di Mario Braconi

Ad Obama, come noto, non arride la fortuna: basti pensare che nei suoi giorni di vacanza si sono susseguiti un terremoto, un uragano grande come un Paese europeo e l’esplosione della crisi in Libia; per non parlare del divampare della crisi economica in Europa. Ce n’è abbastanza per far stracciare le vesti alla stampa conservatrice americana, ormai avvezza ad azzannare il presidente con ogni possibile pretesto: “Con tutti i guai che sta passando il Paese, il Presidente non può starsene in vacanza...”, risuona lo stucchevole mantra.

Moralismo a buon mercato, come sostiene anche l’autorevole periodico americano The Atlantic, citando diversi studi scientifici: le vacanze (pure quelle mentali che si prendono navigando su internet dall’ufficio) non solo fanno bene a chi se le prende, ma aiutano a migliorare significativamente l’efficienza generale delle organizzazioni.

Nel lontano 1999 la compagnia assicurativa New Century Global finanziò una ricerca molto interessante: per dieci settimane venne analizzato il rendimento di due gruppi di impiegati, uno dei quali usava un software che richiamava regolarmente l’attenzione del lavoratore sul mantenimento di una postura sana e soprattutto sull’opportunità di concedersi una breve pausa caffè. I risultati, furono sorprendenti, almeno per l’iperattiva America: gli impiegati “imbeccati” dal loro mentore digitale svolgevano il loro lavoro con un’efficienza superiore in media del 13%.

A distanza di undici anni l’indicazione del vecchio studio è confermata, anzi rafforzata. E questo a dispetto del fatto che oggi l’accesso generalizzato alla Rete da parte di qualunque postazione d’ufficio abbia obiettivamente aumentato le possibili “distrazioni”.

Lo conferma perfino il Wall Street Journal, foglio non proprio di tendenze laburiste. Secondo uno studio dell’università di Melbourne nel 2009, navigare qualche minuto su Internet dall’ufficio “permette alla mente di svagarsi, consentendo maggiore concentrazione nel resto della giornata lavorativa, e quindi creando le premesse per un aumento di produttività”. Addirittura, la ricerca ha concluso che sprecare meno del 20% del proprio tempo in ufficio a farsi i fatti propri su Internet rende gli impiegati più efficienti del 9% rispetto ai colleghi che resistono alla tentazione di aprire il browser.

Consentire un livello fisiologico di distrazione sul posto di lavoro, dunque: atteggiamento padronale illuminato o trucco per lubrificare masse incatenate ai loro compiti alienanti? Il dibattito è aperto. In ogni caso, niente di nuovo sotto il sole: come ricorda The Atlantic, infatti, a proporre simili concetti per la prima volta all’inizio del secolo scorso fu Henry Ford, ideatore dell’eponimo modello industriale, il quale ripeteva: “Così come l’aver portato l’orario di lavoro ad otto ore ci ha aperto la strada della prosperità, il passaggio da sei a cinque giorni lavorati la settimana ci consentirà una prosperità ancora maggiore”. Eppure, negli Stati Uniti si continua a lavorare tanto. Troppo, forse, se si pensa che, secondo un sondaggio, sempre pubblicato da The Atlantic, in media un lavoratore americano matura 18 giorni di ferie l’anno e non riesce nemmeno ad utilizzarle tutte.

Niente di più sbagliato, spiega Daniel Cook, fisico e fondatore di Lost Garden, una software house specializzata in videogiochi: la regola aurea per massimizzare i risultati è non lavorare più di 40 ore a settimana. Chi pensa di spremere i gruppi di lavoro tenendoli inchiodati al tavolino 60 ore alla settimana, sia pure per brevi periodi, ottiene un aumento di produttività illusorio: a fronte di un incremento temporaneo di valore, il team tenderà a spomparsi. Per ottenere la necessaria decompressione, si renderà necessario un periodo con medie nettamente al di sotto delle 40 ore settimanali.

