di Mario Braconi

John Galliano, lo stilista “proletario” nato a Gibilterra 51 anni fa, potrebbe diventare l’icona vivente del proverbio “in vino veritas”: a quanto si apprende dalle cronache recenti, infatti, la scorsa settimana, mentre sedeva ubriaco al tavolo di un bar del Marais di Parigi, avrebbe aggredito verbalmente una signora (ebrea?) ed il suo accompagnatore (un uomo di etnia asiatica) condendo il suo exploit con disgustosi epiteti antisemiti. A seguito dell’increscioso incidente, la maison Dior, di cui Galliano è chief designer dal 1996, lo ha immediatamente sospeso dall’incarico. Si vedrà ora quale sarà l’esito delle indagini, giacché lo stilista è stato denunciato dalla coppia per aggressione.

L’episodio, in sé intollerabile, avrebbe però potuto forse essere ridimensionato (già arrivavano flebili testimonianze di solidarietà da Giorgio Armani e da John Taylor dei Duran Duran) se non fosse per lo scoop del tabloid britannico The Sun, che il 28 febbraio ha pubblicato sul suo sito un video girato di nascosto presso il bistrot parigino La Perle quattro mesi fa, nel quale un Galliano palesemente sbronzo apostrofa in modo indecente delle ragazze sedute al un tavolino vicino al suo.

Anche se le giovani in realtà sono italiane e francesi, agli occhi di Galliano evidentemente appaiono l’ennesima personificazione di quella fantasia antisemita che per qualche ragione lo ossessiona in modo inesorabile: “Scusa, ma tu, sei biondo e hai gli occhi azzurri?” gli chiede ad un certo punto una delle ragazze, che sembra prenderlo in giro per il suo aspetto ben poco “ariano”. “No”, biascica Galliano, a mo’ di risposta, “ma amo Hitler; gente come te dovrebbe essere morta. I tuoi genitori, i tuoi antenati... tutti avrebbero dovuto finire in una camera a gas”.

Anche se l’avvocato di Galliano, Stephane Zerbib, fa quel che può spiegando ai media che la comparsa di un video girato mesi fa appare quanto mai opportunistica, non si può negare che il suo contenuto pesi come un macigno: dimostra infatti che le parole insensate e violente di John Galliano non sono solo delle sciocchezze venute fuori a caso dalla bocca di un ubriaco, ma la dimostrazione di una vera e propria fissazione razzista.

A proposito di tempismo, il caso Galliano e la pubblicazione del video della vergogna si verificano proprio in coincidenza con il trionfo di Natalie Portman, fresca aggiudicataria di un Oscar per la sua intepretazione ne “Il Cigno Nero”. La Portman, i cui nonni sono stati assassinati dai nazisti in un campo di concentramento, oltre a quelle dettate dal buon senso, ha dunque ottime ragioni personali per non transigere sulle imbarazzanti esternazioni del direttore artistico della maison della quale, guarda caso, lei è donna-immagine. Le sue parole sono, comprensibilmente, durissime: “Dopo questo video, come persona fiera delle mie origini ebraiche, non desidero essere associata in alcun modo al signor Galliano”. Una vera sentenza di morte per lo stilista, che il capo di Dior, Sidney Toledano, si è affrettato a comminare, commutando tout court la sospensione di Galliano in licenziamento.

In effetti, ad una lettura maliziosa, il tempismo con cui i due imbarazzanti episodi sono stati somministrati all’opinione pubblica può risultare sospetto. Al punto che, a lasciar galoppare la fantasia, si potrebbe perfino ipotizzare che l’incidente sia stato creato ad arte per sbarazzarsi di un personaggio divenuto per qualche ragione scomodo per la maison: il marchio di infamia ormai indelebilmente associato al geniale designer di Gibilterra, potrebbe essere un modo per scoraggiare eventuali sue richieste di indennizzi milionari in caso di licenziamento.

