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di Rosa Ana De Santis
Sì è celebrata il 20 giugno la Giornata Mondiale per i rifugiati politici. Sessanta anni fa nasceva l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e poco dopo la Convenzione in merito alla quale tutt’ora l’agenzia interviene per soccorrere coloro che abbandonano i propri paesi per motivi di discriminazione politica, religiosa, etnica o razziale.
La ricorrenza ritorna con un carico simbolico molto forte. Nell’anno della guerra in Libia, degli esodi dal Nord Africa, dei barconi inabissatisi sotto le onde appena qualche giorno fa e soprattutto nel coro di un governo assediato sulle posizioni dei rimpatri e sull’isteria di un esodo da collasso che, numeri alla mano, non c’è stato. Un’improvvida rincorsa alla banalizzazione di questa categoria politica, piuttosto alla sua negazione prima teorica e poi pratica è il modo in cui la maggioranza che guida il Paese ha affrontato questa giornata di riflessione e di memoria.
Ma non basta. Alla propaganda populista sulla difesa accorata dei confini è seguito l’accordo con il Comitato nazionale di Transizione libico per i rimpatri forzati verso le zone di guerra e la detenzione nei centri di accoglienza prolungata fino a 18 mesi, alla stregua di una pena per un reato. Tutto questo per poco meno di 19mila persone scappate dalla Libia dall’inizio della guerra e arrivate sulle nostre coste, a differenza della Tunisia che ne ha accolte quasi 300mila.
E’ dal 2009 inoltre che l’Italia ha visto una drastica diminuzione delle domande d’asilo, preferendo respingimenti indiscriminati prima di qualsiasi valutazione delle richieste d’asilo, come la fuga di tanti disperati da paesi in guerra avrebbe dovuto suggerire.
A questo clima politico va aggiunta una solita modalità estemporanea e priva di sistematicità con cui l’Italia ha gestito queste procedure, delle quali non abbiamo neppure, a differenza degli altri paesi europei, stime e numeri precisi.
La questione italiana rimane in certa misura irrisolta proprio perché è la stesso programma di Stoccolma, approvato dal Consiglio Europeo nel 2009, che si limita a proclamare che “il rafforzamento dei controlli alle frontiere non dovrà impedire l’accesso ai sistemi di protezione a chi ha diritto di beneficiarne”, senza dirci nulla sul come.
Il dato certo è che la politica dei rimpatri e l’impedimento delle partenze ab origine non ha affatto sradicato l’immigrazione clandestina, ma piuttosto ha inciso negativamente, riducendolo di molto, il diritto ad essere accolti come rifugiati.
Solo il 10% delle domande viene accolto al termine di lungaggini burocratiche incomprensibili, di errori e lacune procedurali, di mezzi e persone insufficienti senza alcuna assistenza o supporto per le persone richiedenti.
Dovrebbe essere proprio questa eccezionale condizione di cittadinanza, quella dei rifugiati politici, a darci il segno tangibile di una nazionalità transnazionale. Il sogno del più classico cosmpolitismo settecentesco, l’utopia della città globale, il diritto come categoria di giustizia, senza particolarismi di sorta. Ed è proprio questa idea a soccombere sotto il peso di ogni rinuncia aprioristica all’accoglienza e alla gestione seria di chi arriva sui barconi. Quelli che la cronaca dipinge come invasori e conquistatori e che la storia ricorderà solo come i più disperati.
Sarà allora forse che l’esame della nostra democrazia avrà i suoi voti peggiori, quelli che ora suonano come un rimbrotto accademico dell’Europa o dell’UNHCR alle uscite del Ministro Frattini e che un giorno saranno invece una vergogna.
L’odiato fantasma della clandestinità perpetua è proprio figlio del limbo giuridico in cui queste persone sono costrette a vivere in attesa di un’audizione che può arrivare anche 24 mesi dopo, per assicurare un rimpatrio all’ennesimo straniero di troppo.
