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di Rosa Ana de Santis
Per le morti sospette di Cesano c’è un colpevole. La perizia ha stabilito che esiste una relazione significativa tra le leucemie e i linfomi che hanno colpito i bambini di Cesano e le onde elettromagnetiche di Radio Vaticana. Anni durissimi di battaglia nei quali il Vaticano ha invocato il principio dell’extraterritorialità per sfuggire alla giustizia. Mai un cenno di pietà per quelle morti bianche. Lo stesso indecente riserbo, che non stupisce più, con cui hanno coperto misfatti, abusi e pedofilia sui giovanissimi.
La protesta degli abitanti di Cesano inizia fin dal 1999. Non si parla solo d’interferenze sui segnali radio-televisivi: il rosario s’infilava nei citofoni o nei rasoi elettrici, come in ogni presa elettrica delle case. Molestie per chi non voleva sentire la messa via radio, che ora diventano ufficialmente danni e rischio di malattia.
La battaglia legale da principio fu bloccata per questioni giurisdizionali legate ai Patti Lateranensi, ma nel 2003 fu la Corte di Cassazione a riavviare il tutto portando alle prime sentenze simboliche. Poi, sulle morti di una decina di bambini, s’ipotizzò il reato di omicidio colposo e si giunse alla perizia del Prof. Micheli, commissionata dal Gip Zaira Secchi. Roberto Tucci, Pasquale Borgomeo e Costantino Pacifici, i primi responsabili dell'emittente della Santa Sede indagati. I primi due graziati dalla prescrizione, mentre Pacifici assolto in primo grado.
Silenzio sui quotidiani cattolici, mentre il Direttore dell’emittente, Federico Lombardi, annuncia che Radio Vaticana preparerà la sua difesa con i propri consulenti e si dice stupito, dal momento che sono sempre state rispettate le indicazioni internazionali e la normativa italiana.
Le morti dei bambini della zona di Cesano superano di 3 volte i dati della Capitale e il rischio è stato aumentato anche dalla presenza delle antenne di MariTele. I piccoli che hanno vissuto per almeno 10 anni nel raggio di 6-12 km, hanno un rischio molto più grande di ammalarsi e l’incidenza numericamente significativa di una certa tipologia di tumori infantili e di morti nella zona è spiegabile proprio dalla presenza di questi impianti. Trecento pagine per dimostrarlo. E del resto: è normale sentire la radio quando inserisce la spina del rasoio nella presa elettrica, o quando si risponde al citofono della porta di casa?
Il Vaticano nel corso di questi anni ha sempre confermato di aver rispettato scrupolosamente le normative legate al decreto ministeriale 381 e alle indicazioni dell’ ICNIRP (International Commission on Not-Ionizing Radiation Protection), grazie anche ai lavori e agli studi di una Commissione bilaterale con gli organi dello Stato italiano deputati a questo monitoraggio. Quindi, verrebbe da dire, che è normale sentire la radio dentro le mura di casa e che l’incidenza delle morti infantili o degli ammalati di tumore è una pura casualità o un’invenzione.
Perché mai nel 2001 furono ridotte allora le emissioni delle antenne? Radio Vaticana ha proseguito indisturbata a trasmettere onde di veleno, blindandosi dietro all'art. 11 del Trattato del 1929, in base al quale "gli enti centrali della Chiesa Cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano" che, va ricordato, nel 1951 ha ufficialmente approvato e riconosciuto il Centro Trasmittente di Santa Maria di Galeria, dimostrando poca prudenza per i malcapitati cittadini delle zone incriminate.
Non è un bel momento per la Chiesa di Roma. Le vittime, collezionate da più parti nel corso degli anni, finalmente non lasciano più scampo alla vergogna dei mezzucci, dei silenzi e dell’extra legem invocata dei prelati. In attesa di quella divina, pare arrivato il momento della giustizia terrena.
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di Mario Braconi
Dopo aver venduto il suo business in patria (un provider di connettività), l'imprenditore britannico Stuart Lawley si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha costituito una società, la ICM Registry LLC, attiva nel settore dei domini dei siti internet. Sin dal lontano anno 2000, Lawley tampina la ICANN (Internet Corporation for Names and Numbers), l’ente internazionale che, tra le altre cose, si occupa di validare i domini dei siti internet) affinché approvi la sua “grande idea”, il dominio .xxx, che dovrebbe contraddistinguere i siti pornografici.
