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di Cinzia Frassi
Si è aperto pochi giorni fa, davanti alla terza Corte d'Assise del Tribunale di Roma, il processo per la morte di Stefano Cucchi, 31 anni, fermato il 15 ottobre 2009 per detenzione di sostanze stupefacenti e deceduto una settimana dopo all'ospedale Sandro Pertini di Roma. "Riguardandomi indietro è una grande cosa che il processo sia iniziato. Per noi è difficile essere qui a ricordare quanto è accaduto. Soprattutto perché siamo convinti che la verità é ancora lontana". Questa è una breve dichiarazione della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, a conclusione della prima udienza. Accanto a lei in aula i genitori di Stefano. Tutta la famiglia si era già costituita parte civile. Gli altri ammessi sono il Comune di Roma e la Onlus “tribunale dei diritti del malato-cittadinanza attiva”.
La verità è lontana. Lo dice perché il processo parte da presupposti diversi da quelli che si aspettava lei stessa. Si contesta la versione del pestaggio per far pagare il conto esclusivamente ai sanitari. Di più: secondo la famiglia la gravità di quanto accaduto non si rispecchia nei capi di imputazione. Sembra che Stefano Cucchi sia stato picchiato dalla polizia penitenziaria proprio mentre attendeva l'udienza di convalida nei sotterranei della Cittadella giudiziaria di Roma.
"Quando Stefano Cucchi è giunto in carcere aveva già lesioni gravi". Questo quanto in sostanza hanno dichiarato i medici dell'istituto penitenziario Regina Coeli di Roma, che visitarono Stefano Cucchi al momento del suo ingresso in carcere, il 16 ottobre ed è proprio ciò che dichiarano davanti ad Ignazio Marino, a capo della commissione d'inchiesta sul caso Cucchi. Sembra che successivamente Stefano avesse rifiutato cure e indagini strumentali e che chiedesse di essere dimesso, tanto che sarebbe sua la firma sul foglio di dimissioni. Non è stata invece ritenuta attendibile, nella fase preliminare, la versione del compagno di cella di Cucchi, un tunisino che fa avere una ricostruzione differente: "Mi hanno ammazzato di botte i carabinieri: me le hanno date tutta la notte", avrebbe detto Stefano al suo compagno di cella.
Queste e altre testimonianze verranno sentite ora davanti alla Corte di Assise di Roma, presieduta da Evelina Canale, e sicuramente faranno discutere. Il processo non si svolgerà a porte chiuse, sono ammessi quindi anche giornalisti, ma non sono state ammesse le telecamere. Verrà anche sentita la testimonianza di una volontaria che sembra avesse parlato con Cucchi durante il suo ricovero nella struttura protetta del Pertini.
Non solo: il pm Francesca Loy sostiene che durante le indagini alcune persone avrebbero messo in atto veri e propri depistaggi. Questi sarebbero coloro che accusarono i carabinieri di aver picchiato Stefano subito dopo il fermo. Verranno anche mostrate alla corte alcune foto scattate prima dell'autopsia che servirebbero per accertare le condizioni di Stefano durante il ricovero al Pertini. La Corte si è riservata di decidere se acquisire o meno queste fotografie.
In tutti questi mesi, fin dalla morte del giovane Stefano, l'attenzione dell'opinione pubblica non ha mai perso di vista questo caso, portato all'attenzione della cronaca anche grazie alla tenacia della famiglia che non ha mai creduto che la morte di Stefano fosse sopraggiunta a causa di una misteriosa malattia bensì per essere stato picchiato e abbandonato a se stesso per giorni.
Ricordiamo che nell'aula bunker del carcere di Rebibbia ci saranno tutti e 12 gli imputati che il 25 gennaio scorso sono stati rinviati a giudizio per la morte del giovane Stefano: i sei medici dell'Ospedale Pertini, Aldo Fierro, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, rinviati a giudizio con l'accusa di abbandono di incapace; Rosaria Caponetti, dirigente medico del Pertini, per abuso d'ufficio e falso ideologico; e ancora per abbandono di persona incapace, i tre infermieri, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; le tre guardie carcerarie, Antonio Domenici, Nicola Minichini e Corrado Santantonio , per lesioni personali e abuso di autorità.
Pare una vicenda oscura, misteriosa. Un ragazzo viene fermato per detenzione di sostanze stupefacenti e sei giorni dopo muore. Chi dice che è entrato in carcere già con lesioni sul corpo, quelle riscontrate dall'autopsia, chi dice che è stato picchiato dalla polizia penitenziaria, chi dai carabinieri. Fatto sta che fa la spola dal Fatebenefratelli al Pertini, dove muore. Qualcosa tuttavia si è già riscontrato tanto che Claudio Marchiandi, funzinario del Prap, il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, si è guadagnato una condanna a due anni con rito abbreviato.