In un ideale grafico in cui la linea orizzontale è l’aurea mediocritas delle 40 ore, attraversata da un sinusoide che rappresenta gli straordinari e il periodo compensativo, quest’ultimo segmento ha invariabilmente un’area più grande. In altre parole, mandare un gruppo di lavoro in fuorigiri è controproducente. Cook sostiene che le 40 ore possono essere modulate come si vuole, per dire quattro giornate da 10 ore e tre giorni a casa. Chi svolge un lavoro creativo dovrebbe poi considerare che la capacità di produrre idee nuove tende a deteriorarsi ancor prima della fatidica quarantesima ora di lavoro, e precisamente dopo la trentacinquesima. Perdere il sonno su un problema complesso, infine, non aiuta particolarmente: molto meglio, sembra, concedersi otto ore filate di sonno e riattaccare la mattina presto a mente fresca.

Suggerimenti di senso comune? Certo, ma supportati anche dalla ricerca. Insomma, la scienza si schiera a favore delle vacanze prolungate come le piccole, innocenti evasioni dal pc dell’ufficio. Chissà se queste idee prima o poi verranno adottate anche nelle stanze dei bottoni, anche se due storie di cronaca recente prese a caso continuano a raccontare una verità molto più amara di cieco sfruttamento: si pensi ai bambini schiavizzati da un contractor brasiliano di Zara e agli operai che negli stabilimenti H&M in Vietnam lavorano fino allo svenimento.

di Mario Braconi

Lo scorso 15 agosto Google ha annunciato la sua intenzione di acquistare Motorola Mobility, il produttore di cellulari, televisori e dispositivi vari legati al mondo delle telecomunicazioni. A valle dell'approvazione dell'Antitrust USA, data per scontata, la casa di Mountain View pagherà 40 centesimi di dollaro per ogni azione di Motorola, con un premio del 63% rispetto alle quotazioni correnti ed un esborso complessivo di 12,5 miliardi di dollari. In effetti, Google, come il suo prodigioso primogenito Android, è uno dei pochissimi marchi globali cui non viene associato un  prodotto specificamente determinato. Come mai l'azienda che meglio rappresenta il “cervello” della Rete, improvvisamente dimostra interesse per la produzione di hardware oltretutto mettendo sul piatto una quantità enorme di cassa? “Credo che ora ci troviamo in una situazione privilegiata per proteggere l’ecosistema Android, cosa che andrà a vantaggio di tutti i nostri partner [ovvero dei fabbricanti di dispositivi che, come Samsung, HTC e LG, hanno creduto nel progetto Android]”: la chiave per comprendere la decisione strategica di Google è in queste parole, pronunciate dal capo del legale di Google David Drummond nel corso di una conference call tenutasi lo stesso giorno dell'annuncio dell'operazione.

Facciamo un passo indietro: con la sua consueta lungimiranza, Google, con il suo Android ha deciso di entrare nel mercato dei sistemi operativi. Si tratta di un pacchetto di software che, oltre ad un sistema operativo, contiene una serie di altre codifiche che permettono una interazione sempre più efficiente tra il dispositivo e la Reti. Android è basato su una kernel Linux, il che vuol dire che è coperto da una licenza d’uso open source. Dunque, a differenza di quanto accade per i suoi due principali concorrenti, Apple e Microsoft, il codice sorgente di Android è liberamente disponibile per gli sviluppatori e per i fabbricanti di dispositivi (smartphone, pc, tablet eccetera...). In questo modo, Google potrà continuare a sviluppare software, lasciando i produttori di elettronica di consumo liberi di affinare l’hardware. E’ stato un successo: in soli tre anni, Android è diventato il primo sistema operativo per smartphone: secondo Marguerite Reardon di CNET, grazie ad Android, in tutto il mondo connesso o collegabile, Google ha messo sotto contratto 39 fabbricanti di dispositivi e 231 operatori di telecomunicazioni. Secondo Mountain View, più di mezzo milione di apparecchi con Android preinstallato vengono attivati ogni giorno...