Le sue insistenti richieste, però, sono state respinte per ben tre volte in dieci anni, secondo Lawley anche a causa della pressione delle solite lobby cristiane ultratradizionaliste, preoccupate della diffusione della pornografia resa ubiqua da web e connettività in mobilità. Qualche giorno fa la svolta: lo scorso 25 giugno, il consiglio di amministrazione della ICANN, nel corso di un incontro a Bruxelles, ha riconosciuto di non aver trattato in modo equo il candidato ICM quando, nel 2007, rovesciò una precedente decisione con la quale aveva “benedetto” il suffisso della tripla x quale marchio distintivo dei siti “peccaminosi”.
Ciò non significa, precisa Peter Dengate Thrush, capo supremo della ICANN, che “la richiesta di ICM sia stata accettata, ma solamente che abbiamo ripreso le negoziazioni con il candidato”. La prudenza è d’obbligo per chi rappresenta un’ente che per i gruppi ultraconservatori e sessuofobi stanno, né più né meno, favorendo una masnada di peccatori senza Dio.
La cautela dell’ICANN non contagia Lawley, sui cui occhi, al pari di un personaggio di Disney, sembra siano apparse, al posto dei bulbi oculari, due monetine con l’effigie del dollaro: è convinto di poter vendere facilmente mezzo milione di domini all’astronomica cifra di 60 dollari l’anno l’uno (il costo di un dominio “normale” è di soli 7 dollari!). Lawley sostiene di aver ricevuto prenotazioni da 112.000 gestori di siti pornografici, mentre la sola notizia della riapertura dei negoziati con la ICANN gli sarebbe valso, in un solo giorno, un flusso di 2.000 nuove richieste.
Per dribblare in anticipo l’inevitabile accusa di paraninfo informatico, il “responsabile” Lawley si è preoccupato di far sapere alle agenzie di stampa che, per ogni dominio registrato, la sua società erogherà un contributo di 10 dollari alla IFFOR (International Foundation For Online Responsibility), una ONG che, nel suo “Chi Siamo” utilizza la parola responsabilità per ben sei volte.
Se Lawley è al settimo cielo, non si può dire che siano particolarmente soddisfatte le altre dramatis personae: è infatti un coro di bocciature, tanto nel fronte dei “genitori responsabili”, quanto in quello dei pornografi professionisti. I censori (giustamente, dal loro punto di vista) sostengono che l’eventuale attivazione della “tripla x” non sortirebbe effetto alcuno, a meno che la sua adozione non diventasse obbligatoria per i produttori di contenuti per adulti. “Questo del dominio pornografico è un percorso molto scivoloso per l’intero settore dell’intrattenimento a luci rosse”, spiega all’Huffington Post Steven Hirsch, fondatore e co-direttore della Vivid Entertainment, uno dei più forti operatori del porno negli Stati Uniti: “Non possiamo non preoccuparci di ciò che potrebbe accadere alla nostra industria se andrà avanti la questione del dominio .xxx: le società di intrattenimento per adulti verranno confinate in massa in un speciale recinto? Oppure no, e in questo caso quali saranno le regole per spingervi dentro alcune di esse, lasciando fuori le altre?”.
Ancora più risentiti i commenti dei responsabili di Ms. Naughty (in italiano, signorina monella), portale pornografico orientato al consumo femminile: “La gran parte degli operatori del porno online è fieramente contraria al dominio .xxx, in primo luogo perché rischia di limitare la libertà di parola (forse di espressione ndr), e poi perché si tratta di un modo spudorato per spillare quattrini. La gran parte di noi ha già una presenza consolidata sul web: mi sembra altamente improbabile che decidiamo autonomamente di abbandonare il nostro ranking su Google per abbracciare il nuovo dominio .xxx...
Eppure, se la proposta di Lawley dovesse passare, saremmo obbligati a passare per la sua società al fine di evitare il cybersquatting (viene così definita la pratica di registrare domini identici a quelli già attivi con dominio diverso, in questo caso .xxx, salvo poi rivenderli a peso d’oro a chi detiene il dominio original, ad esempio con suffisso.com ndr). A parte il fatto che un dominio .xxx costa sei volte tanto rispetto ad uno ‘normale’, la società di Lawley chiede ulteriori 200 dollari per proteggere i suoi clienti dal cybersquatting”. Come dar torto alla “sexy monella”: il modo in cui ICMA conduce i suoi affari sembra ai limiti del racket.
