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di Silvia Mari
Qualche giorno fa il neo ministro della cooperazione internazionale e integrazione, Andrea Riccardi, ha inaugurato il proprio dicastero con un atto simbolico senza precedenti. Ha reso omaggio a Jerry Masslo, immigrato sudafricano, innocente vittima della criminalità organizzata campana, ucciso a Villa Literno anni fa. Un ragazzo come tanti che arrivano ancora oggi, scappato alle persecuzioni del proprio paese e finito a raccogliere pomodori in Campania per pochi spiccioli.
Nella storia di questo ragazzo, attuale come tanti fatti di cronaca testimoniano, e nell’azione del Ministro, ci sono le fotografie di un paese in cambiamento: la questione del Sud, l’arrivo in massa degli immigrati, il buco nero della clandestinità e il ruolo delle istituzioni, spesso imbrigliato nella retorica populista o nelle regole degli affari, anche quelli più imbarazzanti che ancora oggi si consumano alle spalle dei clandestini.
E’ in questo contesto di trasformazioni globali, che di recente hanno assunto forme più aggressive e massicce, come i numeri degli sbarchi confermano, che sta per terminare l’anno della commemorazione nazionale e patriottica del 150° dell’Unità d’Italia. Un’interessante tensione dialettica che ha attraversato gli italiani chiamati ad occuparsi della loro storia e delle origini nazionali, e della sfida delle frontiere scavalcate da un esercito di cittadini del mondo in fuga.
La festa civile strozzata a metà dall’austerità economica e morale ha riportato alla riflessione collettiva, come in un rigurgito di memoria, l’attenzione alla storia del paese e alle sue tormentate origini. L’Unità, che per molto tempo è stata archiviata come un fatto tutto sabaudo, di pura e finissima strategia politica, sembra esser stata restituita a quel po’ di romanticismo che è spesso mancato alla ricostruzione storiografica più ideologizzata del nostro Risorgimento.
E’ tornata l’Unità dei Mille, la marcia in rosso della liberazione, sono tornati i giovani del Risorgimento. E’ tornato il Sud con le sue prime spinte di indipendenza e di modernità, stritolate poi, solo successivamente, dalla macchina del Nord. Per una volta e per la prima volta come se il Mezzogiorno non fosse stato solo il primo e grande problema d’Italia, ma il suo motore e il suo cuore. La spinta verso l’Europa del Mediterraneo.
Eppure rimane, ancora oggi, nella percezione di tutti, l’immagine di un paese spaccato a metà: il Mezzogiorno come una ferita mai guarita nella pancia del paese, un’annessione mai compiuta e mancata nei numeri dello sviluppo economico e sociale.
La questione meridionale è diventata così, nel tempo, una vera e propria categoria politica del dibattito sul paese, una lente per leggere l’Italia e la sua storia, la più lontana come la più recente. Forse un comodo alibi di distinzione semplicistica tra “buoni e cattivi”, una replicazione in piccolo di una lettura distorta che da sempre guida alla comprensione dei rapporti Nord- Sud, anche in grande scala.
Le origini della questione meridionale, nate con Salvemini e Gramsci come scontro di egemonie e come analisi dei rapporti di forza e sfruttamento di ordine economico-politico del Nord a danno del Sud, spiegano il problema del Mezzogiorno come il problema di una gestione accentrata e sbilanciata del paese, calcolata “a tavolino” per lasciare il Sud in una posizione di dipendenza dopo aver arricchito il Nord di braccia e risorse.
Da tutto questo non si può prescindere nemmeno oggi per comprendere le distanze, le anomalie di una rincorsa che sembra infinita e da ultimo la novità degli stranieri nel mercato del lavoro nazionale che in questo paese diviso a metà pagano gli stessi prezzi di tutti, anzi peggio, e s’incamminano passate le gole del mare e degli stretti verso la stessa strada del Nord. Il Mezzogiorno continua ad essere terra di transito, porto da cui salpare.
Non c’è questione sullo sviluppo economico nazionale che oggi possa prescindere dalla considerazione di come sia stato alterato il mercato del lavoro dalla presenza, in costante aumento, di lavoratori immigrati e dalla dispersione emorragica delle eccellenze culturali giovanili del Paese, andate perdute in giro per l’Europa o negli Stati Uniti. Di tutto questo il Mezzogiorno, in scala nazionale, può vantare un triste primato e un ruolo di protagonista assoluto.
