di Cinzia Frassi

L'Autorità garante per le comunicazioni (AgCom) si accinge ad intervenire a gamba tesa sulla tutela del diritto d'autore on line con un provvedimento che, dal 6 luglio, consentirebbe agli ISP - Internet Service Provider - di rimuovere contenuti dal web. In sostanza sarebbe sufficiente la segnalazione di una violazione da parte del titolare del diritto d’autore direttamente all'ISP per rendere irraggiungibile il sito che abbia pubblicato il contenuto "protetto".

Un provvedimento, quello dell’AgCom, che ha suscitato grande dibattito e un fronte di oppositori massiccio. Il garante non sembra proprio avere facoltà di introdurre una normativa per regolamentare direttamente un diritto fondamentale quale il diritto all’informazione, cosa che spetterebbe chiaramente al Parlamento.

Inoltre, la procedura che si vorrebbe introdurre è di natura puramente amministrativa e, per giunta, può portare a sanzioni piuttosto forti. Si aggirano quindi due tutele: il giudice naturale competente e l’introduzione di una procedura puramente amministrativa per un diritto fondamentale dell’individuo. Non solo, l’oscuramento così ottenuto sarebbe notificato solo all’ISP e non anche ai proprietari dei siti.

E' da tempo che si parla di interventi volti a regolamentare l'accesso a contenuti via web e il diritto d'autore ed è da tempo che l'AgCom prepara la pillola amara. Così il web nel frattempo si è organizzato e sono state numerose le iniziative e le proteste in risposta al provvedimento. Lo scorso giugno è stato presentato alla Camera dei Deputati il "Libro Bianco su copyright e tutela dei diritti fondamentali sulla rete internet". Si tratta di un documento dettagliato che fa il punto sul contenuto di due diritti contrapposti: da un lato la libertà d’informazione, con tutto quello che comporta e dall'altro il copyright.

Ci sarebbe da aggiungere che le violazioni del diritto d’autore possono essere le più varie e per di più in molti casi non essere nemmeno tali. Si è etichettata la pirateria come un aspetto del furto e come un comportamento univoco, senza giustificazioni. In realtà le cose stanno in modo differente. Da un lato sarebbe da discutere sui contorni della violazione, dell’opportunità di maggiori contentuti e di un’offerta più ampia, soprattutto liberamente scaricabile.

Di certo non si può pensare che tutto sia vendibile: la cultura, l’informazione, la formazione, la condivisione, non sono certi valori cedibili a titolo oneroso. Un film, un documentario, una trasmissione televisiva, dovrebbero essere considerati cultura fruibile liberamente da tutti. Non solo: una piccola parte d’intervista televisiva pubblicata sul web potrebbe non essere violazione del copyright, ma parte necessaria di un’informazione completa, che é diritto di tutti. No, non sono degli estremisti a sostenerlo.

Basti considerare come siano presenti da sempre due modi diametralmente opposti di concepire il web. Per qualcuno è una risorsa, per altri uno strumento di interessi economici. Chi pensa che la rete sia una risorsa concepisce il web come uno spazio per l'esercizio di grandi libertà, un luogo aperto, democratico, libero dai gruppi di potere dove sia l'accesso che i contenuti debbano esistere senza paletti. Per chi, al contrario, il web è una risorsa prima di tutto economica, ci vede invece una percentuale del Pil.

Il presidente francese Sarkozy aveva sottolineato, in occasione ell'E-G8 tenutosi a Parigi lo scorso 23-24 maggio, che "a costo di essere impopolare voglio dirvi che non potete rifiutare un minimo di regole e valori comuni. Non si può veicolare il male senza ostacoli né ritegno". In paesi come il Brasile, la Cina o la Corea del Sud il commercio online porta quasi il 4% del Pil. Tra i paesi europei nel periodo 2004-2009 ha portato il 12% del Pil all’Italia, il 33% alla Svezia, il 24% alla Germania e il 23% a Regno Unito.

Dall'altro invece c'è chi rifiuta l'idea di imporre rigide regole ma pensa che "la miglior politica per un governo è dare la banda larga fissa e mobile a tutti i cittadini". Parola di Eric Schmidt, amministratore di Google. "Prima di pensare a progetti di regolamentazione, chiediamo ai governi di studiare soluzioni tecnologiche per risolvere i problemi da un punto di vista globale". Aggiunge ancora, sempre in occasione dell’incontro a Parigi, che "la miglior politica per un governo è dare la banda larga fissa e mobile a tutti i cittadini".

