di Mario Braconi

A Jesse Mc Kinley, capo della redazione californiana del New York Times, non difettano certo coraggio e curiosità: su incarico del suo giornale, ha deciso di frequentare per un paio di mesi gli adepti californiani di uno dei più rilevanti partiti neonazisti americani. Una copertura minuziosa, visto che Mc Kinley non si è limitato a presenziare a riunioni e raduni del Movimento Nazional Socialista americano (NSM), Sezione California del Sud, ma si è spinto a frequentare la casa del leader locale Jeff Hall.

Il NSM, che si autodefinisce “il più grande gruppo per la supremazia della razza bianca” negli Stati Uniti, conta in realtà non più di 400 membri, sparpagliati in 32 Stati: se non fosse per il loro attaccamento feticista alle divise naziste dei tempi della guerra (li chiamano infatti anche Hollywood Nazis, ovvero nazisti da cinema), passerebbero quasi inosservati.

Capo del movimento é il “comandante” Jeff Schoep, nato nel 1973 nel Minnesota. Benché sia difficile trovare informazioni ufficiali (e vere) sul suo conto, secondo una ONG per i diritti civili (il Southern Poverty Law Center di Montgomery in Alabama), il momento più interessante della sua biografia è un arresto per furto, avvenuto nel 1998.

Tutto si può dire di Schoep, tranne che non sia attaccato alla famiglia, però: quel giorno in cui decise di rubare da un negozio materiale elettronico del valore di 4.000 dollari volle con sé i suoi quattro bambini e la sua compagna. Sfortunatamente la sua sensibilità paterna non fu particolarmente apprezzata dal giudice, il quale, oltre a condannarlo, ebbe parole dure per il “povero nazista” Schoep, accusandolo di “ipocrisia”.

Non che le cose dal punto di vista politico gli siano andate molto meglio: tra le iniziative non memorabili di Schoep si ricordano le campagne di tesseramento a prezzi scontati dirette agli skinhead di destra (solo 35 dollari all’anno, un vero affare) e il reclutamento di minorenni (14-17 anni). Schoep avrebbe potuto fare di più e meglio per il suo simpatico movimento se non fosse stato per il collega John Edward Snyder, capo del NSM dell’Indiana. Il fatto che quest’ultimo si sia rivelato uno stupratore e un pedofilo recidivo può aver reso più cauti i genitori di fede nazista, al momento di affidare le loro proli ariane al movimento di Schoep e soci.

Fin qui c’è n’è abbastanza per capire chi siano in realtà Schoep e i suoi camerati: falliti ed  irresponsabili, convinti di risalire la china mettendo a frutto la loro unica risorsa: l’odio che gli bolle dentro. Eppure sarebbe un errore sottovalutare il “comandante” e quella manciata di disadattati che lo considerano un leader. Basti pensare che una manifestazione del NSM “contro la criminalità negra” a Toledo, Ohio nell’ottobre del 2005 causò gravi disordini, incidenti, e si concluse con l’arresto di oltre cento persone.

Jeff Hall, il contatto di Jesse Mc Kinley, era il rappresentante del NSM per la California del Sud. Era, perché il progetto di seguire i neonazisti per un paio di mesi è stato bruscamente interrotto lo scorso primo maggio dalla morte di Hall, assassinato da uno dei suoi cinque figli, un ragazzino di dieci anni, che lo ha freddato con un colpo di pistola. Secondo la polizia, l’omicidio è stato intenzionale, ma non sono ancora del tutto chiari i moventi. Una tragedia familiare che, oltre stimolare l’attenzione pubblica americana sui gruppi per la supremazia bianca, fa a pezzi l’immagine degli Hall come famiglia felice e “normale” dipinta, con comprensibile perplessità, da Mc Kinley.

Il reportage del giornalista del NYT in effetti descrive bene la surreale coesistenza tra lo stile di vita pacioso tipico di un sobborgo californiano e le esecrabili idee razziste che erano il pane quotidiano a casa Hall. Mc Kinley racconta di mercatini di autosostentamento dove si vendono cinture con la borchia delle SS accanto a magliette di Che Guevara (“è un assassino comunista, ma se vendi una di queste T-shirt stai finanziando il nostro movimento” è stato il pragmatico ragionamento di Hall); di coppie di skinheads (etero, s’intende) divisi tra lo scambio di tenerezze sul pianale di un pickup e le grida antisemite lanciate al successivo comizietto; e di grigliate a base di salsicce e sproloqui contro le razze “inferiori”.