Così accadeva nei secoli scorsi, quando anche allora il Mezzogiorno era protagonista. Storie di miglia marine percorse verso l’Argentina, il Venezuela e gli Stati Uniti. L’emigrazione massiccia d’Italia del Sud fu soprattutto quella del Regno delle due Sicilie, XIX e XX secolo i picchi di questa fuga. Sicilia e Campania in cime alla lista. All’emigrazione oltreoceano seguì poi quella europea e infine quella interna verso le regioni del Settentrione dove il Sud continua a spostarsi per studio, lavoro o per cure mediche. Oggi come ieri.
In primo luogo perché il Sud è il porto di queste braccia, allevate in cattività e offerte alla disperazione. E’ nel Mezzogiorno che arriva dal mare e dai paesi in via di sviluppo la manodopera a buon mercato: 137mila di questi si spostano poi al Centro-Nord e 46mila rimangono per essere impiegati soprattutto in agricoltura, l’unico settore a non soffrire i numeri negativi che invece penalizzano fortemente il settore industriale del Sud.
E mentre il mondo entra attraverso le coste e le isole del tacco d’Italia, il Mezzogiorno perde i propri giovani e i propri lavoratori, o in forma transitoria attraverso un pendolarismo settimanale o per sempre. Dal 2000 al 2009 ben 583mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno e moltissimi sono i laureati.
Come per un calcolo e quasi in un gioco di vasi comunicanti, il mercato del lavoro perde e conquista, mutando però sistema di regole e di diritti. In questo imbuto, dove lo Stato centrale entra ancora poco, è facile che un caso come quello di Rosarno, sbattuto in prima pagina più dal sensazionalismo che dalla volontà di analisi, si scopra in realtà come un metodo reiterato e tollerato più che un isolato fattaccio di sfruttamento di massa.
L’apertura al futuro globale, quindi il ruolo del lavoro che immigra e concorre allo sviluppo nazionale, si è già macchiato di mali antichi. Quelli di una malavita che spesso é stata lasciata indisturbata, proliferante sugli affari e che oggi, mai come oggi, non è più di casa nel Mezzogiorno, come la vecchia storia del brigantaggio e delle mafie, nonché la più volgare retorica populista della Lega, insegnava un tempo e borbotta ancora. Il cervello della mafia, anche lui, è emigrato al Nord, lasciando a casa la manovalanza e i cani da guardia.
E’ difficile cogliere in quello che accade intorno a Lampedusa, divenuta più icona della resa che non simbolo del futuro, l’inizio di un nuovo corso della storia economica e forse della storia tout court. La percezione di un’invasione impedisce a tutto il paese di ravvedere in questo esodo le origini di una globalizzazione del lavoro o, più semplicemente, un soccorso all’economia di un paese che viene man mano svuotato. Di giovani e di speranze.
Così, mentre il futuro entra con le sue incognite più destabilizzanti, quasi come una calamità, e scuote tutto il Paese, la fuga dei giovani, l’abbandono degli affetti che rimangono nei paesi e nelle città ad aspettare, come una volta, la lettera o la cartolina, è quella di sempre. Come se le lacrime del passato dei nostri emigranti, quelle color seppia appese immobili e incollate nelle foto dei salotti, al Sud non si fossero ancora asciugate.
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di Rosa Ana De Santis
E’ stata istituita dall'Assemblea delle Nazioni Unite, il 17 dicembre 1999, la giornata contro la violenza sulle donne. La data del 25 novembre è nata per ricordare il drammatico episodio del 1960, quando nella Repubblica Dominicana tre sorelle che si stavano recando a trovare i mariti in prigione, furono rapite da alcuni agenti: torturate, violentate e poi uccise. La giornata appena passata ha portato alla luce numeri di abusi e morti assolutamente drammatici, che non accennano a diminuire, anzi. Nel nostro Paese il numero delle donne uccise, nel biennio 2007-2009 è aumentato dal 15,3 %degli anni precedenti al 23, 8%. In aumento ci sono anche i casi di violenze di gruppo tra i giovani minorenni ai danni di giovanissime coetanee.
Episodi che rimandano a un modo di intendere il sesso e la questione femminile che sembra tornata indietro di tanti anni, da parte delle stesse donne che sono sempre meno protagoniste di una cultura del riscatto e dell’emancipazione e sempre più disponibili ad assecondare il paradigma maschile e maschilista del piacere e del potere. In tutto il mondo le donne muoiono più di violenza che non di cancro, incidenti o malaria.
Le vittime in Italia sono circa 7 milioni, molte giovanissime, la maggior parte subisce violenze sessuali, percosse, minacce da parte di uomini conosciuti che fanno parte del proprio cerchio di affetti: mariti, partner, padri. Poche quelle che denunciano in nome dell’onorabilità della famiglia. Nel 63% dei casi i figli sono i primi testimoni di queste violenze, riportando danni da trauma gravissimi e spesso irrecuperabili proprio perché taciuti e negati dalle stesse donne.
