di Vincenzo Maddaloni

Le previsioni più ottimistiche indicano che entro trent'anni Venezia non avrà più residenti, ma soltanto proprietari di seconda casa e turisti in visita. Ottima notizia per quanti da decenni l’hanno attesa come fosse un traguardo  irraggiungibile. Pessima, per una città che nel 1500 con 150 mila abitanti - la sua soglia massima - era per numero dei residenti la seconda in Europa, dopo Londra. E’ da allora che i veneziani cominciarono a diminuire lentamente e inesorabilmente. Beninteso, anche per le ripetute pestilenze che colpirono la Serenissima durante i secoli; tuttavia mai con la velocità degli ultimi settant’anni del ventesimo secolo.

Poiché i veneziani che erano ancora 130 mila nel secondo dopoguerra, negli anni Ottanta si sono di fatto dimezzati. Oggi a mala pena raggiungerebbero i cinquanta mila secondo alcuni dati non ufficiali. Malauguratamente non per le pestilenze, ma per una politica culturale dagli effetti ancora più nefasti che da trent’anni a questa parte mira a fare di Venezia (uso un eufemismo) un centro di attrazioni, e che  trascura il veneziano, anzi lo ha relegato nelle squallide periferie di  Marghera http://margheraonline.it/blog/sicurezza/cronaca-di-un-disastro-ambientale-annunciato/ , Mestre, Carpenedo http://it.wikipedia.org/wiki/Carpenedo . Con la medesima tempistica si è mosso il saccheggio della città che fa leva sulla selvaggia lottizzazione immobiliare che non conosce crisi perché la pressante domanda della seconda casa sulla laguna mantiene i prezzi degli appartamenti alle stelle. Inavvicinabili per le coppie giovani, sicché risulta sempre di più una città di vecchi, di pensionati, che va perdendo l’anima originaria.

E’ difficile però valutare le dimensioni del fenomeno perché i veneziani hanno per misura la rassegnazione e sono poco inclini alle manifestazioni vistose anche nell’éra berlusconiana dove tutto è permesso a cominciare dall’arroganza. Per stare al certo si potrebbe dire che a Venezia, la politica, l’economia, la cultura in prevalenza mercantile hanno contribuito a rendere la gente sempre più schiva, frustrata. Non c’è disperazione sociale, questo no, non c’è nemmeno la preoccupazione di sprofondare nella laguna, le preoccupazioni semmai sono altre. Prima di tutto la marginalità, il timore di essere tagliati definitivamente fuori da ogni decisione sul governo della città. Poi, l’invadenza “forestiera”, i nuovi cittadini (italiani e stranieri) che hanno a Venezia la seconda casa, li hanno indotti su posizioni rinunciatarie, a fare ghetto, a difendersi da un modo di vivere che, a parer loro, stravolge i valori e le tradizioni della città.

Già si sono creati - a sentir loro - fenomeni allarmanti: la divisione, per esempio, tra centro e periferia che non ci  fu mai nella millenaria storia di equilibri policentrici dei Sestieri che suddividono in sei quartieri appunto il centro storico lagunare. Una città socialmente a “pelle di leopardo”, con quartieri ricchi e quartieri poveri, simile ai grandi centri urbani della terraferma i lagunari non l’accettano, forti di una consapevolezza, freudiana se vi fa piacere, di appartenere a una città che per centinaia di anni fu capitale della cultura e della politica.

Infatti, ogni qualvolta si tocca l’argomento, il confronto col “secolo dei lumi” http://it.wikipedia.org/wiki/Illuminismo è inevitabile, è una sorta di intima e ricorrente nostalgia, percorsa da personaggi illustri come Goldoni, Canaletto, Guardi, Casanova, dalle mille e una copertine delle Gazzette - le sole nell’Europa del tempo - a non essere soggette alle censure. Erano gli ultimi sprazzi di una Repubblica libera, dove il francese, il turco, l’ebreo potevano venire e convivere liberamente purché non facessero pubblica propaganda religiosa.

Nel 1739 Charles de Brosses, scrivendo di Venezia e del suo carnevale, raccontava: «Comincia già il cinque ottobre e ce n’è un altro di quindici giorni all’Ascensione, così che qui si possono contare all’incirca sei mesi in cui chiunque, compresi i preti, compreso il nunzio apostolico e il padre guardiano dei cappuccini, non esce che in maschera. Non scherzo: è l’uniforme di ordinanza». Insomma, divertimenti e quattrini in un’incredibile festa spontanea dei ricchi e dei poveri, internazionale e paesana dove «soltanto i morti i xe veci», come annotava Mozart.

Un secolo affatto dimenticato, anzi nei discorsi dei veneziani spesso additato, anche oggi,  come un confronto naturale col quale rapportarsi, nell’intento non ultimo di scrollarsi di dosso il mito romantico della “morte a Venezia” che li perseguita; poi  le inchieste sulla città che sprofonda che li avviliscono; poi ancora le cronache sugli effetti del Mose http://www2.comune.venezia.it/mose-doc-prg/  che li inquietano; e infine gli interventi degli esperti che vogliono salvarli.