Nelle motivazioni della sentenza, il gup Rosalba Liso scrive chiaramente che Stefano "doveva essere necessariamente internato" al Pertini per "evitare che soggetti estranei all'amministrazione penitenziaria prendessero cognizione delle tragiche condizioni in cui era stato ridotto" e che tutto "venisse portato a conoscenza dell'autorità giudiziaria". In questo modo sarebbe rimasto "al riparo da sguardi indiscreti" e sottratto "intenzionalmente a tutte le cure di cui aveva bisogno". Secondo il gup, Marchiandi abusò delle proprie funzioni di pubblico ufficiale, e arrivò a imporre il ricovero di Cucchi al Pertini presentandosi fuori dal turno di lavoro, di sabato pomeriggio, proprio per riuscire ad ottenere l'ingresso di Cucchi in un reparto in cui non doveva stare, date le sue gravi condizioni.
Si legge ancora che "le condizioni fisiche di Stefano erano palpabili e visibili a ciascuno, erano ben note nel contesto della polizia penitenziaria per la pluralità di soggetti che l'avevano visto ed accompagnato. Non c'era spazio a dubbi di sorta in ordine al fatto che Stefano fosse stato picchiato". Molti i punti oscuri di questa drammatica vicenda che fin dall'inizio ha riportato all'attenzione di tutti i casi di decesso in carcere o in situazioni analoghe, in caso di fermo o di arresto per esempio. Secondo l'Osservatorio permanente sulle morti in carcere, composto da Radicali Italiani, Associazione Il Detenuto Ignoto, Associazione Antigone, Associazione A Buon Diritto, Redazione Radiocarcere, Redazione Ristretti Orizzonti, "lo scorso anno per “cause naturali” sono morti 107 detenuti, la loro età media era di 39 anni: 73 casi sono stati archiviati senza alcuna ulteriore indagine, dopo che dalle ispezioni cadaveriche non erano risultati segni di violenza e classificati come decessi causati da malattia. Nei restanti 34 casi è stata avviata un'inchiesta giudiziaria, con ipotesi di reato di varia gravità.
La prossima udienza è fissata per il 28 aprile quando per prima cosa verranno sentiti i carabinieri che fermarono Stefano Cucchi per droga. Il caso Cucchi "è connotato da indubbia gravità poiché s’inserisce in un contesto di generale malcostume sociale e di omertà che, proprio per la passività e la rassegnazione con la quale vengono attualmente vengono vissute dai cittadini, apparirebbe determinato da mera leggerezza, mentre disvela una condotta allarmante. Stefano era nelle mani dello Stato e nelle mani dello Stato è deceduto".
Così le conclusioni della sentenza scritta dal gup e che centra probabilmente il punto oscuro di questa vicenda: malconsutme sociale, omertà, condotta allarmante. Staremo a vedere se il giudice del processo sarà dello stesso avviso.
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di Vincenzo Maddaloni
La terapia è per un corpo, non per l’essere umano che si attende di essere trattato con rispetto perché ammalato. A grandi linee questo è l’approccio che il medico dovrebbe avere con il paziente nell’ospedale modello azienda, che marcia con i ritmi e i disagi della catena di montaggio. La Sanità viaggia su quest’unico binario ormai. Beninteso l’immagine è triste, ma rende bene l’idea di quello che si sta diffondendo anche in Italia. Molto influisce la mentalità dei giovani medici, i quali trovano normale la cura del paziente fatta con i protocolli terapeutici e con gli automatismi feroci, da catena di montaggio appunto.
Infatti, ci sarebbe quasi da sorridere se l'appello non fosse dei più autorevoli e non fosse apparso sul bicentenario (1812) The New England Journal of Medicine. La premessa è d’obbligo perché l’appello-denuncia pubblicato sulla rivista edita dalla Massachusetts Medical Society, avalla una svolta epocale. (http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1012691 )
E’ un richiamo forte a tutta la classe medica invitandola al risparmio e quindi a non affidarsi più soltanto alle tecnologie come s’è fatto finora, ma ad impegnarsi nella rivalutazione delle diagnosi che si basano sull’esperienza accumulata e sulle terapie tutte tese a contenere gli sprechi e a limitare gli interventi che sovente - si ritiene - siano eccessivi e incredibilmente costosi. Pertanto - è scritto - d’ora in avanti saranno riformulati i programmi di studio universitari di avviamento alla professione medica proprio sulla base della nuova svolta perché - si sottolinea - se non si interviene subito c’è il rischio di non riuscire più ad assicurare l’assistenza sanitaria alle future generazioni.
