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di Rosa Ana De Santis
Lo scenario é quello di Zagabria, terra croata e cattolica, rifugio d'integralismo papalino. E l'occasione é buona per riaffermare, pur senza lanciare anatemi, anzi con un discorso sobrio ma non per questo meno deciso, la centralità della famiglia nel modello sociale cattolico. Famiglia tradizionale, ovviamente, ovvero siglata dal rito del matrimonio, che rifugge da tentazioni di sperimentazione di forme diverse d'unione; non solo quelle tra lo stesso sesso, ci mancherebbe, ma anche ogni convivenza, sia essa una scelta definitiva, sia anche solo una forma transitoria nella sperimentazione di una vita a due. Insomma, Ratzinger non si lascia sfuggire l'occasione di un raduno importante di cattolici per inoltrare, una volta di più, schemi e precetti che, al clero, appaiono dogmi da osservare come fossero precetti religiosi e non scelte politiche di Santa Romana Chiesa.
Del resto, il discorso di Zagabria ha fatto seguito a quanto già detto in ogni occasione e, ultimamente, ribadito in occasione dell'udienza al dicastero per la Nuova evangelizzazione. In entrambe le occasioni l Pontefice ha denunciato la marginalizzazione del cristianesimo dalla vita pubblica, ma soprattutto la perdita di attenzione e sensibilità per la fede e i suoi valori. Intere generazioni sono ormai estranee, secondo il Papa, a quella cultura intessuta sui valori cristiani che, a prescindere dai dogmi di fede, un tempo plasmava ogni atto di vita relazionale e pubblica. Il cristianesimo come una grande ragnatela ininterrotta dalla famiglia alla società, come cultura e come sistema di pensiero, come teorizzava Maritain.
Al dicastero da lui fondato, e oggi guidato da Monsignor Fisichella, Ratzinger affida questa denuncia e l’invito ad una nuova massiccia evangelizzazione. A margine di questa confessione c’è la voglia da parte di molti di appartenere alla Chiesa, senza alcuna coerenza con i dettami della fede, come se essere fedeli fosse la stessa cosa che avere in tasca una tessera di partito o indossare una maglia di calcio.
Un’osservazione che mette in luce sia la miseria degli ultimi tempi con cui la politica ha cercato di avocare alla propria causa campagne sui valori in un clima moralmente scomposto e a tratti imbarazzante, sia la strabordante depravazione autoprodotta che la Chiesa non riesce più a contenere nemmeno ricorrendo all’orrore storico dell’omertà.
Un clima ormai sdoganato di sospetto e diffidenza attraversa la Chiesa, anche in quei luoghi di aggregazione di importante impatto sociale ed educativo come le parrocchie e gli oratori. Per la prima volta non è il Vaticano, la Curia, il potere secolare della Chiesa ad essere lontano. Ma il prete diocesano qualunque e la sua comunità.
Il problema scottante non è l’estraneazione dalla liturgia e dai suoi riti, ma piuttosto il ritorno ad essi senza alcuna partecipazione autentica di fede. Sacramenti di massa vengono somministrati senza alcuna preparazione a cittadini che si dicono cattolici per un giorno, per una festa, per un rito più folcloristico e sociale, che non spirituale. La Chiesa, questo tra le righe del messaggio papale, sopravvive nelle sue pratiche e nelle sue manifestazioni estetiche, senza traccia di un’evangelizzazione profonda.
Non propone soluzioni il Papa teologo, ma invita alla credibilità e alla fede come una scelta viva e totalizzante. A quell’umanesimo integrale, per tornare proprio a Maritain che magistralmente aveva studiato la relazione tra fede e cultura religiosa, che costruisce l’asse portante del credente e di una società che a certi valori s’ispiri seriamente e non solo, per venire alla cronaca spicciola dell’attualità, in una competizione antimusulmana dai tratti xenofobi, che nulla ha a che vedere con la fraternità delle Sacre Scritture.