Ma Apple e Microsoft non sono rimaste con le mani in mano: non essendo in grado di concepire un modello di business non basato sulla cessione a titolo oneroso, hanno cercato una scorciatoia. Del resto, succede spesso: quando le idee nuove cominciano a scarseggiare, si  comincia a far parlare le carte bollate. Così, ad esempio, ad agosto del 2010 Oracle porta in tribunale Google. Nonostante fosse cosa notoria che uno dei motori di Android è una copia quasi conforme del software Java della Sun, Oracle (nuovo padrone di Sun) decide di citare la società di Mountain View per violazione dei diritti d’autore (cosa che per inciso, Sun non si sarebbe mai sognata di fare). Per tentare di stoppare il simpatico robottino verde (marchio di Android) si sono viste perfino Apple e Microsoft stringere un accordo per rastrellare brevetti comprandoli dalla Novell o dalla Nortel Network, una società in liquidazione (in quest’ultimo affare era della partita anche Research In Motion, o RIM, la “mamma” di BlackBerry). Perché investire così tanti soldi in licenze software? Secondo Google, è un modo come un altro per rendere impossibile la vita ad Android. Avendo razziato ogni genere di brevetti, su ogni nuovo telefonino Android, i concorrenti possono brandire come un corpo contundente i diritti acquisiti grazie a pacchi di dollari. Grazie alla minaccia di azioni legali contro i Google, infatti, Microsoft e Apple possono rallentare l’uscita di nuovi modelli che montano Android; ovvero, meglio ancora, pretendere una “tassa” su ogni dispositivo che contenga un software anche solo somigliante a quello su cui hanno acquisito regolare licenza. Risultato: i telefonini dei concorrenti finiranno per costare di più ed essere dunque meno appetibili.

Per controbattere l'attacco, Google è corsa ai ripari: Motorola era proprio il fidanzato ideale. A dispetto della sua immagine commercale lievemente appannata, si tratta pur sempre di uno dei più antichi fabbricanti di apparecchi per le telecomunicazioni, essendo attivo da oltre ottanta anni, nel corso dei quali ha accumulato una incredibile mole di brevetti: secondo CNET, con la Motorola, Google porta in cascina la bellezza di 24.500 licenze software (di cui 7.500 “pending”, ovvero in attesa di essere garantite). Un vero e proprio capitale, con il quale in futuro Google potrà togliersi qualche sassolino dalla scarpa al momento in cui gli azzeccagarbugli al soldo della concorrenza la accusasseranno di violazione di copyright. Altrettanto strategici saranno i contatti consolidati di Motorola con gli operatori di telecomunicazioni e la sua posizione di leader nella produzione di dispositivi per tv via cavo e per la registrazione: un particolare che potrebbe diventare molto utile a Google, che l’anno scorso ha lanciato il servizio “Smart TV”, che consente di vedere direttamente sul televisore di casa contenuti internet (ad esempio video caricati su YouTube).

E' evidente che, nonostante le apparenze, l’acquisizione di Motorola ha molto senso per Google. Come nota sempre sulle colonne di CNET Roger Cheng, resta da capire l’evoluzione del quadro competivo. Come reagiranno LG, Samsung e HTC, sapendo che d’ora in avanti ogni volta che dialogheranno con Google non avranno a che fare solo un partner che fornisce  software, ma con un entità che è un partner quanto un concorrente. Cheng cita Nick Dillon, analista di Ovum: “Se Google finisse per fornire a Motorola un accesso preferenziale al suo codicei, [...] la fedeltà dei costruttori a Google potrebbe risultarne seriamente compromessa”. Non a caso, Microsoft butta il sale sulla ferita, dichiarando, a deal appena annunciato: “[...] Windows Phone è l’unica piattaforma a mantenere un ecosistema software veramente libero offrendo pari opportunità a tutti gli attori”. Al di là delle ovvie dichiarazioni di parte della concorrenza, il problema è reale: chissà se Google ci stupirà ancora una volta?

di Mario Braconi

La Apple è davvero l’azienda dei miracoli. Sui meriti (o gli eventuali demeriti) delle soluzioni tecnologiche adottate dal marchio americano, prima tra tutti l’adozione un sistema chiuso, il dibattito è aperto. Non si può negare, però, che il talento di Steve Jobs abbia trasformato idee preesistenti (formati compressi, sfruttamento della Rete in mobilità, touch screen) in prodotti dal look accattivante e dai margini elevati.

Se oggi il modo più semplice per godersi della buona musica è un dispositivo minuscolo che contiene centinaia di album; se oggi al nostro cellulare non chiediamo solo di fare telefonate, ma la possibilità di leggere la posta elettronica e di intrattenerci con giochini di dubbia utilità; se oggi uno degli oggetti del desiderio commerciale è quell’evoluzione della tavoletta dello scriba definito “tablet”: lo dobbiamo senz’altro al talento visionario di Jobs e Soci.

