di Rosa Ana de Santis

I numeri emersi dal rapporto della Commissione dell’episcopato belga sugli abusi sessuali, compiuti da sacerdoti ai danni di bambini e adolescenti, suscitano orrore. Tredici suicidi, ragazzi che non ce l’hanno fatta a sopportare lo schifo, il dolore, l’orrore. E poi centoventiquattro testimonianze di vittime, ferite ancora aperte nella vita di questi innocenti stuprati nelle sacrestie o negli oratori. Del tutto assenti, dalle pagine del rapporto, le parole degli autori delle violenze. Abituati a declamare dal pulpito, risultano muti davanti agli inquirenti.

Del tutto assente la responsabilità dell’episcopato. Quella che sembra infatti un’opera di trasparenza e di cordoglio, a parte stabilire le scuse e la solidarietà alle vittime, non fa alcun mea culpa di sistema, non racconta quello che le autorità ecclesiastiche sapevano e hanno nascosto. Molti di questi preti, infatti, sono stati aiutati a nascondersi dalla giustizia, a ritirarsi in convento quando è andata bene. Molte le vittime manipolate e dissuase dall’iniziativa legale. Pochissimi quelli che hanno pagato davanti alla legge, mentre di quella di dio non si hanno notizie.

Il lavoro del prof. Adriaennsens, il neuropsichiatra che ha curato l’analisi delle scioccanti testimonianze, rimane monco della parte fondamentale legata alle sanzioni e alla giustizia, soprattutto perché la magistratura ha invalidato - questa la vera notizia dietro i numeri - le perquisizioni cui mesi fa era stato sottoposto l’episcopato belga. E proprio allora la Chiesa, che ora si definisce assetata di verità e giustizia, aveva usato, attraverso Papa Benedetto XVI, parole di durissima condanna per un’azione legale dovuta che certamente non aveva usato i toni e i modi con cui i vescovi erano soliti accomodare gli scandali sotto le tonache. La giustizia di Stato e quella della Chiesa, era evidente alla Santa Sede, non avrebbero riservato lo stesso trattamento ai ministri di dio. Un’invadenza insopportabile per i privilegiati del diritto canonico.

Sembra inoltre che la Chiesa, oltre a garantire de facto l’impunità dei carnefici, abbia tollerato la solitudine spietata delle vittime. Sono i suicidi a evidenziarlo. Una doppia colpevolezza che rende incredibile, ridicolo, qualsiasi appunto sulla modalità operativa con cui la magistratura è entrata nella cattedrale di Malines. Eppure allora i vescovi avevano pensato, addirittura, di intraprendere un’azione legale contro gli inquirenti che avevano osato profanare sacri sepolcri e tesori religiosi.

E lo zelo della perquisizione doveva apparire a tutti spropositato per un fenomeno, quello della pedofilia, che la Chiesa aveva sempre raccontato come marginale, anche se i casi e le testimonianze che ora affiorano - dopo anni e da più parti - portano a pensare il contrario. Dagli Usa all'Europa, il crimine pare molto più diffuso di quanto ammettano le gerarchie e di quanto siano disposti a verificare i governi compiacenti.

Soprattutto, poi, se poche sono le denunce delle vittime e zero la possibilità di entrare negli archivi del silenzio. Basta pensare a uno dei casi di cui si è parlato, non moltissimo a dire il vero, in Italia. Il giustiziere degli angeli, al secolo Elio Cantini, prete di parrocchia che ha usato violenza indisturbato dal 1973 al 1987, è stato ora ridotto allo stato laicale solo grazie alla faticosa a osteggiatissima battaglia intrapresa dalle sue vittime, non credute per anni.

