di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto l’altro ieri che un corteo si trasformasse in una missione punitiva organizzata anti-rom, sull’onda di una denuncia per stupro fatta da una sedicenne, che poi i carabinieri hanno comprovato essere un clamoroso falso. Sulle parole di accusa rivolte dalla famiglia a due zingari romeni un corteo, inizialmente pacifico, si è trasformato in un’orda di devastatori. Incappucciati e armati di mazze, hanno incendiato il campo rom e malmenato operatori della stampa. Tutto si è placato a fatica non appena si è diffusa la notizia che la giovane aveva ritrattato.

E’ questo il grado d’intolleranza che si respira in una grande città come Torino, al suono di slogan che invitavano i vigili del fuoco “a lasciarli bruciare”. E’ intervenuto il sindaco, Fassino, a condannare quella che poteva diventare un’autentica tragedia. I nomadi del campo si sono messi in salvo scappando dalle uscite laterali, mentre le bombole di gas saltavano in aria. La storia dello stupro inventato per nascondere, con buona probabilità, un rapporto sessuale consensuale, è stato il più comodo dei pretesti per sfogare un atteggiamento persecutorio e di discriminazione che nei riguardi dei nomadi, in modo particolare, ha raggiunto ormai livelli di guardia. Detestati doppiamente perché zingari e perché stranieri.

Il linciaggio contro i nomadi richiama numerosi episodi di cronaca. Spesso in occasione di risse, di incidenti stradali, in ogni episodio che coinvolga con responsabilità un rom si scatena, per contrappasso, una sorta di drappello punitivo italiano contro tutta la comunità, donne e bambini compresi. E’ questa dinamica, dal singolare al plurale, a rispolverare i più antichi sentimenti di odio contro gli zingari che hanno segnato pagine dolorosissime di storia contemporanea e non solo e a doverci preoccupare per uno slittamento, fin troppo chiaro che esula dalla verifica delle responsabilità, dall’essere nomade all’essere untore.

Il desiderio di azzerare i campi nomadi, spesso lasciati in abbandono dall’incompetenza delle Istituzioni preposte che incassano i soldi destinati al recupero delle aree senza metter mano ai progetti sulla carta, risponde ai più pericolosi istinti che oggi ritraggono l’Italia come un paese che chiude e rifiuta e che tratta la non italianità come uno stigma di discriminazione. Come la croce degli untori del settecento, come i capelli rossi appesi al fuoco delle pire allestite per le donne, per l’occasione tutte potenziali streghe.

La linea dell’odio è la stessa e la pagina di Torino ci dice non molte, ma una cosa soltanto. Che non è questione di gestione politica certamente complessa dell’integrazione con i rom, che non è questione di controlli a tappeto, di terre di nessuno, di degrado contrastato solo sotto gli exit pool delle elezioni di quartiere. C’è, in questa milizia che assedia un gruppo di baracche e rincorre innocenti, una bestialità tutta nazista. Quella che contro gli stranieri e i barconi serpeggia, con i zingari può diventare persino organizzata e tollerata. Ci aspetteremmo dal sindaco un contro-corteo simbolico, un esame di quanti di quella gente entrano nelle chiese torinesi a predicare la fratellanza e infine i documenti. Di tutti quei giovanotti che rinverdiscono la barbarie della persecuzione razziale e che rischiano di affossare, insieme alle speranze, la verità. 

di Rosa Ana De Santis

Torna in libertà l’adolescente che in un impeto di furia, con la complicità del fidanzatino Omar, ammazzò madre e fratellino con inaudita efferatezza. I più esperti, giunti sulla scena del crimine raccontarono di uno scempio assoluto, mentre l’allora biondina, assalita da sentimenti di gelosia e dai fumi delle droghe, interpretava sceneggiate di rapinatori albanesi per occultare la macabra verità, lucidamente pianificata e incompiuta per la sopravvivenza dell’unico superstite, il padre, che non hai mai smesso di esserle accanto.

La legge ha fatto il suo corso e trattandosi di una minorenne, come ricordava il magistrato Matone in una recente intervista televisiva, i dieci anni scontati rappresentano già un unicum in un panorama giudiziario di forte e comprensibile garantismo per i minori.

