anni a questa parte. Trasformate lentamente negli oggetti di spettacolo più proficui del mondo televisivo, sembra che le donne italiane comincino solo adesso a risentirsene veramente. Perché ora, forse, si cominciano a intravederne gli effetti concretamente e in maniera assordante.
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di Rosa Ana De Santis
Non appena sembra che la Chiesa Cattolica affronti delle aperture culturali significative, la sua condotta pubblica torna ad essere avvizzita nelle formule della più ridicola Controriforma. Questo Papa ci ha abituati a meno spettacolo, a più rigore di forma e dottrina e ad abbandonare letture ingenue e frettolose interpretazioni della sua pastorale. Una figura decisamente più ricca di sfumature e potenzialità di quanto non avesse la più immediata missione anticomunista di Wojtyla.
Eppure, mentre qualche giorno fa la stampa accoglieva la notizia delle norme antiriciclaggio imposte allo Ior, oggi deve ribadire, con una compassione di fondo, la condanna del Papa all’educazione sessuale e civile nelle scuole. Troppo laiche e con troppo Stato, secondo lui. Peccato che non si tratti di scuole private religiose e che il monopolio dello Stato non sia il frutto di un’intromissione carbonara, ma di un diritto costituzionale. E’ piuttosto, vale la pena ricordarlo, l’ora di catechismo a rappresentare un’indebita forzatura nel programma laico delle scuole pubbliche, che solo un Ministro come la Gelmini poteva rendere ancor più grave, consentendo che una materia di questo tipo potesse fare media e sommandoci l’imposizione del crocefisso in classe, con tanto di ricorso a Strasburgo.
Ratzinger accusa la presunta educazione laica di essere falsamente neutra e di ledere la tutela della religione e della comunità cristiana. L’atroce attentato nella chiesa d’Egitto aiuta a rendere lo scenario emotivo al punto giusto. Se la Chiesa perde anime, non è colpa dell’illuminismo di Stato, che mai come nel caso della nostra Repubblica, è pavido ed esangue, quanto forse per l’incapacità della Chiesa di essere vicina alla sensibilità e alla vita delle nuove generazioni. Quelle per le quali il Papa vede pericolosa l’educazione sessuale e civile.
Il rischio sarebbe quello di aiutare i giovani a crescere come persone responsabili, autocentrate e consapevoli della propria esistenza. Non è più allarmante pensare che i nostri adolescenti, come testimoniano i dati della Sigo (la Società italiana di Ginecologia), siano del tutto incapaci di tutelare la propria salute nei rapporti sessuali? L’ignoranza che porta le giovanissime a ricorrere in massa alla pillola del giorno dopo, i rimedi della Coca Cola o le gravidanze scoperte dopo mesi di gestazione, dovrebbero lanciare un allarme sull’urgenza di farla meglio e di più questa educazione, soprattutto in Italia.
Persino più grave il sospetto sull’educazione civile. Qui non è possibile riconoscere nemmeno l’attenuante della viscerale sessuofobia che affligge una Chiesa di uomini costretti, per dogma storico, ad una castrazione fisica. In questo caso c’è un disegno dai contorni molto inquietanti che pone ancora la Chiesa in conflitto con lo Stato. La cosiddetta educazione civile è quella che rende i nostri ragazzi edotti sui diritti e i doveri. Sullo spirito fondante degli Stati liberali moderni e sui peccati originali degli Stati religiosi da cui, almeno l’Occidente, si è affrancato. Eccezion fatta per lo Stato del Vaticano. L’idea sommersa che conoscere il diritto del divorzio o, dove esistono, i diritti delle coppie di fatto - solo per fare alcuni esempi - sia un incentivo o un’istigazione all’abbandono della fede, è tanto falso quanto ingenuo.
