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di Rosa Ana De Santis
E’ anche grazie alla pubblicazione dell’articolo uscito sul Corriere della Sera che la storia di Luca, dopo molti anni, torna a fare il giro del web. Assurda nel suo epilogo e carica di domande senza risposte. Prima di tutto quelle delle indagini giudiziarie, trasformatesi in un giallo e ora prossime alla prescrizione. E’ il 7 febbraio del 2002 quando a soli 7 anni Luca, nel piccolo paese della Svizzera francese dove vive con la sua famiglia, Veysonnaz,viene ritrovato privo di sensi sulla neve gelida, nudo e malmenato.
Evidenti segni sulle natiche fanno pensare a delle frustate. Luca picchiato e seviziato da altri ragazzi più grandi, come un disegno del piccolo fratellino lascia intuire. Le fonti ufficiali parleranno invece di un cane assassino cui una giustizia evidentemente deviata e incredibile ha attribuito la capacità di denudare un bambino senza ridurre in brandelli gli indumenti.
Oggi Luca vive su una sedia a rotelle, ha conquistato dei miglioramenti nell’attività deambulatoria, ma non vede e la sua vita è diventata quella di un ragazzo con forti disabilità. A tutto questo l’ha portato un coma profondo durato tre mesi, dovuto alle botte e all’ipotermia che lo ha lasciato a un passo dalla morte. La famiglia però, e questo non è un dato meno importante del percorso di terapie e di sperimentazioni che affronta per il futuro di Luca, ha la certezza che non sia stato fatto il possibile per coprire i responsabili, pur non avendo in mano i nomi degli assassini,.
Un caso che assomiglia alla saga di Elisa Claps, con l’unica differenza grande che qui il sopravvissuto scampato all’assassinio parla di “ladri”, di “ragazzi che l’hanno spinto giù”, che lo obbligavano a “mangiare formiche”. Luca ricorda i nomi e i volti dei suoi aggressori: un ragazzino di 16 anni, uno di 14, uno di 9: tutti figli di famiglie perbene e facoltose. La difesa dimostrò che i ragazzi si trovavano a scuola, ma pare che neppure i registri di classe furono risparmiati alla contraffazione.
Tutto per coprire le sevizie ludiche e spietate che Luca ha pagato in nome del razzismo o di un banale gioco al massacro di ricchi annoiati, senza ragioni particolari. Nonostante le indagini siano state riaperte, nulla nella scacchiera delle responsabilità è cambiato, perché un bambino come Luca non è nei fatti considerato un testimone attendibile. E’ così che Luca è stato lasciato due volte a terra, due volte è stato battuto dal freddo e dalla violenza, nel più composto silenzio della più ordinata Svizzera.
Già al tempo dei fatti poco arrivò sulla stampa italiana, colpevole forse il fatto che Luca fosse un italiano oltre i confini nazionali e che la verità non dovesse essere al centro delle parole. La quasi certezza che il bambino non sarebbe sopravvissuto a quei traumi e ai 28° con cui era arrivato in ospedale - appoggiato sul ventre della madre - dovevano chiudere il cerchio delle alleanze omertose e della rassegnazione. Come le ossa di Elisa Claps nel sottotetto della Chiesa.
Eppure persino qui la verità è comunque arrivata. E nel caso di Luca che può parlare, ricordare, testimoniare, forse potrebbe e dovrebbe arrivare anche prima. Se solo la storia tornasse a infastidire i protagonisti, a ribaltare il tavolo delle carte lasciate a muffire, se solo la stampa accendesse la luce ai piedi di quel gruppetto di violenti o, meglio ancora, delle loro famiglie, potremmo capire a che razza appartengono dei cani che sbranano gratis un innocente e quella, non meno peggiore, di chi li protegge. Perché tanto Luca è rimasto al buio.
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di Carlo Musilli
Un po' di sano romanticismo per cacciar via i brutti pensieri. Ale e Fede hanno passato così il pomeriggio, discorrendo amabilmente su Ponte Milvio, cullati dal frusciare del biondo Tevere. E alla fine ce l'hanno fatta: hanno risolto i loro problemi. Non parliamo della crisi di coppia fra due pariolini di quindici anni, ma dell'ultima spinosa questione che il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha brillantemente risolto. I temibili lucchetti dell'amore. Roba da affrontare con il piglio e la risolutezza che si confanno a un ex dell'Msi.