In ogni caso, il furbo Lawley è riuscito a far passare la sua campagna promozionale come un modo per identificare ab origine i contenuti non adatti ai minori, in quanto collegati alla sfera sessuale. A riprova di quanto sia stato potente il suo lavaggio del cervello, perfino una blasonata scrittrice e giornalista femminista, Natasha Walter, citata dal Guardian, è arrivata a sostenere che l’adozione del nuovo dominio e la conseguente realizzazione di una sorta di “quartiere a luci rosse” nella Rete potrebbe essere “un passo nella giusta direzione”. E, se non bastasse, un sondaggio online che la CNN ha organizzato sull’argomento ha dato un responso inequivocabile: per quanto i risultati di simili ricerche vadano presi molto con le molle, oltre l’80% delle 280.000 persone che hanno risposto si sono dichiarate d’accordo con questa idea.
Eppure non vi sono ragioni per ritenere che l’adozione del dominio .xxx potrebbe essere utile in tal senso: già ora i gestori più responsabili usano due etichette digitali (ICRA e RTA, Restricted to Adults, “per soli adulti”), grazie alle quali é possibile filtrare i contenuti: è chiaro che obbligare tutto il mercato ad adottare un nuovo dominio sarebbe utile solo a Lawley e ad altri furbetti come lui. E’ infatti lecito dubitare del fatto che chi svolge il lavoro di pornografo violando la legge (e che quindi se ne stropiccia dei bollini di qualità) si adegui ad un eventuale futuro obbligo legale di passare al nuovo dominio.
Più utile sarebbe, anziché ghettizzare il consumo pornografico (perché questo è in fondo il retropensiero di “idee politiche” come quelle cavalcate dai vari Lawley), stabilire un nuovo dominio .kid, i cui contenuti sarebbero certificati come adatti ai più piccini. Questi, oltre a non contenere sesso, dovrebbero essere purgati dei ben più deleteri contenuti violenti, che però sembrano preoccupare l’opinione pubblica in modo più marginale. Un’idea vecchia, questa, ribadita da un rappresentante di Ms. Naughty. D’altra parte, forse è un segno dei tempi se le buone idee vengono proposte dai pornografi anziché dai politici.
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di Mariavittoria Orsolato
Nella seduta del 25 giugno 2010, il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha approvato il parere dal titolo “Il suicidio in carcere: Orientamenti bioetici”, nato da un gruppo di lavoro coordinato dalla professoressa Grazia Zuffa. Nel documento é possibile leggere come il CNB ritenga che l’alto tasso di suicidi tra la popolazione carceraria, oltre ad essere di gran lunga maggiore rispetto a quello della popolazione ordinaria, sia una questione etica e sociale dai contorni marcati e dagli esiti stringenti.
Solo nei primi sei mesi del 2010, i carcerati che si sono deliberatamente tolti la vita sono stati 33, di cui 29 per impiccagione; e sono 44 quelli che c’hanno provato ma che, per la tempestività dei compagni di cella o degli agenti, non sono andati oltre. Se invece iniziamo a conteggiare dall’anno 2000, scopriremo che i casi di suicidio che hanno interessato le carceri italiane sono addirittura 590.
I dati che emergono dalla relazione stilata dal Cnb sono preoccupanti e lo sono ancor di più alla luce dell’inguaribile fenomeno del sovraffollamento, caratteristica che accomuna praticamente tutti i penitenziari d’Italia: secondo la professoressa Zuffa infatti “anche se l’atto di togliersi la vita contiene una irriducibile componente di responsabilità individuale, la responsabilità collettiva è chiamata in causa per rimuovere tutte quelle situazioni legate alla detenzione che, al di là del disagio insopprimibile della perdita della libertà, possano favorire o far precipitare la decisione di togliersi la vita”.
