di Rosa Ana De Santis

La morte di Sarah Scazzi viene annunciata su RaiTre, durante la diretta di "Chi l’ha visto". La giornalista conduttrice, Federica Sciarelli, chiede alla madre di Sarah se interrompere la trasmissione o andare avanti. Ma le telecamere rimangono accese, la madre di Sarah non muove un muscolo del viso e, all’apparenza imperturbabile, si dice pronta a sapere tutta la verità.

Federica Sciarelli ha fatto il suo lavoro e l’ha fatto con una sensibilità che altri non avrebbero avuto. Sarebbero gradite invece le spiegazioni dei carabinieri, che scusano l’inconveniente di non averla avvisata prima e in via privata, per colpa - dicono - del cellulare staccato. La cronaca di un orrore privato diventa spettacolo pubblico e l’indignazione si fa corale per questa invasione della tv e dello share che azzera ogni traccia d’intimità e che trasforma persino il corpo di una ragazzina, strangolata e violentata dallo zio, in un’attrazione televisiva. Non è il primo caso.

E’ stato così con Novi Ligure, con Cogne, con Erba. Il resoconto dei particolari si trasforma in tv nel culto della ricostruzione, nella morbosità dei ritratti dei protagonisti e nell’analisi del male che banalizzata e raccontata mille volte, o proposta sotto forma di sondaggi, acquista quasi una valenza ludica da intrattenimento.  Ma questo non sembra proprio il caso della trasmissione della Sciarelli. Un conto sono i plastici di Bruno Vespa, le puntate che alternano le ricette e la cosmesi agli omicidi efferati e il tavolone degli ospiti sui casi più brutali della cronaca nera. Lo spettacolo che non chiede permessi, che fa ipotesi e che permette arene di opinioni di cantanti e vallette (come accade nello spazio di Giletti a “Domenica in”, per fare un altro esempio) sui fatti di sangue più brutali della cronaca italiana.

Un conto è una trasmissione che da anni aiuta gli inquirenti a cercare gli scomparsi, che ha dato scoop a numerose indagini ( pensiamo al caso di Emauela Orlandi) e ha impedito spesso che i faldoni delle indagini muffissero senza verità. Il dovere di cronaca è per necessità brutale, ma non per questo immorale. L’immoralità è vincolata a due criteri: l’assenso dei protagonisti e la finalità dell’informazione. Può essere immorale la ricostruzione di un fatto se non serve a svelare nulla, né a dare contributi di analisi, ma solo a solleticare le fantasie macabre del pubblico a casa. Le condizioni dei cadaveri non servono a niente. Quanto sangue, quanti schizzi o, peggio, le domande idiote ai familiari tipo: “Come si sente?”

La storia di Sarah ha piuttosto amplificato un altro fenomeno che ormai imperversa sulla nostra televisione e che non ha a che vedere con la cattiva cronaca. Il piacere dei protagonisti, comuni e anonimi, di portare il loro privato in tv. La drammatizzazione del dolore privato ha come unica finalità quella di apparire sul piccolo schermo. Il racconto del privato non con il fine di dare una testimonianza, far circolare idee e informazioni, ma di diventare personaggi, di rivedersi in televisione. Magari conserveranno la registrazione nel cassetto vicino a quello dove tengono il filmino e le foto del matrimonio.

Un costume indotto da tanti anni di tv berlusconiana e sdoganato ufficialmente con il fenomeno del reality. Vengono in mente le lacrime di C’è posta per te, le mamme urlanti degli spalti di “Amici” o le matrone travestite da critici di fronte ai tronisti. Sconosciuti che conquistano le copertine e che riempiono la tv della loro normalità, assegnandole il compito di dare valore a quello che da solo sembra non averlo più.

E’ accaduto, forse, qualcosa di simile nella famiglia di Sarah. Non solo rispetto al giorno dell’omicidio, su cui ci sono ancora tanti dubbi, ma in tutti i mesi precedenti. Nessuno parla in quella casa dello zio che mette gli occhi su Sarah, che la tocca, che la fa arrabbiare. La cugina sembra non parlare a nessuno di quelle confidenze di Sarah, ripetutamente molestata. Silenzio anche da parte del padre e del fratello. In silenzio anche la madre, che solo nei giorni della scomparsa sembra presagire o sapere che la mano che le ha portato via la figlia è dentro le mura di casa.