Uno di quelli che senza identità giuridica, intrappolati nel non riconoscimento silenzioso, diventano “la schiuma della terra”. Scriveva così Anna Harendt per parlare di questi fantasmi che venivano privati di quei diritti di umanità intrinsechi alla condizione stessa di cittadinanza, diventando un po’ meno umani.
Perché è proprio questo a renderci uomini e donne, insieme alla nostra stessa natura. E’ la presenza o l’assenza di patria a darci un luogo, ed è la cittadinanza universale a darcene uno solo davanti a tutti che si chiama dignità. Quel riconoscimento in mezzo agli altri che ci salva dalla solitudine dell’anonimato. Quello che ne ha rovesciati tanti nel mare senza sepoltura, né un nome, di notte. O quello che li ha lasciati nelle dune del deserto, scheletriti dal sole.
Tutti costoro che erano cittadini, e come decaduti dallo stato di umanità, per naturale e necessaria condizione, sono morti in viaggio per non esserlo stati più.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Nella patria del fast food, dei vari MacDonald's e Burger King, tira una nuova aria salutista: è la nuova moda dello slow food, che coniuga prodotti di alta qualità con la nuova economia sostenibile. I mercatini di quartiere spuntano come funghi in tutta la città e, a volte, si trasformano in vere e proprie attrazioni. Fare due passi per Williamsburg il sabato mattina è un'esperienza solitaria: padroni di cani a spasso e pochi forzati nottambuli a caccia di un caffé, con i loro baffi ironici ancora impomatati.
Un tempo quartiere ghetto di artisti squattrinati e immigrati sudamericani, Williamsburg è diventato in pochi anni il non plus ultra della New York bene. L'opera di gentrificazione si è dispiegata senza pietà. Soltanto due categorie possono ormai permettersi di pagare duemila dollari al mese per un monolocale con vista sui grattacieli di Manhattan: i ricchi figli di papà, nei panni di artisti finanziati dal “trust fund” di famiglia, oppure i cosiddetti “eurotrash,” nomignolo non proprio gradevole che i newyorkesi riservano ai ricchi europei in visita, che stanno colonizzando la città.
È la prima giornata di primavera, dopo un inverno che sembrava non passare più. Girato l'angolo su Kent Avenue e North 6th Street, troviamo finalmente il nuovo parco comunale, che si affaccia sull'East River e il profilo mozzafiato della città, proprio di fronte al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Alle dieci del mattino, ci aspettavamo di trovare il mercato già vuoto, saccheggiato dagli avventori mattinieri. Ma non a Williamsburg, dove la proverbiale pigrizia degli “hipster” locali viene premiata. I proprietari degli innumerevoli stand gastronomici e i venditori ambulanti stanno appena cominciando ad allestire le loro attrazioni e, prima che il mercato si attivi, possiamo gustarci una deliziosa coppa di caffé americano.
Per chi è abituato all'espresso, una pinta di caffé regolare assomiglia più che altro a una minestra bruciacchiata. Ma non al mercatino Brooklyn Flea Market, dove per sei dollari si può degustare una speciale miscela di chicchi tostati nella torrefazione di quartiere, proprio dietro l'angolo, e provenienti dal commercio equo e solidale, filtrati goccia a goccia attraverso uno speciale filtro cartaceo di fronte ai tuoi occhi. Alla resa dei conti, l'unico caffé americano di New York che non fa rimpiangere l'espresso.
Le parole d'ordine della “nuova Brooklyn” sono qualità impeccabile e impatto ambientale zero. La prima edizione del mercatino Smorgasburg, tutti i sabati al Waterfront Part di Williamsburg, sta avendo un successo strepitoso. Per chi se lo può permettere, questo incontro tra i produttori locali di cibo biologico e alcuni dei migliori chef della città è un'esperienza a cinque sensi. Nelle parole del curatore del “Mercatino delle Pulci di Brooklyn” e promotore dell'iniziativa, Eric Demby, Smorgasburg rappresenta “un incubatore per imprenditori sconosciuti e all'avanguardia che vogliono far conoscere il loro progetti: vogliamo portare all'attenzione del grande pubblico i piccoli artigiani locali.” Un ibrido tra degustazione e mercatino biologico.