Non vogliamo diventare tutti cattolici, ovviamente. Ma è certamente vero che questo Paese aveva, e forse non ha più, un’ispirazione cristiana di vita, più pubblica che non privata. Di questo collante culturale sono rimaste le battaglie gridate per tenere il sondino dentro una ragazza, per criminalizzare una pillola abortiva, per impedire la nascita delle moschee. Esattamente come molto altro negli ultimi anni, anche la fede ha vissuto un progressivo impoverimento, concentrandosi sulle sfide di piazza e perdendo ogni traccia di introspezione e di argomentazione.
Quello che è rimasto è l’impalcatura dei sacramenti e la ritualità, senza le azioni. Che si risvegliano solo quando c’è una legge liberticida da avallare, un aborto da impedire, senza nemmeno il disturbo di troppa riflessione. Finché quel problema, quell’inciampo, quel divieto riguardi sempre la vita degli altri, e consenta per sé, all’occasione, una comoda eccezione.
La Chiesa della doppia via, del potere senza il sostegno della fede è diventata una caricatura di se stessa, una istituzione caratterizzata da una sproporzione di equilibri interni che la restituisce all’opinione pubblica come qualcosa di accessorio, che diventa utile solo in determinate operazioni di marketing, come qualcosa di terribilmente conforme agli usi e ai consumi. Tutto quello che il cristianesimo non era mai stato.
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di Cinzia Frassi
“La mia filosofia è che per istruire i ragazzi bisogna cominciare quando questi sono ancora molto giovani, ma a causa del divieto non abbiamo ancora iniziato questo processo di apprendimento e solo eliminandolo potremmo vedere se funziona davvero”. Questa la frase “test” infilata da Mark Zuckerberg durante la sua partecipazione all’E-G8. Il CEO di Facebook, intervenuto all’evento collaterale al G8, fortemente voluto dal presidente francese Nicolas Sarkozy, ha in seguito smentito la volontà di mettere mano al divieto che dovrebbe impedire ai minori di 13 anni l’accesso al social network.
Istruire? Processo di apprendimento? A dir poco inquietante. Ma istruire a cosa di preciso? Viene davvero da chiederselo. Soprattutto viene da chiedersi quali sono le qualità del Ceo di Facebook per farne un educatore all’altezza dei nostri tempi. Non è dato saperlo; fatto sta che nessuno ha creduto che l’interpretazione più fedele alle parole su citate sia squisitamente di ordine educativo.
Per coloro che nutrissero ancora dubbi, va detto che Zuckerberg si è affrettato a precisare che “l’educazione è chiaramente l’elemento più importante che guiderà la crescita dell’economia nel lungo termine“. Minori? Crescita economica? Ancora più inquietante: si tratta di un vero e proprio trasferimento sui più deboli di una mercificazione dei rapporti umani dagli adulti ai minori, di un approccio alla rete finalizzato all’assillo del Pil. Del resto, Facebook ha fatto guadagnare un’enormità: perché non “educare” i più piccoli e guadagnare ancora di più?
Questa la strategia di crescita targata Facebook pensata alla luce di sondaggi e ricerche svolti negli Usa e che hanno rilevato una forte presenza nei social network di minori under 13. Nel vecchio continente i dati raccolti recentemente dalla ricerca denominata EU Kids Online, condotta per conto della Commissione europea, hanno introdotto elementi di discussione molto interessanti a Bruxelles. La ricerca ha svelato il comportamento dei ragazzini europei davanti al pc.
Il 77%: questa è la percentuale assolutamente preoccupante di ragazzi di età compresa tra i 13 e i 16 anni che possiede un profilo su un social network. Nella fascia d'età 9-12 anni, la percentuale è del 38%. Questi naturalmente hanno un profilo su Facebook o altro social perché mentono sull’età. Di più: il 25% dei minori che ha un profilo su un social network, come Facebook, dice di avere un profilo pubblico. Ciò significa prima di tutto che i dati inseriti nel profilo quali indirizzo, scuola, città, telefono, foto, contatti e così via, quando inseriti sono disponibili. Tutti possono vederli. E usarli chiaramente per i più svariati motivi, da quelli commerciali fino ad arrivare agli adescatori pedofili.
