di Vincenzo Maddaloni

Non ci sono più dubbi ormai. La Rivoluzione araba è un processo inarrestabile del quale non sappiamo né quanto durerà, né quale delle sue fasi stiamo vivendo; tuttavia possiamo intuirne gli sbocchi finali che difficilmente potrebbero essere di nostro gradimento. Beninteso, molto dipenderà dagli esiti della Rivoluzione araba, ma moltissimo dal prezzo del petrolio, che a sua volta dipende dall'Arabia Saudita, alla quale non è piaciuto il modo con il quale il presidente Barack Obama sta gestendo la crisi nordafricana.

Sicché i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita hanno raggiunto il livello più basso dai tempi della seconda guerra del Golfo, quando nel 2003 l'allora presidente americano, George W. Bush, lanciò l'invasione dell'Iraq per spodestare Saddam Hussein. Siccome oggi la principale minaccia alla sicurezza dell'America è il suo deficit, come ha ammesso il capo di stato maggiore della Difesa Mullen, se il prezzo del petrolio andasse oltre il previsto potrebbe scatenare un’ altra guerra. Naturalmente, un’altra “guerra di religione”.

Pertanto, si prospetta la minaccia di essere di nuovo coinvolti in una storia tragica come è accaduto con l’Iraq e l’Afghanistan, poiché gli Stati Uniti d'America, l’unico impero rimasto nel mondo, pur di conservare la loro egemonia economica non disdegnano il ricorso alla forza. Essi si avviluppano in una sorta di fondamentalismo che fa della dottrina Monroe ("L'America agli americani") il loro vangelo che, dopo l’11 settembre, lanciò un avvertimento al mondo intero: «Si cercherà di mantenere l’egemonia degli Usa  nel pianeta con il consenso, o con le guerre se questo diventasse necessario». Così finora è sempre accaduto, soltanto gli scenari che fanno da fondale a queste tragiche vicende sono di poco cambiati.

Infatti, se la maggior parte del petrolio del mondo non si trovasse sotto i piedi dei musulmani, sicuramente l’Occidente non si sarebbe interessato all'Islam. Sono i petroldollari che ne hanno stimolato lo studio e l’approfondimento fin da quando cadde l'Impero Ottomano. Gli Stati creati dai Paesi vincitori della Prima guerra mondiale - Iraq, Kuwait, Arabia Saudita - erano stati inventati per essere piegati agli interessi delle compagnie petrolifere. Per la gran parte del Novecento, gli interessi nazionali e delle compagnie petrolifere hanno ghettizzato l'Islam amplificando, con il sostegno dei media su scala planetaria, l’immagine di Paesi governati da ricche élites, o da dittatori brutali, con le popolazioni oppresse non tanto dai cattivi governanti, bensì dalle regole del Corano.

Dopotutto organizzare il discredito non è stato un’impresa ardua, poiché all’Islam è venuto a mancare, per secoli e secoli, ogni mediazione da parte del  cristianesimo, il quale ha dovuto percorrere una strada abbastanza lunga, piena di giri tortuosi e di contraccolpi, prima di giungere a formulare (1962 - 1965) i documenti del Vaticano II: "Dignitatis humanae" (Dichiarazione sulla libertà religiosa) e "Nostra aetate" (Dichiarazione sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane).

Sicché la ghettizzazione ideologica e politica si è ancora di più esasperata durante gli anni della guerra fredda, quando l’Urss e gli Usa usarono il mondo islamico come spazio ideale per il loro Great Game; senza tenere in alcun conto che i figli di quegli uomini che stavano subendo la loro violenza avrebbero potuto un giorno ribellarsi con altrettanto furore.

L'11 Settembre ne ha segnato per molti versi il culmine aprendo una vera crisi tra gli Stati Uniti e lo stato arabo per eccellenza, l’Arabia Saudita. Osama Bin Laden - è storia nota - apparteneva a una ricca famiglia saudita i cui affari legati a quelli degli Stati Uniti e della famiglia Bush erano ben consolidati. Quel rapporto privilegiato assieme a quelli di altri sodalizi, legati agli interessi di compagnie petrolifere come la Aramco, anzi la “Saudi Aramco”, sconsigliavano ai media occidentali di indagare sull’operato dei principi sauditi. Poi, dopo Bin Laden, la caccia s’è aperta e la stampa americana s’è riempita di giornalisti in cerca di scandali sauditi e non soltanto sauditi, poiché ogni pretesto è buono per tenere desta l’attenzione su come va “interpretata” la realtà musulmana.