Allo stand “Bon-Chovi” la grafica richiama scherzosamente il logo del famigerato Bon Jovi (nativo del New Jersey e considerato dai newyorchesi un vero tamarro), si possono degustare acciughe fresche o fritte all'aglio, olio e limone. Come dessert non può mancare la famosa “crack pie” di Christina Tosi, la cuoca pluri-premiata di Momofuku a Manhattan. La sua reputazione non delude. Dopo averne assaggiata una prima fetta non possiamo più smettere di mangiarne (infatti il nome “crack pie” è un gioco di parole sulla “crack pipe,” la pipetta per fumare il crack).
Non mancano i banchetti “politici” delle organizzazioni come la Brooklyn Food Coalition e l'italiana Slow Food, che promuovono l'alfabetizzazione alimentare. Nella terra dei prodotti precotti da scaldare al microonde, comprare verdure fresca è già un'abitudine stravagante e un po' radical chic. Se poi si tratta come in questo caso di prodotti biologici, allora si rischia l'etichetta infamante di “unamerican” (ovvero tutti quelli che hanno votato Obama, a detta Sarah Palin).
La first lady Michelle Obama è in prima linea nella lotta all'obesità e un grosso spot in favore dei mercatini locali arriva proprio dal comandante in capo. La famiglia presidenziale infatti mangia solo prodotti del proprio orto della Casa Bianca, dove il Presidente in persona raccoglie le proprie melanzane, zucchine e rucola (quest'ultima decisamente “elitist”).
La cucina italiana di Slow Food qui riscuote un enorme successo perché, nel cuore della Grande Mela, quando scrivi buona cucina, leggi cucina italiana. E questa volta non si tratta della temibile versione italo-americana della pasta alle polpette e della pizza gommosa spessa due pollici, ma dei prodotti tipici del nostro Paese, preparati dagli chef alla moda.
I “farmers market,” i mercatini di frutta e verdura, sono letteralmente esplosi negli ultimi anni. Nessun quartiere benestante ormai può farne a meno e se non compri cibo biologico e di provenienza locale sei out. La cucina ha acquistato una vera e propria connotazione politica e sociale, come non sarebbe possibile in Europa e, men che meno, in Italia.
Se mangi al fast food sei un immigrato sudamericano, un povero, oppure un “real american,” termine sarcastico con cui i liberali, facendo il verso a Sarah Palin, denotano i bianchi obesi del Midwest che votano repubblicano o peggio ancora Tea Party. Se invece sei un professionista benestante, che ha studiato e si preoccupa dell'ambiente, oppure un hipster, allora devi fare la spesa al farmers market e mangiare soltanto cibo biologico e locale.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Spiegare la politica del Belpaese al resto del mondo non è cosa facile, e ognuno di noi italiani ci prova a modo suo. A misurarsi con l’improbabile compito è stato questa volta Beppe Grillo, presentatosi a Berlino con il suo spettacolo “Grillo is back” per l’ultima tappa di un tour europeo che ha toccato otto fra le più importanti città del Vecchio Continente. Oltre a far ridere, ancora una volta Beppe Grillo è riuscito a sorprendere il suo pubblico con uno show dalla trama inaspettata. Il comico genovese ha rinunciato a temi tanto scontati quanto golosi quali potevano essere le recenti amministrative in Italia, proponendo invece confronti costruttivi rivolti al domani.
Gli esiti di Milano e Napoli hanno sancito una prima sconfitta dell’attuale governo e avrebbero potuto offrire, visto l’usuale spirito critico del comico, uno spunto di satira facile a celebrazione dei primi cambiamenti sensibili nel panorama politico italiano. Invece Grillo si è limitato a parlare marginalmente delle amministrative, così come delle figure di spicco del nostro Governo, quasi a relegare la situazione attuale al passato e offrire uno spettacolo positivo rivolto al futuro e al cambiamento.