Nessuno impedisce alla Chiesa di fare la propria evangelizzazione o di testimoniare la propria visione del mondo. Possiamo certamente dire che la persecuzione dei cristiani non è planetaria e che dove questo grave problema è presente, la questione è più politica che religiosa, più legata al reale esercizio delle libertà individuali che non all’educazione sessuale o a quella civica. Per questa ragione non è onesto l’utilizzo strumentale di alcune tragedie terroristiche per pensare di poter prendere a prestito lo Stato e le sue istituzioni e perorare la causa di un banale catechismo di massa. Una campagna elettorale per le anime. Non si possono criticare le forme di alcuni Stati teocratici musulmani e poi svelare una nostalgia per quel perduto potere temporale. Non è così che torneremo ad essere più cristiani, nella fede o nella sensibilità morale.
L’ammonizione del Santo Padre è un pietoso inno alla regressione. E diventa ancora più difficile da comprendere a poco tempo dall’apertura sul profilattico come misura di emergenza per frenare l’HIV e responsabilizzare le relazioni sessuali. Un errore di traduzione, era stato detto subito, un passo falso, trattato e ritrattato mille volte. Come se non dovesse cambiare mai nulla dietro la porta di San Pietro, né fuori. Nonostante i secoli e la storia, siamo ancora a ragionare di quanto la fede sia nemica della conoscenza e di quanto la Chiesa mal sopporti il potere dello Stato. Come se Galileo Galilei o Cavour fossero passati invano.
Del resto è tutto possibile in un Paese che mette i pochi soldi che ha nelle scuole cattoliche e che usa quelle pubbliche come se fossero parimenti religiose. E’ così che è iniziato un nuovo gioco al rialzo per il Vaticano. Uno slittamento continuo e confuso tra laico e religioso che, mentre forma cittadini peggiori e meno preparati, non riempirà le Chiese di anime. Perché il Santo Padre sa bene che il lavoro di Dio non è mai stato quello di Cesare.
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di Rosa Ana De Santis
Diciannove anni e incensurato, Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo 2009. Suicidio, dissero le fonti ufficiali. Si sarebbe appeso al letto a castello della cella, per poi impiccarsi con il lenzuolo. Un ragazzo alto 175 cm dondolante su un letto alto 170. Il corpo scoperto alle 12.35. Il verbale del pronto soccorso che registra invece l’arrivo del cadavere alle 12.30. Sono solo alcune delle incongruenze che hanno spinto le associazioni Antigone e A buon diritto a presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Catania per accertare la verità dei fatti.
Molte le lacune e troppa la fretta di chiudere le indagini, lasciando i familiari di Carmelo senza risposte. Sono proprio loro a vedere Carmelo all’uscita della Caserma di Paternò, subito dopo l’arresto, per aver fatto il palo in una rapina in tabaccheria di Biancavilla. E qualcosa già non va. Il suo volto è gonfio, evidenti sono i segni pesanti delle botte. Le labbra ferite, gli occhi gonfi, le orecchie strappate. Anche le foto scattate all’ingresso in carcere non lasciano dubbi. Di questi fatti non c’è traccia nelle indagini e una nuova perizia servirà a verificare cosa ha subito Carmelo nei quattro misteriosi giorni, dall’arresto alla morte.
Ai familiari viene negato ogni diritto di visita nel carcere di Piazza Lanza di Catania perché - viene loro riferito dalla polizia penitenziaria - Carmelo è in isolamento. Come il peggiore dei criminali e senza che ce ne sia traccia sulle carte della pratica giudiziaria che lo riguarda. Quel poco che è scritto su di lui lo descrive come un giovanotto finito in un giro sbagliato. Non avrebbe dato segni di azioni “anticonservative” e si definiva quasi “costretto” a delinquere da una banda di criminali in cui si era infilato.
Ad oggi ci sono state tre interrogazioni parlamentari, cadute nel vuoto. Ma la famiglia di Carmelo non si rassegna, la madre Graziella in prima linea. Le lacune delle indagini (non è stata nemmeno sequestrata la cella), gli abusi (come il diritto di visita negato) e le violenze subite documentate sono gli strumenti principali e fortissimi di questa indagine per la verità, che purtroppo subirà tutta l’omertà e le coperture cui ci hanno abituato queste vicende.