“Sii te stessa” diceva l’orco alle sue vittime, convincendole a credere di voler desiderare lo stupro, mentre le metteva in braccio o le molestava o pretendeva rapporti orali. Di fronte a questi lupi famelici, invece di invocare i guanti bianchi e i permessi, le Chiese dovrebbero scegliere di essere spalancate alla giustizia. La verità non sta nella fede, ma nelle prove. Della prima sono esperti, delle seconde manipolatori. E quindi vanno da Ponzio Pilato a chiedere la scappatoia o la pena più leggera, quando non provano a farla franca del tutto. Come tutti i potenti ritengono di essere ingiudicabili. Che ne penserebbe il loro dio che da innocente si è fatto inchiodare ad una croce?.

di Mario Braconi

Quella per il BlackBerry, il primo cellulare al mondo a fornire accesso alla casella di posta elettronica, sta diventando per alcuni governi una vera ossessione: solo nelle ultime settimane, ben tre stati hanno attaccato a testa bassa RIM (Research In Motion), la società canadese che produce i terminali un tempo contraddistinti dal colore e dalla forma di una mora - blackberry, appunto.

Ad aprire le danze di guerra, gli Emirati Arabi Uniti, che a fine luglio, hanno reso noto al mondo che, causa risposte inadeguate di RIM ad una serie di questioni di sicurezza relative ai dispositivi, da ottobre, all’interno dei confini del Regno, l’accesso alla Rete verrà impedito a tutti i telefonini BlackBerry. Cosa che impedirà agli utenti di utilizzare i servizi di lettura e-mail, SMS e navigazione su Internet, trasformando così il potente terminale in un semplice cellulare (peraltro ingombrante, dato che dispone di tastiera QWERTY, cioè simile a quella di un computer, e di un display relativamente ampio).

Immediatamente dopo è arrivata l’Arabia Saudita che, citando identiche motivazioni, sollevate in questo caso dalla locale Commissione per le Comunicazioni e per l’Information Technology, il 3 agosto ha lanciato a RIM un vero e proprio ultimatum: in mancanza di un intervento da parte del costruttore-gestore canadese, i rappresentanti del Regno si sono detti pronti ad impedire d’imperio tutte le funzionalità peculiari dei BlackBerry entro venerdì 6 agosto. Ultima arrivata, l’India, che ha minacciato la RIM con un ultimatum simile, che scadrà il 30 agosto.

Ma perché tanto accanimento contro i BlackBerry? In fondo, fanno il mestiere di ogni smartphone che si rispetti: consentire la lettura dei messaggi di posta elettronica ed accesso alla Rete, di solito per ottenere notizie, previsioni metereologiche, indirizzi di locali eccetera. La risposta è tecnica ma presenta importanti implicazioni giuridiche e politiche: a differenza di altri produttori (Apple, HTC, Nokia eccetera), infatti, BlackBerry non vende solo un telefonino, ma un servizio accessibile mediante un suo terminale specificamente sviluppato.

La società canadese, infatti, dispone di server proprietari in vari Paesi (ad esempio i Paesi del Golfo di cui sopra si “agganciano” a quelli canadesi, in Italia usiamo quelli britannici) attraverso cui passano, per essere criptate, tutte le messaggistiche da e per i suoi dispositivi (SMS, e-mail o servizi alternativi). Risultato? I messaggi di posta elettronica scambiati tra un terminale BlackBerry ed un account di posta appoggiato su un server estero sono praticamente impossibili da intercettare per le polizie dei Paesi in cui il telefonino viene utilizzato.

Prima di tutto, l’insofferenza dimostrata da alcuni Stati nei confronti di un servizio, la cui intercettazione rappresenta un vero e proprio incubo tecnologico-giuridico, è quasi un lapsus, da cui si evince che, per le forze di sicurezza, tutto quello che un cittadino scrive su internet o trasmette nell’etere è per definizione proprietà della polizia. I servizi sauditi, poi, ce la devono avere a morte con la RIM, dopo l’immane figuraccia rimediata un anno fa, quando hanno fatto in modo che uno degli operatori sauditi installasse sui BlackBerry in funzione nel Regno un malware, nascosto dentro un presunto aggiornamento del sistema operativo del dispositivo (!)