Eppure Grillo spende le sue parole più amare proprio nell’ambito delle recenti amministrative e del referendum del 12 giugno sulla privatizzazione di acqua e nucleare: un referendum già boicottato in partenza, vista la decisione del Governo di non accorparlo alle amministrative. Quasi che l’obiettivo fosse di far mancare il quorum, di far ignorare vicende pubbliche di fondamentale importanza per i cittadini e di far dimenticare uno dei diritti basilari della democrazia.
Al centro della sua satira Grillo inserisce il confronto tra la realtà italiana e quella europea. L’Europa, in questo caso, è rappresentata da Berlino, una metropoli libera che trasuda il desiderio di emancipazione dei propri singoli cittadini. Una città che ha imparato a essere critica proprio a causa di quel passato così pesante che ancora incombe. Una capitale europea che sta provando ad affrontare le difficoltà dell’integrazione, accettando di sbagliare pur di trovare soluzioni e non ignorando i problemi, e che prova a rispettare l’ambiente, ponendo dei limiti allo sfruttamento economico del verde. E si può dire che Berlino, così come la Germania, vanta un dialogo politico costruttivo e concreto tra maggioranza e opposizione, un lusso che all’Italia purtroppo non è concesso da decenni.
E la nostra Italia, invece, che fa? Noi italiani stiamo agli antipodi dell’avanguardia europea perché stiamo ancora a combattere con un sistema politico marcio costruito sulle figure arcaiche dei leader, personalità pubbliche che si garantiscono i voti dell’elettorato grazie a un fittizio “carisma” mediatico. “I leader sono pericolosi”, spiega Grillo a una Berlino ancora molto sensibile in questo senso. Da due legislature ci troviamo a votare una stessa classe politica ormai ultrasettantenne, ci ricorda Grillo, senza sentire parlare mai di programmi politici concreti e (soprattutto) comprensibili. Si tratta di “una classe politica che ha paura dei suoi cittadini”, precisa Grillo, una classe politica troppo egocentrica e fuori dal mondo per pensare a stare al passo con il resto dell’Europa.
Perché alla base del progresso e del futuro ci sono intelligenza e innovazione, sottolinea il comico, e questi beni, purtroppo, in Italia non vengono appoggiati né apprezzati. A partire dalla Rete, presupposto di un’informazione libera e di un’evoluzione, che in Italia non ha ancora trovato uno suo spazio degno: a questo proposito Grillo ricorda che anche la Libia ha una velocità di download maggiore rispetto a quella dell’Italia, un Paese il cui Prodotto interno lordo (Pil) pro capite è un terzo rispetto a quello della nostra penisola.
Per descrivere al pubblico della capitale tedesca la mentalità imprenditoriale e politica italiana, Grillo cita numerosi esempi concreti. Immancabile la questione TAV, la linea ad alta velocità per cui sono stati investiti in Italia milioni di euro e che ha portato in piazza numerosi cittadini: un progetto presentato come avanguardistico ma che corrisponde in realtà a un modello ferroviario europeo standard.
Mentre l’Italia ancora combatte e discute sull’introduzione di metropolitane tradizionali, che rappresenterebbero per le nostre metropoli il clou dell’innovazione, la Cina ha progettato una sorta di metropolitana tridimensionale che consente di sfruttare la stessa sede stradale delle autovetture, con stazioni rialzate sui lati o sulla parte superiore dei convogli. Mentre l’informazione italiana si trastulla con le piccanti questioni personali della classe politica, in Svizzera, a 3'000 metri d’altezza, è stato costruito il primo albergo quasi completamente autonomo energeticamente. Si trova sul Monte Rosa e per il 90% del proprio fabbisogno energetico è coperto da pannelli fotovoltaici.
