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di Rosa Ana De Santis
Una processione di dame e cavalieri quella che dalle 9.30 del mattino ha sfilato nell’abbazia di Westminster. I cappelli e le bombette, colorati e carichi di decorazioni tradizionali e glamour, sono la nota di colore, il vezzo più divertente nelle scurissime e acute volte dell’abbazia. Gli invitati sono 1.900 e 8.000 i giornalisti attaccati alla cronaca di questo giorno. Londra freme, le famiglie sono in piazza con la bandiera dipinta sul volto dei propri figli. La folla delle persone comuni ricorda il giorno delle nozze lontanissime di Carlo e Diana, o quello del passaggio del feretro della giovane Lady D.: un tappeto festante di bandierine per questo immancabile appuntamento.
Il premier Cameron ha deciso di concedere agli inglesi un giorno di festa nazionale e il matrimonio dei rampolli, in barba a ogni incredulità e polemica, diventa un evento tutto nazional-popolare. Del resto l’adorazione per la regina, la venerazione della monarchia è inscritta nella genetica inglese e non confligge affatto con quei principi di vita democratica e di autentico liberalismo che hanno fatto grande la storia dell’Inghilterra.
Difficile da capire per chi viene da storie repubblicane. Ma questo è il ritratto dell’Inghilterra che aspetta le nozze dell’erede al trono e della ragazza comune che i rotocalchi hanno descritto come la contemporanea Cenerentola, perché proveniente da una ricca famiglia borghese, sprovvista di sangue blu, ma con milioni di sterline in tasca.
Il matrimonio è stato tutto, finora, tranne che un evento romantico. Un affare da milioni di euro, un giro impressionante e tutto turistico di gadget e souvenir da cui guadagnerà anche la famiglia della sposa. La cerimonia sarebbe costata tra i 320.000 e gli 800.000 dollari. 67.000 dollari solo per l’accoglienza e l’alloggio in hotel degli invitati. Cifre astronomiche anche per l’abito di Kate Middleton.
Non c’è traccia di quelle nozze semplici che i due ragazzi avevano annunciato e dalle casse dello Stato saranno presi almeno 20 milioni di sterline (costa tanto la colazione per 600 persone offerta dalla regina e il rinfresco offerto da Carlo): una mossa difficile da digerire in un clima di tagli e di austerity.
Ma il matrimonio è diventato in questo modo la favola che tutti volevano, a partire da Kate, che non ha rinunciato a lussi e sfarzi. I due rampolli, figli di un privilegio immeritato, caduto dal cielo per Kate e dalla discendenza per William, coronano il sogno d’amore di un fidanzamento non privo di gossip, riscattandolo da tutta quella normale semplicità che per molto tempo hanno rivendicato.
Nei giorni precedenti al wedding day, le copertine si sono accanite alla ricerca di somiglianze con l’amata Diana. Ed è proprio lei l’assenza che si fa sentire, che riempie lo sguardo di tutti e ogni passaggio della cerimonia. La principessa triste, la mamma di William ed Herry, è stata ancora una volta la protagonista invisibile dei ricordi e delle cronache. Insuperabile nel carisma e nel fascino malinconico del viso, che sembrava imbrigliato e sofferente già in quel lontano giorno delle nozze con Carlo.
Kate, elegante e composta, sembra essere più a suo agio e più pronta alla ritualità della corte. Emozionata, quasi priva di affettuosità, irrigidita nella magrissima ed elegante silhouette, per conquistare il cuore degli inglesi le servirà molto di più che attenzione e cura nel look “semplice” su cui dimostra tanta accortezza. La borghese, senza sangue blu, non stona di una virgola nella scenografia e quell’anello di Lady D, unico risparmio di tutta la cerimonia, che William le ha donato in un atto simbolico di grande trasporto emotivo, non farà di Kate, non immediatamente almeno, una sostituta della principessa Diana.
Anche se farebbe un gran comodo alla regina che con questa fanciulla dalle umili origini, sovrapposta dalla stampa all’icona di Lady D, ha la sua unica chance di rimediare al discredito e alle ombre che la storia di Diana e la sua tragica fine hanno lasciato sulla famiglia reale. La tanta, tantissima gente comune che oggi circonda le nozze del secolo è la testimonianza che l’amore per i reali non è affatto spento, ne è mai stato una vuota formalità da riporre in archivio.