In teoria, il malware avrebbe dovuto trasmettere una copia di ogni messaggio ad un server della compagnia telefonica “complice”; in pratica, l’operazione è miseramente fallita perché il software (il cui nome, incredibilmente, era “interceptor”) era scritto in modo talmente penoso che i telefonini infettati si scaricavano troppo velocemente, cosa che ha finito per attirare l’attenzione degli utenti spiati.

Ai patiti della sicurezza è comunque bene ricordare che, come ricorda Nick Jones, Senior Analyst alla società di consulenza strategica Gartner, la corsa all’intercettazione “facile” da parte dei Governi è piuttosto ingenua: non appena i “cattivi” scopriranno che il telefono “mora” non è più “sicuro”, si serviranno di altri strumenti con maggiori garanzie di privacy (ad esempio Skype, a suo tempo gratificata da una pubblicità non cercata e certamente non gradita di un testimonial di eccezione, la Mafia, i cui affiliati pare usino quel servizio di telefonia su IP proprio grazie alle sue caratteristiche tecniche, che lo rendono non intercettabile).

L’attivismo scomposto di alcuni Governi contro la RIM di sicuro non aiuta i conti del colosso di Waterloo - Ontario, fatturato di circa 15 miliardi di dollari, di cui poco meno del 40% prodotto in Paesi diversi dal Nordamerica. Non a caso, dal giorno della boutade degli Emirati Arabi, il titolo ha perso in Borsa il 5,8%. Soprattutto la grande pressione che i due Regni mediorientali e la più grande democrazia del mondo stanno esercitando sulla società alimenta comprensibili sospetti che la società canadese venga costretta prima o poi a modificare l’architettura del suo sistema al fine di renderla più permeabile alle richieste di intercettazione da parte degli Stati. Peccato che proprio il criptaggio dei messaggi costituisca il vantaggio competitivo che ha trasformato il BlackBerry in uno standard presso tutti i corporate di una certa dimensione.

Non stupisce pertanto il fatto che, in questi giorni di polemiche tra alcuni governi e la società canadese, alcuni dei clienti più in vista della RIM si siano rivolti direttamente ai suoi vertici per essere rassicurati. Bloomberg racconta infatti di una drammatica conference call tra i grandi capi di RIM e alcuni clienti “più uguali degli altri”, tra i quali figuravano, guarda caso, rappresentanti delle banche d’affari americane Goldman Sachs e JP Morgan, le “regine” di Wall Street, protagoniste tuttora impunite del disastroso crack finanziario che ha devastato il mondo tra il 2008 e il 2009.

Il fatto che l’Arabia Saudita abbia deciso di prorogare l’ultimatum, complice la decisione di RIM di attivare in fretta e furia tre server in territorio saudita, segnala la disponibilità della società a venire incontro alle richieste dei Governi, sia pure all’interno di determinati limiti; come recita un recente comunicato stampa della RIM “la nostra società fa di tutto per dare aiuto ai governi sui temi legali e di sicurezza nazionale, preservando nel contempo gli interessi legittimi di cittadini ed imprese”.

A dispetto di queste parole rassicuranti e delle reiterate conferme che l’azienda non intende metter mano all’architettura informatica che l’ha resa unica e celebre, le banche d’affari temono che eventuali eccezioni possano invece costituire falle nel sistema: una situazione potenzialmente molto pericolosa per il business, specie considerando gli elevati standard professionali e soprattutto etici di cui hanno dato prova i grandi capi delle banche d’affari che governano il mondo.

