di Mario Braconi

Tutto è cominciato il 18 aprile 2009, a margine di un evento tenutosi a Goteborg, in Svezia, cui hanno preso parte le due fazioni del cosiddetto partito pirata, il partito della Sinistra e l’ala del sindacato laburista svedese che si occupa d’istruzione e cultura. In quell’occasione, Erik Josefsson, attivista svedese per le libertà digitali, chiese agli altri partecipanti di dare il loro contributo alla lotta contro una serie di leggi sulla sorveglianza online già approvate o progettate da singoli governi o dal Parlamento Europeo.

I progetti di legge liberticidi denunciati da Josefsson, oltre alla legge svedese conosciuta come FRA (transfrontaliera), che consente alla polizia nazionale di sottoporre a controllo tutto il traffico telefonico o internet che attraversa i confini svedesi senza garanzie per i cittadini sorvegliati, erano la Direttiva comunitaria sulla conservazione dei dati di traffico, e il cosiddetto Telecoms Package, che prevedeva la possibilità di tagliare la connettività internet a chi fosse stato sorpreso più di una volta a utilizzare illegalmente contenuti coperti da copyright.

Secondo la ricostruzione effettuata dall’articolo pubblicato sul sito internet di Forbes del 27 dicembre, qualcuno di questi esuberanti giovani, a forza di smanettare sui siti ufficiali delle organizzazioni politiche europee, riuscì a mettere le mani sui numeri di telefono di ogni singolo parlamentare europeo, e a convincere gli administrator del sito di Pirate Bay a piazzare l’elenco in home page.

Grazie al bombardamento di telefonate e messaggi, i telefoni di tutti i parlamentari che si stavano dando da fare attorno all’assurdo progetto di legge sono rimasti irraggiungibili per giorni, finché esso è stato accantonata. Successo. E anche battesimo del fuoco di Telecomix, che da commissione di un oscuro congresso di hacker fricchettoni, da quel momento diventa un “cluster telecomunista di bot [programmi che ripetono le stesse operazioni all’infinito] e di persone che amano internet, che si sforza di proteggere e migliorare la Rete e di difendere il libero flusso dei dati. Più che un gruppo, potete definirci un accidente [...] un organismo simile ad un sifonoforo, che trasmette il suo genoma tramite memi [l’equivalente dei geni nel mondo della cultura] ed imitazione più che con leggi e regole.”

Per chi non fosse ferrato in biologia, ricordiamo che i sifonofori sono degli invertebrati marini apparentemente simili a grandi meduse, dalle quali si distinguono perché, a differenza di queste ultime, ognuno di essi non è un individuo ma una colonia di zoidi altamente organizzati. Come i sifonofori, sembra di capire, i Telecomix sono singoli e allo stesso tempo membri di un’entità organizzata, che si muove come fosse un sol uomo (o donna che sia).  E come i sifonofori, i Telecomix sono dotati di lunghi e velenosi tentacoli.

Coerentemente alla vocazione politica che li ha contraddistinti fin dall’inizio (a differenza di Anonymous che, almeno inizialmente, era un divertissement da nerd che hanno in odio Scientology) i Telecomix hanno cercato di dare una mano alle popolazioni civili vittima di brutali repressioni da parte della dittatura egiziana e, più recentemente, anche in Siria. Quando lo scorso gennaio, gli sgherri di Mubarak oscurarono completamente la Rete in Egitto, i Telecomix, accordandosi con il provider French Data Network (pare piuttosto hacker-friendly) ha messo a disposizione delle modem bank per consentire connessioni gratuite dial-up agli egiziani. Gli attivisti si occuparono contestualmente di portare a conoscenza della popolazione i numeri da comporre per connettersi gratuitamente e bypassando la censura, faxandoli a tutti gli uffici pubblici, le università e caffè di cui sono riusciti a trovare le coordinate.

Telecomix ha dato una mano anche in Siria: utilizzando software specifici di analisi della rete come NMAP (che sta per Network Mapping), gli “agenti” di Telecomix hanno individuato 700.000 collegamenti in Siria da passare al setaccio alla ricerca di una possibile falla. Con un efficace metodo di crowdsourcing, ovvero di divisione del lavoro tra “agenti” tedeschi francesi e nordamericani, gli hacker hanno preso il controllo di una serie network switch, rubato password, spiato dalle webcam le strade e perfino le scrivanie dei capi della repressione di Stato, fino a “pizzicare” 5.000 router domestici senza protezione.