E’ questa contraddizione, tra il prima e il dopo della morte di Sarah, il vero centro della riflessione. La vita di persone comuni, addirittura innamorate del silenzio e ossessionate dalla censura di alcuni argomenti, incapaci di denunciare apertamente l’ombra di un’attenzione violenta e patologica su Sarah, che decidono però di rimanere in tv quando scoprono che Sarah è morta per mano dello zio.

L’intenzione non è quella di dare un giudizio sulle persone coinvolte, ma di ricavare - da questa storia -  un’ipotesi di lettura sullo strapotere della tv nella vita delle persone. Viviamo ormai con le telecamere accese sui pruriti, prima che sui fatti. Viviamo in un’alterazione permanente del concetto di realtà e, più pericolosamente, di quello di verità. Da qui, non solo dalle campagne della provincia italiana, vengono i mostri.

di Mario Braconi

Centinaia di milioni di americani utilizzano la Rete per comunicare in alternativa al telefono: un bel grattacapo per i servizi segreti. Infatti, mentre intercettare comunicazioni che viaggiano su rete fissa o su cellulari è un gioco da ragazzi, internet crea qualche problema di più, sia dal punto di vista legislativo che da quello tecnologico. Negli Stati Uniti vige una legge (la Communication Assistance to Law Enforcement Act, o CALEA) che dal 1994 obbliga le società telefoniche e i fornitori di banda larga a dotarsi delle tecnologie necessarie a consentire di intercettare il traffico dei loro clienti - ovviamente su richiesta del governo e previa presentazione di apposito mandato.

Se però la persona oggetto d’intercettazione utilizza un software di comunicazione che cripta il contenuto dei messaggi inviati dal suo computer ai server del gestore del servizio, le cose si fanno complicate. In poche parole, un ficcanaso professionista che riesce senza difficoltà a leggere un SMS inviato da un cellulare, con ogni probabilità non riuscirà a leggere facilmente messaggini scambiati via Facebook o Twitter; non parliamo poi di Skype, un "peer-to-peer" che, essendo impossibile da decrittare, è la bestia nera dei servizi segreti di tutto il mondo.

Per ovviare a questi impacci, racconta il New York Times, sembra che rappresentanti del Dipartimento della Giustizia americano e della Sicurezza Nazionale stiano lavorando ad una proposta di legge secondo cui: 1) diventerebbe obbligatorio di includere funzionalità di decrittaggio nei software di comunicazione che viaggiano sulla Rete; 2) i fornitori di servizi di social network o di comunicazione residenti all’estero dovrebbero stabilire un ufficio di rappresentanza negli USA, che dovrà ricevere e gestire eventuali richieste di intercettazione del Governo; 3) i software che usano il p2p (peer-to-peer) dovranno ridisegnare l’architettura dei loro software per consentire le intercettazioni.

Nelle scorse settimane i governi degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita e dell’India hanno costretto la BlackBerry a stabilire server nei loro Paesi, al fine di consentire il “tapping” del traffico generato e ricevuto dai terminali prodotti dalla società canadese: si deve constatare che anche gli Stati Uniti, autoproclamatisi campioni delle libertà individuali, stiano seguendo la medesima, pericolosissima strada...

Michael Sussman, ex avvocato del Dipartimento della Giustizia USA, non nasconde la sua perplessità su quella che potrebbe diventare una nuova legge sulle intercettazioni: “Quelli proposti sono cambiamenti drastici. L’implementazione delle possibili nuove regole è un incubo per informatici ed esperti di sicurezza, senza contare che, alle fine, si tradurrebbe in un aggravio di costi anche per i fornitori di connettività”.