I due giovani sposi pare abbiano deciso di andare a vivere in un’isoletta del Galles, vicino alla base militare in cui presta servizio William. Non sarà quindi Buckingham Palace e neanche il Castello di Windsor la loro prima dimora. Prima o poi le porte di una residenza reale si apriranno, soprattutto in vista di pargoli, e per Kate inizierà la difficile mediazione tra la semplicità rivendicata (forse troppo) di una ex ragazza comune e le regole della regina Elisabetta.
Le indiscrezioni sul contratto prematrimoniale non lasciano presagire nulla di buono. Sembra infatti che in caso di rottura la povera Kate sarà messa nelle condizioni di non poter far nulla di quello che Diana fece, guadagnandosi l’amore popolare e rivelando qualche segreto di Palazzo di troppo. Kate, la protagonista di questa favola, rimarrebbe infatti, proprio come Cenerentola, in una bella zucca che fu carrozza solo dentro al sogno. Perché questo è quello che ha vissuto Londra, fuori dal tempo e forse da ogni logica comprensione.
La favola, che sembra uscita da un libro di storia, è andata come doveva andare. Solo una persona avrebbe potuto rompere l’incantesimo e restituire alle nozze una traccia di umana modernità e qualche gustoso imbarazzo alla regina. Ma Diana non c’è più e l’anello che fu suo, immortalato al dito di Kate nei chili di foto patinate, non può offendere nessuno. Nemmeno Elisabetta che è la vera regina Vittoria di questa favola.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Dal Giugno 2010, Apple ha aggiunto una nuova, apparentemente insignificante clausola alle direttive per la protezione dei dati dei suoi prodotti. Oltre a riconoscersi il diritto di salvare informazioni precise “sui luoghi in cui si trovano i propri computer o apparecchi in tempo reale”, il gruppo informatico si concede anche la facoltà di utilizzare anonimamente i dati in questione e di trasmetterli ad altri.
A rendere noto il volume effettivo dei dati raccolti da Apple e la gravità della situazione ci hanno pensato Alasdair Allan e Pete Warden, due informatici inglesi che hanno dimostrato la facilità con cui chiunque può accedere a tali informazioni, salvate senza l’autorizzazione consapevole dell’individuo e che dovrebbero, teoricamente, appartenere alla sua memoria.
Durante la recente conferenza Where 2.0, tenutasi a santa Clara, negli Stati Uniti, Allan e Warden hanno dimostrato che, dall’acquisto, iPhone registra regolarmente nelle sue cartelle ogni singolo spostamento del proprietario e, durante la cosiddetta “sincronizzazione” tramite iTunes, passa le informazioni al computer collegato, dove vengono registrate per la seconda volta senza protezione alcuna. Da questo momento in poi, le informazioni su tutti gli spostamenti di iPhone (e rispettivo proprietario) sono accessibili a chiunque utilizzi il computer e conosca un minimo di web 2.0, il mondo dei software scaricabili dalla rete.
Perché per tracciare il profilo completo degli spostamenti di un iPhone servono delle conoscenze informatiche di base, ma non serve certo essere degli hacker. Allan e Warden, i due informatici inglesi in questione, hanno sviluppato un software in grado di tracciare in pochi minuti i movimenti di un qualsiasi apparecchio iPhone o iPad con tanto di indicazione di periodo di permanenza.
Il programma si chiama iPhone Tracker ed è una soluzione open source disponibile sul sito dei ricercatori: l’utente vede su una cartina i propri spostamenti indicati graficamente con colori e grandezza diversi secondo la durata del soggiorno. Una sorta di grafico colorato che rappresenta attraverso informazioni quali latitudine, longitudine, data e orario la vita e i viaggi di un essere umano.
La mole di informazioni salvate è immensa e non è ancora chiaro in che misura Apple ne entri in possesso e, soprattutto, che uso ne faccia. Il salvataggio dei profili di spostamento è cominciato l’estate scorsa con l’immissione sul mercato dell’apparecchio Apple iOS 4 e la simultanea introduzione della piccola clausola tra le condizioni di contratto, che dimostrano una consapevolezza alquanto sospetta da parte dell’azienda informatica; indicazioni precedenti questa data non sembrano essere disponibili.