A riprova di quanto l’interesse per le “cose islamiche” sia diffuso tra gli americani c’è stato qualche giorno fa il gesto inconsulto del - si fa per dire - reverendo Wayne Sapp il quale. bruciando una copia del Corano ha dato la stura in tutto il mondo musulmano a spaventose reazioni a catena che stanno facendo temere non soltanto negli Usa, ma anche nell’Europa intera, un ritorno all’epoca delle Crociate, quando l’epiteto "infedeli" designava appunto i musulmani.

Si tenga a mente che soltanto allora il crociato divenne superiore al cavaliere, una consacrazione ufficiale di grande risonanza poiché pronunciata dal pontefice Urbano II nel sermone a chiusura del Concilio di Clermont-Ferrand, che decise appunto la prima crociata (1095): «Avanzino per impegnare contro gl’infedeli una lotta giusta, che li colmerà di trofei, quanti, in altri tempi, erano soliti condurre illecitamente guerre private contro i fedeli...».

Non so se il reverendo Sapp conosca questa pagina di Storia sebbene si dichiari un crociato del Ventunesimo secolo; certo è che, con il suo protagonismo isterico, ha ricordato al mondo il primato della religiosità detenuto dagli Stati Uniti, dove il novanta per cento della popolazione si dichiara credente nel divino e il settanta per cento nell'esistenza degli angeli, come rivelano i sondaggi. Infatti, l'America dei bianchi - è storia nota - si divide tra le molte Chiese e le molte Sette e tutti fanno a gara a chi è il più bigotto. Tant’è che il Washington Post (a caccia di copie) ha scavato a lungo nel mistero dell’Obama-musulmano, la leggenda cui credono oltre il vento per cento degli americani.

Se così tanti suoi concittadini ignorano la vera religione del presidente, è perché Obama è il primo leader, da tanto tempo, a praticare la propria fede quasi di nascosto. Non lo si vede ripreso in tv tutte le domeniche in chiesa con il suo pastore. Forse è stata una scelta inevitabile dopo che i suoi rapporti col reverendo Wright (un pastore dai toni molto radicali nel denunciare il razzismo dei bianchi, (nella foto a lato col presidente Obama) lo inguaiarono in campagna elettorale.

Certamente il fatto che la sua religiosità non sia “esibita” sui mass media gli nuoce. Il clamore mediatico invece ha avuto una resa redditizia per il reverendo Sapp  e pure per il fondamentalista Terry Jones, un altro bigotto “super” che lo scorso 20 marzo, nella sua sperduta chiesetta in Florida, ha organizzato addirittura un "processo al Corano".

Basta questo rapido sorvolo sull’America e sugli americani per trovare la conferma di quanto l’Europa teme: anche stavolta sugli sbocchi finali della Rivoluzione araba molto dipenderà dalle decisioni di Washington. Come se l’Europa, pur avendo i musulmani in casa, non esistesse o meglio come se fosse condannata in eterno a trascinarsi dietro agli americani. Beninteso, questo aveva un senso quando nel mondo diviso in due blocchi quello capitalista aveva riconosciuto la leadership agli Stati Uniti d’America. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e la conversione della Cina al capitalismo economico, la dipendenza non avrebbe più senso.

Eppure, benché siano passati due decenni dalla caduta dell’Urss e poco meno dalla conversione cinese, noi Europa stentiamo a formulare una politica che tenga in maggior conto la nostra realtà e quella vicina che ci circonda. Sicuramente per due motivi: primo, perché (fortunatamente) non abbiamo una dottrina Monroe da riaffermare. Secondo, perché del mondo musulmano conosciamo poco o niente, o meglio, siamo pervasi dai luoghi comuni nella diffusione dei quali i bigotti, appunto, hanno giuocato una grande parte.