Tutto cominciò qualche anno fa, quando l'autore di bestseller puberali Federico Moccia scrisse l'opera che lo rese immortale, "Tre metri sopra il cielo". Dal volume fu tratto un film di culto e l'eco che ne derivò spinse migliaia di coppiette alla melensa emulazione dei graziosi protagonisti: agganciare un lucchetto al parapetto del ponte romano in segno d'amore perpetuo. Solo che, lucchetta tu che lucchetto anch'io, i pegni sentimentali si sono trasformati in un'orrida selva ferrosa, deturpando oscenamente un monumento del secondo secolo dopo cristo. Insomma, una bella grana amministrativa per Gianni. Ma soprattutto elettorale.
Preoccupatissimo di non turbare la sensibilità delle anime gemelle, il sindaco ha pensato bene di chiamare in causa Moccia in persona. In fondo detiene lui il copyright. A chi gli faceva notare che non dovrebbe essere necessario interpellare Fede per rimuovere i lucchetti, Ale ha risposto in tono rassicurante: "Gli chiederò se ha qualche idea, una delle sue suggestive, per un'alternativa".
Non si sa bene chi l'abbia avuta, ma alla fine l'idea suggestiva è arrivata: i lucchetti saranno spostati sull'argine del Tevere. Ora, chiunque conosca un po' il fiume romano sa che le sue sponde non sono proprio il massimo del romanticismo: muraglioni di cemento, sporcizia, qualche topo mutante. E allora un'altra lampadina s'è accesa nella testa di Gianni: "Il municipio preparerà un progetto... Metteremo un parapetto e transenneremo l'area, dei lampioni...". Insomma, "sarà una cosa bella". Possiamo stare tranquilli.
Tanto più che il piano ha ricevuto perfino il placet più importante, quello letterario: "Bisogna trovare un compromesso tra decoro del ponte - ha concesso un illuminato Moccia - e questo romanticismo che, da cinque anni a questa parte, ha reso ponte Milvio il ponte degli innamorati".
Certo, a prescindere dalla soluzione scelta, l'imposizione burocratica rischia di spoetizzare un tantino il significato del gesto amoroso, che di norma dovrebbe sgorgare impetuoso dal cuore, piuttosto che dalla segreteria del Campidoglio.
Per questo è verosimile ipotizzare che qualche allegro figlio di Cupido, pur di non sottostare al diktat che impone di scendere le scalette del fiume, sceglierà di sfidare la Polizia Municipale e allacciare con tracotanza il suo lucchetto nel posto che gli compete.
Ma questo è un problema che il sindaco si porrà a tempo debito, magari facendo ricorso ancora una volta ai preziosi consigli di Fede. Per il momento si torna alla grigia quotidianità. Appena ieri Gianni è stato ascoltato come persona informata sui fatti dal pm di Milano Ilda Boccassini. Il colloquio è avvenuto nell'ambito dell'indagine che nei giorni scorsi ha portato all'arresto del presunto boss della 'ndrangheta Giulio Lampada e del consigliere regionale calabrese Franco Morelli (Pdl). Rimane poi da chiarire la vicenda dei due proiettili calibro 40 inviati per posta alla segreteria del primo cittadino.
Intanto Roma sta per chiudere una delle annate più sanguinose della sua storia recente, con oltre trenta omicidi in appena undici mesi. Ma non ci pensiamo, richiamo di intristirci, di lasciarci sfuggire la magia del momento. Come diceva il poeta? Ah, sì: "L'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio".
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di Mario Braconi
Scempiaggini di estrema destra condite con le solite teorie cospirazioniste antisemite, magia, occultismo: questo è il brodo di coltura in cui nel quale è maturato il demenziale click che ha trasformato il ragioniere cinquantenne Gianluca Casseri in un serial killer. Armato di una Smith & Wesson calibro 357, in pieno giorno, nel centro di Firenze, ha sparato a distanza ravvicinata a tre venditori ambulanti senegalesi uccidendone sul colpo due e ferendone gravemente un terzo.