Certo, le parole vengono da Google che non brilla sicuramente in termini di rispetto della privacy, ma centra il punto e la materia del contendere: soluzioni globali e banda larga questo potrebbe portare ad una crescita esponenziale nel nostro paese. Vale a dire regole precise e niente digital divide. Tra l’altro fu proprio Calabrò, nell’annuale relazione sullo stato del paese, a sottolineare come meno del 50% degli italiani ha un collegamento alla rete in banda larga, fisso o mobile, mentre la media europea è del 61%.

Intanto la rete si mobilita, raccoglie contributi e forme di reazione alla proposta del Garante. La questione è affrontata in termini molto netti e di rifiuto di un provvedimento fuori luogo che porta con se l’apertura alla censura in rete: oggi per i contenuti audiovisivi e domani? Attendiamo i prossimi giorni per capire se l’ennesimo tentativo di governare la rete andrà a vuoto oppure no.

di Rosa Ana De Santis

Il dibattito dell’estate nasce dopo le dichiarazioni sconcertanti del sindaco Pdl di Sulmona, che in una registrazione del 2006, quando era consigliere di An, aveva definito gli omosessuali, “malati da curare” e “aberrazione genetica”. Il primo cittadino, peraltro medico, queste affermazioni le ha rivendicate tutt’ora, scatenando una durissima replica da parte di tutte le associazioni impegnate per i diritti dei gay, in prima fila il responsabile diritti civili e associazionismo dell'Italia dei Valori, Franco Grillini e la deputata Pd Paola Concia.

A seguire il sindaco di Bologna, Virginio Merola, che ha dichiarato di voler favorire le coppie eterosessuali legalmente spostate nelle graduatorie pubbliche al posto di quelle di fatto, omosessuali comprese. In questo caso quindi si profila un’ipotesi di discriminazione non solo nel merito di una scelta e di un orientamento sessuale, fatto già grave in sé, ma di una penalizzazione di tutte quelle numerose “famiglie” di fatto che non sono legalmente sposate.

E’ stato il prof. Veronesi, a margine della presentazione dell’annuale Conferenza mondiale “The future of science” che si terrà a Venezia il prossimo settembre, a replicare con durezza e anche con una certa dose di provocazione. Oltre a condannare le posizioni discriminatorie contro gli omosessuali, Veronesi, proprio partendo dalla propria storia di uomo di scienza, ritiene inaccettabile oltre che falso accettare una spiegazione di ordine chimico-genetico all’omosessualità o, quantomeno, la sua interpretazione come deviazione patologica dalla normalità al pari di una malattia.

Tutto sommato è intuitivo riconoscere che la condizione dell’amore omosessuale non solo è presente in natura, ma ha sempre accompagnato la storia del genere umano e attraversato numerose civiltà. Il grande discrimine con l’amore etero è solo e unicamente legato alla procreazione ed è proprio questo elemento - qui sta la provocazione di Veronesi - a rendere l’amore tra i gay meno strumentale e più legato alla purezza dei sentimenti. Ovviamente anche questa è una frase ad effetto perché sappiamo bene quanto anche gli omosessuali, uomini e donne, combattano tra adozione e frontiere della procreazione, per avere figli propri e poter diventare famiglia.

Giovanardi, peggior Catone del 2011, ha risposto invocando premi per il delirio estivo del Prof. Veronesi. Quale che sia la radice di una natura omosessuale, tra chimica, psicologia e stili di vita, l’idea di tradurla come una malattia e come qualcosa da curare, oltre ad essere un falso scientifico, basta il più superficiale empirismo a testimoniarlo, autorizza la peggiore e più crudele legittimazione di moltissimi abusi e di tanti orrori storici. Torneremo forse anche all’antropologia criminale di Lombroso per processare gli indagati. E’ l’ancestrale intolleranza alla libertà personale e la supremazia culturale della famiglia di Nazareth a convincere Istituzioni e tanta parte dell’opinione pubblica nostrana ad avvertire nell’omossessualità un pericolo e un’insidia.

L’Italia rimane infatti l’unico paese tra quelli fondatori dell’Ue a non avere una legislazione ad hoc contro l’omofobia, di questo dovrebbe seriamente preoccuparsi il sottosegretario. Oltre al fatto che tanta arte, poesia e civiltà d’insuperabile valore intellettuale hanno fatto dell’omosessualità una forma di elezione spirituale e un criterio distintivo dell’aristocrazia. Se Giovanardi conoscesse Saffo capirebbe meglio il senso delle parole del Prof. Veronesi.