In un momento in cui, soprattutto nel nostro paese, si fa un gran parlare di sviluppo culturale e arretratezza, di civiltà poco evolute, di orde di barbari che premono alle porte della nostra civiltà vale la pena ricordare come la questione femminile, la sottomissione delle donne al potere maschile nelle sue forme più violente, sia ancora immutata e anzi in pericolosa ascesa. Vale la pena domandarsi, in occasioni di giornate di studio e di riflessione come quella appena trascorsa, quale sia lo stato di reale emancipazione e di sviluppo di una società che non riconosce le forme elementari di parità e di diritti umani tra i sessi. C’è poi tutto quello che riguarda le molestie sessuali, gli stalker e quanto con la nuova ultima legge è emerso come reato di cui moltissime donne sono vittime, spesso inconsapevoli per abitudine a subire rapporti sociali fondati sulla forza e il predominio maschile, in ambito privato come pubblico.
Accanto infatti alle forme più esplicite di violenza, i centri del Telefono Rosa e le Consulte Femminili rilevano innumerevoli altre forme di abuso che passano sotto silenzio: matrimoni imposti e precoci, violenze psicologiche, malnutrizione, casi più frequenti di quanto si creda che raramente vengono denunciati.
Le donne diventano quindi il primo ostacolo alla loro stessa tutela, in virtù del fatto che la società che si muove intorno a loro continua a coltivare sentimenti di scetticismo di fronte ai casi di violenza denunciata e che la famiglia tipo italiana continua a vivere secondo una subcultura in cui la donna è la parte più fragile.
Il neo ministro in carica, Elsa Fornero, è intervenuta evidenziando l’’urgenza di misure di prevenzione e da tempo Amnesty International esorta l’Unione Europea e tutti gli stati del Consiglio d’Europa a firmare e ratificare la convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne.
Solo 17 paesi ad oggi hanno firmato e la presenza di numeri importanti sulla violenza domestica continua a rappresentare una grave infrazione dei diritti umani fondamentali. E’ sorprendente come tutto questo avvenga nel cuore dell’Europa che si considera la culla della cultura liberale, dei principali sistemi di pensiero che hanno promosso e fondato teoreticamente la questione dell’eguaglianza e della differenza della donna.
Non sono, è evidente, le culture ad incrinare la piena affermazione dell’eguaglianza. Non solo, almeno. Esiste un’ancestrale tendenza al dominio della donna che parte dal dato anatomico e dalla supremazia biologica assegnata dalla natura con la potenzialità femminile della procreazione, per arrivare ad una sorta di compensazione punitiva esterna in cui questo capitale di libertà assoluta deve essere controllato dagli uomini, dal diritto, dallo Stato e dove tutto questo non può arrivare, dai codici culturali e tradizionali.
Ma proprio la vicenda ignobile delle cortigiane di Arcore ha raccontato l'altra faccia della medaglia, quella dove le donne ci mettono del loro. Non tanto quando sono vittime di questo duplice sistema di forza: quella esplicita, che lascia ferite sul corpo e che spesso porta a morire. Ma anche quella sotto traccia che le penalizza nel lavoro, nelle relazioni sociali, nell’autodeterminazione.
Le donne ostacolano la loro liberazione quando fanno propri modelli e i comportamenti che sono propri dell’universo maschile. Basta appunto pensare ai recenti scandali delle giovanissime prostitute del nostro ex Presidente del Consiglio e a quanto di simile ruota nel sistema televisivo che entra dentro le nostre case ed educa i nostri figli, segnando un’intera generazione.
Il corpo femminile ridotto a pista di lancio del futuro, ad occasione commerciale senza alcuna mediazione di libertà di scelta o di piacere, ma di bisogno o di ambizione, rimanda alle più preistoriche categorie del sesso come dominio. Un’idea di disparità e di sudditanza che nasce nel profondo e nell’essenziale, nella carnalità e nel sesso per diventare una tollerata prostituzione collettiva, quasi un archetipo di comportamento sociale normalizzato e pacifico, instillato a gocce di balletti nelle figlie d’Italia.
Difficile pensare che tutto questo possa portare a una generazione di donne libere, forti e tutelate. Donne che non solo non siano più vittime, ma che siano in grado di accorgersi in tempo quando iniziano a subire abusi e soprusi. Quelli che oggi sembrano privilegi e vantaggi di essere donne, giovani e belle.