Secondo Warden e Allen, Apple potrebbe salvare i dati in vista di un nuovo servizio futuro per cui potrebbe essere utile conoscere gli spostamenti degli utenti. Probabilmente Apple li salva in maniera anonima, ha aggiunto Warren, che, tra l’altro, è un ex-sviluppatore della Apple stessa licenziatosi per dare vita alla propria firma.
Apple, da parte sua, non si è ancora espressa al riguardo e ogni interpretazione, per il momento, è solo supposizione. È noto che l’azienda statunitense, già dal 2008, salva automaticamente i segnali internet (w-lan etc.) nelle vicinanze di milioni di cellulari iPhone per migliorare le prestazioni e la localizzazione degli apparecchi in mancanza di segnale gps, il salvataggio dei dati al fine di “migliorare le potenzialità” non sarebbe quindi una novità. Che gli utenti siano disposti a concedere anche i propri spostamenti, invece, è tutto da vedere.
Oltre a stuzzicare i valori di parti politiche e garanti della privacy, la “geolocalizzazione” dei dispositivi Apple imbarazza milioni di singoli utenti e s’introduce in una dibattito molto più ampio. Il salvataggio dei dati da parte degli apparecchi elettronici mette in discussione la sovranità spirituale dell’essere umano rispetto a se stesso. A mano a mano, la tecnologia s’impossessa di fette sempre più ampie dell’esistenza quotidiana degli individui e non è ancora chiaro quale sarà la dirittura d’arrivo, perché sono proprio le impersonali aziende informatiche ad avere il potere di spostare il limite accettato senza chiedere conto a nessuno.
Informazioni che dovrebbero essere patrimonio spirituale dell’individuo entrano senza autorizzazione a far parte di banche dati più o meno anonime, fino a creare una sorta di sub universo virtuale inquietante di cui nessuno conosce la vera entità. E, piano piano, quelle che Marcel Proust chiamava le “mémoires du cœur” scompaiono, per lasciare il posto a una comune memoria virtuale parallela che, se esasperata, potrebbe arrivare a seccare fantasia e ricordi. E arriveremo al punto in cui ciò che non compare in un motore di ricerca, non esiste.
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di Mario Braconi
E’ cosa arcinota, perfino banale: a chi abbia un’idea eccellente e capacità di svilupparla è sufficiente un computer collegato alla Rete delle Reti per ottenere successo, denaro e fama: si pensi alla fulgida carriera di un Mark Zuckemberg, trasformatosi in poco più di un lustro da nerd brufoloso a guru multimiliardario. Ecco che ora si presenta un’evoluzione interessante quanto inattesa, in un mondo assuefatto ai miracoli della net-economy: oggi in Rete è persino possibile convertire in veri oggetti fisici, in cose reali insomma, i sogni di imprenditori visionari e squattrinati. Il tutto grazie a Kickstarter, una start-up newyorkese, che si presenta come “la più grande piattaforma di finanziamento al mondo per i progetti creativi”.
Come dice al New York Times uno dei suoi fondatori, Yancey Strickler, almeno all’inizio Kickstarter aveva come obiettivo quello di rendere possibili progetti unici di tipo artistico (la registrazione di un disco o la produzione di un documentario); nulla però impediva che la piattaforma venisse impiegata per facilitare la nascita di strutture relativamente stabili come aziende produttrici di beni fisici, cosa che è puntualmente avvenuta.
L’aspetto veramente rivoluzionario qui è nel fatto che Kickstarter non aiuta i creativi a cercare azionisti o finanziatori; si potrebbe in effetti sostenere che il network si propone di trasformare in flusso monetario il collegamento logico tra cliente / fruitore / spettatore potenziali e prodotto / servizio / opera artistica potenziali. A chi l’ha concepita, insomma, non interessava che la piattaforma generasse “attori” che per loro stessa natura influiscono sulla struttura patrimoniale dell’impresa produttrice, quali azionisti o finanziatori. Essi, infatti, a fronte del proprio impegno finanziario, acquisiscono quote di proprietà o caricano l’impresa di debito finanziario: per Kickstarter è importante, al contrario, assicurarsi che le idee dei creativi rimangano totalmente di loro proprietà.