Eppure Grillo è un comico, non è un politico, e non bisogna mai dimenticarlo per poterlo apprezzare. Sfrutta la comunicazione per far pensare e, con la provocazione del suo teatro, cerca di costruire stimoli costruttivi. Il suo messaggio è positivo perché tenta di risvegliare lo spirito critico sonnecchiante della maggior parte del popolo italiano. Piace o non piace, così come la maggior parte degli artisti possono essere graditi oppure no, ma è difficile che non faccia sorridere. E allo stesso tempo da’ una parvenza di speranza anche ai più pessimisti, inserendo la situazione politica italiana in un contesto di innovazione europeo e mondiale più ampio e cercando di rappresentarne così l’assoluta piccolezza relativa.
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di Rosa Ana De Santis
Lo scenario é quello di Zagabria, terra croata e cattolica, rifugio d'integralismo papalino. E l'occasione é buona per riaffermare, pur senza lanciare anatemi, anzi con un discorso sobrio ma non per questo meno deciso, la centralità della famiglia nel modello sociale cattolico. Famiglia tradizionale, ovviamente, ovvero siglata dal rito del matrimonio, che rifugge da tentazioni di sperimentazione di forme diverse d'unione; non solo quelle tra lo stesso sesso, ci mancherebbe, ma anche ogni convivenza, sia essa una scelta definitiva, sia anche solo una forma transitoria nella sperimentazione di una vita a due. Insomma, Ratzinger non si lascia sfuggire l'occasione di un raduno importante di cattolici per inoltrare, una volta di più, schemi e precetti che, al clero, appaiono dogmi da osservare come fossero precetti religiosi e non scelte politiche di Santa Romana Chiesa.
Del resto, il discorso di Zagabria ha fatto seguito a quanto già detto in ogni occasione e, ultimamente, ribadito in occasione dell'udienza al dicastero per la Nuova evangelizzazione. In entrambe le occasioni l Pontefice ha denunciato la marginalizzazione del cristianesimo dalla vita pubblica, ma soprattutto la perdita di attenzione e sensibilità per la fede e i suoi valori. Intere generazioni sono ormai estranee, secondo il Papa, a quella cultura intessuta sui valori cristiani che, a prescindere dai dogmi di fede, un tempo plasmava ogni atto di vita relazionale e pubblica. Il cristianesimo come una grande ragnatela ininterrotta dalla famiglia alla società, come cultura e come sistema di pensiero, come teorizzava Maritain.
Al dicastero da lui fondato, e oggi guidato da Monsignor Fisichella, Ratzinger affida questa denuncia e l’invito ad una nuova massiccia evangelizzazione. A margine di questa confessione c’è la voglia da parte di molti di appartenere alla Chiesa, senza alcuna coerenza con i dettami della fede, come se essere fedeli fosse la stessa cosa che avere in tasca una tessera di partito o indossare una maglia di calcio.
Un’osservazione che mette in luce sia la miseria degli ultimi tempi con cui la politica ha cercato di avocare alla propria causa campagne sui valori in un clima moralmente scomposto e a tratti imbarazzante, sia la strabordante depravazione autoprodotta che la Chiesa non riesce più a contenere nemmeno ricorrendo all’orrore storico dell’omertà.
Un clima ormai sdoganato di sospetto e diffidenza attraversa la Chiesa, anche in quei luoghi di aggregazione di importante impatto sociale ed educativo come le parrocchie e gli oratori. Per la prima volta non è il Vaticano, la Curia, il potere secolare della Chiesa ad essere lontano. Ma il prete diocesano qualunque e la sua comunità.
Il problema scottante non è l’estraneazione dalla liturgia e dai suoi riti, ma piuttosto il ritorno ad essi senza alcuna partecipazione autentica di fede. Sacramenti di massa vengono somministrati senza alcuna preparazione a cittadini che si dicono cattolici per un giorno, per una festa, per un rito più folcloristico e sociale, che non spirituale. La Chiesa, questo tra le righe del messaggio papale, sopravvive nelle sue pratiche e nelle sue manifestazioni estetiche, senza traccia di un’evangelizzazione profonda.