A metà agosto, quindi, chiunque si è collegato alla Rete da una delle 5.000 postazioni hackerate, al posto della home page ha visto una pagina bianca con un curioso simbolo (una omega nel quale è inscritta una stella, sopra un triangolo circondato da fulmini) contenente il seguente messaggio: “questa temporanea interruzione del servizio internet è deliberata. Vi preghiamo di leggere attentamente e di diffondere il seguente messaggio: il vostro traffico internet è monitorato.” Seguiva un manuale che spiegava agli utenti come dotarsi di software gratuito di criptaggio (Tor o TrueCrypt) al fine di eludere sorveglianza e/o la censura di stato.

Dalla sortita contro il regime siriano Telecomix ha portato a casa un bottino molto interessante: un database di 54 GB di file di log utilizzati dagli sbirri siriani, che è stato reso noto ad un convegno di blogger arabi lo scorso ottobre. Anche se gli IP delle persone monitorate dal regime erano state sostituiti con uno 0.0.0.0, secondo alcuni specialisti di Rete, tra cui il mitico Jacob Applebaum, la pubblicazione dei dati è stata comunque un azzardo in quanto, tra i dati resi pubblici, potevano comunque figurare i nomi delle persone oggetto di sorveglianza poliziesca.

Ma la scoperta più interessante è quella effettuata da un ex dipendente a progetto del Pentagono, un americano di Washington attualmente in forza tra le file di Telecomix. Mentre pasticciava tra i vari server siriani, Punkbob (questo il suo nome in codice) si è imbattuto in un server FTP pieno di log identici a quelli che al Pentagono venivano prodotti da un software impiegato per intercettare, filtrare e registrare il comportamento online dei dipendenti. Non c’è da meravigliarsi, dal momento che gli uomini del regime siriano addetti alla sorveglianza online dei cittadini riottosi utilizzavano un programma realizzato da un’azienda americana, la Blue Coat Systems, di Sunnyvale, California. Il tutto, ovviamente, a dispetto dell’embargo.

Dopo la pubblicazione dei 54 GB di log, la Blue Coat System ha fatto sempre più fatica a mantenersi solidamente sulla sua posizione ufficiale, secondo cui “è vietata per policy aziendale la vendita dei nostri prodotti in paesi sotto embargo USA”; nessun suo rappresentante ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti di Forbes e di Bloomberg, sostenendo che sull’incidente è stata aperta un’inchiesta interna ed una del Dipartimento del Commercio Estero USA.

In effetti, l’embargo viene agilmente dribblato grazie alle triangolazioni: una gustosa storia pubblicata da Bloomberg il 23 dicembre racconta come il prodotto di spionaggio su internet NetEnforcer, prodotto in Israele, sia finito, tramite la mediazione di un “distributore” danese, addirittura in Iran (sembra tra l’altro che le bolle di spedizione in Iran fossero a disposizione del venditore israeliano, qualora si fosse preso il disturbo di esigerle…). Tuttavia, l’ignoranza del venditore sul destino finale di un prodotto informatico oggi è una scusa debole.

Come ricorda Peter Fein un Telecomix di stanza a Chicago, se la Blue Coat avesse solo controllato gli indirizzi internet quando si collegava con le sue macchine, si sarebbe resa conto che i suoi gioiellini erano usati da brutali assassini di stato. Come sostiene Brett Solomon, cofondatore e direttore esecutivo della ONG Access, “la tecnologia può essere usata come un’arma, e dovrebbe essere trattata con la stessa attenzione e venduta con la medesima diligenza”.

di Rosa Ana De Santis

E’ stato Natale per tutti, per i senza dimora, per gli stranieri, per i rom. Il mondo del volontariato e delle associazioni si è organizzato per offrire una giornata di festa e di condivisione anche a chi, nel nostro Paese, è solo o vive ai margini. A Bologna è stato organizzato un pranzo per gli anziani che non hanno famiglia, mentre a Roma la Comunità di Sant’Egidio, come ogni anno, ha accolto 700 persone nella Basilica di S. Maria in Trastevere per un pranzo di solidarietà, inaugurato dalle parole del Ministro Riccardi. La Caritas torna ad offrire il pranzo agli homeless nelle proprie strutture. Alla Stazione centrale di Milano squadre di volontari hanno animato il pomeriggio dei senza tetto che vivono tra i binari.