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di Mario Braconi
Benetton ci riprova: dopo averci tenuto anni in astinenza dai piccoli shock di Oliviero Toscani, il brand di abbigliamento italiano lancia una nuova campagna di comunicazione (commerciale), che, anche questa volta, centra l’obiettivo: far parlare del brand. Un’offensiva quasi obbligatoria, per una società-rivelazione che però si è un po’ seduta, manifestando tassi di crescita da Repubblica Italiana e facendosi surclassare da una banda di parvenu del settore, divenuti giganteschi dominanti grazie a modelli di business evidentemente più consoni ai tempi (si pensi ad un marchio come Zara, che sviluppa un fatturato di circa 12 miliardi di euro, contro i circa due del gruppo veneto.
Il nuovo progetto è chiamato “Unhate”, neologismo composto dalla prefisso negativo “un-” associato alla parola “hate” (odio), probabilmente una derivazione di “un-friend”, nato su Facebook (ovvero l’atto di “togliere l’amicizia” ad un contatto cui la si era concessa). Una possibile traduzione potrebbe essere “dis-odio”, oppure “non-odio”. Alla Benetton, come noto, sanno maneggiare la comunicazione aziendale come si deve: non solo la nuova parola è un claim efficace in quanto immediatamente comprensibile, ma ha anche l’ulteriore pregio di non potersi confondere con nient’altro. Digitando su Google la nuova parola in una frazione di secondo si ottengono circa un milione di risultati, tutti inequivocabilmente legati a Benetton.
Le immagini della campagna consistono in una serie di fotomontaggi che mostrano leader religiosi e politici intenti a scambiarsi un bacio sulla bocca. Queste le coppie virtuali: Sarkozy e Merkel, Hu Jintao e Obama, Kim Jong-il e Hu Jintao, Obama e Chavez, Abu Mazen e Netanyahu (in una posa irresistibile), Joseph Ratzinger e Mohamed Ahmed el-Tayeb, imam della moschea cairota di Al-Azhar. Nessun leader politico è stato preavvisato dalla casa italiana, e al momento si registra solo il segnale di disappunto della Casa Bianca che, tramite una nota algida di Eric Schultz, ha fatto sapere: “La Casa Bianca tradizionalmente disapprova l’uso del nome e dell’immagine del Presidente per scopi commerciali”. Ma a Ponzano Veneto si contava soprattutto sul prevedibile contributo involontario che alla campagna pubblicitaria avrebbero dato i leader religiosi. Tanto Ahmed el-Tayeb che il Vaticano, infatti, hanno reagito con la consueta quanto attesa salva di anatemi.
Santa Romana Chiesa, in particolare, è caduta nel più classico dei tranelli, protestando vibratamente e fornendo lo sperato spin ad un’iniziativa tutto sommato banale. Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, è partito lancia in resta riferendo ai giornalisti il suo disappunto per “un uso del tutto inaccettabile dell’immagine” del papa, e minacciando di intraprendere “le opportune azioni al fine di impedire la circolazione, anche attraverso i mass media, del fotomontaggio realizzato nell’ambito della campagna pubblicitaria”, considerata “lesiva non soltanto della dignità del Papa e della Chiesa cattolica, ma anche della sensibilità dei credenti”. Tra parentesi, è interessante notare come in Italia non di rado i credenti praticanti facciano a gara con il loro clero a chi è più ortodosso: ad esempio, su Avvenire il giornalista Umberto Folena ha usato parole molto più dure di quelle di Lombardi, arrivando a bollare l’innocente fotomontaggio come “grave atto blasfemo”.
E’ bastata la sola minaccia di azioni legali da parte della Santa Sede a far sciogliere come neve al sole l’assai presunto spirito iconoclasta che si vorrebbe il tratto distintivo del management di Ponzano Veneto: forse Lombardi non aveva ancora finito di parlare quando un portavoce della ditta di abbigliamento ha lanciato un comunicato mellifluo in cui, dopo aver ribadito (un po’ ipocriticamente) che “il senso di questa campagna è esclusivamente quello di combattere la cultura dell'odio in ogni sua forma” (allora i jeans e le magliette non c’entrano?), è passato alle scuse di rito. Anche se, con un pizzico di malizia, ha avuto cura di rivolgerle non al Papa, ma “ai fedeli” presumibilmente urtati nella loro sensibilità religiosa. “A conferma del nostro sentimento, abbiamo deciso con effetto immediato di ritirare questa immagine da ogni pubblicazione”.