A proposito di razzismo, nella storia del NSM non mancano le situazioni ironiche: pare infatti che il “grande capo” Schoeps (cui alcuni attribuiscono un padre ebreo) sia inviso ad alcuni militanti “duri e puri” a causa della sua attuale compagna, una bella donna dalla pelle ambrata, per metà nera; non solo la donna ha avuto in passato una relazione con un uomo di colore, ma ha concepito assieme a lui una figlia. Benché la ragazza visiti regolarmente la madre a casa del suo arianissimo nuovo compagno, è probabile che non si faccia vedere in uno di quei surreali barbecue in cui si celebrano i fasti della razza bianca.

L’impressione riportata da Mc Kinley, almeno fino al tragico epilogo della sua storia, è comunque quella che la famiglia Hall fosse unita e Jeff un padre molto presente; come questo dato possa riconciliarsi con una predicazione costante di odio e intolleranza non è dato sapere. Come pure è discutibile il verdetto del professore di una scuola parificata, chiamato a valutare il giovanissimo futuro parricida, educato in casa a causa del suo iperattivismo e della sua occasionale violenza: secondo l’ispettore, l’ambiente familiare in cui cresceva il ragazzo era “caldo, amichevole e pulito”, arricchito da “attività manuali, esperimenti e giochi”.

Il ragazzo, concludeva il valutatore, “faceva progressi costanti”: visto quello che ha combinato si può forse dire che si è rivelato addirittura precoce. C’è da sperare che la cecità di questo insegnante sia un caso isolato, conseguenza di totale incompetenza, follia o corruzione. Altrimenti la libertà negli USA potrebbe avere le ore contate.

di Sara Seganti

La rete internet ha modificato, eccome, il nostro modo di consumare: le occasioni d’incontro tra venditori e compratori si sono moltiplicate, i consumatori sono più attenti e informati e le distanze si sono accorciate. Questi cambiamenti non avevano fino ad oggi, tuttavia, ancora stravolto l’atto di consumo classico, verticistico, nella relazione tra venditori e compratori, come invece è successo con l’affermazione sulla scena di forme innovative di scambio e condivisione che superano questa gerarchia.

Nonostante l’entusiasmo iniziale sulle possibilità commerciali di Internet nei primi anni ’90, la rete virtuale non era ancora riuscita a superare le dinamiche di consumo tipiche del mondo “reale”: in fondo si era limitata a perfezionarle sempre di più e questo aveva iniziato a generare più di una diffidenza. Negli ultimi anni, Internet diventa sinonimo di un consumo estremizzato, un far-west dei dati personali, dove non fidarsi è meglio e dove la monetarizzazione e la mercificazione dei rapporti diventano la norma.

I motori di ricerca tracciano identità e preferenze, i social network sono conniventi complici di questi furti di identità, tutta la rete è organizzata per mantenere memoria delle scelte di consumo con lo scopo di profilare compratori da irretire con sempre maggiore efficacia.

In questo scenario poco rassicurante, si innesta l’esplosione dei social network, accusati da molti di impoverire le relazioni umane, creando fittizie comunità virtuali composte da individui sempre più soli. Possibile che uno strumento come Internet che prometteva di rivoluzionare le nostre vite, non fosse ancora riuscito a modificare il nostro modo di consumare? Oggi questo cambiamento sembra finalmente arrivato.

Data la forma assunta dalla nostra società dei consumi e dalla netta separazione esistente tra lavoro e tempo libero, per comprendere questi fenomeni è necessario ampliare la definizione di consumatore, che non è più solo un acquirente di beni e servizi, ma è diventato a tutti gli effetti un fruitore di esperienze. E ci sono nuove comunità di consumatori di esperienze fondate sulle possibilità d’interazione orizzontale che solo la rete è in grado di generare. Sono esperienze signifcative, nel senso che la comunità virtuale diventa esperienza di senso reale, sulla base di tre principi cardine: l’affinità elettiva, la condivisione universale e il risparmio economico. Vediamo come ciò diventa possibile.

In una prima categoria, si possono elencare alcuni siti in cui si scambiano esperienze senza esborsi: servizi che normalmente si pagano diventano, qui, gratuiti e condivisi. Il couch-surfing é uno dei migliori esempi di questo passaggio dall’atto di consumo alla gratuità dello scambio. Letteralmente vuol dire "surfare sul divano" (http://www.couchsurfing.org/) e ha un sottotitolo evocativo: contribuisci anche tu a creare un mondo migliore, un divano alla volta. Si tratta di un fenomeno già esploso, che conta adesso circa 3 milioni di utenti inseriti in un network internazionale, in cui si incontrano persone che offrono e persone che cercano ospitalità. Tutto rigorosamente gratuito. Gli obbiettivi sono conoscersi, viaggiare all’interno delle comunità locali e non chiusi nei percorsi obbligati del turismo di massa.