La sensazione è che nel dibattito pubblico e mediatico sulla questione sessuale, in ogni sua espressione, manchi in Italia una padronanza onesta del linguaggio. Si va avanti per evocazioni e suggestioni. Omosessuali come pedofili (quando invece sono gli eterossessali gli artefici dei peggiori atti sessuali ai danni dei bambini), omosessuali come malati, perversi, come vettori di Hiv.

Aiuterebbe però, all’educazione pubblica, se anche le manifestazioni per i diritti civili dei gay perdessero quel carattere carnevalesco e quella scenografia da set porno che non aiuta la comprensione della normalità di chi vive l’amore omossessuale. Perché la trasgressione non è né omo, ne etero. Perché essere omossessuali non è uno stigma o un bollino. E’ la rivendicazione di una differenza all’interno dell’eguaglianza.

La normalità e le battaglie politiche, questo forse è il passaggio che manca al mondo gay e alle sue legittime richieste, non hanno bisogno di stratagemmi esasperati e volgari, così come la libertà di una donna perde dignità e valore quando diventa solo la libertà di mettere un corpo nudo sulle copertine dei rotocalchi per la delizia del pubblico ormone. 

 

 

di Rosa Ana De Santis

Sì è celebrata il 20 giugno la Giornata Mondiale per i rifugiati politici. Sessanta anni fa nasceva l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e poco dopo la Convenzione in merito alla quale tutt’ora l’agenzia interviene per soccorrere coloro che abbandonano i propri paesi per motivi di discriminazione politica, religiosa, etnica  o razziale.

La ricorrenza ritorna con un carico simbolico molto forte. Nell’anno della guerra in Libia, degli esodi dal Nord Africa, dei barconi inabissatisi sotto le onde appena qualche giorno fa e soprattutto nel coro di un governo assediato sulle posizioni dei rimpatri e sull’isteria di un esodo da collasso che, numeri alla mano, non c’è stato. Un’improvvida rincorsa alla banalizzazione di questa categoria politica, piuttosto alla sua negazione prima teorica e poi pratica è il modo in cui la maggioranza che guida il Paese ha affrontato questa giornata di riflessione e di memoria.

Ma non basta. Alla propaganda populista sulla difesa accorata dei confini è seguito l’accordo con il Comitato nazionale di Transizione libico per i rimpatri forzati verso le zone di guerra e la detenzione nei centri di accoglienza prolungata fino a 18 mesi, alla stregua di una pena per un reato. Tutto questo per poco meno di 19mila persone scappate dalla Libia dall’inizio della guerra e arrivate sulle nostre coste, a differenza della Tunisia che ne ha accolte quasi 300mila.

E’ dal 2009 inoltre che l’Italia ha visto una drastica diminuzione delle domande d’asilo, preferendo respingimenti indiscriminati prima di qualsiasi valutazione delle richieste d’asilo, come la fuga di tanti disperati da paesi in guerra avrebbe dovuto suggerire.

A questo clima politico va aggiunta una solita modalità estemporanea e priva di sistematicità con cui l’Italia ha gestito queste procedure, delle quali non abbiamo neppure, a differenza degli altri paesi europei, stime e numeri precisi.

La questione italiana rimane in certa misura irrisolta proprio perché è la stesso programma di Stoccolma, approvato dal Consiglio Europeo nel 2009, che si limita a proclamare che “il rafforzamento dei controlli alle frontiere non dovrà impedire l’accesso ai sistemi di protezione a chi ha diritto di beneficiarne”, senza dirci nulla sul come.

Il dato certo è che la politica dei rimpatri e l’impedimento delle partenze ab origine non ha affatto sradicato l’immigrazione clandestina, ma piuttosto ha inciso negativamente, riducendolo di molto, il diritto ad essere accolti come rifugiati.

Solo il 10% delle domande viene accolto al termine di lungaggini burocratiche incomprensibili, di errori e lacune procedurali, di mezzi e persone insufficienti senza alcuna assistenza o supporto per le persone richiedenti.

Dovrebbe essere proprio questa eccezionale condizione di cittadinanza, quella dei rifugiati politici, a darci il segno tangibile di una nazionalità transnazionale. Il sogno del più classico cosmpolitismo settecentesco, l’utopia della città globale, il diritto come categoria di giustizia, senza particolarismi di sorta. Ed è proprio questa idea a soccombere sotto il peso di ogni rinuncia aprioristica all’accoglienza e alla gestione seria di chi arriva sui barconi. Quelli che la cronaca dipinge come invasori e conquistatori e che la storia ricorderà solo come i più disperati.

