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di Cinzia Frassi
Si chiama Max Schrems l'artefice di una polemica affascinante che mette di nuovo al centro la questione della privacy e del tanto osannato mondo di Facebook. Affascinante perché mossa da uno studente e da un gruppo di suoi amici e anche per il fatto di essergli costata zero euro, che di questi tempi non è cosa da poco. Lo studente austriaco di 24 anni un bel giorno si è messo davanti al suo computer. Qualcosa doveva averlo insospettito, o forse semplicemente era pura curiosità di uno dei tanti smanettoni internauti del nostro tempo.
Così il ragazzo riesce a rastrellare una lista nutritissima e precisa di informazioni che lo riguardano ma, attenzione, si tratta anche di informazioni che lui stesso aveva eliminato dal suo profilo. Il giochetto funziona così: s’immagazzinano informazioni su un profilo e si mettono da parte. Perché possono tornare utili. Lo studente non ha, come si dice, scoperto l’acqua calda ma ha avuto l’intuizione di rivolgersi all’autorità competente europea, quella irlandese appunto, e di averlo fatto con ben 22 denuncie circostanziate; tutte riguardanti la gestione della privacy e della mancata minimizzazione delle informazioni nei grandi server di Facebook.
Grazie alla curiosità di Schrems, che si è rivolto all'Irish Data Protection Commissioner sottoponendo loro le sue perplessità riguardo alla violazione della privacy che aveva così subito, Facebook Ireland (con sede a Dublino) è stata sottoposta ad un inchiesta dalla quale è scaturito che la grande F ha non solo raccolto dati senza autorizzazione, ma ha escogitato un'altra "finezza": incrocia dati, indirizzi mail, localizzazioni, informazioni sensibili, importando dati anche dai servizi di instant messaging e tutto ciò che è possibile incrociare e ne ricava profili di persone che mai hanno messo piede nel vampiresco social network. Quindi Mr. Facebook mette da parte proprio tutto e non si “dimentica” più di nulla (nemmeno dei profili cancellati) e lo fa senza nessuna autorizzazione da parte dell'utente, semplicemente perché non esiste. La finezza si chiama profili ombra.
L'inchiesta scaturita grazie allo studente austriaco e voluta dal commissario irlandese intanto si è conclusa con l'obbligo di apportare modifiche alla policy per il trattamento dei dati dei cittadini europei al fine di garantire trasparenza e controllo. Inoltre, Facebook dovrà eliminare tutte le informazioni legate ai profili ombra e rivedere anche le modalità di controllo del riconoscimento automatico dei visi. Se la grande F apporterà tali modifiche eviterà i 100mila euro di sanzione pecuniaria fissata dalle autorità irlandesi. Saranno una cifra da capogiro per il social network più popolare del mondo? Stiamo parlando di un network che conta più di 700 milioni di utenti nel mondo.
La devastante portata di un giochetto, che chiamiamo social network, dalla banalità altrettanto devastante e, anche per questo, del suo incommensurabile successo, la dicono lunga circa il significato sostanziale che ha acquisito la comunicazione di massa via web e il suo sfruttamento. La dicono lunga anche sulla mancanza di sensibilità degli internauti circa la loro privacy. Siamo così gelosi di altre informazioni che ci riguardano e così poco sensibili per tutto ciò che il web e il social network succhia dalle nostre vite. In casa nostra siamo quasi maniacali, dalle tende all'impianto di allarme, affinché nessuno, nemmeno una mosca, possa entrare senza il nostro permesso. In rete è tutta un’altra storia.
E' vero anche che potremmo farci ben poco e che quel poco che potremmo e volessimo fare va a scapito della nostra serenità psicologica. Lo ha ben evidenziato il Max Schrems anche attraverso il sito che ha creato ad hoc http://europe-v-facebook.org/. Proprio in queste pagine si trovano ben chiariti alcuni punti fondamentali, tra cui questo: “Facebook sostiene spesso che tutti gli utenti hanno acconsentito al trattamento dei loro dati personali. Ma in realtà gli utenti sanno che Facebook è più che altro un sistema “opt-out”: se non cambi tutte le impostazioni preimpostate della privacy, la maggior parte dei dati privati sarà visibile senza restrizioni. Gli utenti che non sono d'accordo con questa politica di condotta devono lottare con innumerevoli pulsanti e impostazioni. Il più delle volte questo significa che più un utente vuole privacy, più saranno necessari click e maggior attenzione per ogni dettaglio. Gli utenti più anziani o senza esperienza potrebbero non essere in grado di farlo. E intanto vengono attivate automaticamente nuove funzionalità senza informare gli utenti nel modo appropriato. Anche in questo caso la legge europea sulla privacy è molto chiara: l'utente deve dare il consenso in modo inequivocabile a ogni utilizzo dei propri dati, dopo esser stato adeguatamente informato sulla forma d'uso specifica”.