Mentre le parole di Don Mazzi vanno nella direzione del recupero, della nuova vita di Erika nella casa famiglia tra pony, letture di filosofia e lavori domestici, arriva la nota stonata per mano della stessa ragazza con una lettera di fuoco, indirizzata al fidanzatino Omar, correo del brutale assassinio di Novi Ligure. Toni carichi di veleno, lo chiama “viscido” per lo sfruttamento mediatico della propria famiglia, lo invita a lasciar stare la memoria.

Se certamente i riflettori accesisi su Omar rappresentano una evidente prova della deformazione macabra del nostro circuito di informazione e un indizio della ricerca furbesca di collocazione sociale da parte di un ragazzo segnato, le parole di Erika non sono da meno. Invocare rispetto e dignità per quegli affetti che la propria mano ha spazzato via con la barbarie di più di cento coltellate, è un monito che rasenta il ridicolo e che assomiglia pericolosamente a una farsa. “La mia famiglia merita pace” non è proprio qualcosa che possa dire Erika, semmai suo padre cui quegli affetti appartengono ancora come ieri. Erika li ha strappati e questo è l’unico elemento di verità da cui ripartire.

Peraltro i toni cosi densi di rancore e durezza non restituiscono il ritratto di un animo placato e redento dall’odio. Supposizioni certo, ipotesi che solo il futuro di Erika comproverà e forse mai del tutto se non agli occhi di suo padre e a quelli del cuore. Il percorso è ancora lungo, il primo a dirlo è proprio il suo sacerdote del recupero, Don Mazzi.

Dieci lunghi anni per un massacro di quella portata sono, nelle matematica della giustizia umana, assolutamente pochi e se nulla possono risarcire e restituire altrettanto nulla garantiscono. Che Erika sia davvero un'altra e che, soprattutto, possa e voglia diventare un'altra persona. Il suo percorso di studi e la sua crescita che oggi la inchiodano come una goccia d’acqua, per beffa dei geni, al viso della madre ci dicono tutto quello che vediamo e nulla di lei.

Erika imparerà fuori dalla casa famiglia che non si può bandire il clamore come un fastidioso annesso della fama, almeno non quello che ruota intorno a lei e alla storia di una normale famiglia di Novi Ligure annientata dal niente. Erika comprenderà, e forse deve, che il suo clamore la inseguirà perché troppo grande è stato il male inferto ed esile, per quanto forte nella sua vita, il tempo della pena. Grande e insopportabile per tutti coloro che lo hanno saputo.

Non sarà lei a chiedere pace sulle tombe dei suoi cari, ma loro a lasciarla andare. Lontana chilometri dal luogo di quella morte assoluta e dal paese che la conosce come l’ha vista dieci anni fa o chiusa in un eremo civile dove tante anime come la sua cercano ossigeno. Forse la prigione più lunga di Erika è appena iniziata.

 

di Silvia Mari

Qualche giorno fa il neo ministro della cooperazione internazionale e integrazione, Andrea Riccardi, ha inaugurato il proprio dicastero con un atto simbolico senza precedenti. Ha reso omaggio a Jerry Masslo, immigrato sudafricano, innocente vittima della criminalità organizzata campana, ucciso a Villa Literno anni fa. Un ragazzo come tanti che arrivano ancora oggi, scappato alle persecuzioni del proprio paese e finito a raccogliere pomodori in Campania per pochi spiccioli.

Nella storia di questo ragazzo, attuale come tanti fatti di cronaca testimoniano, e nell’azione del Ministro, ci sono le fotografie di un paese in cambiamento: la questione del Sud, l’arrivo in massa degli immigrati, il buco nero della clandestinità e il ruolo delle istituzioni, spesso imbrigliato nella retorica populista o nelle regole degli affari, anche quelli più imbarazzanti che ancora oggi si consumano alle spalle dei clandestini.