Il tutto senza considerare il potere subdolo che Mela Morsicata si è guadagnata installandosi d’imperio in certi segmenti superficiali dell’immaginazione collettiva. Ed è così che gli aggeggi marchiati Apple sono divenuti quasi un must-have per tutti coloro che sono veramente a-là-page, artisti (grafici, architetti, registi, musicisti) e i loro emuli; è così che fioriscono dibattiti tra persone, normalmente digiune di informatica, alcune delle quali si rivelano pronte a giurare che “Apple è un’altra cosa”; e così che molti si sono separati volentieri da diverse centinaia di euro per portare a casa un aggeggio bellissimo e tecnologicamente all’avanguardia come l’iPad, che può fare tante cose, ma nessuna in particolare.

E’ comunque certo che l’intelligenza commerciale del suo lungimirante leader abbia portato nelle casse degli azionisti di Apple una quantità formidabile di biglietti verdi. Ha fatto sorridere e anche un po’ preoccupare il fatto che le riserve di cassa dichiarate da Apple nel suo ultimo report trimestrale siano arrivate a superare il saldo liquido del Tesoro americano: troppo basse le prime, incredibilmente elevato il secondo. Mentre infatti la politica USA è invischiata nel delirante dibattito sull’innalzamento dei limiti massimi del debito pubblico americano - una dialettica nominalistica ed isterica che rischia di condurre il Paese al default - il saldo della liquidità degli Stati Uniti si è attestato attorno ai 74 miliardi di dollari; mentre sul bilancio della casa dell’iPod fanno bella mostra di sé la bellezza di 75,6 miliardi di dollari tra cassa e titoli (di cui circa 20 investiti in debito pubblico del Governo o delle agenzie pubbliche americane). Come nota l’Atlantic, una sommetta sufficiente a comprare sul mercato Goldman Sachs, che sul mercato vale poco meno di 70 miliardi di dollari...

Che cosa ha a che fare un’artista notoriamente ribelle come Bjork con una corporation americana che ha appena dimostrato con i fatti che nel mondo globalizzato del ventunesimo secolo non è poi così difficile trovare un’azienda finanziariamente più forte del governo più forte del mondo? E’ la stessa musicista islandese a spiegarlo a Charlie Burton di Wired UK, che ha la ha incontrata nella sua casa-studio di Brooklyn Heights a New York. Nei tre anni trascorsi dal suo ultimo album (Volta), abbastanza sperimentale, Bjork si è dedicata ad un nuovo progetto dall’intenso contenuto intellettuale. Nelle intenzioni dell’artista islandese, ogni composizione di “Biophilia” (ovvero “amore per la vita”) dovrebbe da un lato illustrare un concetto scientifico; e dall’altro esplorare uno specifico aspetto della teoria della musica. Ognuna delle dieci canzoni che compongono l’album pone un particolare accento su un aspetto di teoria musicale (ad esempio, arpeggio, controcanto, tempo...); ed ognuno dei brani parla di un concetto scientifico che abbia qualche assonanza con la musica. Sono nate così, ad esempio, “Crystalline”, “nella quale i cristalli si riferiscono alla complessità strutturale della composizione musicale”, e “Virus”, sviluppato su una molteplicità di frasi musicali.

 

Man mano che il progetto evolveva, nella mente della cantante islandese prese forma l’idea di una sovrastruttura da applicare sulla musica per arricchirla di contenuti anche didattici: è nata così la “casa musicale” virtuale, le cui stanze erano rappresentate dalle canzoni, le cui scale fossero in realtà scale musicali e così via. In un primo momento l’idea avrebbe dovuto addensarsi attorno ad un progetto di filmato in 3D da 40 minuti. Bjork chiamò a dirigerlo il geniale regista francese Michel Gondry (“Se mi lasci, ti cancello”, “Be kind, rewind”, “L’arte del sogno”), che però presto dovette gettare la spugna, in parte per la difficoltà del progetto ed in parte a causa del suo malaugurato impegno hollywoodiano, il pessimo “The Green Hornet”.