In secondo luogo questo risultato è emblematico di quanto poco interessi l'aspetto della sicurezza e della privacy in rete. Poco si è fatto e si fa per spiegare ai minori cosa significa privacy e come comportarsi in rete. Il valore e la necessità di protezione di quei dati personali, e dei minori stessi, non dovrebbe essere qualcosa da lasciare unicamente ai singoli, alla loro capacità di capire cosa sia la rete e a quali rischi esponga. In primis ai genitori, che si trovano ad affrontare una realtà sempre più pressante, quella dei social network, nella vita dei loro figli. Privacy è una parola che non porta con se alcun valore per molti internauti, una parola abusata e svuotata di effettiva protezione anche fuori dal mondo virtuale.
Che non si è fatto abbastanza risulta chiaro da altri numeri. Il 56% dei bambini tra 11 e 12 anni - più della metà - sa come modificare le impostazioni sulla privacy, e nella fascia d'età 15-16 anni sono il 78% a saperlo fare. Questa, che viene rilevata come una buona notizia, non lo è affatto. Lo sanno fare? Sì, ma il profilo resta pubblico. Significa che non c'è stato un impegno efficace nell'educazione alla rete di questi minori che, pur sapendo come rendere privati e non accessibili i propri dati personali, semplicemente scelgono di non farlo.
Il sondaggio, che ha avuto come base 25.000 giovani europei, è stato voluto proprio nell’ottica di una revisione, messa in calendario durante l’estate, di alcuni aspetti fondamentali della rete e delle disposizioni in merito a privacy, data retain e di aspetti legati alla sicurezza dei minori in rete.
La vice presidente della commissione europea per l’Agenda digitale, Neelie Kroes, ha commentato il sondaggio dicendo che “il quadro che emerge assume rilevanza anche in vista della prossima revisione dell’accordo europeo sulla socializzazione in rete più sicura. Tutti i gestori di siti di social networking dovrebbero immediatamente aumentare automaticamente il livello di privacy dei profili dei loro utenti minorenni, rendendoli accessibili soltanto a una cerchia di persone stabilita dagli utenti stessi ed escludendoli dai motori di ricerca online”.
L’età, la rete, la privacy e la sicurezza, sono elementi discussi entrando nel merito in primo luogo dell’aspetto tecnico e in secondo dei risvolti commerciali della grandi web-company. La discussione e le riflessioni di questo mondo tuttavia dovrebbero incontrarsi con altre voci, altri punti di vista. Magari con la filosofia. Lo scorso venerdì si è conclusa ad Avellino l'ultima edizione de "Il borgo dei filosofi", iniziativa inserita nelle celebrazioni per il 150enario dell'unità d'Italia, promosso dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Avellino e dall'ente Teatro.
In questa occasione Zigmunt Buaman, che non ha bisogno di presentazioni, da una lettura molto chiara del significato sociale di Facebook. Il grande pensatore della società liquida spiega cosa nasconde la forte presa dei social network: tutto nasce dalla mercificazione, dal vendere tutto, anche noi stessi. Siamo tutti clienti e venditori allo stesso tempo. In questo contesto facciamo molte azioni a caso, senza programmare.
Facebook, continua Bauman, è solo uno strumento di una strategia che segue la stessa logica del mercato in cui c’é chi compra e chi vende e noi stessi siamo un bene di consumo, di scambio, che si vende facilmente. L’individuo fa tutto ciò perché vuole essere al passo con i tempi, è un obbligo, è prigioniero di questa logica. Ma il web non doveva renderci liberi?
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di Mario Braconi
A Jesse Mc Kinley, capo della redazione californiana del New York Times, non difettano certo coraggio e curiosità: su incarico del suo giornale, ha deciso di frequentare per un paio di mesi gli adepti californiani di uno dei più rilevanti partiti neonazisti americani. Una copertura minuziosa, visto che Mc Kinley non si è limitato a presenziare a riunioni e raduni del Movimento Nazional Socialista americano (NSM), Sezione California del Sud, ma si è spinto a frequentare la casa del leader locale Jeff Hall.