Un dato, comunque, incuriosisce: il modo in cui la stravagante ossessione razzista di Galliano sia passata inosservata per ben quattordici anni. Soprattutto considerando che il top manager della sua azienda, l’attuale testimonial e perfino il suo avvocato sono tutti di origine ebraica, tutto ciò appare oltremodo ironico, come del resto il fatto che Galliano pare sia di casa del Marais (ovvero l’ex ghetto di Parigi), almeno nei locali dove si servono alcolici. Senza nulla togliere allo sgomento e al ribrezzo suscitato dalle sue intemerate antisemite, sembra probabile che le sue “idee” razziste siano state finora tollerate all’interno della maison per ovvie ragioni commerciali (il celebre aforisma di Vespasiano, secondo cui il denaro procurato dagli orinatoi “non puzza”, conferma ancora una volta la sua imperitura validità).

In effetti, il marchio Dior sembra in qualche modo stregato da un incantesimo filo-nazista: ricorda infatti il Corriere della Sera che, proprio in coincidenza con le esternazioni di Galliano, dagli archivi audiovisivi francesi salta fuori una inquietante intervista effettuata nell’ottobre del 1963 a Francoise Dior, nipote di Christian Dior, fondatore dell’omonimo marchio di moda. Nel video la donna, che porta al collo un monile a forma di svastica, si professa fervente nazista e dichiara che a giorni sposerà l’uomo che nel filmato le siede accanto in silenzio. Questi é di Colin Jordan, noto neonazista britannico, che si unì a lei in un matrimonio di comodo organizzato per evitare alla donna l’espulsione dal Regno Unito come indesiderata, in quanto amante di John Tyndall, altra figura di spicco del nazifascismo “made in England”.

C’è un che d’ispirato e sognante nella voce e nell’espressione leggermente ebete della donna, mentre passa in rassegna le testimonianze di uno degli obbrobri assoluti della storia quasi fossero, appunto, preziosi tessuti che l’opera sapiente di un grande sarto trasformeranno presto in splendidi abiti. Ed in effetti quella di Francoise Dior fu una vita segnata dallo squilibrio (a 36 anni, dopo il suo disastroso terzo matrimonio, fuggì con il suo segretario diciannovenne), da eventi luttuosi (la sua unica figlia si suicidò a venti anni) e di delusioni (Jordan bruciò il di lei notevole patrimonio finanziario per sostenere la causa fascista in Gran Bretagna).

Queste informazioni possono aiutare a comprendere il contesto psicologico ed umano in cui devono essere maturate le sue deliranti scelte di fanatismo nazista. Ma, inevitabilmente, gettano un’ulteriore ombra nera sul marchio principe di LVMH, diretto da un notorio fan di Hitler.

 

 

di Vincenzo Maddaloni

Oggi, al museo Kennedy di Berlino, si apre una mostra dedicata al compleanno - 80 anni (2 marzo 1931) - di Michail Gorbaciov. “Aus dem Familienalbum“ s’intitola, e sono novanta fotografie, in gran parte inedite, che coprono un arco di tempo che va dall’infanzia a quel 25 dicembre del 1991, il giorno nel quale si dimise da Presidente dell’Unione sovietica. Provate a ricordarvi. L’anno seguente - 1992 - il disfacimento della struttura del potere creato dall’ideologia marxista, verificatosi pacificamente e quasi senza spargimento di sangue, lanciava nel mondo la speranza del futuro-promessa.

Essa era alimentata dall'ottimismo teologico di papa Woitjla che prometteva la salvezza e da quello tecnologico che s’impegnava ad assicurare il progresso. Sono trascorsi quasi vent’anni e non è più così. Il futuro-promessa si è trasformato sotto gli occhi di tutti in futuro-minaccia. Le guerre, i disastri economici, le intolleranze, gli egoismi, le disuguaglianze sociali, gli inquinamenti di ogni tipo, hanno stravolto l'immaginario del futuro sicché dall'estrema positività dell'ottimismo teologico e tecnologico si è passati, nel primo decennio del Millennio, all'estrema negatività di un tempo affidato alla casualità senza una direzione e un orientamento. Che fare?