Sarà allora forse che l’esame della nostra democrazia avrà i suoi voti peggiori, quelli che ora suonano come un rimbrotto accademico dell’Europa o dell’UNHCR alle uscite del Ministro Frattini e che un giorno saranno invece una vergogna.

L’odiato fantasma della clandestinità perpetua è proprio figlio del limbo giuridico in cui queste persone sono costrette a vivere in attesa di un’audizione che può arrivare anche 24 mesi dopo, per assicurare un rimpatrio all’ennesimo straniero di troppo.

Uno di quelli che senza identità giuridica, intrappolati nel non riconoscimento silenzioso, diventano “la schiuma della terra”. Scriveva così Anna Harendt per parlare di questi fantasmi che venivano privati di quei diritti di umanità intrinsechi alla condizione stessa di cittadinanza, diventando un po’ meno umani.

Perché è proprio questo a renderci uomini e donne, insieme alla nostra stessa natura. E’ la presenza o l’assenza di patria a darci un luogo, ed è la cittadinanza universale a darcene uno solo davanti a tutti che si chiama dignità. Quel riconoscimento in mezzo agli altri che ci salva dalla solitudine dell’anonimato. Quello che ne ha rovesciati tanti nel mare senza sepoltura, né un nome, di notte. O quello che li ha lasciati nelle dune del deserto, scheletriti dal sole.

Tutti costoro che erano cittadini, e come decaduti dallo stato di umanità, per naturale e necessaria condizione, sono morti in viaggio per non esserlo stati più.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Nella patria del fast food, dei vari MacDonald's e Burger King, tira una nuova aria salutista: è la nuova moda dello slow food, che coniuga prodotti di alta qualità con la nuova economia sostenibile. I mercatini di quartiere spuntano come funghi in tutta la città e, a volte, si trasformano in vere e proprie attrazioni. Fare due passi per Williamsburg il sabato mattina è un'esperienza solitaria: padroni di cani a spasso e pochi forzati nottambuli a caccia di un caffé, con i loro baffi ironici ancora impomatati.

Un tempo quartiere ghetto di artisti squattrinati e immigrati sudamericani, Williamsburg è diventato in pochi anni il non plus ultra della New York bene. L'opera di gentrificazione si è dispiegata senza pietà. Soltanto due categorie possono ormai permettersi di pagare duemila dollari al mese per un monolocale con vista sui grattacieli di Manhattan: i ricchi figli di papà, nei panni di artisti finanziati dal “trust fund” di famiglia, oppure i cosiddetti “eurotrash,” nomignolo non proprio gradevole che i newyorkesi riservano ai ricchi europei in visita, che stanno colonizzando la città.

È la prima giornata di primavera, dopo un inverno che sembrava non passare più. Girato l'angolo su Kent Avenue e North 6th Street, troviamo finalmente il nuovo parco comunale, che si affaccia sull'East River e il profilo mozzafiato della città, proprio di fronte al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Alle dieci del mattino, ci aspettavamo di trovare il mercato già vuoto, saccheggiato dagli avventori mattinieri. Ma non a Williamsburg, dove la proverbiale pigrizia degli “hipster” locali viene premiata. I proprietari degli innumerevoli stand gastronomici e i venditori ambulanti stanno appena cominciando ad allestire le loro attrazioni e, prima che il mercato si attivi, possiamo gustarci una deliziosa coppa di caffé americano.

Per chi è abituato all'espresso, una pinta di caffé regolare assomiglia più che altro a una minestra bruciacchiata. Ma non al mercatino Brooklyn Flea Market, dove per sei dollari si può degustare una speciale miscela di chicchi tostati nella torrefazione di quartiere, proprio dietro l'angolo, e provenienti dal commercio equo e solidale, filtrati goccia a goccia attraverso uno speciale filtro cartaceo di fronte ai tuoi occhi. Alla resa dei conti, l'unico caffé americano di New York che non fa rimpiangere l'espresso.