Il NSM, che si autodefinisce “il più grande gruppo per la supremazia della razza bianca” negli Stati Uniti, conta in realtà non più di 400 membri, sparpagliati in 32 Stati: se non fosse per il loro attaccamento feticista alle divise naziste dei tempi della guerra (li chiamano infatti anche Hollywood Nazis, ovvero nazisti da cinema), passerebbero quasi inosservati.
Capo del movimento é il “comandante” Jeff Schoep, nato nel 1973 nel Minnesota. Benché sia difficile trovare informazioni ufficiali (e vere) sul suo conto, secondo una ONG per i diritti civili (il Southern Poverty Law Center di Montgomery in Alabama), il momento più interessante della sua biografia è un arresto per furto, avvenuto nel 1998.
Tutto si può dire di Schoep, tranne che non sia attaccato alla famiglia, però: quel giorno in cui decise di rubare da un negozio materiale elettronico del valore di 4.000 dollari volle con sé i suoi quattro bambini e la sua compagna. Sfortunatamente la sua sensibilità paterna non fu particolarmente apprezzata dal giudice, il quale, oltre a condannarlo, ebbe parole dure per il “povero nazista” Schoep, accusandolo di “ipocrisia”.
Non che le cose dal punto di vista politico gli siano andate molto meglio: tra le iniziative non memorabili di Schoep si ricordano le campagne di tesseramento a prezzi scontati dirette agli skinhead di destra (solo 35 dollari all’anno, un vero affare) e il reclutamento di minorenni (14-17 anni). Schoep avrebbe potuto fare di più e meglio per il suo simpatico movimento se non fosse stato per il collega John Edward Snyder, capo del NSM dell’Indiana. Il fatto che quest’ultimo si sia rivelato uno stupratore e un pedofilo recidivo può aver reso più cauti i genitori di fede nazista, al momento di affidare le loro proli ariane al movimento di Schoep e soci.
Fin qui c’è n’è abbastanza per capire chi siano in realtà Schoep e i suoi camerati: falliti ed irresponsabili, convinti di risalire la china mettendo a frutto la loro unica risorsa: l’odio che gli bolle dentro. Eppure sarebbe un errore sottovalutare il “comandante” e quella manciata di disadattati che lo considerano un leader. Basti pensare che una manifestazione del NSM “contro la criminalità negra” a Toledo, Ohio nell’ottobre del 2005 causò gravi disordini, incidenti, e si concluse con l’arresto di oltre cento persone.
Jeff Hall, il contatto di Jesse Mc Kinley, era il rappresentante del NSM per la California del Sud. Era, perché il progetto di seguire i neonazisti per un paio di mesi è stato bruscamente interrotto lo scorso primo maggio dalla morte di Hall, assassinato da uno dei suoi cinque figli, un ragazzino di dieci anni, che lo ha freddato con un colpo di pistola. Secondo la polizia, l’omicidio è stato intenzionale, ma non sono ancora del tutto chiari i moventi. Una tragedia familiare che, oltre stimolare l’attenzione pubblica americana sui gruppi per la supremazia bianca, fa a pezzi l’immagine degli Hall come famiglia felice e “normale” dipinta, con comprensibile perplessità, da Mc Kinley.
Il reportage del giornalista del NYT in effetti descrive bene la surreale coesistenza tra lo stile di vita pacioso tipico di un sobborgo californiano e le esecrabili idee razziste che erano il pane quotidiano a casa Hall. Mc Kinley racconta di mercatini di autosostentamento dove si vendono cinture con la borchia delle SS accanto a magliette di Che Guevara (“è un assassino comunista, ma se vendi una di queste T-shirt stai finanziando il nostro movimento” è stato il pragmatico ragionamento di Hall); di coppie di skinheads (etero, s’intende) divisi tra lo scambio di tenerezze sul pianale di un pickup e le grida antisemite lanciate al successivo comizietto; e di grigliate a base di salsicce e sproloqui contro le razze “inferiori”.