Non propone soluzioni il Papa teologo, ma invita alla credibilità e alla fede come una scelta viva e totalizzante. A quell’umanesimo integrale, per tornare proprio a Maritain che magistralmente aveva studiato la relazione tra fede e cultura religiosa, che costruisce l’asse portante del credente e di una società che a certi valori s’ispiri seriamente e non solo, per venire alla cronaca spicciola dell’attualità, in una competizione antimusulmana dai tratti xenofobi, che nulla ha a che vedere con la fraternità delle Sacre Scritture.
Non vogliamo diventare tutti cattolici, ovviamente. Ma è certamente vero che questo Paese aveva, e forse non ha più, un’ispirazione cristiana di vita, più pubblica che non privata. Di questo collante culturale sono rimaste le battaglie gridate per tenere il sondino dentro una ragazza, per criminalizzare una pillola abortiva, per impedire la nascita delle moschee. Esattamente come molto altro negli ultimi anni, anche la fede ha vissuto un progressivo impoverimento, concentrandosi sulle sfide di piazza e perdendo ogni traccia di introspezione e di argomentazione.
Quello che è rimasto è l’impalcatura dei sacramenti e la ritualità, senza le azioni. Che si risvegliano solo quando c’è una legge liberticida da avallare, un aborto da impedire, senza nemmeno il disturbo di troppa riflessione. Finché quel problema, quell’inciampo, quel divieto riguardi sempre la vita degli altri, e consenta per sé, all’occasione, una comoda eccezione.
La Chiesa della doppia via, del potere senza il sostegno della fede è diventata una caricatura di se stessa, una istituzione caratterizzata da una sproporzione di equilibri interni che la restituisce all’opinione pubblica come qualcosa di accessorio, che diventa utile solo in determinate operazioni di marketing, come qualcosa di terribilmente conforme agli usi e ai consumi. Tutto quello che il cristianesimo non era mai stato.
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di Cinzia Frassi
“La mia filosofia è che per istruire i ragazzi bisogna cominciare quando questi sono ancora molto giovani, ma a causa del divieto non abbiamo ancora iniziato questo processo di apprendimento e solo eliminandolo potremmo vedere se funziona davvero”. Questa la frase “test” infilata da Mark Zuckerberg durante la sua partecipazione all’E-G8. Il CEO di Facebook, intervenuto all’evento collaterale al G8, fortemente voluto dal presidente francese Nicolas Sarkozy, ha in seguito smentito la volontà di mettere mano al divieto che dovrebbe impedire ai minori di 13 anni l’accesso al social network.
Istruire? Processo di apprendimento? A dir poco inquietante. Ma istruire a cosa di preciso? Viene davvero da chiederselo. Soprattutto viene da chiedersi quali sono le qualità del Ceo di Facebook per farne un educatore all’altezza dei nostri tempi. Non è dato saperlo; fatto sta che nessuno ha creduto che l’interpretazione più fedele alle parole su citate sia squisitamente di ordine educativo.
Per coloro che nutrissero ancora dubbi, va detto che Zuckerberg si è affrettato a precisare che “l’educazione è chiaramente l’elemento più importante che guiderà la crescita dell’economia nel lungo termine“. Minori? Crescita economica? Ancora più inquietante: si tratta di un vero e proprio trasferimento sui più deboli di una mercificazione dei rapporti umani dagli adulti ai minori, di un approccio alla rete finalizzato all’assillo del Pil. Del resto, Facebook ha fatto guadagnare un’enormità: perché non “educare” i più piccoli e guadagnare ancora di più?
Questa la strategia di crescita targata Facebook pensata alla luce di sondaggi e ricerche svolti negli Usa e che hanno rilevato una forte presenza nei social network di minori under 13. Nel vecchio continente i dati raccolti recentemente dalla ricerca denominata EU Kids Online, condotta per conto della Commissione europea, hanno introdotto elementi di discussione molto interessanti a Bruxelles. La ricerca ha svelato il comportamento dei ragazzini europei davanti al pc.