Molte le iniziative in tutto il territorio nazionale, utili a restituirci la fotografia del disagio e delle nuove povertà, togliendo quella glassa di retorica che un obbligato clima natalizio porta un po’ nelle case di tutti.

Il Ministro per l’integrazione, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio, ha espresso preoccupazione per i recenti episodi di cronaca che fanno temere una degenerazione xenofoba grave del diffuso clima di intolleranza: la morte dei senegalesi a Firenze per mano di un militante dell’estrema destra, Gianluca Casseri, e il raid punitivo al campo nomadi di Torino alla ricerca di un violentatore rom che non esisteva. Nonostante questi segnali il Ministro si dice sicuro che l’Italia sia ancora un paese solidale, in cui la gente, nonostante la crisi e le difficoltà, ha voglia di aiutare e darsi da fare.

Eppure la sua proposta choc di investire sulla scolarizzazione dei figli dei rom e sulla possibilità di offrire loro una casa, per favorirne l’integrazione, aveva scatenato i peggiori reflussi razzisti non solo da parte delle persone comuni, ma anche da parte di colleghi di governo restituendo un’immagine meno ottimista sulla cultura italiana dell’accoglienza.  Sarà che gli italiani immigrati nel resto del mondo sono stati pesantemente ghettizzati e discriminati, sarà che un avallato linguaggio dell’odio ha intessuto la politica degli ultimi anni, tutto ha contribuito a trasformarci in un paese che benedice i rimpatri, che non prova sconvolgimento per l’uccisione degli immigrati, che tollera il ritorno delle atroci mostruosità culturali del nazi-fascismo tra i propri figli.

Mentre, con l’altra mano, riduce i lavoratori immigrati in semi-schiavitù, fonda intere fette di produzione su questo meccanismo di sfruttamento, eliminando qualsiasi controllo e intervento sull’illegalità diffusa grazie alla penuria di strumenti da parte delle forze dell’ordine. Insomma una doppia identità che ha bisogno degli stranieri di notte e li perseguita di giorno e che spiega tutta l’inconsistenza delle presunte ragioni di chi vuole la cacciata degli immigrati e tutto il bisogno di avere un comodo capro espiatorio che paghi il prezzo per tutti del difficile tempo storico di transizione che viviamo. Un corso e ricorso, direbbe Vico, che conosciamo bene.

A Capodanno torneranno altre iniziative di solidarietà e molte saranno rivolte anche a tutte quelle famiglie italiane che sono sprofondate da un tenore medio di vita alla povertà. Anziani, padri separati, famiglie numerose. E’ nelle mani della sussidiarietà e dell’altruismo quello che dovrebbe competere al welfare di un paese. L’anno che verrà, come recita l’incipit di un celebre brano di un cantautore, non sarà migliore e tutti già lo sanno.

Alle istituzioni andrebbe l’obbligo di pensare alle fasce sociali più deboli e a chi ha pagato già tutto il costo della crisi globale. Agli italiani, ai comuni cittadini, il coraggio di comprendere che chi viene a farsi schiavo qui ha rinunciato a tutto, persino al diritto di rivendicare la propria identità. Zombie che lavorano di giorno nascondendosi dai vigili urbani, che dormono come detenuti nelle case degli italiani pagando caro il prezzo di una brandina e di una latrina, che vengono ammazzati da gruppetti di fanatici noti a chi dovrebbe tutelare la nostra sicurezza. Lavoratori, padri, madri, rifugiati che trovano in una chiesa un piatto caldo e una vaga atmosfera clemente del Natale che hanno lasciato a casa.

di Rosa Ana De Santis

Lo scandalo delle protesi PIP, potenzialmente cancerogene o, come sembra, più verosimilmente a maggior rischio di rottura e reazioni infiammatorie, non riguarda soltanto le 30.000 donne francesi che dovranno essere tutte operate per la sostituzione degli impianti. E’ allarme in altri paesi come la Gran Bretagna, che sembra però più cauta nella procedura degli espianti, e anche in Italia, con una stima di circa 5.000 donne coinvolte. Molto difficile intervenire tempestivamente per individuare queste donne che corrono un serio rischio per la loro salute, a causa della mancanza di un registro delle protesi impiantate.