Non si possono certo invidiare i direttori di RIM, che stanno passando un brutto quarto d’ora, stretti tra stati ficcanaso e banchieri decisi a mantenere ad ogni costo il riserbo sui loro affari, talora poco chiari quando non palesemente illegali. Se da un lato si potrebbe sostenere provocatoriamente che i danni di un attentato e quelli prodotti da qualche rispettabile banchiere in grado di mettere in ginocchio interi paesi siano solo marginalmente differenti, c’è da scommettere che le banche d’affari avranno quello che desiderano; e peccato se questo vorrà dire che sarà impossibile sventare qualche attentato.

di Rosa Ana De Santis

Era annunciato con bollino nero l’inizio delle vacanze estive. Giornali e tv paventavano file lunghissime sulle autostrade principali e città quasi deserte. Una sorpresa per chi da mesi respirava ovunque l’aria di una crisi economica durissima che già radicalmente aveva cambiato la vita di moltissime famiglie italiane. Ma alla fine l’esodo c’è stato sul serio? Secondo le analisi fornite dal Censis sembra proprio di no. Il solito rumore mediatico strumentale che nasconde piuttosto cambiamenti significativi nella vacanza made in Italy. 

“Bollino nero”, titolavano i giornali in prima pagina. Così ripeteva da settimane la televisione. Il 1 agosto sarebbe iniziato il grande esodo, poi ripetutosi nel successivo fine settimana. La crisi economica che tanto timore ha diffuso tra la gente sembra quasi essere svanita nel nulla. L’ottimismo invocato dal Presidente del Consiglio pare non essere infondato. Ma il Censis racconta di altri numeri e sotto l’ombrellone la faccia degli italiani in vacanza non è la stessa di anni fa.

Dimenticatevi le città deserte di agosto, le serrande abbassate, le case vuote. Molte le famiglie che non andranno da nessuna parte: sei italiani su dieci rimarranno a casa. Viaggiano soprattutto i giovani e le famiglie del Nord. Molto bassi i numeri del Sud sempre più povero. Ben il 58% non ha alcun programma di vacanza. Ritorna in auge il turismo interno verso le nostre coste, pochissimi quelli che potranno andare all’estero.

Il ceto medio, quello maggiormente colpito dalla crisi, si orienta verso una diversa tipologia di vacanza. Soggiorni brevi, mete vicine, stop ai soggiorni lunghi di una volta. Le lunghe code verso la Slovenia o sulla Milano-Napoli non devono quindi trarre in inganno: le difficoltà economiche ci sono e gli italiani si sono impoveriti. I tagli decisi dalle famiglie non hanno riguardato solo le vacanze estive, ma anche pranzi e cene fuori. L’austerità è diventata la parola magica per difendersi dai rischi economici. E’ in questo modo che lo sguardo rivolto al futuro si tinge di sfiducia e di depressione soprattutto per le nuove generazioni, impreparate alla antica cultura nostrana del risparmio.

Non sono soltanto i lussi ad essere tagliati dal budget di casa, ma spese anche essenziali. Acquisti di elettrodomestici, lavori di ristrutturazione e soprattutto consumi alimentari hanno risentito del terremoto economico. I primi mesi dell’anno in corso hanno registrato infatti un aumento dei consumi davvero esiguo e la stagnazione diffusa non promette bene per il futuro.

L’estate arriva quindi con meno soldi nelle tasche degli italiani e un grande punto interrogativo sul futuro. Se già il 34.4% riteneva che la classe politica fosse poco concentrata sulle esigenze strutturali della nazione, vista la crisi interna alla destra, ora non andrà meglio. Disoccupazione e corruzione continuano ad essere i peccati originali della nostra economia e gli scandali estivi confermano la perfetta continuità con la prima repubblica. Ad essere sconfitto non è tanto o soltanto Berlusconi, ma il mito della rottura simbolica con il passato di cui propagandava di essere l’incarnazione. Ma non è così evidente al suo fedele elettorato.