Non credo che si possa cambiare lo spirito del tempo, soprattutto perché dubito che il nostro tempo ponga lo spirito tra le priorità. Ma si dà anche, nei tempi di crisi, che più di qualcuno cerchi sostegno nella memoria la quale è il deperibile, prezioso patrimonio dei sopravvissuti, esposto alla dialettica del ricordo e dell'amnesia. E' una verità soggettiva, insidiata da mode, interessi e sentimenti, annebbiata dalla nostalgia, ma è ancora la vita, seppure minata dalle fragilità e dalle incertezze.

A rinfrescare la memoria contribuisce la celebrazione, il ricordo, di una serie di anniversari: i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, i duecento anni della nascita di Liszt, i ventuno della caduta del Muro e della rivolta di piazza Tiennamen; gli ottant’anni di Gorbaciov, che Berlino ricorda con affetto perché con la sua Perestrojka egli le evitò un bagno di sangue. Sicuramente, ci stiamo dimenticando di altri anniversari, altrettanto significativi.

La memoria pur traboccante di dettagli diventa sempre più fluida, e alla fine rimane, ripetiamo, una verità soggettiva, probabilmente di scarsa rilevanza, se non per chi la vive. I media, la televisione, i giornali, di certo non aiutano, anzi. Basta leggere quel che si scrive o si racconta della Libia in questi giorni. Difficile farsi un’idea precisa su questa gigantesca crisi perché ogni spiegazione per essere esaustiva richiede conoscenza, visione, coraggio, forte controllo dell’ obiettività. Esattamente tutte le condizioni che, mai come in questo frangente, sono mancate ai giornalisti.

E’ risaputo che non c’è mai stata un’età dell’oro del giornalismo, ma mai c’è stato lo scempio che oggi investe i media. E’ sufficiente aprire un canale qualsiasi della televisione per capire che la "libertà d'informazione e di critica" e "l'obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti" vengono violati di continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono inesistenti. E’ sempre più difficile essere informati, è sempre più difficile capire ciò che sta accadendo perché le notizie decisive per il nostro futuro quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco di contraddizioni.

Accade però pure che un numero sempre maggiore di cittadini stia prendendo più coscienza delle manipolazioni, della parzialità, della mancanza di obiettività, e comperi sempre meno giornali e guardi sempre meno i telegiornali. Tuttavia, continuiamo ad assistere al trionfo del giornalismo speculativo e spettacolare che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla, e che comunque va a scapito di un giornalismo d’informazione che non viene incoraggiato né tanto meno difeso.

Si aggiunga, nel caso Italia, lo iato profondo che separa mondo accademico e mondo giornalistico, i quali quasi mai interagiscono tra di loro separati come sono da una diffidenza reciproca. I primi arroccati nelle università con i loro testi le loro dispense le loro ricerche rigidamente accademiche e dunque elitarie. I secondi rinchiusi nei desk alla prese con le agenzie e quindi con un’informazione manipolata che emargina il giornalismo d’inchiesta e privilegia il giornalismo delle contraddizioni col risultato di una disinformazione perenne.

Infatti, questa tensione internazionale amplificata dai media con una tenacia ossessiva e assordante predicando e praticando molto poco l’ideologia di pace e molto più l’ideologia di guerra, porta ad accantonare, quasi fosse un problema secondario, l’affermazione del moral framework, la cornice morale di valori, quell’etica mondiale indispensabile al bene dell’umanità.

In tanto chiasso, il sostenere che è prioritario ricostruire una speranza in mezzo alle macerie di quella che sembra diventata la civiltà del mondo ridotta allo squallido gioco dei rapporti di forza nella polveriera globale, appare come un’impresa irrealizzabile. Bisogna arrendersi? «Se un’acqua ristagna in un punto qualsiasi, marcisce. Sii dunque come il mare così non marcirai», predicava (nono secolo) il mistico persiano Bayezid Bastami.