Infine, si ammette che negli Stati Uniti la sanità costa troppo e i risultati sono contraddittori, ragion per cui c’è una ragione in più e certamente valida per una revisione dei corsi di studio che preparano i nuovi medici. Naturalmente gli articolisti si dilungano con cifre, esempi e citazioni per dimostrare che in fatto di tecnologia e di know-how sanitario gli americani sono a tutt’oggi i primi al mondo, ma l’appello-denuncia resta.
Dopo tutto l’articolo non è stato scritto per attirare lettori, per “fare scandalo” come accadrebbe dalle nostre parti. Al contrario, esso è stato sottoposto alla revisione paritaria (peer review) prima di essere pubblicato. Il che vuol dire che è stato valutato da un’équipe di specialisti del settore incaricati a verificarne la validità. Insomma, la peer review, nata con i periodici scientifici di spessore come lo è appunto The New England Journal of Medicine, «ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo della conoscenza scientifica nella società moderna», come sostengono gli esperti.
Se non fosse così probabilmente non si sarebbe sbilanciato il professor Sean Palfrey titolare della cattedra di pediatria alla Boston University School of Medicine, che qualche giorno fa, sul medesimo periodico, è tornato sul tema con un articolo dal titolo esplicito: “Il coraggio di esercitare la medicina a basso costo nell’ epoca dell’High-Tech”. http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1101392 . In esso il professore si lamenta perché negli ultimi tempi i suoi studenti invece di fare pratica spendono gran parte del loro tempo a cercare le risposte nel computer come mai gli era accaduto di vedere nella sua esperienza trentennale d’insegnante.
Spiega che ormai è abitudine diffusa tra i pediatri di affidarsi a questa o a quella pillola o meglio a tutte le novità che escono ogni giorno sul mercato, con il risultato di mandare allo sfascio le finanze del sistema sanitario americano. Ma una ragione c’è spiega il professore. E’ la paura folle dei medici di formulare una diagnosi perché: «Ogni volta, ci sentiamo giudicati da tutti: dai nostri colleghi, dai nostri pazienti, dal sistema sanitario, dagli avvocati e naturalmente dai tribunali». E quindi se non si allenta la pressione sui medici, la bancarotta travolgerà il sistema sanitario americano. Pertanto: «Ogni addetto alla sanità deve concentrarsi sui modi per ottimizzare la salute e ridurre i costi, in ogni fase del processo», raccomanda il professore. E invoca: «I docenti devono diffondere la fiducia, raccomandando agli studenti di soffermarsi sulle terapie basate sull’ esperienza, e all’insegna della frugalità. Infine sollecitandoli a consultarsi con i clinici più esperti prima di prescrivere un test o di iniziare un nuovo trattamento».
Da quando è uscito quest’articolo non c’è giorno o quasi che il “The New England Journal of Medicine” http://www.nejm.org/search?q=Perspective non richiami l’argomento, per tenere allertata la casta dei medici e tramite essa far arrivare il messaggio alla popolazione prima di coinvolgere la politica. Dopo tutto - si tenga a mente - l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti è poco pubblica e moltissimo privata. Tuttavia poiché la Sanità aziendalizzata non prevede dei distinguo al riguardo l’esempio americano continua a far scuola in tutto il mondo dei paesi ricchi. Infatti, non c’è Paese in Europa che non ne sia rimasto contagiato. Occhio ai giovani, dunque, perché su di essi si fonda il futuro del modello. E dunque, i giovani medici come ragionano, con quali processi mentali arrivano a formulare una diagnosi, a prescrivere una terapia?
Se lo è chiesto su The Lancet, (un altro giornale scientifico, meno di ricerca e più di medicina pratica), Jerome Kassirer, l'ex direttore del New England Journal of Medicine. Anche lui, come il pediatra Palfrey, ha il timore che la facilità di accesso a risposte preconfezionate a quesiti clinici possano avere degli effetti indesiderati. «In medicina il ragionamento richiede una enorme conoscenza di fatti sulla salute e sulla malattia, in materia di fisiologia, di benefici e rischi legati ai test e ai trattamenti», spiega Kassier. «Non basta - continua il direttore di Lancet - aver imparato a risolvere problemi e a prendere decisioni, e non basta neanche sapere trovare informazioni; è anche necessario ricordare le informazioni e sapere come usarle.
Dobbiamo evitare di produrre professionisti dipendenti da superficiali riassunti elettronici, formule opache e pareri di esperti. Devono essere in grado di ragionare in modo autonomo». Dopo tutto quel che sostiene Kassirer è che, nel ragionamento clinico, il vecchio e il nuovo devono raggiungere una nuova sintesi. Facile da dire, ma meno facile da applicare.