Ma non sarà proprio questo il trucco? Per ogni virgola apparentemente insignificante, un minuscolo consenso. Uno, dieci, cento e mille e ti ritrovi a scervellarti per ore ed ore per flaggare questo o quello e alla fine lasci perdere. Meglio correre a vedere il proprio profilo e le ultime importanti news pubblicate dagli “amici”. Anche a costo della nostra privacy.
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di Rosa Ana De Santis
Mentre ancora si discute di ius soli e di riconoscimento della cittadinanza a chi nasce nel nostro paese, di diritto di voto per chi lavora in Italia, del marchio di sangue e di altre fesserie razziste a metà tra il folclore e il nazionalismo spinto, gli stranieri sono già italiani per le casse dello Stato. Una bella mossa, ipocritamente taciuta, di chi ha recuperato dalla soffitta l’inno dell’Italia agli italiani.
I migranti, infatti, dati della Fondazione Leone Moressa alla mano, rappresentano il 6,8% dei contribuenti e da loro arriva il 4,1% del gettito complessivo. Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia le regioni in cui il peso delle contribuzioni degli stranieri su quelle totali all’IRPEF è più consistente. Oltre 2,1 milioni gli stranieri contribuenti del nostro Paese. Gli stranieri di Lazio e Lombardia sono quelli che versano di più, rispetto a tutte le altre regioni.
E’ chiaro che il confronto con i contributi dei lavoratori italiani segna un forte divario di gettito, che aumenta soprattutto nelle aree del meridione, ma che è dovuto ai redditi minori guadagnati dagli immigrati e alle conseguenti maggiori detrazioni di cui beneficiano in virtù di questo. Pagano l’IRPEF il 64,9% degli stranieri contro il 75,5% degli italiani.
Nelle aree del Nord, dove il lavoro degli stranieri, è più presente e diffuso, la situazione cambia molto e la differenza diminuisce. Peraltro se si riducesse la grande quota di lavoro nero, utilizzato per far guadagnare di più i datori di lavoro italiani, il contributo degli stranieri alla finanza pubblica crescerebbe di molto.
Basta pensare che il 90% del lavoro agricolo nelle regioni del Sud, Campania in testa, è in nero. Schiavi e caporali i protagonisti di una spietata catena di sfruttamento che arriva a 25 euro per più di dieci ore di lavoro, fino a violenza vera e propria: percosse, terrore e razionamento dell’acqua.
In qualche misura l’integrazione e l’abbattimento dei pregiudizi può venire anche dall’elementare constatazione di come il lavoro degli stranieri vada al paese Italia e ai servizi pubblici. Cade, in un colpo solo, il mito dell’usurpazione, dell’invasione, dello sfruttamento del paese Italia senza nulla in cambio.
Se questo è vero, vale solo per tutte le volte in cui gli stranieri lavorano nell’illegalità, diventando carne da macello e veri e propri schiavi per volontà di quegli italiani che preferiscono evadere il fisco, contando sulla penuria di controlli seri.
In un clima culturale che utilizza miti ideologici a buon mercato, spesso da tutte le parti, si deve forse ritornare ai numeri: quelli del lavoro e di certi lavori, quelli dei figli che gli italiani non fanno più, quelli delle tasse dove la maestria italiana dell’evasione, la vera causa delle disuguaglianze sociali interne al Paese, non ha bisogno di utilizzare il capro espiatorio degli stranieri per spiegare tutto quello che c’è da spiegare. L’Italia dei poveri, questa si, che è tutta degli italiani.