Questo sito deve il suo successo a un ottimo sistema di profili e di feed-back: le persone si scelgono, grazie alle numerose informazioni che è possibile inserire nelle pagine personali e in virtù dei commenti che gli altri hanno lasciato. Il couch-surfing ha anche creato le sue regole di buona educazione: è gradito darsi da fare, ad esempio cucinando una cena alle persone che ti ospitano, proponendo loro specialità del tuo paese di origine. Questa forma di scambio non ha nulla a che fare con il vecchio scambio casa, perché qui la reciprocità non è binaria, ma universale: qualcun altro mi ospiterà quando ne avrò bisogno, all’interno di un cerchio di disponibilità potenzialmente infinito.

Conversation exchange  http://www.conversationexchange.com/ mette in rete chi è alla ricerca di occasioni per praticare un'altra lingua e per conoscere persone nuove, mentre il Co-working permette a chi lavora da casa di organizzarsi virtualmente per condividere, realmente, uno spazio comune e le spese.

Queste forme di condivisione sono improntate a un’etica sociale e culturale, che vede nell’aggregazione in comunità reali orientate alla collaborazione, all’apertura e all’accessibilità una risposta positiva e economica, non solo alle esigenze da soddisfare, ma anche a un più generale recupero di qualità nei rapporti con gli altri. Ancora, uno degli ultimi ritrovati in tema di alloggio è Airbnb www.airbnb.com, un sito in cui chiunque può affittare una stanza: i prezzi sono modici e anche qui, è la condivisione a essere il valore aggiunto.

Esiste poi una seconda categoria di possibilità, queste invece a pagamento, come gli house concert o la cena a casa come al ristorante. Queste sono nuove modalità di fruire dello spazio privato, che si apre a amici, conoscenti e gruppi privati per vivere esperienze collettive come un concerto dal vivo o una cena.

Tutte queste forme di consumo orizzontali e di esperienze socializzate hanno in comune l’incontro reale nel privato, generato a partire dalla comunità pubblica in rete, sulla base dei principi già citati dell’affinità elettiva, della condivisione universale e del risparmio economico. Occorre distinguere, al loro interno, i network gestiti da grandi realtà imprenditoriali e i piccoli gruppi completamente autogestiti.

Si può comunque affermare che la generazione condivisa, per prendere in prestito un termine del gergo energetico, s’indentifica in una nuova visione degli spazi di socializzazione delle città, facendo uscire le persone dal rapporto verticistico venditore di servizi/consumatore e mettendo tutti sullo stesso livello, in spazi privati senza gerarchia. Si potrebbe dare una lettura più politica di queste esperienze che, per alcuni versi, potrebbero sembrare forme di socialismo spontaneo, ma che per ora sono solo embrioni portatori di una forma innovativa di vivere nell’era di internet.

di Rosa Ana De Santis

Le proiezioni di voto sul referendum che si è tenuto in Svizzera dicono che l’80% ha respinto le richieste dell’Unione Democratica Federale e del Partito Evangelico, che volevano impedire ai non residenti di venire in Svizzera per la dolce morte. Il proposito politico al fondo di questa mossa referendaria non era solo quello di bloccare “il turismo della morte”, ma anche quello di rimettere un po’ in discussione una pratica, quella del suicidio assistito, che in Svizzera è in vigore dal 1941. Il cantone di Zurigo, di robusta tradizione liberale, non ha tentennato nel ribadirne invece la liceità e la coerenza con la tradizione culturale del paese.

Il suicidio assistito non è propriamente assimilabile all’eutanasia. Non prevede, infatti, alcuna partecipazione attiva da parte di terzi, ma una modalità di intervento puramente passivo, in cui vengono messi a disposizione alla persona che lo richiede tutti gli strumenti necessari a far cessare la propria esistenza. La differenza, che può sembrare debole e forse anche cinica rispetto ai contenuti morali della questione, è invece molto importante rispetto alle questioni legali che ne conseguono, dal momento che non è previsto alcuna azione “attiva” da parte di un sanitario o di un familiare.