Eppure agli occhi dei contemporanei di Carlo Magno, il mondo degli arabi aveva uno splendore da racconto di fate; era entrato nella leggenda con Harun el Rashid, il califfo abbaside di Bagdad. Il che ci porta a distinguere gli arabi e la civiltà araba. I primi sono vivaci, intelligenti, ricettivi, assimilatori. La seconda è opera tanto di arabi che di siriani, persiani, spagnoli, mozarabi, ebrei. Ma soltanto gli arabi sono stati i grandi intermediari. Si sono aperti all’ellenismo e ci hanno riportato Aristotele. E’ giusto e importante ricordarlo, adesso più di prima, perché grande, tragico, avvilente, è il frastuono che ci circonda.

di Rosa Ana De Santis

Carlo Saturno, 22 anni, è morto in rianimazione dopo esser rimasto appeso per mezz’ora ad un lenzuolo legato al letto a castello della sua cella,  nel carcere di Bari. Un’altra impiccagione strana, per la quale la sua famiglia ora chiede spiegazioni. Carlo era testimone d’accusa in un processo contro nove agenti di polizia penitenziaria, accusati di sevizie e violenze ai danni di alcuni ragazzi dell’Istituto Minorile dove anche Carlo era stato detenuto. A giorni avrebbe dovuto testimoniare e la coincidenza accende più di qualche sospetto, soprattutto perché il giorno prima del suicidio Carlo era stato picchiato e messo in isolamento, dopo essersi ribellato ad un cambio di padiglione.

Dal carcere dicono che avrebbe fratturato il polso ad un agente, ma è tutto da dimostrare, soprattutto perché gli agenti erano due. E’ stata subito aperta un’inchiesta dal capo del Dipartimento della polizia penitenziaria, Franco Ionta, e l’Associazione Antigone ha già preso in carico il caso auspicando notizie chiare dall’autopsia e delucidazioni su tutto il caso dal momento che un ragazzo finito in carcere per furto,  si è ritrovato in isolamento e poco dopo moribondo in rianimazione.

La vita di Carlo, fatta di espedienti e di violenze, poteva trasformarsi in una testimonianza fondamentale sui misfatti subiti, dando un quadro importante di cosa avvenga davvero nelle carceri italiane e addirittura negli istituti minorili; è stata invece stroncata con un suicidio, con un’istigazione al suicidio o con qualcosa di peggio. Una vittima facile, come facile è stato liberarsi di Stefano Cucchi, per la cui morte proprio in questi giorni si celebra il processo. Il presidente della regione, Nichi Vendola, incontrando i familiari di Carlo e riferendosi a numerosi casi sospetti avvenuti nelle carceri italiane, parla di “pena di morte a bassa intensità”.

Non ci sono soltanto le morti strane, come quella di Carlo Saturno, ma ci sono situazioni di degrado e di invivibilità dietro le sbarre, dove esplode la popolazione carceraria e gli agenti sono sotto organico; il silenzio del Ministro Alfano, in altre vicende impegnato, è gravissimo. Un ragazzo giovane come Carlo che poteva essere rieducato e riabilitato, che manifestava voglia di tornare a scuola e riprendere agli studi e che aveva già tentato di togliersi la vita, invece di essere seguito con particolare sorveglianza, è stato lasciato agonizzante per mezz’ora.

Sono tanti i morti di carcere, per i quali ad oggi manca verità e giustizia. I casi più celebri, riaffiorati alla cronaca dopo la vicenda Cucchi e il giusto clamore sollevato dalla famiglia, sono quelli di Marcello Lonzi, 29 anni, morto nel penitenziario delle Sughere nel 2003, Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto nel 2007 dopo esser stato arrestato con sua moglie e ritrovato con milza e fegato lesionati e costole rotte. Poi l’altro strano suicidio di Carmelo Castro, di soli 19 anni,  morto in carcere il 28 marzo 2009.

Muoiono sempre testimoni importanti che possano mostrare i comportamenti dei poliziotti e dei secondini giustizieri. Era accaduto anche a Uzoma Emeka, nigeriano di 32 anni, testimone chiave del processo di Teramo sui pestaggi ai danni dei detenuti. Un tumore al cervello nel 2009 l’avrebbe sorpreso sotto la doccia. I casi di Giuseppe Uva e Federico Aldovrandi mostrano la stessa faccia crudele degli uomini in divisa, prima ancora di entrare in carcere. Giuseppe Uva in caserma e Federico per strada. E la lista, di chissà quanti anonimi e sconosciuti, soprattutto se stranieri, è ancora lunga.