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di Mario Braconi
Tutto è cominciato il 18 aprile 2009, a margine di un evento tenutosi a Goteborg, in Svezia, cui hanno preso parte le due fazioni del cosiddetto partito pirata, il partito della Sinistra e l’ala del sindacato laburista svedese che si occupa d’istruzione e cultura. In quell’occasione, Erik Josefsson, attivista svedese per le libertà digitali, chiese agli altri partecipanti di dare il loro contributo alla lotta contro una serie di leggi sulla sorveglianza online già approvate o progettate da singoli governi o dal Parlamento Europeo.
I progetti di legge liberticidi denunciati da Josefsson, oltre alla legge svedese conosciuta come FRA (transfrontaliera), che consente alla polizia nazionale di sottoporre a controllo tutto il traffico telefonico o internet che attraversa i confini svedesi senza garanzie per i cittadini sorvegliati, erano la Direttiva comunitaria sulla conservazione dei dati di traffico, e il cosiddetto Telecoms Package, che prevedeva la possibilità di tagliare la connettività internet a chi fosse stato sorpreso più di una volta a utilizzare illegalmente contenuti coperti da copyright.
Secondo la ricostruzione effettuata dall’articolo pubblicato sul sito internet di Forbes del 27 dicembre, qualcuno di questi esuberanti giovani, a forza di smanettare sui siti ufficiali delle organizzazioni politiche europee, riuscì a mettere le mani sui numeri di telefono di ogni singolo parlamentare europeo, e a convincere gli administrator del sito di Pirate Bay a piazzare l’elenco in home page.
Grazie al bombardamento di telefonate e messaggi, i telefoni di tutti i parlamentari che si stavano dando da fare attorno all’assurdo progetto di legge sono rimasti irraggiungibili per giorni, finché esso è stato accantonata. Successo. E anche battesimo del fuoco di Telecomix, che da commissione di un oscuro congresso di hacker fricchettoni, da quel momento diventa un “cluster telecomunista di bot [programmi che ripetono le stesse operazioni all’infinito] e di persone che amano internet, che si sforza di proteggere e migliorare la Rete e di difendere il libero flusso dei dati. Più che un gruppo, potete definirci un accidente [...] un organismo simile ad un sifonoforo, che trasmette il suo genoma tramite memi [l’equivalente dei geni nel mondo della cultura] ed imitazione più che con leggi e regole.”
Per chi non fosse ferrato in biologia, ricordiamo che i sifonofori sono degli invertebrati marini apparentemente simili a grandi meduse, dalle quali si distinguono perché, a differenza di queste ultime, ognuno di essi non è un individuo ma una colonia di zoidi altamente organizzati. Come i sifonofori, sembra di capire, i Telecomix sono singoli e allo stesso tempo membri di un’entità organizzata, che si muove come fosse un sol uomo (o donna che sia). E come i sifonofori, i Telecomix sono dotati di lunghi e velenosi tentacoli.
Coerentemente alla vocazione politica che li ha contraddistinti fin dall’inizio (a differenza di Anonymous che, almeno inizialmente, era un divertissement da nerd che hanno in odio Scientology) i Telecomix hanno cercato di dare una mano alle popolazioni civili vittima di brutali repressioni da parte della dittatura egiziana e, più recentemente, anche in Siria. Quando lo scorso gennaio, gli sgherri di Mubarak oscurarono completamente la Rete in Egitto, i Telecomix, accordandosi con il provider French Data Network (pare piuttosto hacker-friendly) ha messo a disposizione delle modem bank per consentire connessioni gratuite dial-up agli egiziani. Gli attivisti si occuparono contestualmente di portare a conoscenza della popolazione i numeri da comporre per connettersi gratuitamente e bypassando la censura, faxandoli a tutti gli uffici pubblici, le università e caffè di cui sono riusciti a trovare le coordinate.
Telecomix ha dato una mano anche in Siria: utilizzando software specifici di analisi della rete come NMAP (che sta per Network Mapping), gli “agenti” di Telecomix hanno individuato 700.000 collegamenti in Siria da passare al setaccio alla ricerca di una possibile falla. Con un efficace metodo di crowdsourcing, ovvero di divisione del lavoro tra “agenti” tedeschi francesi e nordamericani, gli hacker hanno preso il controllo di una serie network switch, rubato password, spiato dalle webcam le strade e perfino le scrivanie dei capi della repressione di Stato, fino a “pizzicare” 5.000 router domestici senza protezione.