Il meccanismo di finanziamento è simile a quello utilizzato dai siti di social buying come Groupon: ai creativi viene concesso uno spazio per poter presentare il loro progetto. A quel punto gli iscritti alla piattaforma hanno la possibilità di impegnare del denaro per acquistare il prodotto / servizio / opera d’arte. Se entro un certo periodo di tempo prefissato il progetto riesce a raccogliere o superare la somma necessaria a realizzarlo, esso è “validato”: a quel punto chi ha impegnato una somma la è obbligato a versarla, mentre chi deve realizzare il prodotto / servizio / opera dovrà cominciare a lavorare per trasformarli in realtà. Se invece il progetto non si rivela sufficientemente interessante da guadagnarsi crediti sufficienti dal proprio mercato potenziale, tutti sono liberi da impegni, tanto chi si era dichiarato disponibile a pagare il potenziale prodotto dell’ingegno, quanto chi avrebbe dovuto realizzarlo (è il cosiddetto “finanziamento tutto-o-niente”). Si tratta di un modo geniale di testare idee o fare vendite condizionali praticamente senza rischio.
Il New York Times cita alcuni esempi di progetti andati a buon fine, ovvero di idee che, grazie al supporto dei potenziali clienti iscritti a Kickstarter, sono diventati prodotti: i "Coffee Joulies", degli oggettini di metallo a forma di chicco di caffé che, una volta immersi in una tazza di caffè all’americana, dapprima lo raffreddano consentendo di berlo senza scottarsi, e poi rilasciano il calore accumulato in modo da mantenere la bevanda a temperatura costante; il "Tik Tok", una specie di cinturino da orologio... senza orologio, al centro del quale può essere collocato un iPod Nano ultimo tipo, un accessorio molto utile per chi va a correre; il "Glif", supporto per iPhone che consente di servirsene senza usare le mani; e "The Cosmonaut", un pennarello a punta di gomma per scrivere sull’ iPad.
Si noti incidentalmente che i progetti di maggior successo sono complementi ai prodotti Apple. Non si può che dare atto a Steve Jobs di aver rivoluzionato due semplici attività, come sentire la musica e usare il telefonino, al punto da produrre nuovi comportamenti sociali e da generare una serie di nuovi “bisogni”, solo qualche anno fa nemmeno ipotizzabili. Eppure è deludente pensare che uno strumento tanto potente come Kickstarter venga impiegato principalmente per realizzare gadget superflui e che non sarebbero esistiti se non vi fosse stata una grande impresa globale.
Nota il New York Times come il successo di Kickstarter sia dovuto, oltre che al genio di chi l’ha ideato, a dei nuovi bisogni psicologici tipici degli Stati Uniti post-crisi: stabilire una connessione più stretta tra chi produce e chi consuma e capire da dove proviene ciò che si compra. Certo, si può sorridere di una società talmente adusa al superfluo da decretare il successo commerciale di uno strano gadget che raffredda il caffè e poi lo riscalda; poiché però i produttori hanno deciso di commissionare la produzione dei "Coffee Joulies" ad un’azienda in crisi dello Stato del New York, che spera così di risalire la china che la ha condotta a ridurre la sua forza lavoro da 160 a 15 dipendenti, non si può negare che questo nuovo modo produrre prescindendo dal grande capitale e prestando maggior attenzione a come si produce possa avere effetti molto benefici sulla società.
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di Vincenzo Maddaloni
Non ci sono più dubbi ormai. La Rivoluzione araba è un processo inarrestabile del quale non sappiamo né quanto durerà, né quale delle sue fasi stiamo vivendo; tuttavia possiamo intuirne gli sbocchi finali che difficilmente potrebbero essere di nostro gradimento. Beninteso, molto dipenderà dagli esiti della Rivoluzione araba, ma moltissimo dal prezzo del petrolio, che a sua volta dipende dall'Arabia Saudita, alla quale non è piaciuto il modo con il quale il presidente Barack Obama sta gestendo la crisi nordafricana.
