di Emanuela Pessina

BERLINO. Dal Giugno 2010, Apple ha aggiunto una nuova, apparentemente insignificante clausola alle direttive per la protezione dei dati dei suoi prodotti. Oltre a riconoscersi il diritto di salvare informazioni precise “sui luoghi in cui si trovano i propri computer o apparecchi in tempo reale”, il gruppo informatico si concede anche la facoltà di utilizzare anonimamente i dati in questione e di trasmetterli ad altri.

A rendere noto il volume effettivo dei dati raccolti da Apple e la gravità della situazione ci hanno pensato Alasdair Allan e Pete Warden, due informatici inglesi che hanno dimostrato la facilità con cui chiunque può accedere a tali informazioni, salvate senza l’autorizzazione consapevole dell’individuo e che dovrebbero, teoricamente, appartenere alla sua memoria.

Durante la recente conferenza Where 2.0, tenutasi a santa Clara, negli Stati Uniti, Allan e Warden hanno dimostrato che, dall’acquisto, iPhone registra regolarmente nelle sue cartelle ogni singolo spostamento del proprietario e, durante la cosiddetta “sincronizzazione” tramite iTunes, passa le informazioni al computer collegato, dove vengono registrate per la seconda volta senza protezione alcuna. Da questo momento in poi, le informazioni su tutti gli spostamenti di iPhone (e rispettivo proprietario) sono accessibili a chiunque utilizzi il computer e conosca un minimo di web 2.0, il mondo dei software scaricabili dalla rete.

Perché per tracciare il profilo completo degli spostamenti di un iPhone servono delle conoscenze informatiche di base, ma non serve certo essere degli hacker. Allan e Warden, i due informatici inglesi in questione, hanno sviluppato un software in grado di tracciare in pochi minuti i movimenti di un qualsiasi apparecchio iPhone o iPad con tanto di indicazione di periodo di permanenza.

Il programma si chiama iPhone Tracker ed è una soluzione open source disponibile sul sito dei ricercatori: l’utente vede su una cartina i propri spostamenti indicati graficamente con colori e grandezza diversi secondo la durata del soggiorno. Una sorta di grafico colorato che rappresenta attraverso informazioni quali latitudine, longitudine, data e orario la vita e i viaggi di un essere umano.

La mole di informazioni salvate è immensa e non è ancora chiaro in che misura Apple ne entri in possesso e, soprattutto, che uso ne faccia. Il salvataggio dei profili di spostamento è cominciato l’estate scorsa con l’immissione sul mercato dell’apparecchio Apple iOS 4 e la simultanea introduzione della piccola clausola tra le condizioni di contratto, che dimostrano una consapevolezza alquanto sospetta da parte dell’azienda informatica; indicazioni precedenti questa data non sembrano essere disponibili.

Secondo Warden e Allen, Apple potrebbe salvare i dati in vista di un nuovo servizio futuro per cui potrebbe essere utile conoscere gli spostamenti degli utenti. Probabilmente Apple li salva in maniera anonima, ha aggiunto Warren, che, tra l’altro, è un ex-sviluppatore della Apple stessa licenziatosi per dare vita alla propria firma.

Apple, da parte sua, non si è ancora espressa al riguardo e ogni interpretazione, per il momento, è solo supposizione. È noto che l’azienda statunitense, già dal 2008, salva automaticamente i segnali internet (w-lan etc.) nelle vicinanze di milioni di cellulari iPhone per migliorare le prestazioni e la localizzazione degli apparecchi in mancanza di segnale gps, il salvataggio dei dati al fine di “migliorare le potenzialità” non sarebbe quindi una novità. Che gli utenti siano disposti a concedere anche i propri spostamenti, invece, è tutto da vedere.

Oltre a stuzzicare i valori di parti politiche e garanti della privacy, la “geolocalizzazione” dei dispositivi Apple imbarazza milioni di singoli utenti e s’introduce in una dibattito molto più ampio. Il salvataggio dei dati da parte degli apparecchi elettronici mette in discussione la sovranità spirituale dell’essere umano rispetto a se stesso. A mano a mano, la tecnologia s’impossessa di fette sempre più ampie dell’esistenza quotidiana degli individui e non è ancora chiaro quale sarà la dirittura d’arrivo, perché sono proprio le impersonali aziende informatiche ad avere il potere di spostare il limite accettato senza chiedere conto a nessuno.

Informazioni che dovrebbero essere patrimonio spirituale dell’individuo entrano senza autorizzazione a far parte di banche dati più o meno anonime, fino a creare una sorta di sub universo virtuale inquietante di cui nessuno conosce la vera entità. E, piano piano, quelle che Marcel Proust chiamava le “mémoires du cœur” scompaiono, per lasciare il posto a una comune memoria virtuale parallela che, se esasperata, potrebbe arrivare a seccare fantasia e ricordi. E arriveremo al punto in cui ciò che non compare in un motore di ricerca, non esiste.

 

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