Dunque ci ha pensato direttamente l’estensore del messaggio a levare le castagne dal fuoco al Corriere della Sera e alla Repubblica, che avevano inizialmente concordato la pubblicazione. A quanto risulta al Wall Street Journal, invece, il New York Times aveva già rifiutato il progetto (ma la stampa progressista americana non era in mano agli ebrei?). Fortunatamente, e con grande soddisfazione dei Benetton e dei Fabrica, grazie ad internet è praticamente impossibile far sparire le immagini incriminate, che continueranno a circolare in rete, facendo sorridere e riflettere, nonché stimolando fatturati.
La campagna prosegue nel solco tracciato decenni fa da Oliviero Toscani, tentando una concettualizzazione del messaggio pubblicitario che si allontana della promozione della merce in quanto tale, tendendo invece a spingere il consumatore al collegamento automatico tra messaggio e brand promotore. Poiché il messaggio socio-culturale va somministrato ad un pubblico sempre più vasto, uniforme, ignorante, frettoloso e distratto, va da sé che debba essere il più banale e meno controverso possibile: no alla guerra, sì al sesso, sì alla fratellanza tra i popoli, no alla pena di morte, no alla malattia (ricordiamo a questo proposito che la malattia è un leitmotif per Oliviero Toscani, autore delle immagini scattate per un’altra nota casa di moda femminile, che mostravano corpo martirizzato di una giovane modella anoressica, in seguito deceduta a causa della malattia).
Tutto questo da un punto di vista, freddo e asettico, di semplice comunicazione. Tuttavia, il fatto che la comunicazione à-la-Toscani sfrutti meccanismi istintivi ed si collochi in territori lontani da sottigliezza ed intelligenza applicata non deve far perdere di vista un aspetto, che però è nodale: i temi che ne costituiscono la materia prima sono importanti, e i messaggi, nella loro estrema semplificazione, positivi.
Si dirà: ma non basta denunciare la guerra, la malattia, la mafia, l’ipocrisia per migliorare il mondo? Verissimo, però ribadire messaggi ovvi aiuta la consapevolezza, non solo quella dell’animale consumista, ma anche quella della persona. Ecco, è qui il punto centrale: è molto più utile riuscire a far pensare un passante anziché deliziarlo con le pur gradevoli sembianze di corpi nudi. Per carità, un po’ di sana nudità fa solo bene, ma forse qualche volta tendiamo a dimenticare che pure pensare è sexy.
Insomma, si potrà anche accusare (con ragione) Benetton di fare socialwashing (comunicazione sociale distorta, scorretta), ma non si può provare ammirazione per una pubblicità che riesce nel suo intento finale (far ricordare il marchio verde), e allo stesso tempo rubare qualche secondo del nostro affollatissimo tempo per farci riflettere. Anziché fare come lo psichiatra e romanziere americano Keith Albow che, sulla sua colonna su Fox News, arriva a scrivere che per Benetton “il sesso gay è la panacea per i mali del mondo”, forse è più utile domandarsi come mai i leader del mondo sono tutti maschi (per forza che i baci della campagna sono quasi tutti tra due uomini!). O riflettere sul fatto che i Grandi della terra sono in fondo creature umane e come tali anche occasionalmente vulnerabili al potere segreto delle emozioni.
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di Rosa Ana De Santis
Sta per finire quel rito rinomato, ormai talmente inflazionato da esser diventato un po’ retrò, che ha visto tanti giovanissimi andare ad Amsterdam al solo fine di gustare in libertà erba e droghe leggere. Un turismo tutto ludico, con l’ambizione di essere trasgressivo, proprio lì, dove invece la trasgressione è beffata e svuotata di senso dalla legge. L’Olanda ha fondato tutta la propria politica anti-proibizionista sul presupposto che il passaggio dalle droghe leggere a quelle pesanti é causato più che dagli effetti del consumo delle prime, dalle dinamiche illegali e malavitose in cui si ritroverebbero i più giovani senza alcun controllo legislativo da parte dello Stato.
Non c’è tanto una lettura di evidenza scientifica sui danni o meno delle droghe leggere, quanto la filosofia, tutta liberale, secondo cui la legge deve arrestarsi al confine della libertà individuale e lo Stato ha il dovere di non lasciare vuoti normativi e spazi di non controllo arretrando alle mafie e ai suoi affari. E’ uno Stato quindi che norma apparentemente meno per arrivare a coprire l’intera società. L’esatto contrario dell’approccio affatto liberale che abbiamo nel nostro paese e che invece pretende di entrare dentro le case di ognuno, lasciando deregolato ben più di ciò che norma.