In effetti girando tra le corsie degli ospedali in Italia ci si sorprende a notare quante siano le nuove leve. Poi si scopre che molti sono medici assunti con contratti non a tempo indeterminato, trattenuti con borse di studio fantasiosamente racimolate dai responsabili dei reparti, o al lavoro talvolta nelle vesti di semivolontariato. «Bravissimi, forse, ma certamente non così esperti da reggere l'impatto dell'abbassamento del livello di esperienza dei loro ex colleghi e maestri più anziani. Immaginatevi le conseguenze sul piano assistenziale: visite più brevi, stress, aumento delle possibilità di errori diagnostici, diminuzione del tempo e quindi anche della qualità del rapporto tra medici e pazienti», denuncia lo psichiatra Franco La Spina. E quindi un rapporto regolato - come detto - da automatismi feroci, dove siccome tutto si svolge in fretta ed è stravolto «da nuove, terrificanti, burocrazie», non ci si capisce molto.
Si aggiunga pure che lo scenario soffre del forte disinteresse dei Media più attenti all’industria farmaceutica che li irrora di pubblicità. Naturalmente, soffre del disinteresse dei tantissimi che non vi si sentono coinvolti perché convinti che mai qualcosa di terribile, come cancro o infarto, possa loro accadere; perché pervasi della protettiva incoscienza del pericolo che caratterizza ogni persona. Insomma, «medici e malati - come proclamava Michel Foucault - vengono tollerati come altrettante perturbazioni difficilmente evitabili…». Quasi fossero un fastidio. Eppure non deve essere così, anzi non dovrebbe esserlo proprio. E’ ora di cambiare mentalità, i giovani medici per primi.
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di Vincenzo Maddaloni
Pare non ci debba essere altra alternativa, perché non c’è giorno che non si sia travolti da un’offensiva mediatica che falsa i fatti per sostenere l’immagine di un mondo diviso in due, ciascuno alternativo e incomunicabile all’altro, sotto la minaccia ora dell’incubo nucleare, ora dell’invasione dei profughi africani, ora dello strapotere della Cina destinata a diventare il numero uno mondiale e via continuando.
Se questo è lo scenario allestito dai media c’è poco da stupirsi di fronte all’apatia di quella vasta parte della società civile che fino all’altro ieri era decisa a lottare per i cambiamenti. Poiché nemmeno quanto sta accadendo da qualche tempo a questa parte sull’altra sponda del Mediterraneo, nel Maghreb, ha offerto lo spunto alle forze progressiste di lanciare una proposta nuova.
Insomma, da troppo tempo si avverte il bisogno di un intervento coraggioso e peraltro originale, capace di avviare un rinnovamento vero. Siccome bisogna pur sempre tenere sott’occhio il mondo poiché facciamo parte della società mondiale, una proposta politica nuova per forza di cose deve tener della realtà globale, al fine di offrire un progetto di riforme inteso non più come modello precostituito di giudizi sulla realtà interna, bensì come processo di analisi politica attenta ai mutamenti socio-economici di un orizzonte vasto. Con il risultato di offrire un progetto politico valido nel quale la società civile possa, ritrovandosi, nuovamente sperare.
Penso che sia ancora un ricordo recente la forte indignazione e la riprovazione che produssero le dichiarazioni di Berlusconi sull’arretratezza dell’Islam, dovute più all’ignoranza storica che alla consapevolezza dell’insulto. Da quando le pronunciò lo scenario in Medio Oriente si è degenerato. Possibile che per le menti che ogni giorno si ripropongono per l’alternativa non ci sia stato un momento di pausa per un minimo di approfondimento, per cercare uno spunto originale, non dico per il risolvere il problema, ma almeno per insinuare il dubbio, stimolare una sorta di resipiscenza, fare un tentativo cercando, per esempio, di guardare il mondo dalla parte dei musulmani? Insomma, quanto basta per correggere il tiro e dimostrare con fatti concreti perché la pensiamo diversamente dagli americani?
Dopotutto, questa politica di aggressione economica e militare che Obama non ha sconfessato, nasce dalle deformazioni del capitalismo che è nato in Europa, e vi si è sviluppato nei secoli. Di qui si è esteso al resto del mondo, anzi questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale. Sicché davanti agli occhi di milioni di musulmani, non soltanto di quelli maghrebini, si dipana un Occidente in larga parte incomprensibile. Poiché quelle società non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, bensì per la loro conservazione, per tutelare quell’equilibrio tra le diverse forze sociali che l’impegno religioso sovrintende e regola.
Si tenga a mente che nel Corano, il sacro testo di riferimento per ogni musulmano, l’uomo è visto nelle sue realtà. Non è il buono per natura, come sosteneva Rousseau, è invece un essere debole, instabile, inaffidabile. Però non è per i musulmani un “corrotto per natura”, come sostengono sant’Agostino e i principali protagonisti della Riforma. Egli è per i musulmani creatura, segno di Dio, e in quanto tale può rivolgersi in qualsiasi momento - senza mediatori e “Chiese” - a quel Dio “misericordioso” che gli concede la grazia o il perdono dei peccati.