Della liberalità della Svizzera godono i cittadini di molti paesi limitrofi, cui non fa eccezione l’Italia; la percentuale complessiva dei non residenti, infatti, che arrivano nel cantone elvetico per il suicidio, è aumentata negli ultimi anni. A fornire questi numeri sono l’associazione Dignitas - che assiste in Svizzera i candidati alla dolce morte - e l’associazione Exit Italia, che ha la lista di una trentina di persone partite per il cantone di Zurigo e morte lì, pagando cifre peraltro più basse di qualsiasi funerali fatto in casa.

Il turismo delle persone e dei familiari che non vogliono essere obbligati a vivere, magari di fronte e prognosi nefaste, a malattie invalidanti e croniche, può sembrare macabro e così lo percepisce una parte - minoritaria - della popolazione zurighese. Ma esso rappresenta soltanto una parte di un turismo più ampio e vario che andrebbe definito più correttamente come turismo delle “coscienze”. Quelle di tutti coloro che sono costretti a delegare allo Stato ogni facoltà decisionale sulla vita.

Quanti, ad esempio, non possono decidere della salute dei propri figli, tutte quelle donne che in Italia vedono la propria salute minata da una pratica arronzata e insidiosa come quella sottesa alla legge 40, o quanti sono costretti ad essere nutriti con un tubo naso gastrico finchè la provvidenza lo vuole.

Coloro che varcano il confine sono persone che nel proprio paese non hanno la libertà di decidere della propria esistenza e che, grazie anche a maggiori informazioni sull’argomento, possono interrompere le atroci sofferenze che vivono, addormentarsi con un potente sonnifero senza accorgersi di niente e senza provare dolore, nel conforto dei propri cari e avendo la possibilità di cambiare idea fino all’ultimo.

Quello che scuote davvero l’opinione pubblica italiana e le istituzioni che l’ammansiscono a dovere, è l’abolizione del velo dell’ipocrisia e la codificazione normativa di un’umana pietà che ogni giorno, in moltissimi hospice di malati terminali, porta tanti pazienti, in special modo quelli oncologici, a morire di morfina, magari solo con più tempo e con più dolore.

Il nodo della questione non é che tali pratiche non avvengano, ma che non siano normate né ammesse per legge, e che siano strappate alla chetichella e di nascosto, magari con l’aiuto di un medico compiacente. L’impedimento legislativo o il vuoto normativo servono non a difendere la cosiddetta “cultura della vita”, usata come una bandiera ad ogni occasione utile, ma a non insidiare  quella “cultura del dolore” che rappresenta il dna del clima culturale del paese. Quella comoda sacralità del male che ci vorrebbe tutti rassegnati e quasi onorati di avere sulle spalle la nostra croce.

Che è, alla fine, l’unico orrore culturale per il quale dovremmo avere sdegno e ripugnanza. Quello che confonde la vita con la tortura, la sua bellezza con la prigionia in un corpo. E quella che al dunque chiede a tutti, non si capisce bene il perché, di trasformare la morte in un Calvario.

 

di Giovanni Gnazzi 

Hai voglia a raccontare di acquisizioni di borsa e di marchi, di rami d’azienda o d’intere attività. Hai voglia a magnificare o stigmatizzare il volume di denaro che si muove nel mercato delle IT e nelle (mai definitivamente esplorate) frontiere del web. Ma nella zona bassa delle pagine dell’economia che discettano sulla congruità o meno della cifra pagata, troviamo notizie molto più illuminanti circa lo stato reale delle cose. Sembra, infatti, che Mark Zuckerberg, fondatore e padrone di Facebook (e di tutte le informazioni che alcuni milioni di persone gli hanno gratuitamente fornito e che ne costituiscono il patrimonio stratosferico) abbia organizzato una campagna di discredito contro Google, allo scopo di mettere in cattiva luce la società di Mountan Wiew.

Usa Today e The Daily Beast hanno prima scoperto e poi sputtanato l’operazione che, rimbalzata in meno che non si dica in Rete, ha assunto un carattere di boomerang per Zuckerberg. In sostanza, l’inchiesta giornalistica ha scoperto che i manager di Facebook hanno commisionato alla Burson and Marsteller, nota società di pubbliche relazioni di fama internazionale specializzata nella comunicazione (ha curato, tra le altre, la campagna elettorale di Hillary Clinton), un’offensiva sui media e tra i blogger più autorevoli che segnalasse e amplificasse i problemi relativi alla tutela della privacy su Google. Non che Google sia una confraternita d'imprenditori specchiati, figuriamoci, ma che Facebook accusi di scarsa tutela della privacy é divertente, prima che paradossale.