Va quindi ben interpretata la decisione del governo olandese di chiudere i coffee shop agli stranieri entro i primi mesi del 2012 e di impedire la vendita di cannabis. I locali diventeranno circoli privati riservati ai maggiorenni residenti sul territorio olandese. La decisione non nasce tanto dalla volontà di mettere restrizioni all’uso legalizzato di cannabinoidi e marijuana, come ha immediatamente dichiarato il nostro Dipartimento delle Politiche Antidroga, quanto di impedire i consueti pellegrinaggi di massa per la marjuana che, se da un lato non omaggiano la bellezza di un paradiso come Amsterdam, dall’altro hanno a lungo assicurati profitti e incassi al turismo della città.
Una tendenza a mettere maggiori restrizioni al manifesto della tolleranza che ha sempre contraddistinto l’Olanda c’è stato anche sul sesso e si è registrata - da un anno a questa parte - una forte diminuzione dei locali destinati al sesso a pagamento. Il governo di centrodestra, responsabile di questo orientamento a mettere maggiori paletti, ha annunciato una politica salutista e una maggiore attenzione all’educazione della cittadinanza. Motivo per cui, ad esempio, i coffee shop non potranno più trovarsi vicino alle scuole.
La questione olandese, che senz’altro registra un cambio di rotta, è soprattutto mirata a tutelare il paese da un turismo che, a differenza dei cittadini dei Paesi Bassi, manca di educazione e formazione sull’argomento proprio perché proviene da paesi marcatamente proibizionisti dove determinate questioni compaiono solo perché censurate e non affrontate.
Nessuno in Europa ha ritenuto di dover commentare le scelte olandesi. Unica eccezione Giovanardi, come al solito espressione di come le droghe non siano forse il problema numero uno. Il plauso del Sottosegretario Giovanardi, infatti, che legge questo passaggio dell’Olanda come l’equazione tra droghe leggere e droghe pesanti, ne è la più ovvia dimostrazione. Più interessanti le parole del Prof. Serpelloni, neuropsichiatra direttore del Dipartimento Antidroga, che raccoglie la notizia per lanciare l’allarme su altre droghe che stanno ormai raggiungendo livelli di guardia in Italia come i Sali da bagno inalati e altre smart drugs. Non da ultimo il dato per cui il primo contatto con le droghe in una città come Roma, dove certamente l’informazione non manca, arriva a 9 anni.
Ricerche dello stesso Dipartimento in rete con strutture universitarie nazionali e internazionali, sembrano dimostrare che l’uso prolungato di cannabis produrrebbe una riduzione dello spessore corticale della sostanza grigia che diventa più sottile soprattutto nei lobi prefrontali, “ alterando la rapidità di analisi, di decisione, attenzione e coordinamento”. Ma i dati allarmanti dovrebbero indurre a considerazioni più severe verso l’azione legislativa finora intrapresa che nella sola repressione del fenomeno ha investito tutte le proprie attese con risultati pessimi proprio dal punto di vista del contrasto alla diffusione e l’uso delle sostanze.
E’ fin troppo banale dover ammettere che ogni lettura ingenua sulla panacea della canna, molto in voga tra i più piccoli, è destinata ad esser superata da evidenze scientifiche più complesse e articolate. Il cervello di un ragazzo che fa uso prolungato e massiccio di cannabis non è certamente un cervello malato come lo chiama ricorrendo ad un linguaggio falso e terroristico il Dipartimento del nostro governo, ma è una mente indubbiamente affetta da dipendenza. Non è l’unica dipendenza contro cui combattere, certamente, ma tenendo conto sempre della consapevolezza che non tutto può essere superato e che ciascuno decide della propria esistenza. Con un’attenzione particolare da parte delle Istituzioni per i più giovani, meno strutturati nell’autonomia e più condizionabili. Una politica di riguardo e di educazione che non è sic et simpliciter la politica della proibizione assoluta. Ancora una volta, persino nella politica delle restrizioni che non annienta quella della liberalità, l’Olanda è avanti a noi. Questo l’unico commento che il nostro governo non può fare.
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di Vincenzo Maddaloni
Le previsioni più ottimistiche indicano che entro trent'anni Venezia non avrà più residenti, ma soltanto proprietari di seconda casa e turisti in visita. Ottima notizia per quanti da decenni l’hanno attesa come fosse un traguardo irraggiungibile. Pessima, per una città che nel 1500 con 150 mila abitanti - la sua soglia massima - era per numero dei residenti la seconda in Europa, dopo Londra. E’ da allora che i veneziani cominciarono a diminuire lentamente e inesorabilmente. Beninteso, anche per le ripetute pestilenze che colpirono la Serenissima durante i secoli; tuttavia mai con la velocità degli ultimi settant’anni del ventesimo secolo.