Il CNB si è chiesto perciò se il carcere, così come ci si presenta oggi, rispetti il principio secondo cui la detenzione possa sospendere unicamente il diritto alla liberà, senza annullare gli altri diritti fondamentali come quello alla salute, alla ri-socializzazione e a scontare una pena che non mortifichi la dignità umana. I risultati dell’indagine hanno così rilevato che purtroppo, nella maggioranza dei casi, queste aspettative sono disattese e che esiste una palese contraddizione fra l'esercizio di questi diritti e una prassi detentiva che costringe le persone alla regressione, all’apatia più totale, in certi casi perfino a subire violenza o a morire, com’è successo a Stefano Cucchi.
Il comitato presieduto dalla professoressa Zuffa raccomanda quindi alle autorità competenti di predisporre alla svelta un piano nazionale per prevenire il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre, possibilmente seguendo le linee guida emanate dell’Unione Europea. Il piano dovrebbe vertere sostanzialmente su tre punti, il primo dei quali mira a combattere il sovraffollamento per sviluppare un sistema della pena più aderente ai principi costituzionali: secondo il testo emanato dal CNB sono necessarie “nuove normative per l'introduzione di pene principali non detentive e l’applicazione piena delle norme già esistenti che permettono alternative al carcere, come quelle per i tossicodipendenti”.
Il secondo punto è mirato ad una prevenzione specifica incentrata non tanto sull’individuazione dei soggetti “a rischio”, ma sulla tempestività degli interventi: quello che purtroppo manca è infatti un monitoraggio esaustivo delle situazioni che possono rivelarsi deleterie per i detenuti, andando ad incidere negativamente sulla capacità di resistenza psicofisica dell’arrestato.
Questi momenti sono rappresentati dall’impatto emotivo dell’arresto, dal trauma dell’ingresso effettivo in carcere, dalle difficoltà di coabitazione con gli altri detenuti e sono da considerare tutti potenzialmente lesivi rispetto all’autocontrollo e alla stabilità psichica del carcerato.
Infine il testo del CNB sottolinea l’urgenza di predisporre un’istituzione che faccia ricerca sul fenomeno e che sia in grado di formare adeguatamente gli operatori carcerari che dovranno gestire in loco le situazioni di emergenza. Purtroppo, però, dal 2003, anno in cui è stata prodotta la prima dichiarazione del Comitato sulle problematiche penitenziarie “non solo - scrivono i tecnici - non si sono registrati miglioramenti, ma il quadro denunciato si è perfino aggravato”.
Nelle carceri montano intanto le proteste dei detenuti e dal prossimo martedì anche la polizia penitenziaria - storicamente estranea ad ogni sorta di sciopero - si schiererà dalla parte dei galeotti con l’astensione dai pranzi nelle mense di servizio, per ribadire l’impossibilità di lavorare in condizioni di sovraffollamento.
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di Rosa Ana de Santis
In Germania il Parlamento approva l’eutanasia passiva e la fine di ogni accanimento terapeutico contro la volontà individuale. In Italia il caso Englaro è stato trasformato in un esempio negativo da evitare con ogni mezzo legislativo, mistificato dal nome allettante del “testamento biologico”. In Inghilterra il rapporto del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists sostiene che il feto non soffre entro le 24 settimane, perché le terminazioni nervose nel cervello non sono formate a sufficienza per consentire la percezione del dolore.
Lo studio va a sconfessare i tentativi degli antiabortisti di alzare il limite legale per l’interruzione della gravidanza. Da noi si discute ancora del riconoscimento dell’aborto terapeutico. In Islanda la premier Johanna Sigurdardottir ha sposato la propria compagna nel giorno in cui è entrata in vigore la legge che riconosce il matrimonio per gli omosessuali. Da noi le coppie di fatto, etero o omosessuali, semplicemente non esistono. Famiglie fantasma.
In Italia troviamo addirittura argomenti e tecnicismi, questa l’ultima notizia, volti a obbligare al ricovero coatto le donne che volessero abortire ricorrendo alla pillola RU486. Nella sfiancante polemica tra le Regioni e il Governo per la diffusione della pillola, il Ministero della Salute, attraverso l’impegno particolare della zelante sottosegretaria Roccella, fa l’impossibile perché le donne non firmino il registro delle dimissioni. La volontà, mascherata dal tema della salute, è di impedire che pur rimanendo sotto controllo medico, possano tornare a casa a vivere una vicenda che in questo modo sarebbe del tutto privata.