Sicché i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita hanno raggiunto il livello più basso dai tempi della seconda guerra del Golfo, quando nel 2003 l'allora presidente americano, George W. Bush, lanciò l'invasione dell'Iraq per spodestare Saddam Hussein. Siccome oggi la principale minaccia alla sicurezza dell'America è il suo deficit, come ha ammesso il capo di stato maggiore della Difesa Mullen, se il prezzo del petrolio andasse oltre il previsto potrebbe scatenare un’ altra guerra. Naturalmente, un’altra “guerra di religione”.
Pertanto, si prospetta la minaccia di essere di nuovo coinvolti in una storia tragica come è accaduto con l’Iraq e l’Afghanistan, poiché gli Stati Uniti d'America, l’unico impero rimasto nel mondo, pur di conservare la loro egemonia economica non disdegnano il ricorso alla forza. Essi si avviluppano in una sorta di fondamentalismo che fa della dottrina Monroe ("L'America agli americani") il loro vangelo che, dopo l’11 settembre, lanciò un avvertimento al mondo intero: «Si cercherà di mantenere l’egemonia degli Usa nel pianeta con il consenso, o con le guerre se questo diventasse necessario». Così finora è sempre accaduto, soltanto gli scenari che fanno da fondale a queste tragiche vicende sono di poco cambiati.
Infatti, se la maggior parte del petrolio del mondo non si trovasse sotto i piedi dei musulmani, sicuramente l’Occidente non si sarebbe interessato all'Islam. Sono i petroldollari che ne hanno stimolato lo studio e l’approfondimento fin da quando cadde l'Impero Ottomano. Gli Stati creati dai Paesi vincitori della Prima guerra mondiale - Iraq, Kuwait, Arabia Saudita - erano stati inventati per essere piegati agli interessi delle compagnie petrolifere. Per la gran parte del Novecento, gli interessi nazionali e delle compagnie petrolifere hanno ghettizzato l'Islam amplificando, con il sostegno dei media su scala planetaria, l’immagine di Paesi governati da ricche élites, o da dittatori brutali, con le popolazioni oppresse non tanto dai cattivi governanti, bensì dalle regole del Corano.
Dopotutto organizzare il discredito non è stato un’impresa ardua, poiché all’Islam è venuto a mancare, per secoli e secoli, ogni mediazione da parte del cristianesimo, il quale ha dovuto percorrere una strada abbastanza lunga, piena di giri tortuosi e di contraccolpi, prima di giungere a formulare (1962 - 1965) i documenti del Vaticano II: "Dignitatis humanae" (Dichiarazione sulla libertà religiosa) e "Nostra aetate" (Dichiarazione sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane).
Sicché la ghettizzazione ideologica e politica si è ancora di più esasperata durante gli anni della guerra fredda, quando l’Urss e gli Usa usarono il mondo islamico come spazio ideale per il loro Great Game; senza tenere in alcun conto che i figli di quegli uomini che stavano subendo la loro violenza avrebbero potuto un giorno ribellarsi con altrettanto furore.
L'11 Settembre ne ha segnato per molti versi il culmine aprendo una vera crisi tra gli Stati Uniti e lo stato arabo per eccellenza, l’Arabia Saudita. Osama Bin Laden - è storia nota - apparteneva a una ricca famiglia saudita i cui affari legati a quelli degli Stati Uniti e della famiglia Bush erano ben consolidati. Quel rapporto privilegiato assieme a quelli di altri sodalizi, legati agli interessi di compagnie petrolifere come la Aramco, anzi la “Saudi Aramco”, sconsigliavano ai media occidentali di indagare sull’operato dei principi sauditi. Poi, dopo Bin Laden, la caccia s’è aperta e la stampa americana s’è riempita di giornalisti in cerca di scandali sauditi e non soltanto sauditi, poiché ogni pretesto è buono per tenere desta l’attenzione su come va “interpretata” la realtà musulmana.
A riprova di quanto l’interesse per le “cose islamiche” sia diffuso tra gli americani c’è stato qualche giorno fa il gesto inconsulto del - si fa per dire - reverendo Wayne Sapp il quale. bruciando una copia del Corano ha dato la stura in tutto il mondo musulmano a spaventose reazioni a catena che stanno facendo temere non soltanto negli Usa, ma anche nell’Europa intera, un ritorno all’epoca delle Crociate, quando l’epiteto "infedeli" designava appunto i musulmani.