Poiché i veneziani che erano ancora 130 mila nel secondo dopoguerra, negli anni Ottanta si sono di fatto dimezzati. Oggi a mala pena raggiungerebbero i cinquanta mila secondo alcuni dati non ufficiali. Malauguratamente non per le pestilenze, ma per una politica culturale dagli effetti ancora più nefasti che da trent’anni a questa parte mira a fare di Venezia (uso un eufemismo) un centro di attrazioni, e che trascura il veneziano, anzi lo ha relegato nelle squallide periferie di Marghera http://margheraonline.it/blog/sicurezza/cronaca-di-un-disastro-ambientale-annunciato/ , Mestre, Carpenedo http://it.wikipedia.org/wiki/Carpenedo . Con la medesima tempistica si è mosso il saccheggio della città che fa leva sulla selvaggia lottizzazione immobiliare che non conosce crisi perché la pressante domanda della seconda casa sulla laguna mantiene i prezzi degli appartamenti alle stelle. Inavvicinabili per le coppie giovani, sicché risulta sempre di più una città di vecchi, di pensionati, che va perdendo l’anima originaria.
E’ difficile però valutare le dimensioni del fenomeno perché i veneziani hanno per misura la rassegnazione e sono poco inclini alle manifestazioni vistose anche nell’éra berlusconiana dove tutto è permesso a cominciare dall’arroganza. Per stare al certo si potrebbe dire che a Venezia, la politica, l’economia, la cultura in prevalenza mercantile hanno contribuito a rendere la gente sempre più schiva, frustrata. Non c’è disperazione sociale, questo no, non c’è nemmeno la preoccupazione di sprofondare nella laguna, le preoccupazioni semmai sono altre. Prima di tutto la marginalità, il timore di essere tagliati definitivamente fuori da ogni decisione sul governo della città. Poi, l’invadenza “forestiera”, i nuovi cittadini (italiani e stranieri) che hanno a Venezia la seconda casa, li hanno indotti su posizioni rinunciatarie, a fare ghetto, a difendersi da un modo di vivere che, a parer loro, stravolge i valori e le tradizioni della città.
Già si sono creati - a sentir loro - fenomeni allarmanti: la divisione, per esempio, tra centro e periferia che non ci fu mai nella millenaria storia di equilibri policentrici dei Sestieri che suddividono in sei quartieri appunto il centro storico lagunare. Una città socialmente a “pelle di leopardo”, con quartieri ricchi e quartieri poveri, simile ai grandi centri urbani della terraferma i lagunari non l’accettano, forti di una consapevolezza, freudiana se vi fa piacere, di appartenere a una città che per centinaia di anni fu capitale della cultura e della politica.
Infatti, ogni qualvolta si tocca l’argomento, il confronto col “secolo dei lumi” http://it.wikipedia.org/wiki/Illuminismo è inevitabile, è una sorta di intima e ricorrente nostalgia, percorsa da personaggi illustri come Goldoni, Canaletto, Guardi, Casanova, dalle mille e una copertine delle Gazzette - le sole nell’Europa del tempo - a non essere soggette alle censure. Erano gli ultimi sprazzi di una Repubblica libera, dove il francese, il turco, l’ebreo potevano venire e convivere liberamente purché non facessero pubblica propaganda religiosa.
Nel 1739 Charles de Brosses, scrivendo di Venezia e del suo carnevale, raccontava: «Comincia già il cinque ottobre e ce n’è un altro di quindici giorni all’Ascensione, così che qui si possono contare all’incirca sei mesi in cui chiunque, compresi i preti, compreso il nunzio apostolico e il padre guardiano dei cappuccini, non esce che in maschera. Non scherzo: è l’uniforme di ordinanza». Insomma, divertimenti e quattrini in un’incredibile festa spontanea dei ricchi e dei poveri, internazionale e paesana dove «soltanto i morti i xe veci», come annotava Mozart.
Un secolo affatto dimenticato, anzi nei discorsi dei veneziani spesso additato, anche oggi, come un confronto naturale col quale rapportarsi, nell’intento non ultimo di scrollarsi di dosso il mito romantico della “morte a Venezia” che li perseguita; poi le inchieste sulla città che sprofonda che li avviliscono; poi ancora le cronache sugli effetti del Mose http://www2.comune.venezia.it/mose-doc-prg/ che li inquietano; e infine gli interventi degli esperti che vogliono salvarli.