E’ in questo contesto di trasformazioni globali, che di recente hanno assunto forme più aggressive e massicce, come i numeri degli sbarchi confermano, che sta per terminare l’anno della commemorazione nazionale e patriottica del 150° dell’Unità d’Italia. Un’interessante tensione dialettica che ha attraversato gli italiani chiamati ad occuparsi della loro storia e delle origini nazionali, e della sfida delle frontiere scavalcate da un esercito di cittadini del mondo in fuga.

La festa civile strozzata a metà dall’austerità economica e morale ha riportato alla riflessione collettiva, come in un rigurgito di memoria, l’attenzione alla storia del paese e alle sue tormentate origini. L’Unità, che per molto tempo è stata archiviata come un fatto tutto sabaudo, di pura e finissima strategia politica, sembra esser stata restituita a quel po’ di romanticismo che è spesso mancato alla ricostruzione storiografica più ideologizzata del nostro Risorgimento.

E’ tornata l’Unità dei Mille, la marcia in rosso della liberazione, sono tornati i giovani del Risorgimento. E’ tornato il Sud con le sue prime spinte di indipendenza e di modernità, stritolate poi, solo successivamente, dalla macchina del Nord. Per una volta e per la prima volta come se il Mezzogiorno non fosse stato solo il primo e grande problema d’Italia, ma il suo motore e il suo cuore. La spinta verso l’Europa del Mediterraneo.

Eppure rimane, ancora oggi, nella percezione di tutti, l’immagine di un paese spaccato a metà: il Mezzogiorno come una ferita mai guarita nella pancia del paese, un’annessione mai compiuta e mancata nei numeri dello sviluppo economico e sociale.

La questione meridionale è diventata così, nel tempo, una vera e propria categoria politica del dibattito sul paese, una lente per leggere l’Italia e la sua storia, la più lontana come la più recente. Forse un comodo alibi di distinzione semplicistica tra “buoni e cattivi”, una replicazione in piccolo di una lettura distorta che da sempre guida alla comprensione dei rapporti Nord- Sud, anche in grande scala.

Le origini della questione meridionale, nate con Salvemini e Gramsci come scontro di egemonie e come analisi dei rapporti di forza e sfruttamento di ordine economico-politico del Nord a danno del Sud, spiegano il problema del Mezzogiorno come il problema di una gestione accentrata e sbilanciata del paese, calcolata “a tavolino” per lasciare il Sud in una posizione di dipendenza dopo aver arricchito il Nord di braccia e risorse.

Da tutto questo non si può prescindere nemmeno oggi per comprendere le distanze, le anomalie di una rincorsa che sembra infinita e da ultimo la novità degli stranieri nel mercato del lavoro nazionale che in questo paese diviso a metà pagano gli stessi prezzi di tutti, anzi peggio, e s’incamminano passate le gole del mare e degli stretti verso la stessa strada del Nord. Il Mezzogiorno continua ad essere terra di transito, porto da cui salpare.

Non c’è questione sullo sviluppo economico nazionale che oggi possa prescindere dalla considerazione di come sia stato alterato il mercato del lavoro dalla presenza, in costante aumento, di lavoratori immigrati e dalla dispersione emorragica delle eccellenze culturali giovanili del Paese, andate perdute in giro per l’Europa o negli Stati Uniti. Di tutto questo il Mezzogiorno, in scala nazionale, può vantare un triste primato e un ruolo di protagonista assoluto.

Così accadeva nei secoli scorsi, quando anche allora il Mezzogiorno era protagonista. Storie di miglia marine percorse verso l’Argentina, il Venezuela e gli Stati Uniti. L’emigrazione massiccia d’Italia del Sud fu soprattutto quella del Regno delle due Sicilie, XIX e XX secolo i picchi di questa fuga. Sicilia e Campania in cime alla lista. All’emigrazione oltreoceano seguì poi quella europea e infine quella interna verso le regioni del Settentrione dove il Sud continua a spostarsi per studio, lavoro o per cure mediche. Oggi come ieri.