Al Washington Post, Kevin Bankston, della Electronic Frontier Foundation (attiva sul fronte dei diritti digitali), ha dichiarato senza mezzi termini che quella prospettata dai legislatori, imbeccati dalla CIA, è una soluzione in grado di mettere a rischio in un una sola soluzione privacy, l’innovazione e perfino (paradossalmente) la stessa sicurezza. Pensate forse che Mark Zuckerbeck sarebbe riuscito a costruire Facebook in un dormitorio universitario se avesse dovuto tenere conto, mentre sviluppava il codice, di tutte le possibili funzionalità di spionaggio che il governo potrebbe arrivare a pretendere come condicio sine qua non allo sviluppo di un software di comunicazione (legale)?

Ma l’argomentazione più forte contro l’ennesimo parto dell’ossessione per il controllo di cui sono vittima più o meno tutti i governi da quel triste giorno di settembre di nove anni fa, è quello della sicurezza. Infatti, realizzare software che contengano in sé la chiave di una possibile intercettazione, possono rivelarsi estremamente pericolosi, proprio perché i malintenzionati tendono ad usare proprio questa funzionalità come un passepartout.

A questo proposito Steven M. Bellovin, professore di Informatica alla Columbia University (New York) cita il caso di uno dei più gravi scandali d’intercettazioni illegali degli ultimi anni: in Grecia, nel 2005, si scoprì che per quasi due anni (giugno 2004 - marzo del 2005) i cellulari Vodafone in uso a oltre 100 persone influenti (incluso il Primo Ministro, sua moglie e il sindaco di Atene), erano stati messi sotto controllo grazie ad un complesso sistema in grado di far “rimbalzare” conversazioni e SMS dei telefoni sotto controllo su una decina di telefonini ricaricabili nel possesso dell’organizzazione (criminale? di sorveglianza?).

Ciò accadeva perché il dispositivo Ericsson AXE che in Grecia gestiva il traffico dei cellulari del brand britannico, era dotato ab initio di una specifica funzionalità di intercettazione, la quale però era stata disattivata per default. Peccato che alcuni hacker (a tutt’oggi non identificati) abbiano trovato il modo di attivare il servizio di spionaggio per sfruttarlo ai propri scopi. Dunque, a chi e a che cosa è servito il software di controllo? A nulla, visto che hanno finito per servirsene dei criminali.

Per completezza, è bene aggiungere che la Vodafone ha “casualmente” distrutto una serie di evidenze informatiche che avrebbero potuto essere d’aiuto a ricostruire la vicenda; e che (sempre per caso, beninteso) la funzionalità di audit sugli accessi illegali al sistema non era stata mai attivata. In compenso Kostas Tsalikidis, l’ingegnere della Vodafone responsabile del Network Planning è stato trovato morto il 9 marzo 2005: a oggi persistono ancora molti dubbi sulla versione ufficiale, secondo cui il trentanovenne rampante manager, prossimo sposo, si sarebbe suicidato. Ennesima prova che un certo modo di intendere la “sicurezza” può far male a molti, tranne a chi veramente cospira contro la pace.

 

di Alessandro Iacuelli

La notizia è di quelle che suscitano polemiche a più non posso, oltre alla solita curiosità morbosa tipica della società occidentale. Eppure, sulla carta sarebbe un normale concorso di bellezza, l'elezione di una "miss", una sfilata per eleggere la più bella, con tutti a guardare seni e sederi esibiti da giovani fanciulle. Peccato che, per poter partecipare, i requisiti sono: essere belle, sexy, affascinanti e pregiudicate. Anzi vere e proprie criminali, possibilmente in possesso di almeno una condanna per associazione mafiosa.

Sono i requisiti necessari per poter partecipare al concorso internazionale per l'elezione di Miss Mafia, organizzato in Ungheria e giunto alla sua semifinale, dal 1 ottobre in poi: 16 bellezze sulla passerella dello Stage Pub di Budapest. Mossa ad effetto del locale notturno della capitale magiara per attrarre clienti un po' da tutta Europa.