Cosicché se la “famiglia” inculca nei figli i valori della solidarietà, della gentilezza, della tolleranza e della comprensione, essa opera perché crede che così facendo si realizzi il contesto ideale allo sviluppo della serena convivenza umana. Ecco perché «la fede, la pratica e l'educazione religiosa dei genitori e della prole hanno grande importanza nell'Islam, tutto il sistema dei rapporti familiari e' influenzato da esse» , come avvertono i sacri testi.
Tuttavia, le diverse interpretazioni delle regole coraniche hanno prodotto, negli ultimi tre decenni, una frammentazione che ha evidenziato i confini tra sunniti, sciiti, waabiti, kharjti, zayditi, drusi, e le varie sotto-sette dei deserti. Non sono riapparse soltanto profonde separazioni dottrinarie, ma anche ideologiche, poiché l’Islam contemporaneo non è soltanto teologia, ma è rinato per mille motivi come ideologia politico-sociale. Tutto si è messo in movimento con immediati spostamenti di frontiere: coinvolgendo diverse interpretazioni del dogma, dell’idea di Stato, di «risveglio» come rilancio del tradizionalismo o come irredentismo legato alla nozione di progresso.
Tutto questo ha ridisegnato, esasperandole, le vecchie frontiere etniche fra arabi e non arabi; fra arabi, turchi, persiani. A guardar bene, la Libia stessa costituisce una peculiarità nel panorama generale, essendo essa un complesso incrocio di culture arabe, berbere e africane. Storicamente le tribù dell'est del paese sono state spesso discriminate dai diversi poteri che si sono succeduti nella storia di quella regione.
E siccome il forte spirito di rivalità tra gruppi si definisce territorialmente, così si spiega il perché del conflitto fra Bengasi e Tripoli. Queste realtà, il Veltroni che invita a scendere in piazza a fianco dei “patrioti libici” e si rammarica perché pochi gli si accodano, le conosce? O parla “tantoperparlà”, come usa dire?
Poiché anche nella società musulmana, tra i ceti più evoluti, oggi si scorgono le tracce dell’ansia che tormenta l’Occidente. Pertanto in molti, anche degli appartenenti al clero, si stanno chiedendo se è più opportuna una limitata laicizzazione del mondo islamico con una totale separazione della sfera politica da quella religiosa come viene invocata, per esempio, da più parti in Iran, in modo da poter reggere il confronto con il secolarismo ideologico con il quale il consumismo s’accompagna. E’ naturale che il processo di modernizzazione occidentale così come appare loro alla televisione, sui giornali li intimorisca, la minaccia dello sfascio della famiglia li sgomenti.
Se non si tengono a mente questi scenari non si riesce a capire quel che veramente ci accade intorno e di conseguenza ricavarne degli spunti validi in questo cambio d’epoca che ci sta attraversando e che ci porta a una transizione inevitabile verso una società molto diversa rispetto a quella in cui viviamo. Sicché il compito prioritario di chi si propone come “Forza del cambiamento” è imparare ad ascoltare. E poi può parlare, e poi può manifestare.
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di Mario Braconi
John Galliano, lo stilista “proletario” nato a Gibilterra 51 anni fa, potrebbe diventare l’icona vivente del proverbio “in vino veritas”: a quanto si apprende dalle cronache recenti, infatti, la scorsa settimana, mentre sedeva ubriaco al tavolo di un bar del Marais di Parigi, avrebbe aggredito verbalmente una signora (ebrea?) ed il suo accompagnatore (un uomo di etnia asiatica) condendo il suo exploit con disgustosi epiteti antisemiti. A seguito dell’increscioso incidente, la maison Dior, di cui Galliano è chief designer dal 1996, lo ha immediatamente sospeso dall’incarico. Si vedrà ora quale sarà l’esito delle indagini, giacché lo stilista è stato denunciato dalla coppia per aggressione.
L’episodio, in sé intollerabile, avrebbe però potuto forse essere ridimensionato (già arrivavano flebili testimonianze di solidarietà da Giorgio Armani e da John Taylor dei Duran Duran) se non fosse per lo scoop del tabloid britannico The Sun, che il 28 febbraio ha pubblicato sul suo sito un video girato di nascosto presso il bistrot parigino La Perle quattro mesi fa, nel quale un Galliano palesemente sbronzo apostrofa in modo indecente delle ragazze sedute al un tavolino vicino al suo.