Salvarli da chi? Si tenga a mente che da quando - trent’anni fa - ci si è accorti che i messaggi della città hanno indici di ascolto estremamente ampi in tutto il pianeta, nel senso che le genti di tutto il mondo vi partecipano fisicamente con il loro tempo e i loro quattrini, il “salvataggio” dei veneziani è diventato un problema secondario. E non poteva essere diversamente poiché nell’immaginario collettivo Venezia è sempre meno l’ex capitale della Serenissima, e sempre più un centro internazionale di aggregazione pilotata; perché le architetture, gli ambienti, i percorsi dove persino il traffico merci è distinto da quello pedonale, ne fanno una città “a misura d’uomo”, come dettava Le Corbusier, e perciò un luogo unico e straordinario.
Tutti questi elementi, amplificati a dismisura dai mass-media internazionali, hanno consolidato l’immagine di una città dove ogni cosa che si discute, si mostra, si elabora, si produce, si trasforma quasi sempre in un frastornante evento globale. Ragion per cui siccome il segno encomiastico della dimensione a “misura d’uomo” viene in ogni occasione esaltato dai media, fino a stravolgerlo, diventa sempre più ardua una valutazione equanime sul destino della città e dei suoi residenti, sull’impresa turistica a maggior rendimento al mondo, e sul mito della città “a misura d’uomo” dove - è evidente ogni giorno di più - non tutto luccica.
Infatti, a chi viene a Venezia per visitarla sembra impossibile che ci siano poco più di 50 mila abitanti nel centro storico, tanto la città è affollata durante la bella stagione, nei week-end e durante le grandi manifestazioni. Accade infatti che a Venezia ci vengano di media più 50 mila turisti al giorno, ai quali si aggiungono i lavoratori pendolari e gli studenti delle varie facoltà universitarie presenti in città, più o meno altri venti mila. Una moltitudine per una città così minuta.
Pertanto, siamo di fronte ad un’operazione di marketing turistico sugli effetti della quale è bene riflettere, anche se brevemente. Come spesso accade nella vita, del ruolo della città si sono accorti prima i non veneziani. E’ cresciuta prima la domanda dell’offerta, i residenti sono arrivati in ritardo. Le strutture di governo cittadine si sono adeguate a una realtà imposta dal profitto, non sono state capaci di proporre alternative valide, come per esempio fermare l’esodo dei veneziani, invece di incoraggiarlo. Risultato? Spira nella Venezia d’inverno un forte vento di abbandono. Dove il calendario si regola sul flusso delle comitive dei turisti, questo è tempo d’inizio di ferie: cominciano a chiudere i negozi, e i ristoranti ne vanno al seguito. Acqua alta quasi sempre. Il disagio come abitudine.
Speculazione selvaggia - s’è detto - mancanza di alloggi, migrazioni dei giovani: e dunque città di anziani, città di pensionati, e si vede. Ogni tanto un tiepido sole gratifica, ed eccoli tutti ritrovarsi in Piazza San Marco, nei campielli, sulle rive. Felici di rivedersi, di ciacolar, di contarsi le rughe. La domenica è un passeggio per i consueti itinerari: Mercerie, San Marco, Strada Nova, Ferrovia.
Tutti a piedi, o in barca a remi, comunque in passerella. Dopotutto a Venezia il benessere non si misura in cavalli vapore; non è pensabile che vada oltre l’abito che s’indossa quella che Proust definiva «l’arte infinitamente varia di sottolineare le distanze ». Un confronto più accessibile che favorisce quella stratificazione sociale, quel sovrapporsi di corporazioni e di fasce di reddito che impediscono lo scontro di classe, affievoliscono le tensioni. Un modo di rapportarsi per certi versi unico che non è stato coltivato, studiato, incoraggiato, diffuso, portato avanti come esempio da imitare.
De Michelis e Degan, Brunetta e Cacciari, tanto per citare i primi che arrivano in mente. Tutte le giunte che si non succedute al governo della città, ma anche della Regione da sempre hanno dimostrato una grande miopia poiché tutte le scelte sono caparbiamente improntate alla difesa del potere in perfetta sintonia con il resto della nazione. Così, negli anni, Venezia è andata penalizzando il suo volto più “orientale”, quello della cortesia e dell’ospitalità e ha valorizzato invece quello “levantino” del baratto e del guadagno. In buona sostanza anch’essa si è adeguata al nuovo tempo, quello nel quale stiamo vivendo. “Eine Katastrophe”, una catastrofe, direbbero i miei amici tedeschi. Che, d’abitudine, vanno subito al sodo di ogni vicenda.