A metà agosto, quindi, chiunque si è collegato alla Rete da una delle 5.000 postazioni hackerate, al posto della home page ha visto una pagina bianca con un curioso simbolo (una omega nel quale è inscritta una stella, sopra un triangolo circondato da fulmini) contenente il seguente messaggio: “questa temporanea interruzione del servizio internet è deliberata. Vi preghiamo di leggere attentamente e di diffondere il seguente messaggio: il vostro traffico internet è monitorato.” Seguiva un manuale che spiegava agli utenti come dotarsi di software gratuito di criptaggio (Tor o TrueCrypt) al fine di eludere sorveglianza e/o la censura di stato.
Dalla sortita contro il regime siriano Telecomix ha portato a casa un bottino molto interessante: un database di 54 GB di file di log utilizzati dagli sbirri siriani, che è stato reso noto ad un convegno di blogger arabi lo scorso ottobre. Anche se gli IP delle persone monitorate dal regime erano state sostituiti con uno 0.0.0.0, secondo alcuni specialisti di Rete, tra cui il mitico Jacob Applebaum, la pubblicazione dei dati è stata comunque un azzardo in quanto, tra i dati resi pubblici, potevano comunque figurare i nomi delle persone oggetto di sorveglianza poliziesca.
Ma la scoperta più interessante è quella effettuata da un ex dipendente a progetto del Pentagono, un americano di Washington attualmente in forza tra le file di Telecomix. Mentre pasticciava tra i vari server siriani, Punkbob (questo il suo nome in codice) si è imbattuto in un server FTP pieno di log identici a quelli che al Pentagono venivano prodotti da un software impiegato per intercettare, filtrare e registrare il comportamento online dei dipendenti. Non c’è da meravigliarsi, dal momento che gli uomini del regime siriano addetti alla sorveglianza online dei cittadini riottosi utilizzavano un programma realizzato da un’azienda americana, la Blue Coat Systems, di Sunnyvale, California. Il tutto, ovviamente, a dispetto dell’embargo.
Dopo la pubblicazione dei 54 GB di log, la Blue Coat System ha fatto sempre più fatica a mantenersi solidamente sulla sua posizione ufficiale, secondo cui “è vietata per policy aziendale la vendita dei nostri prodotti in paesi sotto embargo USA”; nessun suo rappresentante ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti di Forbes e di Bloomberg, sostenendo che sull’incidente è stata aperta un’inchiesta interna ed una del Dipartimento del Commercio Estero USA.
In effetti, l’embargo viene agilmente dribblato grazie alle triangolazioni: una gustosa storia pubblicata da Bloomberg il 23 dicembre racconta come il prodotto di spionaggio su internet NetEnforcer, prodotto in Israele, sia finito, tramite la mediazione di un “distributore” danese, addirittura in Iran (sembra tra l’altro che le bolle di spedizione in Iran fossero a disposizione del venditore israeliano, qualora si fosse preso il disturbo di esigerle…). Tuttavia, l’ignoranza del venditore sul destino finale di un prodotto informatico oggi è una scusa debole.
Come ricorda Peter Fein un Telecomix di stanza a Chicago, se la Blue Coat avesse solo controllato gli indirizzi internet quando si collegava con le sue macchine, si sarebbe resa conto che i suoi gioiellini erano usati da brutali assassini di stato. Come sostiene Brett Solomon, cofondatore e direttore esecutivo della ONG Access, “la tecnologia può essere usata come un’arma, e dovrebbe essere trattata con la stessa attenzione e venduta con la medesima diligenza”.
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di Rosa Ana De Santis
E’ stato Natale per tutti, per i senza dimora, per gli stranieri, per i rom. Il mondo del volontariato e delle associazioni si è organizzato per offrire una giornata di festa e di condivisione anche a chi, nel nostro Paese, è solo o vive ai margini. A Bologna è stato organizzato un pranzo per gli anziani che non hanno famiglia, mentre a Roma la Comunità di Sant’Egidio, come ogni anno, ha accolto 700 persone nella Basilica di S. Maria in Trastevere per un pranzo di solidarietà, inaugurato dalle parole del Ministro Riccardi. La Caritas torna ad offrire il pranzo agli homeless nelle proprie strutture. Alla Stazione centrale di Milano squadre di volontari hanno animato il pomeriggio dei senza tetto che vivono tra i binari.