In primo luogo perché il Sud è il porto di queste braccia, allevate in cattività e offerte alla disperazione. E’ nel Mezzogiorno che arriva dal mare e dai paesi in via di sviluppo la manodopera a buon mercato: 137mila di questi si spostano poi al Centro-Nord e 46mila rimangono per essere impiegati soprattutto in agricoltura, l’unico settore a non soffrire i numeri negativi che invece penalizzano fortemente il settore industriale del Sud.

E mentre il mondo entra attraverso le coste e le isole del tacco d’Italia, il Mezzogiorno perde i propri giovani e i propri lavoratori, o in forma transitoria attraverso un pendolarismo settimanale o per sempre. Dal 2000 al 2009 ben 583mila persone hanno abbandonato  il Mezzogiorno e moltissimi sono i laureati.

Come per un calcolo e quasi in un gioco di vasi comunicanti, il mercato del lavoro perde e conquista, mutando però sistema di regole e di diritti. In questo imbuto, dove lo Stato centrale entra ancora poco, è facile che un caso come quello di Rosarno, sbattuto in prima pagina più dal sensazionalismo che dalla volontà di analisi, si scopra in realtà come un metodo reiterato e tollerato più che un isolato fattaccio di sfruttamento di massa.

L’apertura al futuro globale, quindi il ruolo del lavoro che immigra e concorre allo sviluppo nazionale, si è già macchiato di mali antichi. Quelli di una malavita che spesso é stata lasciata indisturbata, proliferante sugli affari e che oggi, mai come oggi, non è più di casa nel Mezzogiorno, come la vecchia storia del brigantaggio e delle mafie, nonché la più volgare retorica populista della Lega, insegnava un tempo e borbotta ancora. Il cervello della mafia, anche lui, è emigrato al Nord, lasciando a casa la manovalanza e i cani da guardia.

E’ difficile cogliere in quello che accade intorno a Lampedusa, divenuta più icona della resa che non simbolo del futuro, l’inizio di un nuovo corso della storia economica e forse della storia tout court. La percezione di un’invasione impedisce a tutto il paese di ravvedere in questo esodo le origini di una globalizzazione del lavoro o, più semplicemente, un soccorso all’economia di un paese che viene man mano svuotato. Di giovani e di speranze.

Così, mentre il futuro entra con le sue incognite più destabilizzanti, quasi come una calamità, e scuote tutto il Paese, la fuga dei giovani, l’abbandono degli affetti che rimangono nei paesi e nelle città ad aspettare, come una volta, la lettera o la cartolina, è quella di sempre. Come se le lacrime del passato dei nostri emigranti, quelle color seppia appese immobili e incollate nelle foto dei salotti, al Sud non si fossero ancora asciugate.

 

 

di Rosa Ana De Santis

E’ stata istituita dall'Assemblea delle Nazioni Unite, il 17 dicembre 1999, la giornata contro la violenza sulle donne. La data del 25 novembre è nata per ricordare il drammatico episodio del 1960, quando nella Repubblica Dominicana tre sorelle che si stavano recando a trovare i mariti in prigione, furono rapite da alcuni agenti: torturate, violentate e poi uccise. La giornata appena passata ha portato alla luce numeri di abusi e morti assolutamente drammatici, che non accennano a diminuire, anzi. Nel nostro Paese il numero delle donne uccise, nel biennio 2007-2009 è aumentato dal 15,3 %degli anni precedenti al 23, 8%. In aumento ci sono anche i casi di violenze di gruppo tra i giovani minorenni ai danni di giovanissime coetanee.

Episodi che rimandano a un modo di intendere il sesso e la questione femminile che sembra tornata indietro di tanti anni, da parte delle stesse donne che sono sempre meno protagoniste di una cultura del riscatto e dell’emancipazione e sempre più disponibili ad assecondare il paradigma maschile  e maschilista del piacere e del potere. In tutto il mondo le donne muoiono più di violenza che non di cancro, incidenti o malaria.

Le vittime in Italia sono circa 7 milioni, molte giovanissime, la maggior parte subisce violenze sessuali, percosse, minacce da parte di uomini conosciuti che fanno parte del proprio cerchio di affetti: mariti, partner, padri. Poche quelle che denunciano in nome dell’onorabilità della famiglia. Nel 63% dei casi i figli sono i primi testimoni di queste violenze, riportando danni da trauma gravissimi e spesso irrecuperabili proprio perché taciuti e negati dalle stesse donne.