Ma a proposito di memoria, non occorre rinfrescarla più di tanto per ricordare i fondamenti teorici del progetto americano che avevano portato alla guerra all’Iraq. Era il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori, a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal “prediletto” del presidente George W. Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Erano - ricordate? - uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche.

Questa caratteristica “genetica” spiegherebbe l’ondata di violenza terrorista sempre più virulenta e si frapporrebbe come ostacolo ad una democratizzazione concepita come l’unico rimedio possibile a tutti questi mali. Il verbo presente è d’obbligo perché queste conclusioni non sono scadute, sebbene ci sia stato il cambio della guardia alla Casa Bianca.

Di fronte al terrorismo che potrebbe ricorrere alle armi di distruzione di massa - chimiche, batteriologiche, perfino nucleari - l’America, secondo i neocon e anche secondo il governo Obama, non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminandone le tare e costringendolo a democratizzarsi. Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico di tale compito, ricorrendo alla forza, se necessario. L’invocazione astratta alla "democrazia" serve da giustificazione ultima alle azioni dell’America, un po’ come, in tempi non lontani, accadeva con la minaccia del “socialismo reale” dell’Unione Sovietica. Lo si è visto ancora una volta in queste ultime settimane nel Maghreb.

È una configurazione teorica che mette insieme il fondamentalismo cristiano, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si proietta verso l’esterno assumendo una forma aggressiva, unilaterale e arrogante. È questo il blocco ideologico che aveva guidato l’intervento in Iraq e altrove, e che continua ad essere applicato anche dopo l’arrivo sulla scena di Obama.

Nasce da qui la difficoltà a modificare questa politica indissolubilmente nazionalista e al contempo rivolta all’esterno che suggella la desecolarizzazione crescente dell’elemento politico e dello Stato in America. Questo spiega anche la facilità con cui si tollerano metodi come la tortura e si investe di poteri illimitati il presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non solo non sono state giudicate, ma nemmeno accusate. Accadeva prima con Bush, accade ancora con Obama.

Se questo è lo scenario diventa ancora più assordante il silenzio dell’Italia in quella che dovrebbe essere la sua più naturale ed efficace area di intervento, a cominciare dalla Tunisia per finire alla Libia. Accade, nonostante l’Italia - ad esempio - abbia in Libia uomini e denaro, e dalla Libia dipenda, per energia, per scambi commerciali e per investimenti reciproci. Un’inadeguatezza comunque condivisa, anche se dal gradino più basso, poiché non c’è alcun Paese dell’Europa che si rammenti della sua cultura (l’Italia dovrebbe essere prima tra tutti) e apra un confronto sull’arroganza della gestione americana in tutto il Medio Oriente.

Stando così le cose è oggi l'"umanesimo" stesso ad essere gravemente minacciato. Sta assottigliandosi ciò che l'uomo è venuto costruendo in millenni di civiltà, e il cui insieme ha ricevuto il nome di spirito e di anima. Avvertiva Edward W. Said, esperto del Medio Oriente come pochi altri: «Il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell’Altro.

Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza - sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l’Islam e gli arabi da un lato, e “noi” occidentali dall’altro - sono imprese su larga scala».

Allora perché stupirsi quando si legge che Gheddafi lotterà fino alla fine, fino «all’ultima goccia di sangue» come ha promesso l’altro ieri. Perché lui al Libretto verde, ai comitati popolari, al sogno di una Libia che guida il mondo verso una nuova èra, a furia di ripeterlo e di raccontarlo, ci crede. E’ un tiranno mistico, il più pericoloso, il più irriducibile. Peccato che alcuno abbia saputo raccontarlo e spiegarcelo fino in fondo, a riprova che è sempre più difficile ottenere un’informazione corretta. Bisogna arrendersi?