Molte le iniziative in tutto il territorio nazionale, utili a restituirci la fotografia del disagio e delle nuove povertà, togliendo quella glassa di retorica che un obbligato clima natalizio porta un po’ nelle case di tutti.
Il Ministro per l’integrazione, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio, ha espresso preoccupazione per i recenti episodi di cronaca che fanno temere una degenerazione xenofoba grave del diffuso clima di intolleranza: la morte dei senegalesi a Firenze per mano di un militante dell’estrema destra, Gianluca Casseri, e il raid punitivo al campo nomadi di Torino alla ricerca di un violentatore rom che non esisteva. Nonostante questi segnali il Ministro si dice sicuro che l’Italia sia ancora un paese solidale, in cui la gente, nonostante la crisi e le difficoltà, ha voglia di aiutare e darsi da fare.
Eppure la sua proposta choc di investire sulla scolarizzazione dei figli dei rom e sulla possibilità di offrire loro una casa, per favorirne l’integrazione, aveva scatenato i peggiori reflussi razzisti non solo da parte delle persone comuni, ma anche da parte di colleghi di governo restituendo un’immagine meno ottimista sulla cultura italiana dell’accoglienza. Sarà che gli italiani immigrati nel resto del mondo sono stati pesantemente ghettizzati e discriminati, sarà che un avallato linguaggio dell’odio ha intessuto la politica degli ultimi anni, tutto ha contribuito a trasformarci in un paese che benedice i rimpatri, che non prova sconvolgimento per l’uccisione degli immigrati, che tollera il ritorno delle atroci mostruosità culturali del nazi-fascismo tra i propri figli.
Mentre, con l’altra mano, riduce i lavoratori immigrati in semi-schiavitù, fonda intere fette di produzione su questo meccanismo di sfruttamento, eliminando qualsiasi controllo e intervento sull’illegalità diffusa grazie alla penuria di strumenti da parte delle forze dell’ordine. Insomma una doppia identità che ha bisogno degli stranieri di notte e li perseguita di giorno e che spiega tutta l’inconsistenza delle presunte ragioni di chi vuole la cacciata degli immigrati e tutto il bisogno di avere un comodo capro espiatorio che paghi il prezzo per tutti del difficile tempo storico di transizione che viviamo. Un corso e ricorso, direbbe Vico, che conosciamo bene.
A Capodanno torneranno altre iniziative di solidarietà e molte saranno rivolte anche a tutte quelle famiglie italiane che sono sprofondate da un tenore medio di vita alla povertà. Anziani, padri separati, famiglie numerose. E’ nelle mani della sussidiarietà e dell’altruismo quello che dovrebbe competere al welfare di un paese. L’anno che verrà, come recita l’incipit di un celebre brano di un cantautore, non sarà migliore e tutti già lo sanno.
Alle istituzioni andrebbe l’obbligo di pensare alle fasce sociali più deboli e a chi ha pagato già tutto il costo della crisi globale. Agli italiani, ai comuni cittadini, il coraggio di comprendere che chi viene a farsi schiavo qui ha rinunciato a tutto, persino al diritto di rivendicare la propria identità. Zombie che lavorano di giorno nascondendosi dai vigili urbani, che dormono come detenuti nelle case degli italiani pagando caro il prezzo di una brandina e di una latrina, che vengono ammazzati da gruppetti di fanatici noti a chi dovrebbe tutelare la nostra sicurezza. Lavoratori, padri, madri, rifugiati che trovano in una chiesa un piatto caldo e una vaga atmosfera clemente del Natale che hanno lasciato a casa.
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di Rosa Ana De Santis
Lo scandalo delle protesi PIP, potenzialmente cancerogene o, come sembra, più verosimilmente a maggior rischio di rottura e reazioni infiammatorie, non riguarda soltanto le 30.000 donne francesi che dovranno essere tutte operate per la sostituzione degli impianti. E’ allarme in altri paesi come la Gran Bretagna, che sembra però più cauta nella procedura degli espianti, e anche in Italia, con una stima di circa 5.000 donne coinvolte. Molto difficile intervenire tempestivamente per individuare queste donne che corrono un serio rischio per la loro salute, a causa della mancanza di un registro delle protesi impiantate.