Infatti, è bene chiarire subito, per non alimentare sterili polemiche, che il primo concorso di bellezza per Miss Mafia esiste davvero, ed effettivamente è in corso in Ungheria, ma si tratta di una trovata pubblicitaria di un night club alla moda nel centro di Budapest. Che evidentemente conosce anche maluccio il gergo odierno della criminalità, visto che hanno scritto “maffia”, con due effe, adducendo come giustificazione, a chi glielo ha fatto notare dopo la stampa di costosissimi manifesti e striscioni pubblicitari, che "da noi si dice così". Cosa può mai fare un night club in tempi di crisi, se non produrre locandine in cui un'avvenente fanciulla posa con un borsalino in testa, in atteggiamento mafioso e poco altro addosso? Quindi l'iniziativa è solo una trovata promozionale, di gusto dubbio ma di effetto sicuro.

Tra le aspiranti Miss Mafia, e non poteva certo mancare, c'è anche un'italiana, tale Anna B., che ha dichiarato: "Sarei molto contenta se potessi diventare Miss Mafia". La fedina penale sporca ce l'ha, altrimenti non sarebbe stata ammessa. Ha origini calabresi, è mora, lavora come hostess, con tutti i possibili sottintesi del caso, ha la passione per la cucina e nelle foto ufficiali appare con la pistola in mano e la biancheria intima di pizzo. E punta dritto anche ad un premio speciale: la fascia di Miss 'Ndrangheta, che sarà assegnata durante il concorso.

E’ singolare in parecchie cose, il concorso; tanto per cominciare nel fatto che è un concorso vero, visto che nel montepremi ci sono un'autovettura, un appartamento a Budapest e somme in denaro. Ma la maggiore singolarità sta nel fatto che le aspiranti concorrenti hanno dovuto inviare per essere selezionate, non solo i dati anagrafici, quattro foto, una del volto, una in costume, una in biancheria intima e una in abito da sera, ma soprattutto la propria fedina penale per testimoniare il proprio passato criminale.

La tabella di ammissione parla chiaro: ammesse al concorso solo coloro che hanno riportato condanne per truffa, rapina, spaccio, ma soprattutto che abbiano avuto dei collegamenti con la criminalità organizzata. Non sono ammesse le aspiranti con soli carichi pendenti, e nulla di passato in giudicato. Ovviamente, i dati anagrafici, così come i precedenti penali, non vengono resi pubblici. Per pubblicizzare l’evento, gli organizzatori hanno tappezzato i muri di Budapest di manifesti giganti, ma saranno ammesse anche votazioni online, ovviamente su Facebook.

La manifestazione ha alimentato un dibattito molto acceso sui limiti e sulle modalità di accesso dei concorsi di bellezza, ma certamente stavolta siamo un po' oltre la decenza. Nonostante le critiche gli organizzatori non si sono tirati indietro: "Abbiamo ladre, truffatrici e rapinatrici; sarà una serata interessante!", assicura un responsabile della competizione, il quale tiene a precisare, ironicamente, che "sicuramente non si potrà fare affidamento sulla lealtà delle concorrenti".

Intanto il sito della manifestazione, www.missmaffia.com, è inondato di accessi e di visitatori ed anche il night club registra il tutto esaurito solo con le prenotazioni, che è poi precisamente l'obiettivo degli organizzatori.

Le 16 concorrenti, o se si preferisce le 16 "delinquenti", sfileranno sia in costume da bagno sia in abito da sera e, ovviamente, c'è già chi fa battute del tipo: "Al diavolo le gambe lunghe e le misure", perché ciò che farà la differenza sarà la spregiudicatezza delle azioni compiute in passato. Per gli organizzatori, l'importante è che nelle tante immagini diffuse riguardanti il concorso, in rete e sui muri di Budapest, appaiano torbidi non solo gli atteggiamenti, ma anche i passati o il presente delle concorrenti. Per gli spettatori, invece, sarà il solito ammirare tette e culi, magari con qualche pistola finta tra le mani.

di Rosa Ana de Santis

Proprio in questi giorni, quando a Viareggio si tiene il Festival della salute, l’ottimismo che spesso riempie i giornali con notizie di cure miracolose e di ricerche vincenti sta sfumando come nebbia. L’inconsistenza degli annunci denuncia una traballante credibilità dell’informazione medica diffusa sui mezzi di stampa e svela la pratica dei tagli come manovra immediata di risparmio. I primi a pagare il prezzo saranno i più deboli della catena: le persone affette da patologie rare. I numeri piccoli funzionano non come campanello d’allarme, ma come condanna definitiva. Lo Stato azzera, infatti, tutti i finanziamenti, comportandosi come una perfetta macchina di selezione darwiniana. Pochi e malati non potranno che soccombere.