In un momento in cui, soprattutto nel nostro paese, si fa un gran parlare di sviluppo culturale e arretratezza, di civiltà poco evolute, di orde di barbari che premono alle porte della nostra civiltà vale la pena ricordare come la questione femminile, la sottomissione delle donne al potere maschile nelle sue forme più violente, sia ancora immutata e anzi in pericolosa ascesa. Vale la pena domandarsi, in occasioni di giornate di studio e di riflessione come quella appena trascorsa, quale sia lo stato di reale emancipazione e di sviluppo di una società che non riconosce le forme elementari di parità e di diritti umani tra i sessi. C’è poi tutto quello che riguarda le molestie sessuali, gli stalker e quanto con la nuova ultima legge è emerso come reato di cui moltissime donne sono vittime, spesso inconsapevoli per abitudine a subire rapporti sociali fondati sulla forza e il predominio maschile, in ambito privato come pubblico.

Accanto infatti alle forme più esplicite di violenza, i centri del Telefono Rosa e le Consulte Femminili rilevano innumerevoli altre forme di abuso che passano sotto silenzio: matrimoni imposti e precoci, violenze psicologiche, malnutrizione, casi più frequenti di quanto si creda che raramente vengono denunciati.

Le donne diventano quindi il primo ostacolo alla loro stessa tutela, in virtù del fatto che la società che si muove intorno a loro continua a coltivare sentimenti di scetticismo di fronte ai casi di violenza denunciata e che la famiglia tipo italiana continua a vivere secondo una subcultura in cui la donna è la parte più fragile.

Il neo ministro in carica, Elsa Fornero, è intervenuta evidenziando l’’urgenza di misure di prevenzione e da tempo Amnesty International esorta l’Unione Europea e tutti gli stati del Consiglio d’Europa a firmare e ratificare la convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne.

Solo 17 paesi ad oggi hanno firmato e la presenza di numeri importanti sulla violenza domestica continua a rappresentare una grave infrazione dei diritti umani fondamentali. E’ sorprendente come tutto questo avvenga nel cuore dell’Europa che si considera la culla della cultura liberale, dei principali sistemi di pensiero che hanno promosso e fondato teoreticamente la questione dell’eguaglianza e della differenza della donna.

Non sono, è evidente, le culture ad incrinare la piena affermazione dell’eguaglianza. Non solo, almeno. Esiste un’ancestrale tendenza al dominio della donna che parte dal dato anatomico e dalla supremazia biologica assegnata dalla natura con la potenzialità femminile della procreazione, per arrivare ad una sorta di compensazione punitiva esterna in cui questo capitale di libertà assoluta deve essere controllato dagli uomini, dal diritto, dallo Stato e dove tutto questo non può arrivare, dai codici culturali e tradizionali.

Ma proprio la vicenda ignobile delle cortigiane di Arcore ha raccontato l'altra faccia della medaglia, quella dove le donne ci mettono del loro. Non tanto quando sono vittime di questo duplice sistema di forza: quella esplicita, che lascia ferite sul corpo e che spesso porta a morire. Ma anche quella sotto traccia che le penalizza nel lavoro, nelle relazioni sociali, nell’autodeterminazione.

Le donne ostacolano la loro liberazione quando fanno propri modelli e i comportamenti che sono propri dell’universo maschile. Basta appunto pensare ai recenti scandali delle giovanissime prostitute del nostro ex Presidente del Consiglio e a quanto di simile ruota nel sistema televisivo che entra dentro le nostre case ed educa i nostri figli, segnando un’intera generazione.

Il corpo femminile ridotto a pista di lancio del futuro, ad occasione commerciale senza alcuna mediazione di libertà di scelta o di piacere, ma di bisogno o di ambizione, rimanda alle più preistoriche categorie del sesso come dominio. Un’idea di disparità e di sudditanza che nasce nel profondo e nell’essenziale, nella carnalità e nel sesso per diventare una tollerata prostituzione collettiva, quasi un archetipo di comportamento sociale normalizzato e pacifico, instillato a gocce di balletti nelle figlie d’Italia.