Tutto lascia pensare che la morte di Carmelo non sia stata raccontata tutta. Rimangono troppi dubbi. La famiglia non ritiene possibile che abbia fatto tutto da solo. E poi un suicida morto per asfissia che non ha sangue negli arti inferiori, che prima di uccidersi consuma un pasto abbondante (nemmeno digerito, ponendo più di una domanda sull’orario della morte e quello in cui si distribuisce il vitto) e che, moribond, viene caricato su un auto di servizio, è troppo strano. Il tutto con l’aggravante di botte e violenza che sembrano esser diventata prassi ordinaria al momento dell’arresto.
Roba normale, che non fa notizia e che non trova, nei casi di Carmelo come in quello di Cucchi, nemmeno la motivazione del criminale efferato e resistente. Tutt’altro. Carmelo è anzi un giovane intimorito, che vive nell’angoscia di non potersi liberare da questo circolo di malavitosi che l’ha quasi cooptato con le minacce e l’aggressione fisica. Ha paura di raccontare. E questo è evidentemente diventato un comodo argomento per avallare in fretta il teorema del suicidio. Un po’ troppo comodo e un po’ troppo veloce per poterci convincere che labbra ferite e vestiti sporchi di sangue, l’isolamento patito in carcere, l’impiccagione anomala, siano tutto quello che dobbiamo credere sulla morte di un giovanotto preso per una “ragazzata”, come l’avevano definita alla madre le forze dell’ordine al momento dell’arresto.
Ora si combatte per impedire l’archiviazione del caso, per sfidare il silenzio di un altro carcere che ha restituito un figlio in una bara. Un errore di ragazzo che poteva essere recuperato. Ma non c’è stato tempo, né modo di rieducare una vita che aveva preso una direzione sbagliata. Perché Carmelo è morto in fretta. Appeso ad un lenzuolo, come recitano le indagini. Un lenzuolo che non si è trovato più.
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di Rosa Ana De Santis
Basta guardare per pochi minuti quel manifesto che ha tappezzato le strade di Avetrana per capire che Sarah non c’entra. L’associazione della memoria che porta il suo nome (fondata dal fratello Claudio Scazzi) cui sarà devoluto il ricavato del calendario e del cd dedicato ai piccoli randagi, è diventata la molla di un’attrazione mediatica. L’ennesima. Lustrini “acchiappa pubblico”, giovanissime scalmanate e affamati di notorietà per accogliere Giovanni Conversano, celebre tronista laccato di Canale 5. Gli amici di Claudio e l’amministrazione comunale si difendono dalle critiche sostenendo che il bel tronista si sarebbe impegnato in prima fila in questo progetto animalista, che tanto stava a cuore a Sarah.
Oggi il grande giorno nell’Oratorio del paese, mentre il presidente della Pro-Loco s’infuria per questa grottesca volgarizzazione cui il Comune avrebbe dovuto sottrarsi, lasciando la memoria di Sarah in pace. La vicenda di Avetrana ci ha abituati a questa invasione della tv, fin dagli inizi. Dalla scoperta del corpo andata in onda in prima serata, alle interviste della cugina e dello zio. I carnefici in tutte le salse e le lacrime. Per poi arrivare agli amici della comitiva incriminata e alla casa degli orrori transennata a fatica sotto l’onda degli scatti fotografici e delle telecamere.
Tv e gente comune stipata insieme davanti allo stesso show. Infine lui, il fratello. Che grida giustizia dal palcoscenico della trasmissione "Quarto Grado", che a "Domenica Cinque" ribadisce di non voler dare in pasto la vicenda di Sarah ai talk-show televisivi, mentre solo qualche mese prima aveva contattato Lele Mora, incassando una sonora bocciatura, per poter fare qualcosa in tv. Sosteneva di avere tante potenzialità, ma in ordine sparso e senza particolari passioni, tantomeno preparazione. Comparsate, reality, serate discotecare, opinionista senza titolo.
Tutto buono per uno venuto alla ribalta in fretta e in furia solo perché fratello di Sarah Scazzi, la ragazzina assassinata. Se nelle prime fasi della vicenda l’uso della televisione era stato strumentale (soprattutto per l’insospettabile cugina diabolica) per poi diventare morbosa attrazione collettiva, lo sfruttamento della memoria per la popolarità è ancora più odioso. Inutile dire che le istituzioni di Avetrana avrebbero dovuto convincere Claudio e i suoi consiglieri ad agire diversamente e, anche fosse vera la sponsorizzazione dei 12 artisti del progetto per Sara, a non acclamare lo special guest con tanto di foto immagine in prima pagina.