Mentre i pochi vacanzieri preparano i bagagli, tutti gli altri - la maggior parte - rimangono a casa a contare gli Euro della crisi e il bollino nero sembra sempre di più il titolo di coda della ricetta dell’ottimismo. Ma se nemmeno Berlusconi andrà in vacanza, a quanto pare, e da casa lavorerà strenuamente sull’agenda politica che lo attende, a chi starà davanti alla tv potrà sembrare tutto più sopportabile. Ce lo assicurano Minzolini e Fede. Del resto questo é il tempo del fare, e non più del pensare. Il partito dell’amore sovrasta le paure. A reti unificate.

di Alessandro Iacuelli

Alla fine, dopo averne negato l'esistenza per diversi giorni, Google e Verizon hanno reso pubblica la loro proposta comune, destinata per ora ai legislatori statunitensi, circa l'ennesima riforma della rete telematica mondiale. I due colossi già in passato avevano parlato insieme di net neutrality, alimentando un forte dibattito. L'impegno (dichiarato) è a favore di una Internet aperta e di continui investimenti per le infrastrutture di banda larga. Tuttavia, una parte del documento, reso finalmente pubblico, non convince affatto: le proposte relative alla banda larga mobile, così come presentate da Google, a parere di alcuni rischiano di uccidere proprio la net neutrality.

Il documento rappresenta la visione comune delle due aziende per una futura riforma della normativa sulla Rete, una visione della net neutrality apparentemente ideale per quanto riguarda la rete fissa, ma molto meno per quella mobile: infatti entrambi si trovano d'accordo nel riconoscere la diversa natura delle due infrastrutture, riconoscendo a quella wireless la necessità di dover rimanere più libera da controlli in quanto appena nata e ancora in fase di mutamento. Potrebbe restare implicito che tutti i controlli a garanzia della neutralità sulla rete fissa non debbano valere per quella mobile su cui, per esempio, Google potrebbe garantirsi il diritto ad una maggiore velocità di transizione di dati semplicemente stipulando un accordo ad hoc con Verizon.

Dal punto di vista del controllo dei contenuti che vi scorrono, invece, la proposta dei due colossi parte dall'ottica che la net neutrality e gli altri principi che vigilano sulla Rete - e garantiscono la possibilità per gli utenti di accedere liberamente a tutti i contenuti legalmente disponibili - debbano poter essere maggiormente tutelati.

Nel testo presentato, Google e Verizon affermano inoltre un nuovo principio, volto a bandire le pratiche discriminatorie, che servirebbe, si legge, a garantire l'effettiva tutela del libero accesso, cioè ai contenuti legali online. Dovrebbe quindi tutelare sia contro i blocchi dell'accesso a determinati contenuti legali, sia alle "priorità a pagamento" rispetto al traffico Internet: i provider di banda larga fissa, insomma, non potrebbero bloccare, degradare e concedere favoritismi, circa particolari traffici di dati, rallentandone alcuni (come per esempio il P2P) rispetto ad altri.

La parte della proposta che maggiormente ha fatto dibattere gli osservatori, tuttavia, è quella in cui Google parla delle condizioni da riservare alla banda larga mobile, da trattare diversamente da quella fissa per quelle che chiamano "intrinseche caratteristiche di mercato": l'unico principio che vi si dovrebbe applicare sarebbe quello della trasparenza, con il Governo a vigilare sulla naturale evoluzione di questo nascente settore. Insomma, le due aziende, secondo molti osservatori, avrebbero ritagliato uno spazio ad hoc per la banda larga mobile, tale da escludere potenzialmente futuri operatori interessati ad entrare nel mercato, distorcendo di fatto il mercato statunitense della rete wireless.

Tuttavia, a ben guardare, un po' tutto il testo presentato da Google e Verizon è disseminato di lacune adatte a far muovere liberamente le due grandi aziende negli spazi bianchi della futura normativa, e solo loro due. Lacune che saltano all'occhio dei soli addetti ai lavori e non del grande pubblico degli utenti della rete. Soprattutto in Italia, sono decisamente pochi quelli che hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet: la sua relazione con l'innovazione. Tutti sono testimoni dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni, ma in pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tutto questo.

Come racconta il professor Juan Carlos De Martin, docente presso il politecnico di Torino, queste ragioni non sono legate "a un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente - potremmo dire: costituzionalmente - diversa dalle reti precedenti". Una rete che ha come caratteristiche la semplicità e l'apertura.