Difficile pensare che tutto questo possa portare a una generazione di donne libere, forti e tutelate. Donne che non solo non siano più vittime, ma che siano in grado di accorgersi in tempo quando iniziano a subire abusi e soprusi. Quelli che oggi sembrano privilegi e vantaggi di essere donne, giovani e belle.

 

di Mario Braconi 

Benetton ci riprova: dopo averci tenuto anni in astinenza dai piccoli shock di Oliviero Toscani, il brand di abbigliamento italiano lancia una nuova campagna di comunicazione (commerciale), che, anche questa volta, centra l’obiettivo: far parlare del brand. Un’offensiva quasi obbligatoria, per una società-rivelazione che però si è un po’ seduta, manifestando tassi di crescita da Repubblica Italiana e facendosi surclassare da una banda di parvenu del settore, divenuti giganteschi dominanti grazie a modelli di business evidentemente più consoni ai tempi (si pensi ad un marchio come Zara, che sviluppa un fatturato di circa 12 miliardi di euro, contro i circa due del gruppo veneto.

Il nuovo progetto è chiamato “Unhate”, neologismo composto dalla prefisso negativo “un-” associato alla parola “hate” (odio), probabilmente una derivazione di “un-friend”, nato su Facebook (ovvero l’atto di “togliere l’amicizia” ad un contatto cui la si era concessa). Una possibile traduzione potrebbe essere “dis-odio”, oppure “non-odio”. Alla Benetton, come noto, sanno maneggiare la comunicazione aziendale come si deve: non solo la nuova parola è un claim efficace in quanto immediatamente comprensibile, ma ha anche l’ulteriore pregio di non potersi confondere con nient’altro. Digitando su Google la nuova parola in una frazione di secondo si ottengono circa un milione di risultati, tutti inequivocabilmente legati a Benetton.

Le immagini della campagna consistono in una serie di fotomontaggi che mostrano leader religiosi e politici intenti a scambiarsi un bacio sulla bocca. Queste le coppie virtuali: Sarkozy e Merkel, Hu Jintao e Obama, Kim Jong-il e Hu Jintao, Obama e Chavez, Abu Mazen e Netanyahu (in una posa irresistibile), Joseph Ratzinger e Mohamed Ahmed el-Tayeb, imam della moschea cairota di Al-Azhar. Nessun leader politico è stato preavvisato dalla casa italiana, e al momento si registra solo il segnale di disappunto della Casa Bianca che, tramite una nota algida di Eric Schultz, ha fatto sapere: “La Casa Bianca tradizionalmente disapprova l’uso del nome e dell’immagine del Presidente per scopi commerciali”. Ma a Ponzano Veneto si contava soprattutto sul prevedibile contributo involontario che alla campagna pubblicitaria avrebbero dato i leader religiosi. Tanto Ahmed el-Tayeb che il Vaticano, infatti, hanno reagito con la consueta quanto attesa salva di anatemi.

Santa Romana Chiesa, in particolare, è caduta nel più classico dei tranelli, protestando vibratamente e fornendo lo sperato spin ad un’iniziativa tutto sommato banale. Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, è partito lancia in resta riferendo ai giornalisti il suo disappunto per “un uso del tutto inaccettabile dell’immagine” del papa, e minacciando di intraprendere “le opportune azioni al fine di impedire la circolazione, anche attraverso i mass media, del fotomontaggio realizzato nell’ambito della campagna pubblicitaria”, considerata “lesiva non soltanto della dignità del Papa e della Chiesa cattolica, ma anche della sensibilità dei credenti”. Tra parentesi, è interessante notare come in Italia non di rado i credenti praticanti facciano a gara con il loro clero a chi è più ortodosso: ad esempio, su Avvenire il giornalista Umberto Folena ha usato parole molto più dure di quelle di Lombardi, arrivando a bollare l’innocente fotomontaggio come “grave atto blasfemo”.