A quel punto, Bjork ebbe un’illuminazione: perché non realizzare il suo progetto nella forma di una costellazione di app (applicazioni) da far girare su iPad? “Le mie canzoni alla fine hanno un ritmo di 83 battiti al minuto, che è poi la mia velocità quando cammino. Tutte le persone con cui ho lavorato mi hanno presa in giro per questo. Solo attenendomi ad una scrittura in quattro quarti, verso, ritornello, verso, riesco ad evitare di dover risolvere un indovinello matematico mentre tento di cantare; per me questi due mondi [la matematica e la musica NdR] sono separati. Ma un dispositivo touchscreen dotato di un software adeguato avrebbe reso possibile comporre pezzi complessi senza dover sacrificare la spontaneità”. Quando finalmente Apple ha lanciato sul mercato l’iPad, Bjork sapeva già come l’avrebbe potuto utilizzare - ed infatti Biophilia è stato in parte realizzato tramite quel dispositivo.

Ma Bjork andò oltre: l’intero album poteva diventare una collezione di app per iPad: a quel punto, perfino alla Apple si sono un po’ preoccupati, pensando a tutti i fan non dotati del costoso giocattolo. Alla fine la cantante islandese ha raggiunto il seguente compromesso: un contratto la lega ancora alle major, ma le app sono autoprodotte, e quindi possono essere rilasciate solo quando pronte. Un bel progresso per un’artista che ha sempre vissuto con molta ansia il suo rapporto con i giganti della distribuzione, a suo dire esclusivamente interessati al profitto e burocratizzati in modo patologico.

Insomma, sembra che l’ultimo gadget di casa Apple sia perfino in grado di ispirare alcuni artisti e di fornire loro strumenti per migliorare la propria espressività. Con tutte le perplessità del caso, non ignote alla stessa Bjork, che riconosce: “molti dei miei amici sono anti-Apple, la considerano l’impero del male. Ma il mio punto di vista su questo tema non può che essere a favore della creatività. E’ un po’ come l’Inglese: i miei nonni non lo sapevano perché per loro parlare quella lingua era come mettersi immondizia in bocca. Ma certe cose vanno superate: vogliamo comunicare, sì o no?”. Una posizione interessante e che si applica molto bene, mutatis mutandis, alla relazione che l’uomo della strada ha con il potere dei signori della Rete (Facebook, Google, oltre Apple): accetta di dover fare dei compromessi (per esempio sulla privacy) pur di poter comunicare.

di Rosa Ana De Santis

Tra il 2007 e il 2009 il tasso di suicidi in Europa tra gli under 65 è notevolmente aumentato. I Paesi con la maggior incidenza sono la Grecia, l’Irlanda e la Lettonia e non c’è dubbio, dati alla mano e con una mappatura geografica chiara, che la crisi economica e la conseguente recessione entrino nella macabra statistica con un qualche ruolo causale. L’assioma tradizionale da cui si parte è che siano le società più ricche quelle in cui l’incidenza dei suicidi è più alta.

Questo affermava Durkheim e questo può essere spiegato abbastanza con la nota piramide dei bisogni di Maslow, secondo la quale più si hanno bisogni primari di sopravvivenza e meno si entra nella sfera delle problematiche personali e psico-affettive. Ma il suicidio, in controtendenza, è sempre meno un fenomeno da ricondurre ai confini individuali e ad una sorta di lettura solipsistica della società ed è sempre di più in relazione diretta con l’esterno e con i fenomeni socio-economici che la caratterizzano.

Si tratta di un nuovo modo di essere e sentirsi poveri e di una nuova forma di povertà, tutta occidentale, che sta mutando le storiche categorie del bisogno e che sta dando contorni del tutto nuovi al problema esistenziale.

Non è la povertà che ci raccontavano i nonni alla fine della seconda guerra mondiale, non è quella - drammatica - di moltissimi paesi in via di sviluppo. Una povertà da cui si fugge, contro cui si lotta disperatamente. Qui parliamo di nuovi poveri e di una povertà economica cui si è unita una profonda disgregazione sociale, una frammentazione delle relazioni anche familiari.