Si tenga a mente che soltanto allora il crociato divenne superiore al cavaliere, una consacrazione ufficiale di grande risonanza poiché pronunciata dal pontefice Urbano II nel sermone a chiusura del Concilio di Clermont-Ferrand, che decise appunto la prima crociata (1095): «Avanzino per impegnare contro gl’infedeli una lotta giusta, che li colmerà di trofei, quanti, in altri tempi, erano soliti condurre illecitamente guerre private contro i fedeli...».
Non so se il reverendo Sapp conosca questa pagina di Storia sebbene si dichiari un crociato del Ventunesimo secolo; certo è che, con il suo protagonismo isterico, ha ricordato al mondo il primato della religiosità detenuto dagli Stati Uniti, dove il novanta per cento della popolazione si dichiara credente nel divino e il settanta per cento nell'esistenza degli angeli, come rivelano i sondaggi. Infatti, l'America dei bianchi - è storia nota - si divide tra le molte Chiese e le molte Sette e tutti fanno a gara a chi è il più bigotto. Tant’è che il Washington Post (a caccia di copie) ha scavato a lungo nel mistero dell’Obama-musulmano, la leggenda cui credono oltre il vento per cento degli americani.
Se così tanti suoi concittadini ignorano la vera religione del presidente, è perché Obama è il primo leader, da tanto tempo, a praticare la propria fede quasi di nascosto. Non lo si vede ripreso in tv tutte le domeniche in chiesa con il suo pastore. Forse è stata una scelta inevitabile dopo che i suoi rapporti col reverendo Wright (un pastore dai toni molto radicali nel denunciare il razzismo dei bianchi, (nella foto a lato col presidente Obama) lo inguaiarono in campagna elettorale.
Certamente il fatto che la sua religiosità non sia “esibita” sui mass media gli nuoce. Il clamore mediatico invece ha avuto una resa redditizia per il reverendo Sapp e pure per il fondamentalista Terry Jones, un altro bigotto “super” che lo scorso 20 marzo, nella sua sperduta chiesetta in Florida, ha organizzato addirittura un "processo al Corano".
Basta questo rapido sorvolo sull’America e sugli americani per trovare la conferma di quanto l’Europa teme: anche stavolta sugli sbocchi finali della Rivoluzione araba molto dipenderà dalle decisioni di Washington. Come se l’Europa, pur avendo i musulmani in casa, non esistesse o meglio come se fosse condannata in eterno a trascinarsi dietro agli americani. Beninteso, questo aveva un senso quando nel mondo diviso in due blocchi quello capitalista aveva riconosciuto la leadership agli Stati Uniti d’America. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e la conversione della Cina al capitalismo economico, la dipendenza non avrebbe più senso.
Eppure, benché siano passati due decenni dalla caduta dell’Urss e poco meno dalla conversione cinese, noi Europa stentiamo a formulare una politica che tenga in maggior conto la nostra realtà e quella vicina che ci circonda. Sicuramente per due motivi: primo, perché (fortunatamente) non abbiamo una dottrina Monroe da riaffermare. Secondo, perché del mondo musulmano conosciamo poco o niente, o meglio, siamo pervasi dai luoghi comuni nella diffusione dei quali i bigotti, appunto, hanno giuocato una grande parte.
Eppure agli occhi dei contemporanei di Carlo Magno, il mondo degli arabi aveva uno splendore da racconto di fate; era entrato nella leggenda con Harun el Rashid, il califfo abbaside di Bagdad. Il che ci porta a distinguere gli arabi e la civiltà araba. I primi sono vivaci, intelligenti, ricettivi, assimilatori. La seconda è opera tanto di arabi che di siriani, persiani, spagnoli, mozarabi, ebrei. Ma soltanto gli arabi sono stati i grandi intermediari. Si sono aperti all’ellenismo e ci hanno riportato Aristotele. E’ giusto e importante ricordarlo, adesso più di prima, perché grande, tragico, avvilente, è il frastuono che ci circonda.