E’ bastata la sola minaccia di azioni legali da parte della Santa Sede a far sciogliere come neve al sole l’assai presunto spirito iconoclasta che si vorrebbe il tratto distintivo del management di Ponzano Veneto: forse Lombardi non aveva ancora finito di parlare quando un portavoce della ditta di abbigliamento ha lanciato un comunicato mellifluo in cui, dopo aver ribadito (un po’ ipocriticamente) che “il senso di questa campagna è esclusivamente quello di combattere la cultura dell'odio in ogni sua forma” (allora i jeans e le magliette non c’entrano?), è passato alle scuse di rito. Anche se, con un pizzico di malizia, ha avuto cura di rivolgerle non al Papa, ma “ai fedeli” presumibilmente urtati nella loro sensibilità religiosa. “A conferma del nostro sentimento, abbiamo deciso con effetto immediato di ritirare questa immagine da ogni pubblicazione”.

Dunque ci ha pensato direttamente l’estensore del messaggio a levare le castagne dal fuoco al Corriere della Sera e alla Repubblica, che avevano inizialmente concordato la pubblicazione. A quanto risulta al Wall Street Journal, invece, il New York Times aveva già rifiutato il progetto (ma la stampa progressista americana non era in mano agli ebrei?). Fortunatamente, e con grande soddisfazione dei Benetton e dei Fabrica, grazie ad internet è praticamente impossibile far sparire le immagini incriminate, che continueranno a circolare in rete, facendo sorridere e riflettere, nonché stimolando fatturati.

La campagna prosegue nel solco tracciato decenni fa da Oliviero Toscani, tentando una concettualizzazione del messaggio pubblicitario che si allontana della promozione della merce in quanto tale, tendendo invece a spingere il consumatore al collegamento automatico tra messaggio e brand promotore. Poiché il messaggio socio-culturale va somministrato ad un pubblico sempre più vasto, uniforme, ignorante, frettoloso e distratto, va da sé che debba essere il più banale e meno controverso possibile: no alla guerra, sì al sesso, sì alla fratellanza tra i popoli, no alla pena di morte, no alla malattia (ricordiamo a questo proposito che la malattia è un leitmotif per Oliviero Toscani, autore delle immagini scattate per un’altra nota casa di moda femminile, che mostravano corpo martirizzato di una giovane modella anoressica, in seguito deceduta a causa della malattia).

Tutto questo da un punto di vista, freddo e asettico, di semplice comunicazione. Tuttavia, il fatto che la comunicazione à-la-Toscani sfrutti meccanismi istintivi ed si collochi in territori lontani da sottigliezza ed intelligenza applicata non deve far perdere di vista un aspetto, che però è nodale: i temi che ne costituiscono la materia prima sono importanti, e i messaggi, nella loro estrema semplificazione, positivi.

Si dirà: ma non basta denunciare la guerra, la malattia, la mafia, l’ipocrisia per migliorare il mondo? Verissimo, però ribadire messaggi ovvi aiuta la consapevolezza, non solo quella dell’animale consumista, ma anche quella della persona. Ecco, è qui il punto centrale: è molto più utile riuscire a far pensare un passante anziché deliziarlo con le pur gradevoli sembianze di corpi nudi. Per carità, un po’ di sana nudità fa solo bene, ma forse qualche volta tendiamo a dimenticare che pure pensare è sexy.

Insomma, si potrà anche accusare (con ragione) Benetton di fare socialwashing (comunicazione sociale distorta, scorretta), ma non si può provare ammirazione per una pubblicità che riesce nel suo intento finale (far ricordare il marchio verde), e allo stesso tempo rubare qualche secondo del nostro affollatissimo tempo per farci riflettere. Anziché fare come lo psichiatra e romanziere americano Keith Albow che, sulla sua colonna su Fox News, arriva a scrivere che per Benetton “il sesso gay è la panacea per i mali del mondo”, forse è più utile domandarsi come mai i leader del mondo sono tutti maschi (per forza che i baci della campagna sono quasi tutti tra due uomini!). O riflettere sul fatto che i Grandi della terra sono in fondo creature umane e come tali anche occasionalmente vulnerabili al potere segreto delle emozioni.


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