Padri che perdono lavoro, “capi famiglia” di una volta soverchiati dall’inadeguatezza economica e sociale al proprio ruolo, genitori separati in difficoltà. Sono, infatti, in un rapporto di diretta proporzionalità, l’aumento della disoccupazione europea e l’incremento dei suicidi. La rottura della comunità familiare ha certamente contribuito ad aggravare il peso dell’instabilità professionale ed economica.

Tutto questo in un contesto sociale che non ha affatto frenato la corsa alla sviluppo e al consumo, ma che chiede livelli di efficienza e prestazioni sempre più performanti e che ha frammentato ogni traccia di aggregazione sociale atomizzando persone e relazioni fino a corrodere la comunità familiare.

A tutto questo va aggiunto che il tratto della disomogeneità di condizione economica ha intaccato la grande fascia maggioritaria del ceto medio, scaraventando famiglie che prima avevano una posizione di vita normale nella povertà senza rimedio, fino alla perdita stessa del reddito e alla precarietà assoluta.

La rottura dell’omogeneità e l’aggravarsi delle differenze socio-economiche ha risollevato la questione economica come questione di classe, frantumando la condivisione e la comunicazione del disagio e della nuova povertà. I poveri sono silenziosi, posati sul fondale di un’apparente normalità, gravati da un livello di consumi che non può essere ripensato. Un dogma che schiaccia i bisogni e li silenzia.

Quello che manca a questa società asfissiata dalla crisi è l’orizzonte. E questo è valido soprattutto guardando a casa nostra. L’assistenza e il welfare sono progressivamente annientati e sviliti nell’assistenzialismo. I diritti fondamentali svuotati, a partire dalla sanità e dalla scuola. L’individuo è affidato a se stesso, isolato dagli altri e scollato dall’autorità dello Stato. Anche in Italia stanno diventando numerosi i casi di suicidio connessi alla disoccupazione, ma il dato viene sottovalutato. Si preferisce spiegare il suicidio come un atto misterioso, del tutto interno alla mente e alle sue fragilità. Un affare per psichiatri, una conseguenza della depressione. Nel 2009 sono stati 2.986 i suicidi in Italia, 158 in più rispetto all'anno precedente, con un aumento del 5,6%.

Il suicidio è un grande problema di salute pubblica che oggi più che mai trova le sue radici proprio nel rapporto malato tra l’individuo e la società. Uno iato che non conosce più relazioni, né mediazioni. Un confronto che assomiglia a un salto e che può diventare insopportabile, soprattutto quando l’individuo è privo di una comunità che lo sostiene e dei mezzi necessari per dominare le esigenze esterne.

La miscela di questi due elementi può scatenare l’irreparabile. Moltissimi sono i casi di persone licenziate e suicide che la cronaca ci ha testimoniato. Si trattava soprattutto di giovani padri.

E’ semplice pensarli come uomini fragili, con difficoltà interiori proprie. Quanto invece è meno semplice dover pensare che la depressione delle borse, quella che fa tremare i profitti di pochi e le casse dello Stato coincida con una diffusa e  molto meno clamorosa. Quella che sentono i giovani quando pensano al futuro, quella che sta nell’aria delle nostre città e delle case. Lì dove anche le famiglie, sovvertito e vanificato per sempre il patto generazionale, si sono arrese.

di Rosa Ana De Santis

Può accadere nello stesso Paese di leggere su tutti i giornali la battaglia forsennata per la legge sul biotestamento, che vuole obbligarci a rimanere nello stato vegetativo persistente cronico, e due giorni dopo trovare in prima pagina la storia di una donna di Bergamo che, dopo 16 anni di lavoro in un’azienda, è stata licenziata perché in coma dal 2010, dopo esser stata colpita da aneurisma cerebrale. “Un intralcio alla produzione” ha scritto l’azienda e la Cgil di Bergamo ha denunciato la vicenda.

Solo in un Paese come l’Italia Può accadere tutto questo nel silenzio generale delle Istituzioni che fino a ieri erano ingaggiate nella crociata della vita. Incapace di analizzare fatti e vicende senza ricorrere alla mistificazione e alla retorica, inadatta storicamente alla durezza della coerenza e soprattutto sempre più in ostaggio del mito degli imprenditori sultani e di una deregulation selvaggia che sta smantellando lo statuto dei lavoratori.