La questione è stata più volte sollevata, da ultimo dall’ex Sottosegretario Martini, senza però concretizzarsi mai per presunte ragioni di privacy o, più probabilmente, per ragioni di fondi inesistenti. Il Ministro Balduzzi è il primo a evidenziare che i monitoraggi messi in campo negli ultimi anni, fino ad arrivare al ritiro vero e proprio degli impianti considerati pericolosi, sono compromessi dall’assenza di un registro in cui siano riportati i dati personali e la tipologia di protesi del seno impiantate. Il dato ancor più grave è che questa mancanza non riguarda solo le donne che scelgono mastoplastiche additive per fini estetici, ma anche quante hanno messo impianti per ragioni di salute. Le uniche, dichiara il Ministro, il cui intervento di sostituzione, sarà rimborsato dal sistema sanitario nazionale.

A gennaio dell’anno in corso, Il Ministero della Salute aveva annunciato l’indispensabilità di un registro identificativo almeno per gli interventi di ricostruzione mammaria, al fine di tracciare le portatrici di protesi che hanno avuto problemi severi di salute, quasi sempre oncologici. Ad oggi manca infatti una mappa dettagliata e soprattutto omogenea o nazionale di questo tipo di interventi. Quindi ne è compromessa qualsiasi possibilità di casistica generale e completa, consegnando alla statistica ufficiale dati frammentari e di maggiore difficoltà di interpretazione. Ogni ospedale fa per sé, mentre le cliniche sono ancora più difficili da monitorare.

Ne è prova il fatto che di fronte ad un rischio di salute come quello correlato alle protesi PIP la strada raccomandata dalle autorità sanitarie non possa essere altra che quella di invitare i pazienti a contattare autonomamente i chirurghi o i singoli centri coinvolti a convocare i propri pazienti. Nessuna procedura sistematica, capillare e dall’alto.

Peraltro, nel caso delle ricostruzioni mammarie, l’assenza di un registro nazionale, per tutti i tipi di intervento,  ha un doppio effetto collaterale. Oltre a quello di non vigilare efficacemente sui rischi di salute di chi porta protesi, produce, infatti, una significativa riduzione del diritto d’informazione che dovrebbe essere garantito ad ogni donna che deve sottoporsi ad un intervento ricostruttivo.  Le tecniche di ricostruzione sono infatti molteplici: sa va da quelle con protesi a quelle che utilizzano anche o solo i tessuti autologhi ed è fondamentale capire quale sia la più adeguata al proprio corpo, alla propria immagine di sé e in quanti e quali centri si applichino dato che la formazione dei chirurghi in questo senso è tutt’altro che omogenea nel territorio nazionale.

Il fatto che manchi una campionatura istituzionale in un ambito così delicato e fondamentale per il recupero di pazienti oncologiche rappresenta un deficit fortissimo sia sul piano medico-sanitario, che sulla scelta e il percorso di cura che vive ogni donna dopo aver affrontato il cancro del seno.

Quello che poteva essere un provvedimento che avrebbe reso il nostro Paese all’avanguardia non è più all’ordine del giorno. Non ora almeno. Anche se, proprio in questi giorni, in cui le notizie che arrivano dalla Francia hanno riportato all’attenzione il legame fortissimo tra protesi e salute, se ne ravvede tutta l’urgenza. Una relazione tra protesi e possibili complicazioni (anche nel caso di materiali sicuri e garantiti) che l’eccessiva banalizzazione della chirurgia estetica con gli interventi a basso costo ha contribuito troppe volte a sminuire convincendo le donne che si trattasse di operazioni banali, a zero complicazioni.