Le parole d'ordine della “nuova Brooklyn” sono qualità impeccabile e impatto ambientale zero. La prima edizione del mercatino Smorgasburg, tutti i sabati al Waterfront Part di Williamsburg, sta avendo un successo strepitoso. Per chi se lo può permettere, questo incontro tra i produttori locali di cibo biologico e alcuni dei migliori chef della città è un'esperienza a cinque sensi. Nelle parole del curatore del “Mercatino delle Pulci di Brooklyn” e promotore dell'iniziativa, Eric Demby, Smorgasburg rappresenta “un incubatore per imprenditori sconosciuti e all'avanguardia che vogliono far conoscere il loro progetti: vogliamo portare all'attenzione del grande pubblico i piccoli artigiani locali.” Un ibrido tra degustazione e mercatino biologico.

Allo stand “Bon-Chovi” la grafica richiama scherzosamente il logo del famigerato Bon Jovi (nativo del New Jersey e considerato dai newyorchesi un vero tamarro), si possono degustare acciughe fresche o fritte all'aglio, olio e limone. Come dessert non può mancare la famosa “crack pie” di Christina Tosi, la cuoca pluri-premiata di Momofuku a Manhattan. La sua reputazione non delude. Dopo averne assaggiata una prima fetta non possiamo più smettere di mangiarne (infatti il nome “crack pie” è un gioco di parole sulla “crack pipe,” la pipetta per fumare il crack).

Non mancano i banchetti “politici” delle organizzazioni come la Brooklyn Food Coalition e l'italiana Slow Food, che promuovono l'alfabetizzazione alimentare. Nella terra dei prodotti precotti da scaldare al microonde, comprare verdure fresca è già un'abitudine stravagante e un po' radical chic. Se poi si tratta come in questo caso di prodotti biologici, allora si rischia l'etichetta infamante di “unamerican” (ovvero tutti quelli che hanno votato Obama, a detta Sarah Palin).

La first lady Michelle Obama è in prima linea nella lotta all'obesità e un grosso spot in favore dei mercatini locali arriva proprio dal comandante in capo. La famiglia presidenziale infatti mangia solo prodotti del proprio orto della Casa Bianca, dove il Presidente in persona raccoglie le proprie melanzane, zucchine e rucola (quest'ultima decisamente “elitist”).

La cucina italiana di Slow Food qui riscuote un enorme successo perché, nel cuore della Grande Mela, quando scrivi buona cucina, leggi cucina italiana. E questa volta non si tratta della temibile versione italo-americana della pasta alle polpette e della pizza gommosa spessa due pollici, ma dei prodotti tipici del nostro Paese, preparati dagli chef alla moda.

I “farmers market,” i mercatini di frutta e verdura, sono letteralmente esplosi negli ultimi anni. Nessun quartiere benestante ormai può farne a meno e se non compri cibo biologico e di provenienza locale sei out. La cucina ha acquistato una vera e propria connotazione politica e sociale, come non sarebbe possibile in Europa e, men che meno, in Italia.

Se mangi al fast food sei un immigrato sudamericano, un povero, oppure un “real american,” termine sarcastico con cui i liberali, facendo il verso a Sarah Palin, denotano i bianchi obesi del Midwest che votano repubblicano o peggio ancora Tea Party. Se invece sei un professionista benestante, che ha studiato e si preoccupa dell'ambiente, oppure un hipster, allora devi fare la spesa al farmers market e mangiare soltanto cibo biologico e locale.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Spiegare la politica del Belpaese al resto del mondo non è cosa facile, e ognuno di noi italiani ci prova a modo suo. A misurarsi con l’improbabile compito è stato questa volta Beppe Grillo, presentatosi a Berlino con il suo spettacolo “Grillo is back” per l’ultima tappa di un tour europeo che ha toccato otto fra le più importanti città del Vecchio Continente. Oltre a far ridere, ancora una volta Beppe Grillo è riuscito a sorprendere il suo pubblico con uno show dalla trama inaspettata. Il comico genovese ha rinunciato a temi tanto scontati quanto golosi quali potevano essere le recenti amministrative in Italia, proponendo invece confronti costruttivi rivolti al domani.

Gli esiti di Milano e Napoli hanno sancito una prima sconfitta dell’attuale governo e avrebbero potuto offrire, visto l’usuale spirito critico del comico, uno spunto di satira facile a celebrazione dei primi cambiamenti sensibili nel panorama politico italiano. Invece Grillo si è limitato a parlare marginalmente delle amministrative, così come delle figure di spicco del nostro Governo, quasi a relegare la situazione attuale al passato e offrire uno spettacolo positivo rivolto al futuro e al cambiamento.