A proposito di razzismo, nella storia del NSM non mancano le situazioni ironiche: pare infatti che il “grande capo” Schoeps (cui alcuni attribuiscono un padre ebreo) sia inviso ad alcuni militanti “duri e puri” a causa della sua attuale compagna, una bella donna dalla pelle ambrata, per metà nera; non solo la donna ha avuto in passato una relazione con un uomo di colore, ma ha concepito assieme a lui una figlia. Benché la ragazza visiti regolarmente la madre a casa del suo arianissimo nuovo compagno, è probabile che non si faccia vedere in uno di quei surreali barbecue in cui si celebrano i fasti della razza bianca.
L’impressione riportata da Mc Kinley, almeno fino al tragico epilogo della sua storia, è comunque quella che la famiglia Hall fosse unita e Jeff un padre molto presente; come questo dato possa riconciliarsi con una predicazione costante di odio e intolleranza non è dato sapere. Come pure è discutibile il verdetto del professore di una scuola parificata, chiamato a valutare il giovanissimo futuro parricida, educato in casa a causa del suo iperattivismo e della sua occasionale violenza: secondo l’ispettore, l’ambiente familiare in cui cresceva il ragazzo era “caldo, amichevole e pulito”, arricchito da “attività manuali, esperimenti e giochi”.
Il ragazzo, concludeva il valutatore, “faceva progressi costanti”: visto quello che ha combinato si può forse dire che si è rivelato addirittura precoce. C’è da sperare che la cecità di questo insegnante sia un caso isolato, conseguenza di totale incompetenza, follia o corruzione. Altrimenti la libertà negli USA potrebbe avere le ore contate.
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di Sara Seganti
La rete internet ha modificato, eccome, il nostro modo di consumare: le occasioni d’incontro tra venditori e compratori si sono moltiplicate, i consumatori sono più attenti e informati e le distanze si sono accorciate. Questi cambiamenti non avevano fino ad oggi, tuttavia, ancora stravolto l’atto di consumo classico, verticistico, nella relazione tra venditori e compratori, come invece è successo con l’affermazione sulla scena di forme innovative di scambio e condivisione che superano questa gerarchia.
Nonostante l’entusiasmo iniziale sulle possibilità commerciali di Internet nei primi anni ’90, la rete virtuale non era ancora riuscita a superare le dinamiche di consumo tipiche del mondo “reale”: in fondo si era limitata a perfezionarle sempre di più e questo aveva iniziato a generare più di una diffidenza. Negli ultimi anni, Internet diventa sinonimo di un consumo estremizzato, un far-west dei dati personali, dove non fidarsi è meglio e dove la monetarizzazione e la mercificazione dei rapporti diventano la norma.
I motori di ricerca tracciano identità e preferenze, i social network sono conniventi complici di questi furti di identità, tutta la rete è organizzata per mantenere memoria delle scelte di consumo con lo scopo di profilare compratori da irretire con sempre maggiore efficacia.
In questo scenario poco rassicurante, si innesta l’esplosione dei social network, accusati da molti di impoverire le relazioni umane, creando fittizie comunità virtuali composte da individui sempre più soli. Possibile che uno strumento come Internet che prometteva di rivoluzionare le nostre vite, non fosse ancora riuscito a modificare il nostro modo di consumare? Oggi questo cambiamento sembra finalmente arrivato.
Data la forma assunta dalla nostra società dei consumi e dalla netta separazione esistente tra lavoro e tempo libero, per comprendere questi fenomeni è necessario ampliare la definizione di consumatore, che non è più solo un acquirente di beni e servizi, ma è diventato a tutti gli effetti un fruitore di esperienze. E ci sono nuove comunità di consumatori di esperienze fondate sulle possibilità d’interazione orizzontale che solo la rete è in grado di generare. Sono esperienze signifcative, nel senso che la comunità virtuale diventa esperienza di senso reale, sulla base di tre principi cardine: l’affinità elettiva, la condivisione universale e il risparmio economico. Vediamo come ciò diventa possibile.