La mancanza di tracciabilità degli interventi con le protesi è oggi invece il primo ostacolo per intervenire a tutela della salute delle donne, colpite prima di tutto dai danni della disinformazione e dalla scelta di strutture non qualificate con l’idea che la chirurgia plastica sia poco più di un’operazione di maquillage. La nascita di un registro ufficiale è il primo strumento per scongiurare casi PIP. Sull’affidabilità degli impianti scelti non rimane altro, invece, che affidarsi alla deontologia dei medici e al primato della salute su quello del risparmio in bilancio.  Per questo la legge c’è già: è quella sancita dal giuramento di Ippocrate.

 

di Mariavittoria Orsolato

Da quando nell'autunno del 2006 Mauro Moretti ha preso in mano il timone di Trenitalia le cose sono indubbiamente cambiate, ma di certo non in meglio: se sulla carta sono ancora le Ferrovie dello Stato, nella realtà dei fatti e nella visione morettiana le nostre sono ormai diventate le Ferrovie dell'élite. La rivoluzione di Moretti non ha infatti nulla a che vedere col background da sindacalista che l'ad si porta dietro – Moretti è stato a lungo un dirigente della Filt, la branca della Cgil che si occupa dei ferrovieri – e nella pratica si è concentrata molto più sulla forma che sulla sostanza, riuscendo in quello che la Lega non ha potuto in 24 anni di sproloqui: dividere fisicamente l'Italia.

Certo un Frecciarossa sarà sicuramente più piacevole alla vista rispetto ad un regionale dell'anteguerra ma il drastico ridimensionamento delle tratte e soprattutto dei prezzi, ha fatto sì che per spostarsi da un capo all'altro dell'Italia, l'aereo risulti molto più conveniente del treno. Uno sconvolgimento non da poco nelle abitudini degli italiani che, anche quando sui vagoni e nelle stazioni si mettevano le bombe, lo hanno sempre preferito per i loro viaggi (soprattutto a lunga percorrenza) facendo del treno il mezzo di trasporto nazionalpopolare per eccellenza.

Dacchè si è insediato, Moretti ha fatto di tutto per far dimenticare i propositi e la proprietà pubblica delle ferrovie  - che ormai di statale hanno solo i finanziamenti - e ha ripensato l'intera rete in funzione di una sola e risibile parte dell'utenza, quella coi soldi. Puntando tutto sull'Alta Velocità e lasciando a se stessi i più di 9000 convogli che non hanno lo status di “Freccia”, l'ad di Trenitalia ha volutamente escluso dalle sue preoccupazioni (che ricordiamolo in realtà sono preoccupazioni dello Stato), tutti quei pendolari, quei viaggiatori notturni e di lunghe percorrenze che per un motivo o per l'altro tentano di muoversi su e giù per la penisola.

Usando uno slogan, forma particolarmente amata dai press agents di Trenitalia, peggiora il servizio e aumentano i costi: in uno dei suoi ultimi report Legambiente denuncia infatti come, a fronte di un sensibile aumento degli utenti - +7,8%, arrivando così a 2.830.000 di passeggeri - si sia registrato un drastico taglio dei treni per i pendolari (si va dal 10% della Campania al 20% del Veneto) e, parallelamente, un aumento del costo del trasporto che, nel 2012, è destinato a crescere ulteriormente. Come a dire: “Non avete i soldi per pagare il biglietto di un Frecciarossa o un Frecciargento? Beh, arrangiatevi!”

E pensare che se non ci fossero i contributi dei cittadini a mantenerle, le Ferrovie dello Stato sarebbero peggio di un colabrodo: stando ai conti de Il Sole 24 Ore l'anno scorso il bilancio economico delle FS ha beneficiato di risorse pubbliche per la bellezza di 3.531 milioni di euro. Le risorse pubbliche che affluiscono nelle casse delle Ferrovie sono infatti composte da due grandi voci: la prima, per un totale di 2.493 milioni nel 2010, consiste nei corrispettivi dallo Stato e dagli enti pubblici territoriali per contratti di servizio - di cui 1.947 milioni sono i ricavi elargiti Regioni, obbligate ad affidare kilometri di chemin de fer senza gara e alle condizioni di Trenitalia - mentre la seconda voce, pari a 1.038 milioni nel 2010, deriva da corrispettivi dello Stato per contratti di programma.