Eppure Grillo spende le sue parole più amare proprio nell’ambito delle recenti amministrative e del referendum del 12 giugno sulla privatizzazione di acqua e nucleare: un referendum già boicottato in partenza, vista la decisione del Governo di non accorparlo alle amministrative. Quasi che l’obiettivo fosse di far mancare il quorum, di far ignorare vicende pubbliche di fondamentale importanza per i cittadini e di far dimenticare uno dei diritti basilari della democrazia.

Al centro della sua satira Grillo inserisce il confronto tra la realtà italiana e quella europea. L’Europa, in questo caso, è rappresentata da Berlino, una metropoli libera che trasuda il desiderio di emancipazione dei propri singoli cittadini. Una città che ha imparato a essere critica proprio a causa di quel passato così pesante che ancora incombe. Una capitale europea che sta provando ad affrontare le difficoltà dell’integrazione, accettando di sbagliare pur di trovare soluzioni e non ignorando i problemi, e che prova a rispettare l’ambiente, ponendo dei limiti allo sfruttamento economico del verde. E si può dire che Berlino, così come la Germania, vanta un dialogo politico costruttivo e concreto tra maggioranza e opposizione, un lusso che all’Italia purtroppo non è concesso da decenni.

E la nostra Italia, invece, che fa? Noi italiani stiamo agli antipodi dell’avanguardia europea perché stiamo ancora a combattere con un sistema politico marcio costruito sulle figure arcaiche dei leader, personalità pubbliche che si garantiscono i voti dell’elettorato grazie a un fittizio “carisma” mediatico. “I leader sono pericolosi”, spiega Grillo a una Berlino ancora molto sensibile in questo senso. Da due legislature ci troviamo a votare una stessa classe politica ormai ultrasettantenne, ci ricorda Grillo, senza sentire parlare mai di programmi politici concreti e (soprattutto) comprensibili. Si tratta di “una classe politica che ha paura dei suoi cittadini”, precisa Grillo, una classe politica troppo egocentrica e fuori dal mondo per pensare a stare al passo con il resto dell’Europa.

Perché alla base del progresso e del futuro ci sono intelligenza e innovazione, sottolinea il comico, e questi beni, purtroppo, in Italia non vengono appoggiati né apprezzati. A partire dalla Rete, presupposto di un’informazione libera e di un’evoluzione, che in Italia non ha ancora trovato uno suo spazio degno: a questo proposito Grillo ricorda che anche la Libia ha una velocità di download maggiore rispetto a quella dell’Italia, un Paese il cui Prodotto interno lordo (Pil) pro capite è un terzo rispetto a quello della nostra penisola.

Per descrivere al pubblico della capitale tedesca la mentalità imprenditoriale e politica italiana, Grillo cita numerosi esempi concreti. Immancabile la questione TAV, la linea ad alta velocità per cui sono stati investiti in Italia milioni di euro e che ha portato in piazza numerosi cittadini: un progetto presentato come avanguardistico ma che corrisponde in realtà a un modello ferroviario europeo standard.

Mentre l’Italia ancora combatte e discute sull’introduzione di metropolitane tradizionali, che rappresenterebbero per le nostre metropoli il clou dell’innovazione, la Cina ha progettato una sorta di metropolitana tridimensionale che consente di sfruttare la stessa sede stradale delle autovetture, con stazioni rialzate sui lati o sulla parte superiore dei convogli. Mentre l’informazione italiana si trastulla con le piccanti questioni personali della classe politica, in Svizzera, a 3'000 metri d’altezza, è stato costruito il primo albergo quasi completamente autonomo energeticamente. Si trova sul Monte Rosa e per il 90% del proprio fabbisogno energetico è coperto da pannelli fotovoltaici.

Eppure Grillo è un comico, non è un politico, e non bisogna mai dimenticarlo per poterlo apprezzare. Sfrutta la comunicazione per far pensare e, con la provocazione del suo teatro, cerca di costruire stimoli costruttivi. Il suo messaggio è positivo perché tenta di risvegliare lo spirito critico sonnecchiante della maggior parte del popolo italiano. Piace o non piace, così come la maggior parte degli artisti possono essere graditi oppure no, ma è difficile che non faccia sorridere. E allo stesso tempo da’ una parvenza di speranza anche ai più pessimisti, inserendo la situazione politica italiana in un contesto di innovazione europeo e mondiale più ampio e cercando di rappresentarne così l’assoluta piccolezza relativa.


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