In una prima categoria, si possono elencare alcuni siti in cui si scambiano esperienze senza esborsi: servizi che normalmente si pagano diventano, qui, gratuiti e condivisi. Il couch-surfing é uno dei migliori esempi di questo passaggio dall’atto di consumo alla gratuità dello scambio. Letteralmente vuol dire "surfare sul divano" (http://www.couchsurfing.org/) e ha un sottotitolo evocativo: contribuisci anche tu a creare un mondo migliore, un divano alla volta. Si tratta di un fenomeno già esploso, che conta adesso circa 3 milioni di utenti inseriti in un network internazionale, in cui si incontrano persone che offrono e persone che cercano ospitalità. Tutto rigorosamente gratuito. Gli obbiettivi sono conoscersi, viaggiare all’interno delle comunità locali e non chiusi nei percorsi obbligati del turismo di massa.
Questo sito deve il suo successo a un ottimo sistema di profili e di feed-back: le persone si scelgono, grazie alle numerose informazioni che è possibile inserire nelle pagine personali e in virtù dei commenti che gli altri hanno lasciato. Il couch-surfing ha anche creato le sue regole di buona educazione: è gradito darsi da fare, ad esempio cucinando una cena alle persone che ti ospitano, proponendo loro specialità del tuo paese di origine. Questa forma di scambio non ha nulla a che fare con il vecchio scambio casa, perché qui la reciprocità non è binaria, ma universale: qualcun altro mi ospiterà quando ne avrò bisogno, all’interno di un cerchio di disponibilità potenzialmente infinito.
Conversation exchange http://www.conversationexchange.com/ mette in rete chi è alla ricerca di occasioni per praticare un'altra lingua e per conoscere persone nuove, mentre il Co-working permette a chi lavora da casa di organizzarsi virtualmente per condividere, realmente, uno spazio comune e le spese.
Queste forme di condivisione sono improntate a un’etica sociale e culturale, che vede nell’aggregazione in comunità reali orientate alla collaborazione, all’apertura e all’accessibilità una risposta positiva e economica, non solo alle esigenze da soddisfare, ma anche a un più generale recupero di qualità nei rapporti con gli altri. Ancora, uno degli ultimi ritrovati in tema di alloggio è Airbnb www.airbnb.com, un sito in cui chiunque può affittare una stanza: i prezzi sono modici e anche qui, è la condivisione a essere il valore aggiunto.
Esiste poi una seconda categoria di possibilità, queste invece a pagamento, come gli house concert o la cena a casa come al ristorante. Queste sono nuove modalità di fruire dello spazio privato, che si apre a amici, conoscenti e gruppi privati per vivere esperienze collettive come un concerto dal vivo o una cena.
Tutte queste forme di consumo orizzontali e di esperienze socializzate hanno in comune l’incontro reale nel privato, generato a partire dalla comunità pubblica in rete, sulla base dei principi già citati dell’affinità elettiva, della condivisione universale e del risparmio economico. Occorre distinguere, al loro interno, i network gestiti da grandi realtà imprenditoriali e i piccoli gruppi completamente autogestiti.
Si può comunque affermare che la generazione condivisa, per prendere in prestito un termine del gergo energetico, s’indentifica in una nuova visione degli spazi di socializzazione delle città, facendo uscire le persone dal rapporto verticistico venditore di servizi/consumatore e mettendo tutti sullo stesso livello, in spazi privati senza gerarchia. Si potrebbe dare una lettura più politica di queste esperienze che, per alcuni versi, potrebbero sembrare forme di socialismo spontaneo, ma che per ora sono solo embrioni portatori di una forma innovativa di vivere nell’era di internet.