In questi giorni continua lo sciopero delle agenti del carcere di Rebibbia, in protesta per l’ingestibile situazione di collasso generale. L’idea che il Ministro della Giustizia sia impegnato a tempo pieno a intrattenere il Parlamento con il processo breve e con l’inseguimento disperato dell’immunità del premier restituisce alla società civile un’insopportabile sensazione di abbandono.  Il silenzio delle Istituzioni sulle emergenze democratiche del nostro paese, non da ultimo quella carceraria, non è nemmeno più una notizia, né una conseguenza pericolosa. L’ingiustizia e gli abusi sono ormai la normalità.

di Cinzia Frassi

Si è aperto pochi giorni fa, davanti alla terza Corte d'Assise del Tribunale di Roma, il processo per la morte di Stefano Cucchi, 31 anni, fermato il 15 ottobre 2009 per detenzione di sostanze stupefacenti e deceduto una settimana dopo all'ospedale Sandro Pertini di Roma. "Riguardandomi indietro è una grande cosa che il processo sia iniziato. Per noi è difficile essere qui a ricordare quanto è accaduto. Soprattutto perché siamo convinti che la verità é ancora lontana". Questa è una breve dichiarazione della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, a conclusione della prima udienza. Accanto a lei in aula i genitori di Stefano. Tutta la famiglia si era già costituita parte civile. Gli altri ammessi sono il Comune di Roma e la Onlus “tribunale dei diritti del malato-cittadinanza attiva”.

La verità è lontana. Lo dice perché il processo parte da presupposti diversi da quelli che si aspettava lei stessa. Si contesta la versione del pestaggio per far pagare il conto esclusivamente ai sanitari. Di più: secondo la famiglia la gravità di quanto accaduto non si rispecchia nei capi di imputazione. Sembra che Stefano Cucchi sia stato picchiato dalla polizia penitenziaria proprio mentre attendeva l'udienza di convalida nei sotterranei della Cittadella giudiziaria di Roma.

"Quando Stefano Cucchi è giunto in carcere aveva già lesioni gravi". Questo quanto in sostanza hanno dichiarato i medici dell'istituto penitenziario Regina Coeli di Roma, che visitarono Stefano Cucchi al momento del suo ingresso in carcere, il 16 ottobre ed è proprio ciò che dichiarano davanti ad Ignazio Marino, a capo della commissione d'inchiesta sul caso Cucchi. Sembra che successivamente Stefano avesse rifiutato cure e indagini strumentali e che chiedesse di essere dimesso, tanto che sarebbe sua la firma sul foglio di dimissioni. Non è stata invece ritenuta attendibile, nella fase preliminare, la versione del compagno di cella di Cucchi, un tunisino che fa avere una ricostruzione differente: "Mi hanno ammazzato di botte i carabinieri: me le hanno date tutta la notte", avrebbe detto Stefano al suo compagno di cella.

Queste e altre testimonianze verranno sentite ora davanti alla Corte di Assise di Roma, presieduta da Evelina Canale, e sicuramente faranno discutere. Il processo non si svolgerà a porte chiuse, sono ammessi quindi anche giornalisti, ma non sono state ammesse le telecamere. Verrà anche sentita la testimonianza di una volontaria che sembra avesse parlato con Cucchi durante il suo ricovero nella struttura protetta del Pertini.

Non solo: il pm Francesca Loy sostiene che durante le indagini alcune persone avrebbero messo in atto veri e propri depistaggi. Questi sarebbero coloro che accusarono i carabinieri di aver picchiato Stefano subito dopo il fermo. Verranno anche mostrate alla corte alcune foto scattate prima dell'autopsia che servirebbero per accertare le condizioni di Stefano durante il ricovero al Pertini. La Corte si è riservata di decidere se acquisire o meno queste fotografie.

In tutti questi mesi, fin dalla morte del giovane Stefano, l'attenzione dell'opinione pubblica non ha mai perso di vista questo caso, portato all'attenzione della cronaca anche grazie alla tenacia della famiglia che non ha mai creduto che la morte di Stefano fosse sopraggiunta a causa di una misteriosa malattia bensì per essere stato picchiato e abbandonato a se stesso per giorni.

Ricordiamo che nell'aula bunker del carcere di Rebibbia ci saranno tutti e 12 gli imputati che il 25 gennaio scorso sono stati rinviati a giudizio per la morte del giovane Stefano: i sei medici dell'Ospedale Pertini, Aldo Fierro, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, rinviati a giudizio con l'accusa di abbandono di incapace; Rosaria Caponetti, dirigente medico del Pertini, per abuso d'ufficio e falso ideologico; e ancora per abbandono di persona incapace, i tre infermieri, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; le tre guardie carcerarie, Antonio Domenici, Nicola Minichini e Corrado Santantonio , per lesioni personali e abuso di autorità.