Anche se le giovani in realtà sono italiane e francesi, agli occhi di Galliano evidentemente appaiono l’ennesima personificazione di quella fantasia antisemita che per qualche ragione lo ossessiona in modo inesorabile: “Scusa, ma tu, sei biondo e hai gli occhi azzurri?” gli chiede ad un certo punto una delle ragazze, che sembra prenderlo in giro per il suo aspetto ben poco “ariano”. “No”, biascica Galliano, a mo’ di risposta, “ma amo Hitler; gente come te dovrebbe essere morta. I tuoi genitori, i tuoi antenati... tutti avrebbero dovuto finire in una camera a gas”.
Anche se l’avvocato di Galliano, Stephane Zerbib, fa quel che può spiegando ai media che la comparsa di un video girato mesi fa appare quanto mai opportunistica, non si può negare che il suo contenuto pesi come un macigno: dimostra infatti che le parole insensate e violente di John Galliano non sono solo delle sciocchezze venute fuori a caso dalla bocca di un ubriaco, ma la dimostrazione di una vera e propria fissazione razzista.
A proposito di tempismo, il caso Galliano e la pubblicazione del video della vergogna si verificano proprio in coincidenza con il trionfo di Natalie Portman, fresca aggiudicataria di un Oscar per la sua intepretazione ne “Il Cigno Nero”. La Portman, i cui nonni sono stati assassinati dai nazisti in un campo di concentramento, oltre a quelle dettate dal buon senso, ha dunque ottime ragioni personali per non transigere sulle imbarazzanti esternazioni del direttore artistico della maison della quale, guarda caso, lei è donna-immagine. Le sue parole sono, comprensibilmente, durissime: “Dopo questo video, come persona fiera delle mie origini ebraiche, non desidero essere associata in alcun modo al signor Galliano”. Una vera sentenza di morte per lo stilista, che il capo di Dior, Sidney Toledano, si è affrettato a comminare, commutando tout court la sospensione di Galliano in licenziamento.
In effetti, ad una lettura maliziosa, il tempismo con cui i due imbarazzanti episodi sono stati somministrati all’opinione pubblica può risultare sospetto. Al punto che, a lasciar galoppare la fantasia, si potrebbe perfino ipotizzare che l’incidente sia stato creato ad arte per sbarazzarsi di un personaggio divenuto per qualche ragione scomodo per la maison: il marchio di infamia ormai indelebilmente associato al geniale designer di Gibilterra, potrebbe essere un modo per scoraggiare eventuali sue richieste di indennizzi milionari in caso di licenziamento.
Un dato, comunque, incuriosisce: il modo in cui la stravagante ossessione razzista di Galliano sia passata inosservata per ben quattordici anni. Soprattutto considerando che il top manager della sua azienda, l’attuale testimonial e perfino il suo avvocato sono tutti di origine ebraica, tutto ciò appare oltremodo ironico, come del resto il fatto che Galliano pare sia di casa del Marais (ovvero l’ex ghetto di Parigi), almeno nei locali dove si servono alcolici. Senza nulla togliere allo sgomento e al ribrezzo suscitato dalle sue intemerate antisemite, sembra probabile che le sue “idee” razziste siano state finora tollerate all’interno della maison per ovvie ragioni commerciali (il celebre aforisma di Vespasiano, secondo cui il denaro procurato dagli orinatoi “non puzza”, conferma ancora una volta la sua imperitura validità).
In effetti, il marchio Dior sembra in qualche modo stregato da un incantesimo filo-nazista: ricorda infatti il Corriere della Sera che, proprio in coincidenza con le esternazioni di Galliano, dagli archivi audiovisivi francesi salta fuori una inquietante intervista effettuata nell’ottobre del 1963 a Francoise Dior, nipote di Christian Dior, fondatore dell’omonimo marchio di moda. Nel video la donna, che porta al collo un monile a forma di svastica, si professa fervente nazista e dichiara che a giorni sposerà l’uomo che nel filmato le siede accanto in silenzio. Questi é di Colin Jordan, noto neonazista britannico, che si unì a lei in un matrimonio di comodo organizzato per evitare alla donna l’espulsione dal Regno Unito come indesiderata, in quanto amante di John Tyndall, altra figura di spicco del nazifascismo “made in England”.
C’è un che d’ispirato e sognante nella voce e nell’espressione leggermente ebete della donna, mentre passa in rassegna le testimonianze di uno degli obbrobri assoluti della storia quasi fossero, appunto, preziosi tessuti che l’opera sapiente di un grande sarto trasformeranno presto in splendidi abiti. Ed in effetti quella di Francoise Dior fu una vita segnata dallo squilibrio (a 36 anni, dopo il suo disastroso terzo matrimonio, fuggì con il suo segretario diciannovenne), da eventi luttuosi (la sua unica figlia si suicidò a venti anni) e di delusioni (Jordan bruciò il di lei notevole patrimonio finanziario per sostenere la causa fascista in Gran Bretagna).