Meglio lasciarle in un luogo pubblico, magari accanto a donne in procinto di partorire per evidenziare la loro colpa, per insinuare il seme del pentimento o, più semplicemente , per continuare a considerarle vicende in cui l’autorità pubblica possa conservare un ruolo e una collocazione precisa. Un approccio che segna tutta la differenza e il ritardo che ci contraddistingue nelle questioni etiche sulla scienza medica e sulle sue applicazioni sulla vita umana. Ma forse stiamo volando alto: nel governo - e nella Roccella in particolare - c’è solo il bisogno di compiacere il Vaticano, garantendosi rendite elettorali e magari non solo quelle.
Ma è comunque anche troppo semplice prendersela con la Chiesa e con la sua influenza, certamente forte, nella cultura italiana. Il tema è che una bioetica italiana non esiste perché non esiste un pensiero coraggioso sulla tema dell’esistenza umana. Tutta colpa del cattolicesimo? L’ossessione per l’autorità che caratterizza fortemente la storia del nostro Paese ha spazzato via ogni teorizzazione forte sull’individualità e sulla libertà personale. Siamo sempre cittadini in una famiglia, in una coppia, in una comunità. Siamo padri, madri o figli oppure non siamo. Senza un ruolo sociale i diritti sembrano diventare meno incombenti e meno evidenti. Il limite di una cultura in cui nessuno è mai solo nella propria vita. Un’autorità pubblica invadente e un privato assottigliato nella legge fa svanire il senso e il valore del pensiero liberale autentico.
Per questo trasformiamo il pensiero dell’aborto sul tema dei bambini o dell’aborto terapeutico su quello dei bambini che hanno handicap. Per questo associamo la donna che decide di abortire all’immagine della madre. Per questo gli omosessuali sono immediatamente accostati alla famiglia naturale. E per questo Eluana non è più stata lei, ma le sue foto di un tempo. Ed è così che il coraggio di suo padre è stato trasformato in un atto, persino compassionevole, di rassegnazione e stanchezza.
Sfugge il tema dell’io. Sfugge il momento e incombe lo scenario. Futuro e collettivo. Solo che un pensiero che si ostina a rifiutare la riflessione sull’individualità costruisce una società che è una scatola vuota. Dove nessuno scopre mai cosa davvero desidera per sé, dove nessuno si interroga mai sulla qualità della propria esistenza. Dove tutti vanno dove è giusto andare. Senza che nessuno abbia capito se quello sia il suo bene.
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di Cinzia Frassi
Il colosso del web che nella sua mission aziendale ha "fare del bene" e come motto “don’t be evil”, non sempre ha brillato per trasparenza rispetto alla privacy degli utenti. Anzi, è lungo l’elenco di vicende legate proprio alle violazioni della privacy, da ultima la vicenda legata ai dati personali di Gmail all’arrivo di Google Buzz. Questa volta sarebbe colpa delle Google Car, le auto dell'azienda di Mountain View sguinzagliate in ogni dove per raccogliere immagini destinate al servizio Street View. Per chi non lo conoscesse, si tratta di un servizio di mappe in 3D realizzato con scatti reali dei luoghi come strade, piazze, vicoli ecc.
Il fatto è che nella stessa occasione, le auto erano attrezzate con un software che, captando le reti wi-fi in cui s’imbatteva, immagazzinavano dati privati e sensibili. L'operazione, dicono, era finalizzata al miglioramento dei servizi di localizzazione: peccato che, così facendo, Big G abbia raccolto circa 600 Gbyte di dati riservati. Siccome a pensar male si fa peccato ma difficilmente si commette un errore, il fulcro centrale del successo di Google ruota proprio attorno ai dati dei profili personali e della conseguente pubblicità modellata su di essi. Se consideriamo questo e il fatto che i dati inghiottiti dalle Car erano in più georeferenziati, non si può proprio fare a meno - appunto - di pensare male.