Non contento - e a dispetto di una segnalazione alla polizia comprendente, pare, perfino una foto dell’assassino e della sua automobile - nel primo pomeriggio si è recato in un altro mercato cittadino, dove ha nuovamente fatto fuoco su altri venditori senegalesi ferendone altri quattro. Ormai accerchiato da agenti della forza pubblica, che hanno esploso un paio di colpi contro la sua automobile senza colpirlo, Casseri termina la sua agghiacciante “giornata di ordinaria follia” rivolgendo l’arma contro di sé e uccidendosi.
Casseri era certamente un simpatizzante di estrema destra, a dispetto della presa di distanza da parte del responsabile del circolo Casapound Circolo Agogè di Pistoia, il quale ammette con Nadia Francalacci di Panorama: “Frequentava il nostro circolo, ma raramente”. Il fatto che prima di quel maledetto 13 dicembre del 2011 non avesse manifestato una condotta violenta non deve trarre in inganno: purtroppo il veleno che scorreva nelle sue vene era di un tipo più tossico, anche se meno evidente.
Più eloquente di tante altre fonti, forse, è l’autoritratto che Casseri ha stilato anni fa, in terza persona: “Nasce a Ciriegio (PT) nel 1961, mentre l’uomo va nello spazio e il cielo si eclissa per la massima eclissi del XX secolo. All’età di dodici anni, folgorato dall’incontro con H.P. Lovecraft, si aliena definitivamente dal cosmo ordinato che ci circonda”. Pur dietro il paludamento dell’autoironia, con queste parole il killer di Firenze dischiude una passione millenaristica ed un netto, quanto fiero, distacco dalla realtà. Tra le frequentazioni culturali di Casseri non a caso figura, accanto a fumetti e fantascienza, un personaggio assai inquietante come Julius Evola.
Il nome di Evola ricorre infatti tra le fonti citate da Casseri in un suo scritto facilmente reperibile in Rete: “I documenti del saggio di Alessandria”. Lo si può leggere in un oscuro sito negazionista cui per ovvie ragioni si preferisce omettere il nome e che, una volta frequentato, fa venir una voglia compulsiva di lavarsi le mani. Il saggio di Casseri è stato prudentemente rimosso anche dal sito del "Centro Studi La Runa". Il suddetto centro studi, per inciso, ha un oggetto sociale che è tutto un programma, dato che “si occupa di studi tradizionali, storia delle religioni, mitologia, simbolismo, folklore, indoeuropeistica, storia, filosofia, letteratura”.
Sul sito web di "La Runa" sono reperibili anche numerosi articoli di Gianfranco de Turris, che oltre giornalista radiofonico RAI di lungo corso ed esperto di letteratura fantascientifica è stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola; de Turris, tra l’altro, ha curato la prefazione del libro di fiction scritto a quattro mani da Casseri con Enrico Rulli, dal titolo che oggi appare beffardo: “La chiave del caos”.
Tema principale del pamphlet di Casseri sui Protocolli dei Savi di Sion è la polemica contro “Il Cimitero di Praga” di Umberto Eco (di qui il titolo dello scritto, dedicato al “saggio” di Alessandria, città natale del semiologo). Lasciando da parte un paio di allusioni ad episodi comuni tra il libro di Eco e quello di Casseri, che sembrano garbatamente alludere ad un possibile plagio, la conclusione dello scritto può essere riassunta, usando le parole stesse dell’autore: “Vorrei osservare come fin dagli anni '30 un attento lettore dei Protocolli dei Saggi di Sion riscontrasse che “il problema della loro ‘autenticità’ è secondario e da sostituirsi con quello, ben più serio ed essenziale, della loro ‘veridicità’.” Ora, a prescindere dalla assai discutibile razionalità dell’assunto, anche solo dal punto di vista logico, vogliamo provare ad indovinare chi è l’ “attento lettore” citato da Casseri? Proprio lui, sì, Julius Evola!