Queste informazioni possono aiutare a comprendere il contesto psicologico ed umano in cui devono essere maturate le sue deliranti scelte di fanatismo nazista. Ma, inevitabilmente, gettano un’ulteriore ombra nera sul marchio principe di LVMH, diretto da un notorio fan di Hitler.
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di Vincenzo Maddaloni
Oggi, al museo Kennedy di Berlino, si apre una mostra dedicata al compleanno - 80 anni (2 marzo 1931) - di Michail Gorbaciov. “Aus dem Familienalbum“ s’intitola, e sono novanta fotografie, in gran parte inedite, che coprono un arco di tempo che va dall’infanzia a quel 25 dicembre del 1991, il giorno nel quale si dimise da Presidente dell’Unione sovietica. Provate a ricordarvi. L’anno seguente - 1992 - il disfacimento della struttura del potere creato dall’ideologia marxista, verificatosi pacificamente e quasi senza spargimento di sangue, lanciava nel mondo la speranza del futuro-promessa.
Essa era alimentata dall'ottimismo teologico di papa Woitjla che prometteva la salvezza e da quello tecnologico che s’impegnava ad assicurare il progresso. Sono trascorsi quasi vent’anni e non è più così. Il futuro-promessa si è trasformato sotto gli occhi di tutti in futuro-minaccia. Le guerre, i disastri economici, le intolleranze, gli egoismi, le disuguaglianze sociali, gli inquinamenti di ogni tipo, hanno stravolto l'immaginario del futuro sicché dall'estrema positività dell'ottimismo teologico e tecnologico si è passati, nel primo decennio del Millennio, all'estrema negatività di un tempo affidato alla casualità senza una direzione e un orientamento. Che fare?
Non credo che si possa cambiare lo spirito del tempo, soprattutto perché dubito che il nostro tempo ponga lo spirito tra le priorità. Ma si dà anche, nei tempi di crisi, che più di qualcuno cerchi sostegno nella memoria la quale è il deperibile, prezioso patrimonio dei sopravvissuti, esposto alla dialettica del ricordo e dell'amnesia. E' una verità soggettiva, insidiata da mode, interessi e sentimenti, annebbiata dalla nostalgia, ma è ancora la vita, seppure minata dalle fragilità e dalle incertezze.
A rinfrescare la memoria contribuisce la celebrazione, il ricordo, di una serie di anniversari: i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, i duecento anni della nascita di Liszt, i ventuno della caduta del Muro e della rivolta di piazza Tiennamen; gli ottant’anni di Gorbaciov, che Berlino ricorda con affetto perché con la sua Perestrojka egli le evitò un bagno di sangue. Sicuramente, ci stiamo dimenticando di altri anniversari, altrettanto significativi.
La memoria pur traboccante di dettagli diventa sempre più fluida, e alla fine rimane, ripetiamo, una verità soggettiva, probabilmente di scarsa rilevanza, se non per chi la vive. I media, la televisione, i giornali, di certo non aiutano, anzi. Basta leggere quel che si scrive o si racconta della Libia in questi giorni. Difficile farsi un’idea precisa su questa gigantesca crisi perché ogni spiegazione per essere esaustiva richiede conoscenza, visione, coraggio, forte controllo dell’ obiettività. Esattamente tutte le condizioni che, mai come in questo frangente, sono mancate ai giornalisti.
E’ risaputo che non c’è mai stata un’età dell’oro del giornalismo, ma mai c’è stato lo scempio che oggi investe i media. E’ sufficiente aprire un canale qualsiasi della televisione per capire che la "libertà d'informazione e di critica" e "l'obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti" vengono violati di continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono inesistenti. E’ sempre più difficile essere informati, è sempre più difficile capire ciò che sta accadendo perché le notizie decisive per il nostro futuro quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco di contraddizioni.
Accade però pure che un numero sempre maggiore di cittadini stia prendendo più coscienza delle manipolazioni, della parzialità, della mancanza di obiettività, e comperi sempre meno giornali e guardi sempre meno i telegiornali. Tuttavia, continuiamo ad assistere al trionfo del giornalismo speculativo e spettacolare che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla, e che comunque va a scapito di un giornalismo d’informazione che non viene incoraggiato né tanto meno difeso.
Si aggiunga, nel caso Italia, lo iato profondo che separa mondo accademico e mondo giornalistico, i quali quasi mai interagiscono tra di loro separati come sono da una diffidenza reciproca. I primi arroccati nelle università con i loro testi le loro dispense le loro ricerche rigidamente accademiche e dunque elitarie. I secondi rinchiusi nei desk alla prese con le agenzie e quindi con un’informazione manipolata che emargina il giornalismo d’inchiesta e privilegia il giornalismo delle contraddizioni col risultato di una disinformazione perenne.