La questione è stata più volte sollevata, da ultimo dall’ex Sottosegretario Martini, senza però concretizzarsi mai per presunte ragioni di privacy o, più probabilmente, per ragioni di fondi inesistenti. Il Ministro Balduzzi è il primo a evidenziare che i monitoraggi messi in campo negli ultimi anni, fino ad arrivare al ritiro vero e proprio degli impianti considerati pericolosi, sono compromessi dall’assenza di un registro in cui siano riportati i dati personali e la tipologia di protesi del seno impiantate. Il dato ancor più grave è che questa mancanza non riguarda solo le donne che scelgono mastoplastiche additive per fini estetici, ma anche quante hanno messo impianti per ragioni di salute. Le uniche, dichiara il Ministro, il cui intervento di sostituzione, sarà rimborsato dal sistema sanitario nazionale.
A gennaio dell’anno in corso, Il Ministero della Salute aveva annunciato l’indispensabilità di un registro identificativo almeno per gli interventi di ricostruzione mammaria, al fine di tracciare le portatrici di protesi che hanno avuto problemi severi di salute, quasi sempre oncologici. Ad oggi manca infatti una mappa dettagliata e soprattutto omogenea o nazionale di questo tipo di interventi. Quindi ne è compromessa qualsiasi possibilità di casistica generale e completa, consegnando alla statistica ufficiale dati frammentari e di maggiore difficoltà di interpretazione. Ogni ospedale fa per sé, mentre le cliniche sono ancora più difficili da monitorare.
Ne è prova il fatto che di fronte ad un rischio di salute come quello correlato alle protesi PIP la strada raccomandata dalle autorità sanitarie non possa essere altra che quella di invitare i pazienti a contattare autonomamente i chirurghi o i singoli centri coinvolti a convocare i propri pazienti. Nessuna procedura sistematica, capillare e dall’alto.
Peraltro, nel caso delle ricostruzioni mammarie, l’assenza di un registro nazionale, per tutti i tipi di intervento, ha un doppio effetto collaterale. Oltre a quello di non vigilare efficacemente sui rischi di salute di chi porta protesi, produce, infatti, una significativa riduzione del diritto d’informazione che dovrebbe essere garantito ad ogni donna che deve sottoporsi ad un intervento ricostruttivo. Le tecniche di ricostruzione sono infatti molteplici: sa va da quelle con protesi a quelle che utilizzano anche o solo i tessuti autologhi ed è fondamentale capire quale sia la più adeguata al proprio corpo, alla propria immagine di sé e in quanti e quali centri si applichino dato che la formazione dei chirurghi in questo senso è tutt’altro che omogenea nel territorio nazionale.
Il fatto che manchi una campionatura istituzionale in un ambito così delicato e fondamentale per il recupero di pazienti oncologiche rappresenta un deficit fortissimo sia sul piano medico-sanitario, che sulla scelta e il percorso di cura che vive ogni donna dopo aver affrontato il cancro del seno.
Quello che poteva essere un provvedimento che avrebbe reso il nostro Paese all’avanguardia non è più all’ordine del giorno. Non ora almeno. Anche se, proprio in questi giorni, in cui le notizie che arrivano dalla Francia hanno riportato all’attenzione il legame fortissimo tra protesi e salute, se ne ravvede tutta l’urgenza. Una relazione tra protesi e possibili complicazioni (anche nel caso di materiali sicuri e garantiti) che l’eccessiva banalizzazione della chirurgia estetica con gli interventi a basso costo ha contribuito troppe volte a sminuire convincendo le donne che si trattasse di operazioni banali, a zero complicazioni.
La mancanza di tracciabilità degli interventi con le protesi è oggi invece il primo ostacolo per intervenire a tutela della salute delle donne, colpite prima di tutto dai danni della disinformazione e dalla scelta di strutture non qualificate con l’idea che la chirurgia plastica sia poco più di un’operazione di maquillage. La nascita di un registro ufficiale è il primo strumento per scongiurare casi PIP. Sull’affidabilità degli impianti scelti non rimane altro, invece, che affidarsi alla deontologia dei medici e al primato della salute su quello del risparmio in bilancio. Per questo la legge c’è già: è quella sancita dal giuramento di Ippocrate.