Semplicità perché Internet è una rete stupida, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile; quindi, per introdurre un nuovo servizio non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete, come invece occorre fare nella telefonia, ma basta rendere disponibile il software del servizio stesso. Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per pubblicare, e magari fare innovazione, su Internet: basta avere una buona idea, un computer e una connessione.

Apertura vuol dire però anche un'altra cosa: per il principio della neutralità tutti i bit vengono trattati allo stesso modo, che siano una mail o un film. "Questa rete", continua il professor De Martin, "strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione d’innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati."

Il documento presentato da Google, il colosso della rete, e da Verizon, lo storico monopolista telefonico nordamericano erede della Bell, chiede ai legislatori di includere in qualsiasi normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, i due punti di cui si è parlato sopra stanno invece sollevando pesanti sospetti.

Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di unicità dell’accesso senza fili. Se si considera che é proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet e dei loro bilanci aziendali.

Il secondo punto riguarda la possibilità di offrire servizi online aggiuntivi. In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire - ovviamente a pagamento - servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione, con la morte della neutralità della rete. Servizi che hanno la faccia di canali preferenziali a pagamento per chi ha le capacità di accaparrarseli.

Oggi la barriera all’ingresso della rete, e dell'innovazione, è bassissima. Se si ha l'idea buona, un computer e una connessione, si può fare facilmente innovazione in Rete. Domani non si sa, si potrebbe essere costretti ad affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete a pagamento. Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet; quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale.

Attenderemo, nelle prossime settimane, eventuali chiarimenti da parte di Google e Verizon. Quel che è certo è che, per ora, nel loro documento ci sono due parte eccezionalmente controverse. Ed è solo l'inizio, perché in generale è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare, anche con forza, l’apertura, e la neutralità, di Internet anche per le prossime generazioni, o se lasciare un trattamento privilegiato alle multinazionali come Verizon.

di Mario Braconi

Ha il suggestivo nome commerciale CRUSH (in inglese, l’atto di schiacciare, ma anche, ironicamente, “prendere una cotta”) il software messo a punto da IBM per coadiuvare le forze dell’ordine americane e britanniche nella repressione del crimine. CRUSH non è solo un brand, è anche un acronimo, “Criminal Reduction Using Statistical History”, ovvero “riduzione del crimine tramite impiego di dati statistici storici”.

L’idea alla base di CRUSH e di prodotti simili - che, c’è da scommetterci, cominceranno ad essere sempre più popolari presso cliniche private, banche e in generale presso tutti gli agenti sociali coinvolti nella gestione dei rischi - è l’analisi predittiva, una tecnica che mette insieme statistica, teoria dei giochi e “data mining” (estrazione di pattern regolari da enormi moli di dati grezzi) allo scopo (invero piuttosto ambizioso) di prevedere il futuro.

Per quanto sofisticate possano essere le elaborazioni prodotte dal programma messo a punto da IBM, il principio di partenza è davvero elementare: ciò che abbiamo fatto in passato è la migliore chiave intepretativa per comprendere che cosa faremo in futuro.

Ad esempio, CRUSH è in grado di mettere assieme milioni record di denunce, incrociando informazioni relative ad orari, luoghi fisici, giorni della settimana, condizioni meteorologiche in cui sono stati commessi i reati ed analizzando nel contempo tutte le informazioni disponibili su colpevoli e vittime: si potrebbe scoprire così, ad esempio, che i giovedì soleggiati sono giorni ideali per le rapine in banca, mentre la vicinanza ad un cimitero renderebbe le persone più proclivi a truffare il prossimo...