Pare una vicenda oscura, misteriosa. Un ragazzo viene fermato per detenzione di sostanze stupefacenti e sei giorni dopo muore. Chi dice che è entrato in carcere già con lesioni sul corpo, quelle riscontrate dall'autopsia, chi dice che è stato picchiato dalla polizia penitenziaria, chi dai carabinieri. Fatto sta che fa la spola dal Fatebenefratelli al Pertini, dove muore. Qualcosa tuttavia si è già riscontrato tanto che Claudio Marchiandi, funzinario del Prap, il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, si è guadagnato una condanna a due anni con rito abbreviato.

Nelle motivazioni della sentenza, il gup Rosalba Liso scrive chiaramente che Stefano "doveva essere necessariamente internato" al Pertini per "evitare che soggetti estranei all'amministrazione penitenziaria prendessero cognizione delle tragiche condizioni in cui era stato ridotto" e che tutto "venisse portato a conoscenza dell'autorità giudiziaria". In questo modo sarebbe rimasto "al riparo da sguardi indiscreti" e sottratto "intenzionalmente a tutte le cure di cui aveva bisogno". Secondo il gup, Marchiandi abusò delle proprie funzioni di pubblico ufficiale, e arrivò a imporre il ricovero di Cucchi al Pertini presentandosi fuori dal turno di lavoro, di sabato pomeriggio, proprio per riuscire ad ottenere l'ingresso di Cucchi in un reparto in cui non doveva stare, date le sue gravi condizioni.

Si legge ancora che "le condizioni fisiche di Stefano erano palpabili e visibili a ciascuno, erano ben note nel contesto della polizia penitenziaria per la pluralità di soggetti che l'avevano visto ed accompagnato. Non c'era spazio a dubbi di sorta in ordine al fatto che Stefano fosse stato picchiato". Molti i punti oscuri di questa drammatica vicenda che fin dall'inizio ha riportato all'attenzione di tutti i casi di decesso in carcere o in situazioni analoghe, in caso di fermo o di arresto per esempio. Secondo l'Osservatorio permanente sulle morti in carcere, composto da Radicali Italiani, Associazione Il Detenuto Ignoto, Associazione Antigone, Associazione A Buon Diritto, Redazione Radiocarcere, Redazione Ristretti Orizzonti, "lo scorso anno per “cause naturali” sono morti 107 detenuti, la loro età media era di 39 anni: 73 casi sono stati archiviati senza alcuna ulteriore indagine, dopo che dalle ispezioni cadaveriche non erano risultati segni di violenza e classificati come decessi causati da malattia. Nei restanti 34 casi è stata avviata un'inchiesta giudiziaria, con ipotesi di reato di varia gravità.

La prossima udienza è fissata per il 28 aprile quando per prima cosa verranno sentiti i carabinieri che fermarono Stefano Cucchi per droga. Il caso Cucchi "è connotato da indubbia gravità poiché s’inserisce in un contesto di generale malcostume sociale e di omertà che, proprio per la passività e la rassegnazione con la quale vengono attualmente vengono vissute dai cittadini, apparirebbe determinato da mera leggerezza, mentre disvela una condotta allarmante. Stefano era nelle mani dello Stato e nelle mani dello Stato è deceduto".

Così le conclusioni della sentenza scritta dal gup e che centra probabilmente il punto oscuro di questa vicenda: malconsutme sociale, omertà, condotta allarmante. Staremo a vedere se il giudice del processo sarà dello stesso avviso.

 

 

di Vincenzo Maddaloni

La terapia è per un corpo, non per l’essere umano che si attende di essere trattato con rispetto perché ammalato. A grandi linee questo è l’approccio che il medico dovrebbe avere con il paziente nell’ospedale modello azienda, che marcia con i ritmi e i disagi della catena di montaggio. La Sanità viaggia su quest’unico binario ormai. Beninteso l’immagine è triste, ma rende bene l’idea di quello che si sta diffondendo anche in Italia. Molto influisce la mentalità dei giovani medici, i quali trovano normale la cura del paziente fatta con i protocolli terapeutici e con gli automatismi feroci, da catena di montaggio appunto.

Infatti, ci sarebbe quasi da sorridere se l'appello non fosse dei più autorevoli e non fosse apparso sul bicentenario (1812) The New England Journal of Medicine. La premessa è d’obbligo perché l’appello-denuncia pubblicato sulla rivista edita dalla Massachusetts Medical Society, avalla una svolta epocale. (http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1012691 )

E’ un richiamo forte a tutta la classe medica invitandola al risparmio e quindi a non affidarsi più soltanto alle tecnologie come s’è fatto finora, ma ad impegnarsi nella rivalutazione delle diagnosi che si basano sull’esperienza accumulata e sulle terapie tutte tese a contenere gli sprechi e a limitare gli interventi che sovente - si ritiene - siano eccessivi e incredibilmente costosi. Pertanto - è scritto - d’ora in avanti saranno riformulati i programmi di studio universitari di avviamento alla professione medica proprio sulla base della nuova svolta perché - si sottolinea - se non si interviene subito c’è il rischio di non riuscire più ad assicurare l’assistenza sanitaria alle future generazioni.