La memoria ha un suo stile e un suo registro narrativo. Quel volantino, persino nella forme e nella grafica, somiglia all’ ingresso gratuito con bevuta inclusa per una discoteca. I colori, i titoli e le foto non hanno niente che faccia pensare a un’iniziativa di valore sociale, tantomeno alla narrativa del ricordo. Ma forse Claudio avrà chiesto consiglio a Fabrizio Corona, visto che anche Belen è sponsor del calendario.
Perde infatti ogni tentativo di serietà e credibilità l’impegno della memoria con la faccia del tronista sbattuta sulla prima pagina dell’invito. Arriva come un pugno in faccia Giovanni Conversano, perché il tronista va bene vederlo contornato di donne svestite e più o meno fintamente eccitate, alle ospitate televisive di Barbara d’Urso, ma non nelle sedi dell’impegno sociale o in un’associazione nata per onorare una piccola vittima assassinata. Che partecipasse pure la creatura del laboratorio di Uomini e Donne insieme a tutti gli altri cittadini, ma senza foto e nome esibiti nello stile di un calendario o di un book per il casting.
Perché questo offende il ricordo di Sarah, la gravità e il dolore della fine che l’ha strappata alla vita e il pudore del silenzio in cui la sua famiglia avrebbe dovuto vegliarla. Senza svenderla, come del resto non ha saputo fare nemmeno quando era in vita o già cadavere in un pozzo. Senza usarla, com’è accaduto qualche giorno fa in una discoteca milanese. Anche lì il calendario dei cuccioli randagi in memoria di Sarah è stato presentato. Tra una cubista e un pezzo techno, mentre la vicenda giudiziaria avanza faticosamente nella ricostruzione di moventi e arma. Mentre zio e cugina si lanciano addosso accuse e lettere.
Zitti e immobili se ne stanno il padre di Sarah e la madre Concetta. I suoi occhi stralunati ci hanno abituato a quest’assenza. Lei che abbraccia la sorella Cosima come per scagionarla da ogni sospetto, come se le bastasse accontentarsi di un brandello di verità. Una pallida ombra di giustizia.
Silenzio nella famiglia, mentre nessuno ferma le rumorose pubbliche relazioni di Claudio. Nessuno gli insegna che il ricordo di una morte così atroce, attaccata alle viscere di una famiglia, non può essere banalizzata con serate e inviti mondani. Che la piccola sorella uccisa non va esibita come in un gran galà della memoria. Il racconto di un dolore privato può dare un significato all’assurdo e può dare conforto, se sceglie di non prendere a prestito la spazzatura di tanta cattiva tv e di una mondanità volgare ed effimera che nulla può dirci sulla serietà degli affetti e dei sentimenti.
Perché non è degna, né dignitosa. Perché altrimenti viene il sospetto che Sarah sia diventata solo la madrina assente di un successo macabro. Un reality nemmeno nato per lei, ma su di lei. Che la sta seppellendo un’altra volta davanti a tutti.
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di Mario Braconi
La Costituzione e le leggi italiane in materia di detenzione sono illuminanti: basta scorrere l’Art. 27 della Carta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Oppure si può leggere l’Art. 1 della Legge n. 354 del 26 luglio 1975: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. [...] Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari”.
Il caso di Fernando Paniccia, ventisettenne di Frosinone morto il 27 dicembre nel carcere di Sanremo (pare per arresto cardiaco) è emblematica di quanto, al di là delle nobili intenzioni, la legge, nei fattia sia rimasta pura enunciazione di principio. In effetti, la morte in carcere di Paniccia, un metro e novanta di altezza per 186 chilogrammi, epilettico, invalido al 100% e gravemente ritardato (e quindi per definizione incapace di intendere e di volere) é il capolavoro di un sistema infame, feroce, classista.