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di Rosa Ana De Santis
Carlo Saturno, 22 anni, è morto in rianimazione dopo esser rimasto appeso per mezz’ora ad un lenzuolo legato al letto a castello della sua cella, nel carcere di Bari. Un’altra impiccagione strana, per la quale la sua famiglia ora chiede spiegazioni. Carlo era testimone d’accusa in un processo contro nove agenti di polizia penitenziaria, accusati di sevizie e violenze ai danni di alcuni ragazzi dell’Istituto Minorile dove anche Carlo era stato detenuto. A giorni avrebbe dovuto testimoniare e la coincidenza accende più di qualche sospetto, soprattutto perché il giorno prima del suicidio Carlo era stato picchiato e messo in isolamento, dopo essersi ribellato ad un cambio di padiglione.
Dal carcere dicono che avrebbe fratturato il polso ad un agente, ma è tutto da dimostrare, soprattutto perché gli agenti erano due. E’ stata subito aperta un’inchiesta dal capo del Dipartimento della polizia penitenziaria, Franco Ionta, e l’Associazione Antigone ha già preso in carico il caso auspicando notizie chiare dall’autopsia e delucidazioni su tutto il caso dal momento che un ragazzo finito in carcere per furto, si è ritrovato in isolamento e poco dopo moribondo in rianimazione.
La vita di Carlo, fatta di espedienti e di violenze, poteva trasformarsi in una testimonianza fondamentale sui misfatti subiti, dando un quadro importante di cosa avvenga davvero nelle carceri italiane e addirittura negli istituti minorili; è stata invece stroncata con un suicidio, con un’istigazione al suicidio o con qualcosa di peggio. Una vittima facile, come facile è stato liberarsi di Stefano Cucchi, per la cui morte proprio in questi giorni si celebra il processo. Il presidente della regione, Nichi Vendola, incontrando i familiari di Carlo e riferendosi a numerosi casi sospetti avvenuti nelle carceri italiane, parla di “pena di morte a bassa intensità”.
Non ci sono soltanto le morti strane, come quella di Carlo Saturno, ma ci sono situazioni di degrado e di invivibilità dietro le sbarre, dove esplode la popolazione carceraria e gli agenti sono sotto organico; il silenzio del Ministro Alfano, in altre vicende impegnato, è gravissimo. Un ragazzo giovane come Carlo che poteva essere rieducato e riabilitato, che manifestava voglia di tornare a scuola e riprendere agli studi e che aveva già tentato di togliersi la vita, invece di essere seguito con particolare sorveglianza, è stato lasciato agonizzante per mezz’ora.
Sono tanti i morti di carcere, per i quali ad oggi manca verità e giustizia. I casi più celebri, riaffiorati alla cronaca dopo la vicenda Cucchi e il giusto clamore sollevato dalla famiglia, sono quelli di Marcello Lonzi, 29 anni, morto nel penitenziario delle Sughere nel 2003, Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto nel 2007 dopo esser stato arrestato con sua moglie e ritrovato con milza e fegato lesionati e costole rotte. Poi l’altro strano suicidio di Carmelo Castro, di soli 19 anni, morto in carcere il 28 marzo 2009.
Muoiono sempre testimoni importanti che possano mostrare i comportamenti dei poliziotti e dei secondini giustizieri. Era accaduto anche a Uzoma Emeka, nigeriano di 32 anni, testimone chiave del processo di Teramo sui pestaggi ai danni dei detenuti. Un tumore al cervello nel 2009 l’avrebbe sorpreso sotto la doccia. I casi di Giuseppe Uva e Federico Aldovrandi mostrano la stessa faccia crudele degli uomini in divisa, prima ancora di entrare in carcere. Giuseppe Uva in caserma e Federico per strada. E la lista, di chissà quanti anonimi e sconosciuti, soprattutto se stranieri, è ancora lunga.
In questi giorni continua lo sciopero delle agenti del carcere di Rebibbia, in protesta per l’ingestibile situazione di collasso generale. L’idea che il Ministro della Giustizia sia impegnato a tempo pieno a intrattenere il Parlamento con il processo breve e con l’inseguimento disperato dell’immunità del premier restituisce alla società civile un’insopportabile sensazione di abbandono. Il silenzio delle Istituzioni sulle emergenze democratiche del nostro paese, non da ultimo quella carceraria, non è nemmeno più una notizia, né una conseguenza pericolosa. L’ingiustizia e gli abusi sono ormai la normalità.