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Un nuovo vento femminista sta attraversando il Vecchio continente da nord a sud e, a quanto pare, ha raggiunto anche l’Italia, dove si discuterà in questi giorni in Senato per l’eventuale introduzione delle quote rosa ai vertici dell’economia. Inevitabile il confronto con gli altri Stati europei, in particolare con la Norvegia, dove la misura è stata applicata già da qualche anno, e dove si cominciano ad analizzare i primi risultati. Rimane ancora da chiarire quanto le quote di genere possano essere effettivamente aiutare il genere femminile del Belpaese, una società in cui le donne si trovano ancora oggi a combattere con l’immagine di sé stesse.

La Norvegia ha scelto di applicare le quote rosa nei consigli di amministrazione delle società già dal 2006. Qui, la legge prevede che le aziende quotate in Borsa abbiano una direzione composta al 40% da donne. Oslo è intransigente e non ammette eccezioni: i gruppi finanziari che non riescono a conformarsi a quest’ordinamento tutto al femminile, rischiano di chiudere i battenti. E ora, dopo cinque anni, ai sociologi il compito di tirare le prime conclusioni.

Tanto per cominciare, la radicale riorganizzazione dei Cda secondo le quote rosa non ha portato, in Norvegia, alle trasformazioni catastrofiche che i più pessimisti vagheggiavano. Le aziende di successo hanno sofferto leggermente all’inizio per poi riprendersi molto velocemente, osservano gli studiosi, mentre i gruppi che navigavano in cattive acque ci hanno soltanto guadagnato.

Certo, lo stile di direzione non è cambiato, si affrettano a spiegare i sociologi: sono poche le donne che hanno tentato o proposto una linea amministrativa completamente diversa da quella che c’era. Punto fondamentale, decisamente a favore, sembra che il gentil sesso abbia dato nuovi spunti alla discussione culturale e sociale ai vertici dell’economia. A conti fatti, insomma, una rivoluzione percettibilmente positiva.

Ma non è tutto. Le statistiche norvegesi segnalano una quantità d’imprenditrici che, già ora, vantano un susseguirsi di ruoli di primo piano nella direzione di varie aziende. Carriere ineccepibili e fulminee, apprezzano i sociologi: alcune personalità femminili siedono contemporaneamente nei Cda di più società e godono di privilegi di cui hanno goduto finora soltanto (pochi) uomini. Gli esperti intravedono il prototipo di una nuova generazione di donna d’affari, sicura di sé e cosciente del proprio potere e l’inizio di una parità dei sessi vera e propria. Anche perché, per gli uomini della finanza, appartenere ai direttivi di più aziende è ordinaria quotidianità.

Eppure, a qualcuno i risultati appaiono fin troppo clamorosi se si pensano riferiti a un solo quinquennio: le norvegesi che hanno presieduto in più Cda si sono già attirate l’attenzione negativa della stampa e il soprannome sarcastico di Gullskjortene, le gonnelline d’oro. Per i più scettici, l’incredibile e innaturale performance di queste signore non è altro che la prova tangibile della faziosità della linea politica imposta dalle quote rosa: obbligare un’azienda a un nucleo direzionale costituito quasi per la metà da donne non può che portare a un femminismo direzionale di stato. Sarà una semplice espressione dell’invidia degli uomini, o la critica va a snocciolare un metodo sbagliato di risolvere una differenza che ci trasciniamo da generazioni e generazioni?

Pioniera nell’introduzione delle quote di genere, la Norvegia funge ora da campo di prova per gli economisti e i femministi di tutto il mondo. Qui si raccolgono i primi frutti di una decisione politica a tutti gli effetti e il destino del Paese nordico potrebbe segnare il passo anche per il resto d’Europa. La Francia e il Belgio hanno introdotto un sistema di quote rosa rispettivamente nel 1999 e nel 2002, ma si è trattato più che altro di norme che hanno riformato le candidature in ambito politico. E’ di quest’anno l’estensione della proposta delle quote rosa ai Cda delle società, private o pubbliche che siano: e ora, in Francia, i direttivi delle aziende con più di 500 dipendenti hanno tempo fino al 2017 per adeguarsi.