Nel 2007 erano stanziati dallo Stato 30 milioni di Euro, che nel 2009 sono diventati soltanto 5. Il prossimo anno diagnosi e cura di queste malattie rare saranno delegate alle singole regioni. E quello che all’apparenza potrebbe sembrare un maggiore sostegno per le persone colpite evitando loro penosi pellegrinaggi, si traduce in un annullamento reale di questa assistenza. E’ ingenuo credere, infatti, che ogni regione arriverà a dotarsi di un centro altamente specializzato per le circa 8 mila patologie rare stimate. E ipocrita dimenticarsi lo stato in cui versa la sanità italiana in moltissime regioni, specialmente del Sud (tranne qualche caso di eccellenza), da cui si emigra per curare malattie tutt’altro che rare.

La frammentazione della presa in carico dei casi e quindi la tomba di una regia nazionale, produce inoltre un effetto negativo su quella condivisione di conoscenze che rappresenta ad oggi l’elemento principale nello studio e nella ricerca su malattie così difficili da identificare e su cui penosissima è la statistica medica proprio per l’esiguità dei casi da analizzare. Moltissimi rimangono insoluti per anni e per pochissime di queste malattie esistono test genetici specifici.

I dati sono discordanti: 70 mila malati classificati dagli organi nazionali, 3 milioni secondo le associazioni impegnate nella tutela dei diritti di queste persone e delle loro famiglie che, come sostengono la Federazione italiana delle malattie rare, Uniamo onlus e Orphanet Italia, per sostenere le terapie necessarie e mentre aspettano il  balletto scontato delle diagnosi errate (almeno 3 in media) sostengono costi altissimi.

Le cure per questi pazienti forse non arriveranno mai perché l’odore del business non tira abbastanza gli interessi delle multinazionali, lo stesso motivo per cui i colossi farmaceutici non spingono la ricerca, e la strada dell’associazionismo diventa l’unica possibilità reale di fare conoscenza e di non essere dimenticati.

Ad arginare questo servirebbe l’azione dello Stato. A mettere soldi per chi deve fare ricerca, per chi dovrebbe specializzarsi su questo fronte medico e per chi deve trovare le cure. A strappare dalla trappola dei numeri degli affari la sorte di pochissime persone sfortunate che non faranno mai guadagnare nessuno e che, alla sorte della malattia, uniscono quella della solitudine. Perché i numeri minori non prevedono investimenti maggiori, dato che eventuali vaccini o terapie, sarebbero da produrre in scala limitata, quindi il business delle case farmaceutiche sarebbe minimo.

Troppo pochi per essere visibili e riconosciuti. Costretti ora all’anonimato sparso e disomogeneo delle regioni e senza un’identità di riferimento, diventeranno con buona probabilità malati cronici e basta. Persone dalla vita fragile, senza cure specifiche ed esposte a rischi altissimi. Se alla malattia togliamo la speranza di guarigione o di sollievo, essa non è più solo una condizione casuale e naturale dell’esistenza, ma una colpa umana. A Viareggio le malattie rare spariscono per sempre dall’agenda del governo.

Andiamolo a dire ai malati di queste patologie, 80% dei quali sono bambini. Andiamogli a dire che aspetteranno che ogni regione si attrezzi per loro e che la medicina, che potrebbe farli star meglio, si chiama “farmaco orfano” - ovvero a bassa richiesta. E diciamogli anche che per questo non sarà immesso sul mercato ma soprattutto che a tutto questo lo Stato italiano ha abdicato alle regioni ogni incombenza e non promuovendo alcuna sfida politica alla solitudine che tocca la condizione di essere malati di patologie rare e semisconosciute.