Infine, si ammette che negli Stati Uniti la sanità costa troppo e i risultati sono contraddittori, ragion per cui c’è una ragione in più e certamente valida per una revisione dei corsi di studio che preparano i nuovi medici. Naturalmente gli articolisti si dilungano con cifre, esempi e citazioni per dimostrare che in fatto di tecnologia e di know-how sanitario gli americani sono a tutt’oggi i primi al mondo, ma l’appello-denuncia resta.

Dopo tutto l’articolo non è stato scritto per attirare lettori, per “fare  scandalo” come accadrebbe dalle nostre parti. Al contrario, esso è stato sottoposto alla revisione paritaria (peer review) prima di essere pubblicato. Il che vuol dire che è stato valutato da un’équipe di specialisti del settore incaricati a verificarne la validità.  Insomma, la peer review, nata con i periodici scientifici di spessore come lo è appunto The New England Journal of Medicine, «ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo della conoscenza scientifica nella società moderna», come sostengono gli esperti.

Se non fosse così probabilmente non si sarebbe sbilanciato il professor Sean Palfrey titolare della cattedra di pediatria alla Boston University School of Medicine, che qualche giorno fa, sul medesimo periodico, è tornato sul tema con un articolo dal titolo  esplicito: “Il coraggio di esercitare la medicina a basso costo nell’ epoca dell’High-Tech”. http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1101392 . In esso il professore si lamenta perché negli ultimi tempi i suoi studenti invece di fare pratica spendono gran parte del loro tempo a cercare le risposte nel computer come mai gli era accaduto di vedere nella sua esperienza trentennale d’insegnante.

Spiega che ormai è abitudine diffusa tra i pediatri di affidarsi a questa o a quella pillola o meglio a tutte le novità che escono ogni giorno sul mercato, con il risultato di mandare allo sfascio le finanze del sistema sanitario americano. Ma una ragione c’è spiega il professore. E’ la paura folle dei medici di formulare una diagnosi perché: «Ogni volta, ci sentiamo giudicati da tutti: dai nostri colleghi, dai nostri pazienti, dal sistema sanitario, dagli avvocati e naturalmente dai tribunali». E quindi se non si allenta la pressione sui medici, la bancarotta travolgerà il sistema sanitario americano. Pertanto: «Ogni addetto alla sanità deve concentrarsi sui modi per ottimizzare la salute e ridurre i costi, in ogni fase del processo», raccomanda il professore. E invoca: «I docenti devono diffondere la fiducia, raccomandando agli studenti di soffermarsi sulle terapie basate sull’ esperienza, e all’insegna della frugalità. Infine sollecitandoli a consultarsi con i clinici più esperti prima di prescrivere un test o di iniziare un nuovo trattamento».

Da quando è uscito quest’articolo non c’è giorno o quasi che il “The New England Journal of Medicine” http://www.nejm.org/search?q=Perspective non richiami l’argomento, per tenere allertata la casta dei medici e tramite essa far arrivare il messaggio alla popolazione prima di coinvolgere la politica. Dopo tutto - si tenga a mente - l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti è poco pubblica e moltissimo privata. Tuttavia poiché la Sanità aziendalizzata non prevede dei distinguo al riguardo l’esempio americano continua a far scuola in tutto il mondo dei paesi ricchi. Infatti, non c’è Paese in Europa che non ne sia rimasto contagiato. Occhio ai giovani, dunque, perché su di essi si fonda il futuro del modello. E dunque, i giovani medici come ragionano, con quali processi mentali arrivano a formulare una diagnosi, a prescrivere una terapia?

Se lo è chiesto su The Lancet, (un altro giornale scientifico, meno di ricerca e più di medicina pratica), Jerome Kassirer, l'ex direttore del New England Journal of Medicine. Anche lui, come il pediatra Palfrey, ha il timore che la facilità di accesso a risposte preconfezionate a quesiti clinici possano avere degli effetti indesiderati. «In medicina il ragionamento richiede una enorme conoscenza di fatti sulla salute e sulla malattia, in materia di fisiologia, di benefici e rischi legati ai test e ai trattamenti», spiega Kassier. «Non basta - continua il direttore di Lancet - aver imparato a risolvere problemi e a prendere decisioni, e non basta neanche sapere trovare informazioni; è anche necessario ricordare le informazioni e sapere come usarle.