Ha pensato e pensa ancora male la Commission Nationale de l'Informatique et des Liberté (CNIL), il Garante per la protezione dei dati personali francese, che ha chiesto a Google copia dei dati e che sta esaminando tutti i particolari della vicenda e dei danni alla privacy dei cittadini. A questo proposito il direttore dell'agenzia Alex Turk, fa sapere che si tratta di "informazioni che comprendono codici bancari e dati medici, password e stralci di messaggi e-mail". Insieme alla Francia, altri stati europei hanno aperto un'istruttoria e chiesto copia dei dati compresa l'Italia, Spagna e Germania. Non solo: negli Stati Uniti la questione è già arrivata al Congresso e sono già state intraprese azioni legali da vari paesi. Il procuratore generale del Connecticut, Richard Blumenthal, ha annunciato che saranno molti gli stati raccolti contro Mountain View e che la sua iniziativa porterà a "un significativo numeri di Stati".
Dal canto suo Big G non si scompone più di tanto e reagisce dichiarando che la raccolta di dati preziosi per il suo business è stata del tutto casuale. Il Ceo dell’azienda, Eric Schmidt, dichiara senza mezzi termini: “Abbiamo sbagliato e su questo dobbiamo essere molto chiari. Essere onesti circa i propri errori è il modo migliore di prevenire il ripetersi di tutto ciò". Addirittura sembra che il responsabile del software sia sottoposto ad un’indagine interna per aver violato le regole aziendali.
Il fatto è che il lupo perde il pelo ma non il vizio, come si dice. Il nuovo vicepresidente di Google e responsabile per l’Europa centrale meridionale e orientale, Carlo D'Asario Biondo, rispondendo sul Corriere della Sera, lascia capire bene come viene percepita la privacy stessa. A proposito delle violazioni della privacy, infatti, risponde: "Ma guardiamo anche di cosa stiamo parlando: la privacy. Va certamente protetta, ma cos’è? E’ un concetto in piena evoluzione. Per me che ho 44 anni è una cosa importante, per mio padre ancora di più; mia figlia, che di anni ne ha 20, se ne cura molto meno. Ci sono le sensibilità individuali e dei gruppi e ci sono i paletti. Un concetto in piena evoluzione”.
Quello di D’Asario è un concetto di privacy che, guarda caso, ritroviamo nelle recenti dichiarazioni di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook che in una recente intervista a proposito della privacy, come prevedibile, si dimostra piuttosto disinvolto: “Bisogna capire che le cose sono molto cambiate negli ultimi sei anni. E che il concetto di privacy che ho io non è lo stesso che ha mio padre ed è diverso anche da quello di una ragazzo di quattordici anni. Sei anni fa nessuno voleva che le proprie informazioni personali fossero sul web, oggi il numero delle persone che rende disponibile il proprio cellulare su Facebook è impressionante. Per i miei genitori la privacy era un valore, per i miei coetanei condividere è un valore". E’ evidente come sovrapponga la volontà di condividere con il rispetto della privacy e questo è un aspetto davvero raccapricciante. Sono concetti piuttosto discutibili insomma, ma non ci si può di certo aspettare qualcosa di diverso.
Google, come Facebook, ha un interesse diretto e oggettivo per i dati personali degli utenti, di tutti noi. Non solo dei dati di coloro che utilizzano servizi di Big G, quali Gmail o altri, ma quelli di tutti noi che, navigando con il nostro pc, facciamo ricerche on line, clicchiamo e, sito dopo sito, pagina dopo pagina, non facciamo altro che dare informazioni. Su queste Google crea il nostro profilo: questa è la base del suo business perché è da questo che riesce a piazzare pubblicità ben finalizzata, targettizzata.
Il colosso del web però è inafferrabile. I suoi interessi dettano le regole del web e soprattutto segnano da un lato il passo dell’innovazione della rete mondiale, ma anche indirettamente, e alle volte molto di più, regolano in sostanza il business dei concorrenti come degli utenti, siano essi privati che aziende. Un colosso che si allarga a macchia d’olio: dai servizi voice alle news con il nuovo paywall, passando dai servizi mail al social network, dai video a qualsiasi altro contenuto, servizio, transazione e scambio.
Dalle utlime stime di mercato elaborate da Experian Hitwise, Google ad aprile avrebbe superato ancora quota 72 per cento di utilizzo dei motori di ricerca. Stiamo Vedremo come finiranno le numerose inchieste condotte dai diversi stati coinvolti. In sostanza vedremo che valore ha oggi la privacy di tutti noi.