Tentativi di quote di genere sono stati fatti anche in Spagna, Portogallo e Slovenia, mentre in Germania la discussione occupa le prime pagine di tutti i giornali da ormai qualche settimana. Da sottolineare che, nel frattempo, ai vertici della Bundesbank tedesca è stata eletta una donna: la nuova vicepresidentessa della Banca federale si chiama Sabine Lautenschlaeger ed è la prima donna nella storia del paese a ricoprire tale carica. Senza contare la Cancelliera Angela Merkel, figura chiave della politica tedesca ed europea già da quasi un decennio che, per certi versi, va a rassicurare le aspettative professionali delle donne tedesche.

E ora, con qualche anno di ritardo, il dibattito sulle quote rosa sembra aver raggiunto anche l’Italia. Questa settimana si discuterà in Senato il disegno di legge Golfo-Mosca, che prevede consigli e collegi sindacali di società quotate e statali composti per un terzo dal gentil sesso. Anche se i diritti delle donne sono uno di quei beni poco adatti all’export, e già ci si chiede se il popolo femminile del Belpaese abbia le basi sociali per usufruire veramente di una riforma dell’economia incentrata sulle quote rosa.

Per quel che riguarda i diritti delle donne, la Norvegia è stata da sempre all’avanguardia. Il diritto al voto è stato introdotto per il popolo femminile nel 1913 e, da oltre vent’anni, lo Stato paga alle neomamme uno stipendio dell’80% per gli anni di maternità previsti. In Norvegia, le quote rosa sono il fiore all’occhiello di una società abituata a stimare il gentil sesso da diversi decenni non soltanto in funzione del lato b, una delle qualità che sembrano più apprezzate invece in Italia.

Nel Belpaese, probabilmente, il genere femminile ha problematiche più basilari da risolvere prima di arrivare alle quote di genere. Come scrollarsi di dosso il ruolo che il sistema mediatico italiano - in testa la televisione commerciale - gli attribuisce da trent’anni a questa parte. Trasformate lentamente negli oggetti di spettacolo più proficui del mondo televisivo, sembra che le donne italiane comincino solo adesso a risentirsene veramente. Perché ora, forse, si cominciano a intravederne gli effetti concretamente e in maniera assordante.
 

di Rosa Ana De Santis

Non appena sembra che la Chiesa Cattolica affronti delle aperture culturali significative, la sua condotta pubblica torna ad essere avvizzita nelle formule della più ridicola Controriforma. Questo Papa ci ha abituati a meno spettacolo, a più rigore di forma e dottrina e ad abbandonare letture ingenue e frettolose interpretazioni della sua pastorale. Una figura decisamente più ricca di sfumature e potenzialità di quanto non avesse la più immediata missione anticomunista di Wojtyla.

Eppure, mentre qualche giorno fa la stampa accoglieva la notizia delle norme antiriciclaggio imposte allo Ior, oggi deve ribadire, con una compassione di fondo, la condanna del Papa all’educazione sessuale e civile nelle scuole. Troppo laiche e con troppo Stato, secondo lui. Peccato che non si tratti di scuole private religiose e che il monopolio dello Stato non sia il frutto di un’intromissione carbonara, ma di un diritto costituzionale. E’ piuttosto, vale la pena ricordarlo, l’ora di catechismo a rappresentare un’indebita forzatura nel programma laico delle scuole pubbliche, che solo un Ministro come la Gelmini poteva rendere ancor più grave, consentendo che una materia di questo tipo potesse fare media e sommandoci l’imposizione del crocefisso in classe, con tanto di ricorso a Strasburgo.

Ratzinger accusa la presunta educazione laica di essere falsamente neutra e di ledere la tutela della religione e della comunità cristiana. L’atroce attentato nella chiesa d’Egitto aiuta a rendere lo scenario emotivo al punto giusto. Se la Chiesa perde anime, non è colpa dell’illuminismo di Stato, che mai come nel caso della nostra Repubblica, è pavido ed esangue, quanto forse per l’incapacità della Chiesa di essere vicina alla sensibilità e alla vita delle nuove generazioni. Quelle per le quali il Papa vede pericolosa l’educazione sessuale e civile.