Dobbiamo evitare di produrre professionisti dipendenti da superficiali riassunti elettronici, formule opache e pareri di esperti. Devono essere in grado di ragionare in modo autonomo». Dopo tutto quel che sostiene Kassirer è che, nel ragionamento clinico, il vecchio e il nuovo devono raggiungere una nuova sintesi. Facile da dire, ma meno facile da applicare.

In effetti girando tra le corsie degli ospedali in Italia ci si sorprende a notare quante siano le nuove leve. Poi si scopre che molti sono medici assunti con contratti non a tempo indeterminato, trattenuti con borse di studio fantasiosamente racimolate dai responsabili dei reparti, o al lavoro talvolta nelle vesti di semivolontariato. «Bravissimi, forse, ma certamente non così esperti da reggere l'impatto dell'abbassamento del livello di esperienza dei loro ex colleghi e maestri più anziani. Immaginatevi le conseguenze sul piano assistenziale: visite più brevi, stress, aumento delle possibilità di errori diagnostici, diminuzione del tempo e quindi anche della qualità del rapporto tra medici e pazienti», denuncia lo psichiatra Franco La Spina. E quindi un rapporto regolato - come detto - da automatismi feroci, dove siccome tutto si svolge in fretta ed è stravolto «da nuove, terrificanti, burocrazie», non ci si capisce molto.

Si aggiunga pure che lo scenario soffre del forte disinteresse dei Media più attenti all’industria farmaceutica che li irrora di pubblicità. Naturalmente, soffre del disinteresse dei tantissimi che non vi si sentono coinvolti perché convinti che mai qualcosa di terribile, come cancro o infarto, possa loro accadere; perché pervasi della protettiva incoscienza del pericolo che caratterizza ogni persona.  Insomma, «medici e malati - come proclamava Michel Foucault - vengono tollerati come altrettante perturbazioni difficilmente evitabili…». Quasi fossero un fastidio. Eppure non deve essere così, anzi non dovrebbe esserlo proprio. E’ ora di cambiare mentalità, i giovani medici per primi.

 

 

 

di Vincenzo Maddaloni

Pare non ci debba essere altra alternativa, perché non c’è giorno che non si sia travolti da un’offensiva mediatica che falsa i fatti per sostenere l’immagine di un mondo diviso in due, ciascuno alternativo e incomunicabile all’altro, sotto la minaccia ora dell’incubo nucleare, ora dell’invasione dei profughi africani, ora dello strapotere della Cina destinata a diventare il numero uno mondiale e via continuando.

Se questo è lo scenario allestito dai media c’è poco da stupirsi di fronte all’apatia di quella vasta parte della società civile che fino all’altro ieri era decisa a lottare per i cambiamenti. Poiché nemmeno quanto sta accadendo da qualche tempo a questa parte sull’altra sponda del Mediterraneo, nel Maghreb, ha offerto lo spunto alle forze progressiste di lanciare una proposta nuova.

Insomma, da troppo tempo si avverte il bisogno di un intervento coraggioso e peraltro originale, capace di avviare un rinnovamento vero. Siccome bisogna pur sempre tenere sott’occhio il mondo poiché facciamo parte della società mondiale, una proposta politica nuova per forza di cose deve tener della realtà globale, al fine di offrire un progetto di riforme inteso non più come modello precostituito di giudizi sulla realtà interna, bensì come processo di analisi politica attenta ai mutamenti socio-economici di un orizzonte vasto. Con il risultato di offrire un progetto politico valido nel quale la società civile possa, ritrovandosi, nuovamente sperare.

Penso che sia ancora un ricordo recente la forte indignazione e la riprovazione che produssero le dichiarazioni di Berlusconi sull’arretratezza dell’Islam, dovute più all’ignoranza storica che alla consapevolezza dell’insulto. Da quando le pronunciò lo scenario in Medio Oriente si è degenerato. Possibile che per le menti che ogni giorno si ripropongono per l’alternativa non ci sia stato un momento di pausa per un minimo di approfondimento, per cercare uno spunto originale, non dico per il risolvere il problema, ma almeno per insinuare il dubbio, stimolare una sorta di resipiscenza, fare un tentativo cercando, per esempio, di guardare il mondo dalla parte dei musulmani? Insomma, quanto basta per correggere il tiro e dimostrare con fatti concreti perché la pensiamo diversamente dagli americani?