Dal punto di vista della corretta allocazione delle risorse, l’utilità di un simile strumento è indiscutibile: una volta compreso che al verificarsi di determinate condizioni, un delitto é più probabile, non resta che concentrare lo sforzo delle forze dell’ordine per reagire / prevenire in modo mirato. A dar retta al colosso dell’informatica, l’impiego sperimentale di CRUSH nella città americana di Memphis avrebbe contribuito alla prevenzione dei crimini (-31% per i delitti in generale, -15% per quelli violenti).

Il problema è che, inevitabilmente, CRUSH tende a diventare un tantino impiccione, con quella sua mania di trattare la materia vivente e pensante - umana - alla stregua di un qualsiasi altro fenomeno naturale. Non è la macchina da biasimare se, fedele al diktat di chi la ha programmata, si spinge a tentare di comprendere quali caratteristiche personali aumentino la probabilità statistica che in un dato individuo si manifesti, prima o poi, un comportamento criminale.

Senza contare la più banale delle obiezioni: leggere il futuro di un uomo nel suo passato può rivelarsi un gravissimo errore: se si applicasse questo principio in modo acritico, non solo verrebbe meno la capacità dell’uomo di emanciparsi dal suo destino e anche di emendare i suoi errori pregressi, ma ad uno Steve Jobs, abbandonato dai genitori biologici, sarebbe toccato un destino ben meno brillante che quello di diventare un’icona globale della creatività e del successo.

Eppure il Ministero della Giustizia degli Stati Uniti ha già iniziato ad utilizzare l’analisi predittiva per tentare di inferire quale dei soggetti liberati dopo una pena carceraria avrebbe maggiori probabilità di commettere nuovi delitti, basandosi sul luogo in cui vivono, sulle loro compagnie, sull’abuso di alcol e droghe, sul reddito, su loro equilibrio psicofisico ed emotivo eccetera. L’idea sarebbe quella di indirizzare questi soggetti ad alto rischio di recidiva verso programmi di recupero ritagliati appositamente per aiutarli a “rigare dritto” una volta fuori dalla galera.

La notizia ha fatto rabbrividire giuristi e attivisti per i diritti civili, preoccupati per l’obiettivo affievolimento che la logica implicita in simili tecniche comporta al principio della presunzione di innocenza e, forse, anche per il rischio di un profiling basato sulla razza o sul censo (i neri, tutti criminali, gli islamici tutti terroristi - narrazioni purtroppo non inedite ma che rischiano ora di essere rafforzate da puntelli pseudo-scientifici).

I giornalisti di tutto il mondo, invece, hanno sottolineato come lo scenario prefigurato richiami quello distopico, narrato dal visionario Philip K. Dick nel suo racconto Rapporto di Minoranza (1956!) e portato sugli schermi da Steven Spielberg nel 2002, nel quale una triade di veggenti fornisce alla polizia le coordinate di coloro che stanno per compiere un delitto, in modo da consentire un loro arresto preventivo.

Il paragone con le due opere (il racconto e la pellicola) è certamente suggestivo, anche grazie alle semplificazioni e alla generica sciatteria dei giornalisti, ma calza solo in parte. Nel caso proposto dalla fiction, infatti, il destino giudiziario dei cittadini era nelle mani di un gruppo di visionari, mentre, almeno nelle intenzioni della IBM, la prevenzione del crimine è presidiata dalla forma più pura di logica, il calcolo di un elaboratore elettronico: in teoria, anziché l’arbitrio di un invasato, a porre un giusto limite alla violenza ingiusta dell’uomo sull’uomo ci sarebbe la pura scienza.

Da questo punto di vista non sembra del tutto ingiustificato il commento di Mark Cleverley, capo delle strategie per il Governo alla Big Blue - sia pure largamente pro domo sua: “La tecnologia non fa niente di diverso da quello che hanno sempre fatto i poliziotti, basandosi sugli indizi e sul proprio istinto”. Il fatto che a valutare situazioni di rischio siano, in ultima analisi, circuiti stampati sul silicio anziché un uomo o una donna con emozioni buone ma volendo anche no, forse non è poi un fatto del tutto negativo.

 


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