La dinamica racconta abbastanza chiaramente obiettivi, finalità e cultura ad essi relativa nel modello di competition aziendale statunitense (ma non solo). Si cerca di colpire la concorrenza e, per farlo, s’incarica una società esterna ritenendo che, proprio perché in outsourcing, il lavoro sporco difficilmente potrà essere imputato alla società. Nella peggiore delle ipotesi, si pensa, sarà evidenziata un’opera certamente persecutoria, ma frutto esclusivo della società ingagiata alla bisogna: non sarà certo il mandante a venire fuori. Niente di più sbagliato, anzi: niente di più stupido.

Perché é davvero stupido pensare che nel mondo della comunicazione globale qualcosa possa rimanere segreto ed è davvero stravagante che proprio uno dei gruppi che devono la loro fama e i loro miliardi alla circolazione orizzontale e poco controllata di dati sensibili, immagini, come per incanto, di poter tenere segrete le operazioni segrete.

Che Facebook sia l’invenzione geniale di un fanciullo cialtrone è cosa risaputa. Che la libera competizione nel mercato capitalista sia fondata sulla libera quanto legittima concorrenza è invece una bubbola consolidata. La competizione è una cosa seria, certo, ma ci sono modi diversi di farla. Quello di migliorare l’offerta dei propri prodotti, arricchendoli d’innovazione tecnologica è un modo; quello di limitarsi a gettare fango sulla concorrenza, senza economia di risorse e tempo, è un altro modo.

Vero è che tra il social network e il motore di ricerca - in principio destinati a funzioni diverse e, quindi, a non sovrapporsi nell’acquisizione del target - la guerra pubblicitaria è totale. Ma è una guerra che appare priva di senso, dal momento che nessuna delle due potrà mai competere sul terreno dell’altra. Google, del resto, ha visto scarsi risultati nel proporre il suo modello di social network (social circle).

Ma le incursioni di Montan Wiew nella telefonia, nelle news e, appunto, nel mondo dei social network, hanno evidentemente causato qualche mal di pancia a Facebook. Le due società hanno comunque un elemento in comune: la raccolta di centinaia di milioni di nomi di utenti con annesse le loro relazioni, i loro gusti, le loro propensioni al consumo, le loro idee politiche, culturali e religiose, le loro preferenze sessuali e le loro inclinazioni private in generale.

L’invenzione dei social network, in fondo, si basa su questo: sulla nostra certezza di essere soli e sul contemporaneo rifiuto di accettarlo, barando consapevolmente in un gioco dove le amicizie, spesso, sono solo virtuali. Come si trattasse di un portafoglio-clienti per un venditore, il numero degli “amici” diventa, in un gioco ipocrita, quintessenza del valore di chi li ha. E’ un trucco di cui siamo coscienti ma del quale ormai sembra di non poter fare a meno se non ci si vuole sentire out.

Paradossalmente, proprio nella società nella quale si comunica di più, si è meno informati; proprio nella Rete, paradigma per eccellenza della comunicazione orizzontale a portata di tutti, ci si sente più soli. Si sostituisce la nostra vita, intesa anche come luogo della socialità condivisa, con uno schermo.

La più grande banca dati del pianeta è il business più florido per scegliere tipologia, luoghi e risposte ai bisogni del consumatore per i prodotti e i servizi commerciali ai quattro angoli del pianeta. Il più grande esperimento (riuscito) di profilazione marketing del mondo. Le nostre ansie e le nostre paure, i nostri sogni e la nostra solitudine, persino i nostri successi e i nostri fallimenti umani diventano prodotti di marketing. Tutta merce dal valore altissimo nel mercato internazionale della raccolta dati, che rende le nostre vite trasparenti e le loro casseforti impenetrabili.

di mazzetta

Si avvicina la commercializzazione di un simpatico programmino per i cellulari intelligenti, quegli smartphone che ormai sono a tutti gli effetti dei computer portatili e che ora acquistano un nuovo superpotere. Il programmino fa una cosa molto semplice da comprendere: prende il volto di una persona che voi avete inquadrato con il telefonino e l'associa a un nome e cognome; l'ambizione del programma è che sia quella che corrisponde proprio a quel volto. Come faccia è altrettanto semplice da spiegare, almeno a grandi linee, visto che non fa altro che confrontare quel volto con le foto presenti in rete e indicizzate dai motori di ricerca, incrociandoli con i dati che trova in rete per giungere al risultato.