Se l’unica cura reale oggi per queste persone è l’associazionismo spontaneo di medici e famiglie e se lo Stato fa ufficialmente un passo indietro delegando alle regioni ogni incombenza, possiamo dire che il Ministro Fazio (che ha speso decine di milioni di Euro per il furbetto vaccino dell’inesistente virus H1N1) ha dimostrato ampiamente il senso della sua delega ministeriale. Un governo come questo, non può che avere un ministro come questo.

di Rosa Ana de Santis

Siamo abituati alle sue uscite shock, alle letture grossolane e volgari delle tante anime che animano la società contemporanea e soprattutto conosciamo bene le interpretazioni riduttive e bigotte della differenza. In ogni sua manifestazione. E’ accaduto l’ennesima volta durante un’intervista rilasciata a Klauscondicio. Secondo il Sottosegretario Giovanardi favorire l’adozione di bambini per le coppie gay significa alimentare il mercato sessuale dei minori. Una frase che pesa come un macigno e che in un solo boccone fagocita gli omossessuali nella criminalità e attribuisce a tutti loro il volto peggiore dell’orco: quello che stupra bambini.

Prendendo spunto da evanescenti numeri di ricerche sociologiche fatte sugli USA e sul Brasile, il Sottosegretario si dice sicurissimo di questa equazione. Una mossa quindi molto più grave di chi si oppone alle famiglie omosessuali per ragioni religiose, per prudenza rispetto ai canoni sociali diffusi, impostazione generale conservatrice. Qui siamo davanti alla criminalizzazione di un’identità sessuale, ad una discriminazione tanto più pericolosa perché viene da un uomo delle Istituzioni.

Il mondo dell’associazionismo gay è insorto e ne è nato un vero caso politico. Intanto le ricerche sulla crescita dei bambini affidati a coppie gay, eseguite dall’American Psychological Association o dall’American Academy of Pediatrics, dicono tutto il contrario dei numeri fantasiosi di Giovanardi e la sua posizione tradisce un’evidente intolleranza omofobica e una difesa aisterica della famiglia canonica. Che non basta sia naturale ed eterosessuale, sposata è meglio. Lo dice la sua politica indifferente alle numerose famiglie di fatto italiane.

Sul mercato sessuale dei bambini Giovanardi dovrebbe informarsi meglio e scoprire, con grande sorpresa, che l’Italia, dove i gay ancora si nascondono e dove forse mai vedranno riconosciuti a pieno i loro diritti individuali, è al primo posto per il turismo sessuale in Brasile. Circa 80 mila italiani - la maggior parte etero o omosessuali non dichiarati - ogni anno partono, lasciando moglie e figli nella casetta bianca del Mulino Bianco, per affittare bambine. Piccolissime e predilette vergini. L’Italia può dare lezioni di come far nascere agenzie per “servizi speciali”, voli charter e nuove mete, come accade da quando lo tsunami ha reso le cose più difficili nel prediletto Oriente.

Se Giovanardi è davvero persuaso che impedire l’adozione ai gay, come ha rivendicato,  significherà impedire il mercato del sesso ai danni di bambini, qualcuno dovrà spiegargli che già c’è e che l’Italia è ai primi posti dell’ orrenda classifica. Una cantonata che non solo tradisce una scarsissima preparazione, ma un evidente pregiudizio taroccato con sociologia da chiesa.

Ma non era lui che aveva gridato al complotto massonico quando la stampa si scagliava contro il Papa per gli scandali della pedofilia? Non era lui che difendeva i singoli sacerdoti e la gerarchia ecclesiastica dalla generalizzazione indiscriminata dell’ombra della pedofilia sulla chiesa? Stupisce che ora possa candidamente avallare l’equazione tra gay e pedofili. Forse perché i preti gli sono più simpatici o perché l’omertà della Chiesa sugli abusi è più perbene che la denuncia sbattuta in prima pagina. O forse, semplicemente, perché Giovanardi appartiene a quella folta schiera di personaggi che, in assenza di un’idea propria, preferiscono sposare quelle degli altri. Ma non tutti, per nostra fortuna, ambiscono a governare.

 


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