Alla condotta di Casseri solo la psichiatria può tentare di dare una spiegazione “coerente”: ci prova su La Nazione di Firenze lo psichiatra Stefano Pallanti, direttore dell'Istituto di Neuroscienze di Firenze, dando una dimensione scientifica ad un fatto purtroppo comprovato dall’esperienza diretta (si veda ad esempio il caso del serial killer norvegese Breivik): “Spesso i soggetti che “esplodono” in episodi di violenza cieca come quella vista ieri a Firenze “sono persone che vivono al limite, magari con condotte un po’ bizzarre, [inclini a] misticismo, magia, esoterismo, destra neofascista, [dotate insomma di] una componente irrazionale che però nascondono nella loro vita quotidiana, apparentemente normale e banale.”
Secondo Pallanti, è “normale per questi soggetti appoggiarsi a tesi politiche di estrema destra, ma non la destra normale, intendo quella neonazista, pagana, celtica, ariana, quella che compensa una ridotta volontà di ragionare e una tendenza a essere soggetto alla autorità proprie di queste personalità patologiche”. Il tipo di “idee” propugnate per esempio da Julius Evola, la cui biografia, come ricorda Mauro Baudino su La Stampa, è stato un coacervo di contraddizioni: “Prima dadaista poi antisemita, nazista, neopagano, antimoderno e ispiratore dei giovani di estrema destra”; un cattivo maestro, ma talmente cattivo che appaiono appropriate le parole con cui lo dipinse lo storico Furio Jesi, un filosofo “così sporco che ripugna toccarlo con le dita”. E che dalla tomba continua a fare danni.
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di Rosa Ana De Santis
E’ accaduto l’altro ieri che un corteo si trasformasse in una missione punitiva organizzata anti-rom, sull’onda di una denuncia per stupro fatta da una sedicenne, che poi i carabinieri hanno comprovato essere un clamoroso falso. Sulle parole di accusa rivolte dalla famiglia a due zingari romeni un corteo, inizialmente pacifico, si è trasformato in un’orda di devastatori. Incappucciati e armati di mazze, hanno incendiato il campo rom e malmenato operatori della stampa. Tutto si è placato a fatica non appena si è diffusa la notizia che la giovane aveva ritrattato.
E’ questo il grado d’intolleranza che si respira in una grande città come Torino, al suono di slogan che invitavano i vigili del fuoco “a lasciarli bruciare”. E’ intervenuto il sindaco, Fassino, a condannare quella che poteva diventare un’autentica tragedia. I nomadi del campo si sono messi in salvo scappando dalle uscite laterali, mentre le bombole di gas saltavano in aria. La storia dello stupro inventato per nascondere, con buona probabilità, un rapporto sessuale consensuale, è stato il più comodo dei pretesti per sfogare un atteggiamento persecutorio e di discriminazione che nei riguardi dei nomadi, in modo particolare, ha raggiunto ormai livelli di guardia. Detestati doppiamente perché zingari e perché stranieri.
Il linciaggio contro i nomadi richiama numerosi episodi di cronaca. Spesso in occasione di risse, di incidenti stradali, in ogni episodio che coinvolga con responsabilità un rom si scatena, per contrappasso, una sorta di drappello punitivo italiano contro tutta la comunità, donne e bambini compresi. E’ questa dinamica, dal singolare al plurale, a rispolverare i più antichi sentimenti di odio contro gli zingari che hanno segnato pagine dolorosissime di storia contemporanea e non solo e a doverci preoccupare per uno slittamento, fin troppo chiaro che esula dalla verifica delle responsabilità, dall’essere nomade all’essere untore.
Il desiderio di azzerare i campi nomadi, spesso lasciati in abbandono dall’incompetenza delle Istituzioni preposte che incassano i soldi destinati al recupero delle aree senza metter mano ai progetti sulla carta, risponde ai più pericolosi istinti che oggi ritraggono l’Italia come un paese che chiude e rifiuta e che tratta la non italianità come uno stigma di discriminazione. Come la croce degli untori del settecento, come i capelli rossi appesi al fuoco delle pire allestite per le donne, per l’occasione tutte potenziali streghe.