Salvarli da chi? Si tenga a mente che da quando - trent’anni fa - ci si è accorti che i messaggi della città hanno indici di ascolto estremamente ampi in tutto il pianeta, nel senso che le genti di tutto il mondo vi partecipano fisicamente con il loro tempo e i loro quattrini, il “salvataggio” dei veneziani è diventato un problema secondario. E non poteva essere diversamente poiché nell’immaginario collettivo Venezia è sempre meno l’ex capitale della Serenissima, e sempre più un centro internazionale di aggregazione pilotata; perché le architetture, gli ambienti, i percorsi dove persino il traffico merci è distinto da quello pedonale, ne fanno una città  “a misura d’uomo”, come dettava Le Corbusier, e perciò un luogo unico e straordinario.

Tutti questi elementi, amplificati a dismisura dai mass-media internazionali, hanno consolidato l’immagine di una città dove ogni cosa che si discute, si mostra, si elabora, si produce, si trasforma quasi sempre in un frastornante evento globale. Ragion per cui siccome il segno encomiastico della dimensione a “misura d’uomo” viene in ogni occasione esaltato dai media, fino a stravolgerlo, diventa sempre più ardua una valutazione equanime sul destino della città e dei suoi residenti, sull’impresa turistica a maggior rendimento al mondo, e sul mito della città “a misura d’uomo” dove - è evidente ogni giorno di più - non tutto luccica.

Infatti, a chi viene a Venezia per visitarla sembra impossibile che ci siano poco più di 50 mila abitanti nel centro storico, tanto la città è affollata durante la bella stagione, nei week-end e durante le grandi manifestazioni. Accade infatti che a Venezia ci vengano di media più  50 mila turisti al giorno, ai quali si aggiungono  i  lavoratori pendolari e gli studenti delle varie facoltà universitarie presenti in città, più o meno altri venti mila. Una moltitudine per una città così minuta.

Pertanto, siamo di fronte ad un’operazione di marketing turistico sugli effetti della quale è bene riflettere, anche se brevemente. Come spesso accade nella vita, del ruolo della città si sono accorti prima i non veneziani. E’ cresciuta prima la domanda dell’offerta, i residenti sono arrivati in ritardo. Le strutture di governo cittadine si sono adeguate a una realtà imposta dal profitto, non sono state capaci di proporre alternative valide, come per esempio fermare l’esodo dei veneziani, invece di incoraggiarlo. Risultato? Spira nella Venezia d’inverno un forte vento di abbandono. Dove il calendario si regola sul flusso delle comitive dei turisti, questo è tempo d’inizio di ferie: cominciano a chiudere i negozi, e i ristoranti ne vanno al seguito. Acqua alta quasi sempre. Il disagio come abitudine.

Speculazione selvaggia - s’è detto - mancanza di alloggi, migrazioni dei giovani: e dunque città di anziani, città di pensionati, e si vede. Ogni tanto un tiepido sole gratifica, ed eccoli tutti ritrovarsi in Piazza San Marco, nei campielli, sulle rive. Felici di rivedersi, di ciacolar, di contarsi le rughe. La domenica è un passeggio per i consueti itinerari: Mercerie, San Marco, Strada Nova, Ferrovia.

Tutti a piedi, o in barca a remi, comunque in passerella. Dopotutto a Venezia il benessere non si misura in cavalli vapore; non è pensabile che vada oltre l’abito che s’indossa quella che Proust definiva «l’arte infinitamente varia di sottolineare le distanze ». Un confronto più accessibile che favorisce quella stratificazione sociale, quel sovrapporsi di corporazioni e di fasce di reddito che impediscono lo scontro di classe, affievoliscono le tensioni. Un modo di rapportarsi per certi versi unico che non è stato coltivato, studiato, incoraggiato, diffuso, portato avanti come esempio da imitare.

De Michelis e Degan, Brunetta e Cacciari, tanto per citare i primi che arrivano in mente. Tutte le giunte che si non succedute al governo della città, ma anche della Regione da sempre hanno dimostrato una grande miopia poiché tutte le scelte sono caparbiamente improntate alla difesa del potere in perfetta sintonia con il resto della nazione. Così, negli anni, Venezia è andata penalizzando il suo volto più “orientale”, quello della cortesia e dell’ospitalità e ha valorizzato invece quello “levantino” del baratto e del guadagno. In buona sostanza anch’essa si è adeguata al nuovo tempo, quello nel quale stiamo vivendo. “Eine Katastrophe”, una catastrofe, direbbero  i miei amici  tedeschi. Che, d’abitudine, vanno subito al sodo di ogni vicenda.

 

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