Infatti, questa tensione internazionale amplificata dai media con una tenacia ossessiva e assordante predicando e praticando molto poco l’ideologia di pace e molto più l’ideologia di guerra, porta ad accantonare, quasi fosse un problema secondario, l’affermazione del moral framework, la cornice morale di valori, quell’etica mondiale indispensabile al bene dell’umanità.
In tanto chiasso, il sostenere che è prioritario ricostruire una speranza in mezzo alle macerie di quella che sembra diventata la civiltà del mondo ridotta allo squallido gioco dei rapporti di forza nella polveriera globale, appare come un’impresa irrealizzabile. Bisogna arrendersi? «Se un’acqua ristagna in un punto qualsiasi, marcisce. Sii dunque come il mare così non marcirai», predicava (nono secolo) il mistico persiano Bayezid Bastami.
Ma a proposito di memoria, non occorre rinfrescarla più di tanto per ricordare i fondamenti teorici del progetto americano che avevano portato alla guerra all’Iraq. Era il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori, a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal “prediletto” del presidente George W. Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Erano - ricordate? - uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche.
Questa caratteristica “genetica” spiegherebbe l’ondata di violenza terrorista sempre più virulenta e si frapporrebbe come ostacolo ad una democratizzazione concepita come l’unico rimedio possibile a tutti questi mali. Il verbo presente è d’obbligo perché queste conclusioni non sono scadute, sebbene ci sia stato il cambio della guardia alla Casa Bianca.
Di fronte al terrorismo che potrebbe ricorrere alle armi di distruzione di massa - chimiche, batteriologiche, perfino nucleari - l’America, secondo i neocon e anche secondo il governo Obama, non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminandone le tare e costringendolo a democratizzarsi. Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico di tale compito, ricorrendo alla forza, se necessario. L’invocazione astratta alla "democrazia" serve da giustificazione ultima alle azioni dell’America, un po’ come, in tempi non lontani, accadeva con la minaccia del “socialismo reale” dell’Unione Sovietica. Lo si è visto ancora una volta in queste ultime settimane nel Maghreb.
È una configurazione teorica che mette insieme il fondamentalismo cristiano, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si proietta verso l’esterno assumendo una forma aggressiva, unilaterale e arrogante. È questo il blocco ideologico che aveva guidato l’intervento in Iraq e altrove, e che continua ad essere applicato anche dopo l’arrivo sulla scena di Obama.
Nasce da qui la difficoltà a modificare questa politica indissolubilmente nazionalista e al contempo rivolta all’esterno che suggella la desecolarizzazione crescente dell’elemento politico e dello Stato in America. Questo spiega anche la facilità con cui si tollerano metodi come la tortura e si investe di poteri illimitati il presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non solo non sono state giudicate, ma nemmeno accusate. Accadeva prima con Bush, accade ancora con Obama.
Se questo è lo scenario diventa ancora più assordante il silenzio dell’Italia in quella che dovrebbe essere la sua più naturale ed efficace area di intervento, a cominciare dalla Tunisia per finire alla Libia. Accade, nonostante l’Italia - ad esempio - abbia in Libia uomini e denaro, e dalla Libia dipenda, per energia, per scambi commerciali e per investimenti reciproci. Un’inadeguatezza comunque condivisa, anche se dal gradino più basso, poiché non c’è alcun Paese dell’Europa che si rammenti della sua cultura (l’Italia dovrebbe essere prima tra tutti) e apra un confronto sull’arroganza della gestione americana in tutto il Medio Oriente.
Stando così le cose è oggi l'"umanesimo" stesso ad essere gravemente minacciato. Sta assottigliandosi ciò che l'uomo è venuto costruendo in millenni di civiltà, e il cui insieme ha ricevuto il nome di spirito e di anima. Avvertiva Edward W. Said, esperto del Medio Oriente come pochi altri: «Il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell’Altro.
Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza - sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l’Islam e gli arabi da un lato, e “noi” occidentali dall’altro - sono imprese su larga scala».
Allora perché stupirsi quando si legge che Gheddafi lotterà fino alla fine, fino «all’ultima goccia di sangue» come ha promesso l’altro ieri. Perché lui al Libretto verde, ai comitati popolari, al sogno di una Libia che guida il mondo verso una nuova èra, a furia di ripeterlo e di raccontarlo, ci crede. E’ un tiranno mistico, il più pericoloso, il più irriducibile. Peccato che alcuno abbia saputo raccontarlo e spiegarcelo fino in fondo, a riprova che è sempre più difficile ottenere un’informazione corretta. Bisogna arrendersi?