Il 77%: questa è la percentuale assolutamente preoccupante di ragazzi di età compresa tra i 13 e i 16 anni che possiede un profilo su un social network. Nella fascia d'età 9-12 anni, la percentuale è del 38%. Questi naturalmente hanno un profilo su Facebook o altro social perché mentono sull’età. Di più: il 25% dei minori che ha un profilo su un social network, come Facebook, dice di avere un profilo pubblico. Ciò significa prima di tutto che i dati inseriti nel profilo quali indirizzo, scuola, città, telefono, foto, contatti e così via, quando inseriti sono disponibili. Tutti possono vederli. E usarli chiaramente per i più svariati motivi, da quelli commerciali fino ad arrivare agli adescatori pedofili.
In secondo luogo questo risultato è emblematico di quanto poco interessi l'aspetto della sicurezza e della privacy in rete. Poco si è fatto e si fa per spiegare ai minori cosa significa privacy e come comportarsi in rete. Il valore e la necessità di protezione di quei dati personali, e dei minori stessi, non dovrebbe essere qualcosa da lasciare unicamente ai singoli, alla loro capacità di capire cosa sia la rete e a quali rischi esponga. In primis ai genitori, che si trovano ad affrontare una realtà sempre più pressante, quella dei social network, nella vita dei loro figli. Privacy è una parola che non porta con se alcun valore per molti internauti, una parola abusata e svuotata di effettiva protezione anche fuori dal mondo virtuale.
Che non si è fatto abbastanza risulta chiaro da altri numeri. Il 56% dei bambini tra 11 e 12 anni - più della metà - sa come modificare le impostazioni sulla privacy, e nella fascia d'età 15-16 anni sono il 78% a saperlo fare. Questa, che viene rilevata come una buona notizia, non lo è affatto. Lo sanno fare? Sì, ma il profilo resta pubblico. Significa che non c'è stato un impegno efficace nell'educazione alla rete di questi minori che, pur sapendo come rendere privati e non accessibili i propri dati personali, semplicemente scelgono di non farlo.
Il sondaggio, che ha avuto come base 25.000 giovani europei, è stato voluto proprio nell’ottica di una revisione, messa in calendario durante l’estate, di alcuni aspetti fondamentali della rete e delle disposizioni in merito a privacy, data retain e di aspetti legati alla sicurezza dei minori in rete.
La vice presidente della commissione europea per l’Agenda digitale, Neelie Kroes, ha commentato il sondaggio dicendo che “il quadro che emerge assume rilevanza anche in vista della prossima revisione dell’accordo europeo sulla socializzazione in rete più sicura. Tutti i gestori di siti di social networking dovrebbero immediatamente aumentare automaticamente il livello di privacy dei profili dei loro utenti minorenni, rendendoli accessibili soltanto a una cerchia di persone stabilita dagli utenti stessi ed escludendoli dai motori di ricerca online”.
L’età, la rete, la privacy e la sicurezza, sono elementi discussi entrando nel merito in primo luogo dell’aspetto tecnico e in secondo dei risvolti commerciali della grandi web-company. La discussione e le riflessioni di questo mondo tuttavia dovrebbero incontrarsi con altre voci, altri punti di vista. Magari con la filosofia. Lo scorso venerdì si è conclusa ad Avellino l'ultima edizione de "Il borgo dei filosofi", iniziativa inserita nelle celebrazioni per il 150enario dell'unità d'Italia, promosso dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Avellino e dall'ente Teatro.
In questa occasione Zigmunt Buaman, che non ha bisogno di presentazioni, da una lettura molto chiara del significato sociale di Facebook. Il grande pensatore della società liquida spiega cosa nasconde la forte presa dei social network: tutto nasce dalla mercificazione, dal vendere tutto, anche noi stessi. Siamo tutti clienti e venditori allo stesso tempo. In questo contesto facciamo molte azioni a caso, senza programmare.
Facebook, continua Bauman, è solo uno strumento di una strategia che segue la stessa logica del mercato in cui c’é chi compra e chi vende e noi stessi siamo un bene di consumo, di scambio, che si vende facilmente. L’individuo fa tutto ciò perché vuole essere al passo con i tempi, è un obbligo, è prigioniero di questa logica. Ma il web non doveva renderci liberi?