Il rischio sarebbe quello di aiutare i giovani a crescere come persone responsabili, autocentrate e consapevoli della propria esistenza. Non è più allarmante pensare che i nostri adolescenti, come testimoniano i dati della Sigo (la Società italiana di Ginecologia), siano del tutto incapaci di tutelare la propria salute nei rapporti sessuali? L’ignoranza che porta le giovanissime a ricorrere in massa alla pillola del giorno dopo, i rimedi della Coca Cola o le gravidanze scoperte dopo mesi di gestazione, dovrebbero lanciare un allarme sull’urgenza di farla meglio e di più questa educazione, soprattutto in Italia.

Persino più grave il sospetto sull’educazione civile. Qui non è possibile riconoscere nemmeno l’attenuante della viscerale sessuofobia che affligge una Chiesa di uomini costretti, per dogma storico, ad una castrazione fisica. In questo caso c’è un disegno dai contorni molto inquietanti che pone ancora la Chiesa in conflitto con lo Stato. La cosiddetta educazione civile è quella che rende i nostri ragazzi edotti sui diritti e i doveri. Sullo spirito fondante degli Stati liberali moderni e sui peccati originali degli Stati religiosi da cui, almeno l’Occidente, si è affrancato. Eccezion fatta per lo Stato del Vaticano. L’idea sommersa che conoscere il diritto del divorzio o, dove esistono, i diritti delle coppie di fatto - solo per fare alcuni esempi - sia un incentivo o un’istigazione all’abbandono della fede, è tanto falso quanto ingenuo.

Nessuno impedisce alla Chiesa di fare la propria evangelizzazione o di testimoniare la propria visione del mondo. Possiamo certamente dire che la persecuzione dei cristiani non è planetaria e che dove questo grave problema è presente, la questione è più politica che religiosa, più legata al reale esercizio delle libertà individuali che non all’educazione sessuale o a quella civica. Per questa ragione non è onesto l’utilizzo strumentale di alcune tragedie terroristiche per pensare di poter prendere a prestito lo Stato e le sue istituzioni e perorare la causa di un banale catechismo di massa. Una campagna elettorale per le anime. Non si possono criticare le forme di alcuni Stati teocratici musulmani e poi svelare una nostalgia per quel perduto potere temporale. Non è così che torneremo ad essere più cristiani, nella fede o nella sensibilità morale.

L’ammonizione del Santo Padre è un pietoso inno alla regressione. E diventa ancora più difficile da comprendere a poco tempo dall’apertura sul profilattico come misura di emergenza per frenare l’HIV e responsabilizzare le relazioni sessuali. Un errore di traduzione, era stato detto subito, un passo falso, trattato e ritrattato mille volte. Come se non dovesse cambiare mai nulla dietro la porta di San Pietro, né fuori. Nonostante i secoli e la storia, siamo ancora a ragionare di quanto la fede sia nemica della conoscenza e di quanto la Chiesa mal sopporti il potere dello Stato. Come se Galileo Galilei o Cavour fossero passati invano.

Del resto è tutto possibile in un Paese che mette i pochi soldi che ha nelle scuole cattoliche e che usa quelle pubbliche come se fossero parimenti religiose. E’ così che è iniziato un nuovo gioco al rialzo per il Vaticano. Uno slittamento continuo e confuso tra laico e religioso che, mentre forma cittadini peggiori e meno preparati, non riempirà le Chiese di anime. Perché il Santo Padre sa bene che il lavoro di Dio non è mai stato quello di Cesare.