La linea dell’odio è la stessa e la pagina di Torino ci dice non molte, ma una cosa soltanto. Che non è questione di gestione politica certamente complessa dell’integrazione con i rom, che non è questione di controlli a tappeto, di terre di nessuno, di degrado contrastato solo sotto gli exit pool delle elezioni di quartiere. C’è, in questa milizia che assedia un gruppo di baracche e rincorre innocenti, una bestialità tutta nazista. Quella che contro gli stranieri e i barconi serpeggia, con i zingari può diventare persino organizzata e tollerata. Ci aspetteremmo dal sindaco un contro-corteo simbolico, un esame di quanti di quella gente entrano nelle chiese torinesi a predicare la fratellanza e infine i documenti. Di tutti quei giovanotti che rinverdiscono la barbarie della persecuzione razziale e che rischiano di affossare, insieme alle speranze, la verità.
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di Rosa Ana De Santis
Torna in libertà l’adolescente che in un impeto di furia, con la complicità del fidanzatino Omar, ammazzò madre e fratellino con inaudita efferatezza. I più esperti, giunti sulla scena del crimine raccontarono di uno scempio assoluto, mentre l’allora biondina, assalita da sentimenti di gelosia e dai fumi delle droghe, interpretava sceneggiate di rapinatori albanesi per occultare la macabra verità, lucidamente pianificata e incompiuta per la sopravvivenza dell’unico superstite, il padre, che non hai mai smesso di esserle accanto.
La legge ha fatto il suo corso e trattandosi di una minorenne, come ricordava il magistrato Matone in una recente intervista televisiva, i dieci anni scontati rappresentano già un unicum in un panorama giudiziario di forte e comprensibile garantismo per i minori.
Mentre le parole di Don Mazzi vanno nella direzione del recupero, della nuova vita di Erika nella casa famiglia tra pony, letture di filosofia e lavori domestici, arriva la nota stonata per mano della stessa ragazza con una lettera di fuoco, indirizzata al fidanzatino Omar, correo del brutale assassinio di Novi Ligure. Toni carichi di veleno, lo chiama “viscido” per lo sfruttamento mediatico della propria famiglia, lo invita a lasciar stare la memoria.
Se certamente i riflettori accesisi su Omar rappresentano una evidente prova della deformazione macabra del nostro circuito di informazione e un indizio della ricerca furbesca di collocazione sociale da parte di un ragazzo segnato, le parole di Erika non sono da meno. Invocare rispetto e dignità per quegli affetti che la propria mano ha spazzato via con la barbarie di più di cento coltellate, è un monito che rasenta il ridicolo e che assomiglia pericolosamente a una farsa. “La mia famiglia merita pace” non è proprio qualcosa che possa dire Erika, semmai suo padre cui quegli affetti appartengono ancora come ieri. Erika li ha strappati e questo è l’unico elemento di verità da cui ripartire.
Peraltro i toni cosi densi di rancore e durezza non restituiscono il ritratto di un animo placato e redento dall’odio. Supposizioni certo, ipotesi che solo il futuro di Erika comproverà e forse mai del tutto se non agli occhi di suo padre e a quelli del cuore. Il percorso è ancora lungo, il primo a dirlo è proprio il suo sacerdote del recupero, Don Mazzi.
Dieci lunghi anni per un massacro di quella portata sono, nelle matematica della giustizia umana, assolutamente pochi e se nulla possono risarcire e restituire altrettanto nulla garantiscono. Che Erika sia davvero un'altra e che, soprattutto, possa e voglia diventare un'altra persona. Il suo percorso di studi e la sua crescita che oggi la inchiodano come una goccia d’acqua, per beffa dei geni, al viso della madre ci dicono tutto quello che vediamo e nulla di lei.
Erika imparerà fuori dalla casa famiglia che non si può bandire il clamore come un fastidioso annesso della fama, almeno non quello che ruota intorno a lei e alla storia di una normale famiglia di Novi Ligure annientata dal niente. Erika comprenderà, e forse deve, che il suo clamore la inseguirà perché troppo grande è stato il male inferto ed esile, per quanto forte nella sua vita, il tempo della pena. Grande e insopportabile per tutti coloro che lo hanno saputo.
Non sarà lei a chiedere pace sulle tombe dei suoi cari, ma loro a lasciarla andare. Lontana chilometri dal luogo di quella morte assoluta e dal paese che la conosce come l’ha vista dieci anni fa o chiusa in un eremo civile dove tante anime come la sua cercano ossigeno. Forse la prigione più lunga di Erika è appena iniziata.