Niente di più di quello che fanno già i programmi simili con i monumenti, è la famosa “realtà aumentata”; solo che invece della scritta che dice che quello davanti al telefonino è San Pietro, apparirà quella con il nome della persona inquadrata e un link alle sue informazioni, già radunate e organizzate.

Si tratta sicuramente di un'innovazione che apre scenari inquietanti, anche se non mancheranno i tantissimi che ne saranno comunque sedotti e ne favoriranno l'adozione e la diffusione. Certo, nella mente di un adolescente è bellissimo pensare di inquadrare una ragazza desiderata e di ottenere seduta stante molte informazioni sul suo conto, ma appena si considera la questione dal punto di vista della ragazza, già le cose cambiano di molto.

E non solo per la ragazza: l'abilità di connettere dati sensibili senza nessuno sforzo può essere utilizzata in molti modi inquietanti, a cominciare dalla schedatura di membri delle forze dell'ordine, alla ricostruzione dell'identità e della situazione familiare di persone addette a compiti delicati (si pensi solo alle guardie giurate) per i fini delittuosi più vari. Una pacchia per i truffatori, che potranno accostare le vittime fingendo di riconoscerle e magari spacciandosi a colpo sicuro per vecchi compagni di scuola, fingere di ricordarne gli hobby o le passioni e chissà che altro.

Ma anche le conversazioni compromettenti origliate al bar potranno essere valorizzate dall'identità degli autori; l'unico limite è la fantasia, inciampare goffamente e vedere dopo pochi minuti il video dell'incidente su YouTube con il proprio nome e cognome diventerà una cosa normale anche se succede per strada alla presenza di sconosciuti.

Uno strumento potente, che non potrà mancare di trovare numerose applicazioni commerciali. Già oggi, entrando in molti negozi, un cartello vi avverte che siete ripresi da una telecamera; domani la stessa telecamera potrà trasmettere al terminale del negoziante la vostra identità, i siti che frequentate, le vostre preferenze, gli acquisti fatti in passato e persino le vostre opinioni politiche o per che squadra tenete. Una pacchia per i venditori, molto meno per i clienti e per quelli sui quali sarà usato il programmino, che si troveranno ad andare in giro esibendo inevitabilmente la chiave d'accesso al tesoro delle loro informazioni personali, a meno di non coprirsi la faccia.

Per ora, chi non ha immagini del suo volto in rete non dovrebbe temere nulla. Ma basta la foto di una festa, di una cena di lavoro, di un convegno, la foto nel profilo di un account, su Flickr o su qualsiasi pagina indicizzata dai motori di ricerca e il danno è fatto. Senza considerare che le attività commerciali avranno davvero pochi problemi a costruire archivi di nomi e volti per identificare i clienti; archivi d'enorme valore, sicuramente autorizzati a margine dei cavilli di una tessera-fedeltà. Basta che i supermercati vendano le facce dei propri clienti per ritrovarsi in un attimo con tutta la popolazione schedata da privati assetati di profitti e scambiata tra mercanti d'informazioni all'ingrosso

La fantascienza ci ha preparati a strumenti del genere, ma curiosamente gli autori li hanno sempre messi nelle mani delle forze dell'ordine, che se ne servivano per controllare l'identità delle persone fermate. Il prossimo futuro, invece, ci dice che strumenti del genere saranno nelle mani di chiunque e potranno fare molto di più, fornendo a chi li utilizza molte più informazioni. Altro che privacy, viene da chiedersi cosa rimarrà della privacy, o del diritto alla riservatezza. Forse si perderà anche il ricordo del termine.

Quella che ci aspetta è un'innovazione che rischia di modificare pesantemente i rapporti tra le persone, perché è un po' come essere costretti a girare tutti con un cartello con nome, cognome e un sacco di altre informazioni sul petto. Facile credere che a molti questa novità non piacerà, ma è altrettanto facile prevedere che quasi tutti la useranno estesamente senza grossi rimorsi accelerando la sua adozione e il perfezionamento delle macchine e delle istruzioni necessarie al loro funzionamento.

Non ci sarà un Grande Fratello a vegliare su di noi, ciascuno di noi potrà diventare il grande o piccolo fratello di chi vuole in qualsiasi momento, anche se ci saranno sempre fratelli più grossi o più fratelli di altri, e davvero non è facile immaginare ora quali effetti potrà avere sulla società del prossimo futuro una novità del genere.


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