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di Rosa Ana De Santis
Le proiezioni di voto sul referendum che si è tenuto in Svizzera dicono che l’80% ha respinto le richieste dell’Unione Democratica Federale e del Partito Evangelico, che volevano impedire ai non residenti di venire in Svizzera per la dolce morte. Il proposito politico al fondo di questa mossa referendaria non era solo quello di bloccare “il turismo della morte”, ma anche quello di rimettere un po’ in discussione una pratica, quella del suicidio assistito, che in Svizzera è in vigore dal 1941. Il cantone di Zurigo, di robusta tradizione liberale, non ha tentennato nel ribadirne invece la liceità e la coerenza con la tradizione culturale del paese.
Il suicidio assistito non è propriamente assimilabile all’eutanasia. Non prevede, infatti, alcuna partecipazione attiva da parte di terzi, ma una modalità di intervento puramente passivo, in cui vengono messi a disposizione alla persona che lo richiede tutti gli strumenti necessari a far cessare la propria esistenza. La differenza, che può sembrare debole e forse anche cinica rispetto ai contenuti morali della questione, è invece molto importante rispetto alle questioni legali che ne conseguono, dal momento che non è previsto alcuna azione “attiva” da parte di un sanitario o di un familiare.
Della liberalità della Svizzera godono i cittadini di molti paesi limitrofi, cui non fa eccezione l’Italia; la percentuale complessiva dei non residenti, infatti, che arrivano nel cantone elvetico per il suicidio, è aumentata negli ultimi anni. A fornire questi numeri sono l’associazione Dignitas - che assiste in Svizzera i candidati alla dolce morte - e l’associazione Exit Italia, che ha la lista di una trentina di persone partite per il cantone di Zurigo e morte lì, pagando cifre peraltro più basse di qualsiasi funerali fatto in casa.
Il turismo delle persone e dei familiari che non vogliono essere obbligati a vivere, magari di fronte e prognosi nefaste, a malattie invalidanti e croniche, può sembrare macabro e così lo percepisce una parte - minoritaria - della popolazione zurighese. Ma esso rappresenta soltanto una parte di un turismo più ampio e vario che andrebbe definito più correttamente come turismo delle “coscienze”. Quelle di tutti coloro che sono costretti a delegare allo Stato ogni facoltà decisionale sulla vita.
Quanti, ad esempio, non possono decidere della salute dei propri figli, tutte quelle donne che in Italia vedono la propria salute minata da una pratica arronzata e insidiosa come quella sottesa alla legge 40, o quanti sono costretti ad essere nutriti con un tubo naso gastrico finchè la provvidenza lo vuole.
Coloro che varcano il confine sono persone che nel proprio paese non hanno la libertà di decidere della propria esistenza e che, grazie anche a maggiori informazioni sull’argomento, possono interrompere le atroci sofferenze che vivono, addormentarsi con un potente sonnifero senza accorgersi di niente e senza provare dolore, nel conforto dei propri cari e avendo la possibilità di cambiare idea fino all’ultimo.
Quello che scuote davvero l’opinione pubblica italiana e le istituzioni che l’ammansiscono a dovere, è l’abolizione del velo dell’ipocrisia e la codificazione normativa di un’umana pietà che ogni giorno, in moltissimi hospice di malati terminali, porta tanti pazienti, in special modo quelli oncologici, a morire di morfina, magari solo con più tempo e con più dolore.
Il nodo della questione non é che tali pratiche non avvengano, ma che non siano normate né ammesse per legge, e che siano strappate alla chetichella e di nascosto, magari con l’aiuto di un medico compiacente. L’impedimento legislativo o il vuoto normativo servono non a difendere la cosiddetta “cultura della vita”, usata come una bandiera ad ogni occasione utile, ma a non insidiare quella “cultura del dolore” che rappresenta il dna del clima culturale del paese. Quella comoda sacralità del male che ci vorrebbe tutti rassegnati e quasi onorati di avere sulle spalle la nostra croce.
Che è, alla fine, l’unico orrore culturale per il quale dovremmo avere sdegno e ripugnanza. Quello che confonde la vita con la tortura, la sua bellezza con la prigionia in un corpo. E quella che al dunque chiede a tutti, non si capisce bene il perché, di trasformare la morte in un Calvario.