Inoltre le FS hanno ricevuto altri fondi dal Governo: 1.814 milioni di contributi in conto capitale per gli investimenti, che sono pari a 4.074 milioni. Una beneficenza da quasi 6 miliardi di euro che dunque viene del tutto disattesa in termini di servizi al cittadino/contribuente.

Eppure per far quadrare i conti c'è ancora bisogno di tagliare, di eliminare tratte e ridimensionare l'organico. L'ultima mossa in ordine di tempo è stata quella di sopprimere i treni notte e di lasciare a casa gli 800 ferrovieri che li scortavano e li accudivano nei loro tragitti. Tra questi anche la versione nostrana del mitico Orient Express - il treno protagonista dei racconti di Agatha Christie, Ian Fleming e Graham Greene - che da Venezia arrivava a Budapest passando per Belgrado; a dimostrazione che per Moretti la storia, vuoi quella personale dei suoi sottoposti, vuoi quella culturale e a volte mitica di determinate tratte, non conta nulla di fronte ai numeri.

Così come non valgono nulla le proteste dei tantissimi cittadini che dalla Val Susa a Firenze della Tav non ne vogliono proprio sapere. Che, come i parenti delle vittime della strage di Viareggio, vogliono delle risposte. Che come i 10000 ferrovieri licenziati rivogliono il loro posto di lavoro. O che, semplicemente, chiedono di essere trattati in modo dignitoso a fronte del pagamento (a carissimo prezzo) di un sedicente servizio pubblico. Dei “fessi” secondo Moretti, che non avendo una laurea in ingegneria ferroviaria come lui, non hanno diritto di metterci bocca in merito.

Quella dell'ingegnere può quindi essere considerata una gestione cilena dell'apparato ferroviario, a maggior ragione se si tiene conto che lo Stato - inteso come proprietario e come rappresentanza politica - ha avallato ogni sua decisione, dandogli carta bianca in nome del pareggio di bilancio. In quest'ottica Moretti non può non rappresentare il prototipo del “tecnico” che ora, nostro malgrado, ci ritroviamo al Governo: un personaggio che, dimentico della sua funzione di servitore dello Stato, impone sacrifici e malversazioni ai cittadini col solo scopo di fare cassa. Ma d'altronde il suo stipendio da 886.478 euro l'anno qualcuno lo dovrà pur pagare.

 

 

di Mario Braconi

Uno spaccato agghiacciante è quello che viene fuori dalla pubblicazione di una lista di italiani “sgraditi” sul forum neonazista “Stormfront”. Il sito italiano s’ispira alle “idee” (si fa per dire) di tale Don Black, che, a dispetto del suo nome tutt’altro che bianco, è un ex “grande drago” del Ku Klux Klan, nonché accalorato sostenitore della “causa” della supremazia bianca negli Stati Uniti. Ironia della sorte, la sua ex moglie, che l’ha mantenuto per il periodo in cui era disoccupato, si batte per i diritti dei neri e degli ispanici americani (quando si dice il contrappasso!) Un utente del sito italiano, nickname “Costantino”, lancia la sua sfida online sostenendo di essere arrabbiato più con coloro che “aiutano gli “allogeni” [letteralmente, “nati altrove”] e ne traggono un tornaconto economico”, che con gli stranieri stessi.

In effetti, il ragionamento, dal punto di vista dell’infermità mentale che lo ha fatto proprio, è coerente: gli stranieri sono Untermensch, subumani, che pertanto non meritano nemmeno l’odio. Oggetto invece di un odio acre, virulento, sono indistintamente tutti coloro che, in un paese mediocre e confuso, si ostinano a considerare gli stranieri per quello che sono, ovvero esseri umani, per inciso titolari di un complesso di diritti e doveri al pari degli “ariani”: ovvero giornalisti, giudici, politici di ogni colore politico, sociologi, preti e volontari, tutti accomunati dal fatto di essere dei “coccolanegri”.