Dopotutto, questa politica di aggressione economica e militare che Obama non ha sconfessato, nasce dalle deformazioni del capitalismo che è nato in Europa, e vi si è sviluppato nei secoli. Di qui si è esteso al resto del mondo, anzi questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale. Sicché davanti agli occhi di milioni di musulmani, non soltanto di quelli maghrebini, si dipana un Occidente in larga parte incomprensibile. Poiché quelle società non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, bensì per la loro conservazione, per tutelare quell’equilibrio tra le diverse forze sociali che  l’impegno religioso sovrintende e regola.

Si tenga a mente che nel Corano, il sacro testo di riferimento per ogni musulmano, l’uomo è visto nelle sue realtà. Non è il buono per natura, come sosteneva Rousseau, è invece un essere debole, instabile, inaffidabile. Però non è per i musulmani un “corrotto per natura”, come sostengono sant’Agostino e i principali protagonisti della Riforma. Egli è per i musulmani creatura, segno di Dio, e in quanto tale può rivolgersi in qualsiasi momento - senza mediatori e “Chiese” - a quel Dio “misericordioso” che gli concede la grazia o il perdono dei peccati.

Cosicché se la “famiglia” inculca nei figli i valori della solidarietà, della gentilezza, della tolleranza e della comprensione, essa opera perché crede che così facendo si realizzi il contesto ideale allo sviluppo della serena convivenza umana. Ecco perché «la fede, la pratica e l'educazione religiosa dei genitori e della prole hanno grande importanza nell'Islam, tutto il sistema dei rapporti familiari e' influenzato da esse» , come avvertono i sacri testi.

Tuttavia, le diverse interpretazioni delle regole coraniche hanno prodotto, negli ultimi tre decenni, una frammentazione che ha evidenziato i confini tra sunniti, sciiti, waabiti, kharjti, zayditi, drusi, e le varie sotto-sette dei deserti. Non sono riapparse soltanto profonde separazioni dottrinarie, ma anche ideologiche, poiché l’Islam contemporaneo non è soltanto teologia, ma è rinato per mille motivi come ideologia politico-sociale. Tutto si è messo in movimento con immediati spostamenti di frontiere: coinvolgendo diverse interpretazioni del dogma, dell’idea di Stato, di «risveglio» come rilancio del tradizionalismo o come irredentismo legato alla nozione di progresso.

Tutto questo ha ridisegnato, esasperandole, le vecchie frontiere etniche fra arabi e non arabi; fra arabi, turchi, persiani. A guardar bene, la Libia stessa costituisce una peculiarità nel panorama generale, essendo essa un complesso incrocio di culture arabe, berbere e africane. Storicamente le tribù dell'est del paese sono state spesso discriminate dai diversi poteri che si sono succeduti nella storia di quella regione.

E siccome il forte spirito di rivalità tra gruppi si definisce territorialmente, così si spiega il perché del conflitto fra Bengasi e Tripoli. Queste realtà, il Veltroni che invita a scendere in piazza a fianco dei “patrioti libici” e si rammarica perché pochi gli si accodano, le conosce? O parla “tantoperparlà”, come usa dire?

Poiché anche nella società musulmana, tra i ceti più evoluti, oggi si scorgono le tracce dell’ansia che tormenta l’Occidente. Pertanto in molti, anche degli appartenenti al clero, si stanno chiedendo se è più opportuna una limitata laicizzazione del mondo islamico con una totale separazione della sfera politica da quella religiosa come viene invocata, per esempio, da più parti in Iran, in modo da poter reggere il confronto con il secolarismo ideologico con il quale il consumismo s’accompagna. E’ naturale che il processo di modernizzazione occidentale così come appare loro alla televisione, sui giornali li intimorisca, la minaccia dello sfascio della famiglia li sgomenti.

Se non si tengono a mente questi scenari  non si riesce a capire quel che veramente ci accade intorno e di conseguenza ricavarne degli spunti validi in questo cambio d’epoca che ci sta attraversando e che ci porta a una transizione inevitabile verso una società molto diversa rispetto a quella in cui viviamo. Sicché il compito prioritario di chi si propone come “Forza del cambiamento” è imparare ad ascoltare. E poi può parlare, e poi può manifestare.


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