 

di Rosa Ana De Santis

Diciannove anni e incensurato, Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo 2009. Suicidio, dissero le fonti ufficiali. Si sarebbe appeso al letto a castello della cella, per poi impiccarsi con il lenzuolo. Un ragazzo alto 175 cm dondolante su un letto alto 170. Il corpo scoperto alle 12.35. Il verbale del pronto soccorso che registra invece l’arrivo del cadavere alle 12.30. Sono solo alcune delle incongruenze che hanno spinto le associazioni Antigone e A buon diritto a presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Catania per accertare la verità dei fatti.

Molte le lacune e troppa la fretta di chiudere le indagini, lasciando i familiari di Carmelo senza risposte. Sono proprio loro a vedere Carmelo all’uscita della Caserma di Paternò, subito dopo l’arresto, per aver fatto il palo in una rapina in tabaccheria di Biancavilla. E qualcosa già non va. Il suo volto è gonfio, evidenti sono i segni pesanti delle botte. Le labbra ferite, gli occhi gonfi, le orecchie strappate. Anche le foto scattate all’ingresso in carcere non lasciano dubbi. Di questi fatti non c’è traccia nelle indagini e una nuova perizia servirà a verificare cosa ha subito Carmelo nei quattro misteriosi giorni, dall’arresto alla morte.

Ai familiari viene negato ogni diritto di visita nel carcere di Piazza Lanza di Catania perché - viene loro riferito dalla polizia penitenziaria - Carmelo è in isolamento. Come il peggiore dei criminali e senza che ce ne sia traccia sulle carte della pratica giudiziaria che lo riguarda. Quel poco che è scritto su di lui lo descrive come un giovanotto finito in un giro sbagliato. Non avrebbe dato segni di azioni “anticonservative” e si definiva quasi “costretto” a delinquere da una banda di criminali in cui si era infilato.

Ad oggi ci sono state tre interrogazioni parlamentari, cadute nel vuoto. Ma la famiglia di Carmelo non si rassegna, la madre Graziella in prima linea. Le lacune delle indagini (non è stata nemmeno sequestrata la cella), gli abusi (come il diritto di visita negato) e le violenze subite documentate sono gli strumenti principali e fortissimi di questa indagine per la verità, che purtroppo subirà tutta l’omertà e le coperture cui ci hanno abituato queste vicende.

Tutto lascia pensare che la morte di Carmelo non sia stata raccontata tutta. Rimangono troppi dubbi. La famiglia non ritiene possibile che abbia fatto tutto da solo. E poi un suicida morto per asfissia che non ha sangue negli arti inferiori, che prima di uccidersi consuma un pasto abbondante (nemmeno digerito, ponendo più di una domanda sull’orario della morte e quello in cui si distribuisce il vitto) e che, moribond, viene caricato su un auto di servizio, è troppo strano. Il tutto con l’aggravante di botte e violenza che sembrano esser diventata prassi ordinaria al momento dell’arresto.

Roba normale, che non fa notizia e che non trova, nei casi di Carmelo come in quello di Cucchi, nemmeno la motivazione del criminale efferato e resistente. Tutt’altro. Carmelo è anzi un giovane intimorito, che vive nell’angoscia di non potersi liberare da questo circolo di malavitosi che l’ha quasi cooptato con le minacce e l’aggressione fisica. Ha paura di raccontare. E questo è evidentemente diventato un comodo argomento per avallare in fretta il teorema del suicidio. Un po’ troppo comodo e un po’ troppo veloce per poterci convincere che labbra ferite e vestiti sporchi di sangue, l’isolamento patito in carcere, l’impiccagione anomala, siano tutto quello che dobbiamo credere sulla morte di un giovanotto preso per una “ragazzata”, come l’avevano definita alla madre le forze dell’ordine al momento dell’arresto.

Ora si combatte per impedire l’archiviazione del caso, per sfidare il silenzio di un altro carcere che ha restituito un figlio in una bara. Un errore di ragazzo che poteva essere recuperato. Ma non c’è stato tempo, né modo di rieducare una vita che aveva preso una direzione sbagliata. Perché Carmelo è morto in fretta. Appeso ad un lenzuolo, come recitano le indagini. Un lenzuolo che non si è trovato più.

 


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