Agli occhi dei suprematisti bianchi “de noantri”, che usano il logo americano - una croce celtica bianca su fondo nero decorata con le parole White Pride World Wide (Orgoglio Bianco nel Mondo) - ad esempio, l’assessore della Regione Toscana Stella Targetti, che si è messa nei guai per il suo eccesso di idealismo: non è piaciuto agli amanti delle svastiche le sue dichiarazioni in cui sosteneva di volere una scuola “dove nessuno sia ‘straniero’”. Tanto è bastato per essere insignita dell’oscena minaccia in rima “bastarda immigrazionista, sei nella lista”.

Non parliamo di Gad Lerner (che già parte svantaggiato per la sua origine ebraica): “Costantino” e i suoi sodali non hanno gradito lo stile di conduzione della sua trasmissione sui crimini razzisti di cui si è macchiato il “camerata” Casseri. Laura Longo, il pm di Torino incaricato delle indagini sul rogo Campo Rom di Continassa a Torino, ha avuto l’ardire di contestare ai criminali che hanno dato fuoco al campo Rom di Cascina Continassa l’aggravante dell’odio razziale, che dovrebbe valere ai due un sostanzioso aggravio di pena.

A proposito di ebrei, Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, è stato messo sulla lista dei cosiddetti “italiani delinquenti” per aver “dato non pochi guai ai fratelli di Militia”, l’associazione neofascista che annovera tra i suoi iscritti due persone, arrestate il 14 dicembre a Roma per aver progettato attentati con ordigni esplosivi che avrebbero dovuto colpire, oltre a Pacifici, un certo numero di politici (Alemanno, Schifani, Fini e George Bush).

I suprematisti bianchi non sopportano poi l’insistenza con cui Pacifici lamenta la circostanza (effettivamente incresciosa) che in Italia ancora non esista una legge “contro i negazionisti dell'Olominchiata”. Il gup Carlo Fontanazza di Lamezia Terme è stato schedato per aver “chiesto e ottenuto la riduzione all'assassino marocchino che sotto gli effetti della droga ha travolto e ucciso 8 persone”. Anche Luca Gibillini, Mirko Mazzali e Anita Sonego, esponenti di SEL di Milano e il sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio sono nella lista nera. Del Rio, in particolare c’è finito per aver espresso il suo favore ad una legge che riconosca la cittadinanza ai figli degli immigrati.

“Costantino” ha un modo tutto suo, forse non particolarmente articolato ma di certo orripilante, di esprimere la sua netta contrarietà a questo civilissimo principio fatto proprio da Del Rio e recentemente ventilato anche dal noto “estremista” Napolitano, Presidente della Repubblica (che dovrebbe essere) antifascista: gli immigrati e Del Rio, par di capire, sarebbero “gente di merda, meritebbero una pallottola in quelle loro teste di merda”, altro che cittadinanza! “Protesilao”, un compagno di deliri di “Costantino”, ci mette del suo: “Segnamoci il nome, Graziano Delrio, un nostro nemico”.

Qui non si tratta di lotta di idee, per quanto folli ed esecrabili, ma di reati veri e propri: da quello, scontato e molto tollerato di apologia di fascismo, alle minacce vere e proprie. Pur essendo fortemente scettici nei confronti di ogni forma di censura di stato, anticamera della fine della libertà di espressione e di pensiero, il caso Stormfront è talmente grave che occorre riconoscere che non è inappropriata la richiesta di oscuramento del sito proposta da tre delle vittime della schedatura neonazista, tutti volontari della ONG antirazzista EveryOne.

Forse il contributo più brillante è quello di Aurelio Mancuso, capo di Equality, “rete trasversale per i diritti civili”, il quale crede che “non sia sufficiente chiedere la chiusura del sito di questi neonazisti nostrani. C'è bisogno di una potente rieducazione culturale: una volta individuati gli autori e processati per crimini d'odio, la pena preveda l'affidamento alle persone menzionate nella black list, così che possano far provare a questi spavaldi giovanotti ciò che vuol dire impegnarsi nei confronti dei diritti delle persone migranti”. Sogno di un visionario? Forse. Ma, è bello essere dei sognatori; e ancora meglio rendersi conto che, come avrebbe detto Lennon, non siamo i soli ad esserlo.


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