Non c’è traccia di condanna da parte di tutti coloro che ieri in Parlamento hanno consentito che passasse la legge del biotestamento così come è. Si deve rimanere per forza in quello stato, anche contro la propria volontà, per poi avere un trattamento discriminatorio e disumano come quello riservato a questa giovane mamma e ai suoi familiari, nel metodo e vedremo se anche nel merito.

Il Ministero del Lavoro, per lo meno, ha preso la parola: «Abbiamo già disposto, tramite la nostra direzione generale per l'attività ispettiva - ha spiegato Nello Musumeci, sottosegretario con delega alle Politiche sociali - una verifica dei fatti denunciati dalla stampa. Al di là dei rispettivi obblighi contrattuali, la condotta dell'azienda appare improntata a un rigido formalismo e a un rigore assolutamente inopportuni e inadeguati alla tragedia che ha colpito la sfortunata dipendente».
Musumeci ha anche spiegato che la «dignità della persona viene prima di ogni profitto d'impresa» e ha suggerito alla dirigenza dell'azienda di fare pubblica ammenda: «Se fossi l'amministratore andrei a chiedere scusa ai familiari», ha detto il sottosegretario.

Si potrebbe partire da qui, certo, ma forse è bene volgere lo sguardo ad un’orizzonte più ampio. Sono diversi gli spunti di riflessione che questo caso dovrebbe restituire all’opinione pubblica e al dibattito mediatico generale. Un primo elemento è di natura squisitamente giuridica. Se si ammette il principio per cui una persona può essere licenziata con questa modalità e definita “un intralcio”, attraverso una letterina offensiva e denigratoria, cosa dobbiamo aspettarci per tutte quelle persone ammalate o in cura?

Quanti saranno poco efficienti rispetto agli standard di profitto imposti dai datori di lavoro? E chi li stabilisce questi standard? Basta pensare alla questione, tutta irrisolta, sui pazienti oncologici e i loro lunghissimi decorsi, fatti di terapie e follow up intensi. Persone che spesso non hanno una presenza costante sul posto di lavoro o quantomeno necessitano di permessi speciali per i controlli medici.

Un secondo spunto è di natura etico-morale. Se questo Paese ha deciso che lo stato vegetativo è indisponibile alla scelta individuale, quasi più della vita ordinaria che in effetti ciascuno di noi ha la facoltà di togliersi attraverso il suicidio, allora non può non intervenire su un caso di questo tipo che rappresenta un abuso clamoroso, peraltro aggravato dal fatto che il licenziamento da parte dell’azienda è sopraggiunto prima che arrivasse da parte del  marito della signora la legittima richiesta di godere di tutte le ferie e i permessi maturati. Forse una mediazione con il marito, che in questo caso rappresenta le istanze della moglie, sarebbe stato doveroso moralmente, prima ancora che con la legge alla mano.

In ultimo, c’è una questione di linguaggio, che è molto di più che una questione di forma e di burocrazia. E’ il segno di un approccio al lavoro, sempre più radicato e infiltrato, che non guarda più alle persone, al credito di anni di onorato servizio - come si diceva una volta - di questa giovane madre, un modo di consumare le persone e i loro diritti che non conosce più nemmeno le forme del pudore. E’ questa storia a restituirci un ritratto fedele della nostra società, molto più della corrida parlamentare che ha partorito il biotestamento nullo e fasullo così come sarà.

Il caso, per ora, lancia dei dubbi e offre una sola riflessione. Che qualsiasi battaglia per la vita significa molto di più che una collezione di precetti ideologici e confessionali di facciata con scarse indicazioni procedurali. Che questa situazione, così al limite delle norme, avrebbe dovuto scioglierla per prima la signora in coma se avesse potuto esprimere le sue volontà, in un senso o in un altro. Che la legge parla chiaro sulla malattia e la prolungata assenza di un lavoratore. Ma che si poteva agire in ben altro modo.

Se per il Parlamento quella donna è viva, viva come era viva Eluana cui venivano portati pane e acqua. Per l’azienda in cui ha lavorato lunghi anni quella donna è diventata addirittura un intralcio. “Meno” di una persona ammalata, “meno” ancora di una persona morta cui si concede ancora, anche nei luoghi di lavoro, l’umanità o l’intralcio di un addio.

 


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