Nel mondo reale non è vero (come pure pretenderebbe la legge) che il “trattamento” carcerario viene applicato in modo indiscriminato a tutti i condannati. Paniccia, ad esempio, ha iniziato la sua “carriera” di carcerato nel 2003, a seguito di un brillante arresto messo a segno dai militari dell’Arma in flagranza di reato: il ragazzo aveva infatti sottratto tre palloni di cuoio da un centro sportivo dove si era recato, assieme al fratello, a svolgere dei lavori di manutenzione. Niente meno.
Un episodio che, con al sua crudele ironia, ricorda che la giustizia somministrata dallo Stato finisce per essere (non da ora e non solo da noi) un fatto di classe: essa è infatti tanto rigorosa con ritardati, sans-papier, tossicodipendenti, poveri - in una parola, con gli ultimi - quanto permissiva con i potenti, quelli che hanno i mezzi per assicurarsi i servigi di un abile avvocato, quando non arrivano addirittura (anomalia tutta italica questa) a scriversi qualche legge su misura per evitare la galera o anche solo per evitare di pagare le tasse.
Sarebbe interessante capire in base a quale abominio burocratico una persona disabile come Paniccia sia stata rinchiusa (e sia rimasta sepolta) in carcere: non solo infatti lo impedirebbero (oltre al buonsenso) la Costituzione e la legge 354/1975, non potendosi considerare in questo caso la reclusione compatibile con “il senso di umanità”, ma anche due articoli dell’Ordinamento Penitenziario (O.P.). Come ricorda infatti Francesco Morelli di "Ristretti Orizzonti" (ONG che si occupa del mondo carcerario), l’art. 47 ter dell’O.P., tra gli altri casi, prevede la carcerazione domiciliare per le persone condannate a pena detentiva residua di meno di quattro anni “in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali”; mentre l’art 11 lascia intendere che possa essere perfino il direttore del carcere a disporre il trasferimento di un detenuto in luogo di cura esterno “nei casi di assoluta urgenza”.
Per quanto possa sembrare incredibile, in Italia vi sono almeno 500 persone nelle stesse condizioni di Paniccia: detenuti a dispetto della loro disabilità. Il numero sarebbe in sé già abbastanza preoccupante, se non fosse necessario registrare una circostanza ancor più grave: la palese indifferenza dello Stato di fronte a questa vergogna. Pare infatti che le statistiche sui disabili in carcere siano ferme al 2008; le schede relative alle rilevazioni del 2009 sono state sì somministrate ai vari istituti di pena per la compilazione, ma poi non se ne è fatto più nulla. Non solo, insomma, chi dovrebbe punire i criminali si comporta da criminale, ma non sente alcun impulso ad emendarsi.
Del resto la situazione delle carceri italiane è ormai fuori controllo, come racconta la fotografia scattata dalla ONG Antigone a fine ottobre, in occasione della pubblicazione del suo Settimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia: 69.000 detenuti a fronte di una capacità di “accoglienza” pari a 45.000 unità.
Il che significa che nelle carceri italiche è stipato un numero di prigioneri pari ad una volta e mezza la capienza massima; poco meno della metà (il 44%) di loro è imputata (!), mentre il 22% è in attesa di giudizio; oltre il 40% è coinvolto in vicende di droga (dato, questo, più eloquente di qualsiasi comizio anti-proibizionista).
C’è anche chi non ce la fa ad uscirne vivo: 55 sono stati i suicidi, cui si devono aggiungere quelli registrati tra le guardie carcerarie (4 da inizio del 2010 secondo i radicali), mentre le morti per cause “da accertare”, ad agosto, erano già più di 100.
Qualcuno ne parla? Mica tanto. All’onore delle cronache sono assurti solo alcuni casi particolarmente clamorosi, le cui vittime erano italiani con una famiglia o degli amici in grado di fare un po’ di rumore sui media, anche se troppo tardi. Una piccola “chicca” riguarda i bambini: sono in 57, al di sotto dei 3 anni, a trovarsi nelle galere nostrane.
Un autentico disastro, che però fa poco notizia in un Paese che le chiacchiere senza costrutto hanno stordito al punto da fargli perdere ogni senso delle priorità politiche, quindi umane. Un po’ come è successo, per un attimo, quando è toccato a Paniccia, ladro di palloni.