di Rosa Ana De Santis

L’Istat, nella Giornata Mondiale contro l’omofobia, ha presentato alla Camera dei Deputati i propri numeri: sono circa un milione gli italiani che si dichiarano omosessuali o bisessuali. Uomini per lo più del nord e del Centro Italia. Un numero certamente approssimato per difetto, dal momento che tanti omosessuali non si dichiarano, visto il clima socioculturale imperante.

La famiglia è il luogo in cui è più difficile fare outing e il sistema normativo italiano, al confronto di molti altri Paesi europei, mostra tutte le sue anacronistiche lacune sull’argomento. Eppure il 43,9% degli italiani si dice d’accordo al matrimonio gay, e il 62% a una qualche altra forma di regolamentazione. E’ invece sull’adozione dei figli che gli italiani in maggioranza dicono di no.

La mancanza di riconoscimento giuridico, unita ai sempre più diffusi episodi di discriminazione, obbliga a ragionare concretamente e subito sulla necessità di approvare una legge contro l’omofobia. Rispetto infatti alla discriminazione normativa che subiscono tutte le coppie di fatto nel nostro Paese, gli omosessuali patiscono un doppio danno nel momento in cui, in un clima che racconta frequenti episodi di penalizzazione, se non di veri e propri maltrattamenti, non vengono tutelati da una legge contro l’omofobia.

La scusa che la politica affidata alla patologia omofobica dei vari Giovanardi ha sempre addotto per rifiutare la legge, è sempre stata quella di non volere che la norma assumesse intrinsecamente un dato di merito sull’orientamento sessuale come criterio di tutela specifica. Sarebbe proprio questa architettura a generare una prima discriminazione. Si adduce, in opposizione ad una normativa antidiscriminatoria, che tutti siamo cittadini, tutti siamo persone. Ma è una concezione astratta, che vede la giurisprudenza come “neutra”.

Perché se è vero che il ragionamento è giusto sul piano squisitamente teorico, è vero anche che la legge parla ai fatti e non con se stessa. E i fatti ci dicono, come è stato nella storia per il razzismo contro i neri o l’emancipazione delle donne, che c’è a volte bisogno, anche in forma transitorie, di misure speciali quando i reati hanno un’impronta forzatamente ideologica.

E’ questo lo strumento che una società moderna ed attenta ai diritti civili si da per opporre con più forza il rigore della legge nei casi in cui essa viene violata in assenza di causa che non sia la discriminazione ideologica. E’ così, proprio per sanzionare l’odio razziale, che il razzismo è diventato un aggravante, èd è così, per contrastare la discriminazione di genere, che quasi ovunque sono nate le quote rosa.

A fronte della fotografia ISTAT l’Arcigay muove al nostro Parlamento la richiesta di lavorare con urgenza su un fronte importante, da troppo tempo disatteso. Per ora il governo, attraverso il Dipartimento delle Pari Opportunità, ha annunciato un maggior impegno di sensibilizzazione a partire dai banchi di scuola. Un’opera nobile e senz’altro necessaria che non dovrebbe escludere però quanto può esser fatto subito e dall’alto perché non si ripetano episodi di maltrattamenti gravissimi in una città come Roma e non nell’ultimo lembo isolato del paese.

Soltanto ieri, nel 2010, le Mine Vaganti di Ozpetek, un film che racconta delle resistenze ataviche e dei pregiudizi sull’omosessualità era stato accolto con grande partecipazione emotiva dagli italiani come il ritratto più fedele di un certo modo di pensare che ancora, purtroppo, non si è estinto e come la poesia più sofferta per raccontare il danno dell’ignoranza e la paura della differenza. Una legge contro l’omofobia potrebbe contribuire certamente a diminuire lo spread tra intolleranza e civiltà.

 

 

di Rosa Ana De Santis

Se ne parla sempre di più nel dibattito politico contemporaneo e la questione della cittadinanza per gli stranieri rappresenta, non soltanto nel nostro Paese, un esempio paradigmatico di come i fatti abbiano di gran lunga superato la speculazione teorica. Gli immigrati regolari si comportano infatti come cittadini a tutti gli effetti: pagano le tasse e i contributi, partecipano alla vita politica, specialmente quella locale, rappresentano una quota significativa della società civile e delle famiglie, dovuta anche alla forte tendenza di fare figli, contrariamente agli italiani.

La ricerca in questione in Italia è stata condotta dall’Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità). Sono stati intervistati 797 immigrati che risiedono a Milano e Napoli. La ricerca è stata realizzata, oltre che dall'Ismu, anche da King Baudouin foundation, Migration policy group e ReteG2 – Seconde generazioni. L’80% degli immigrati in Italia chiede di poter accedere alle urne e votare. E’ infatti questo diritto-dovere di partecipazione politica ad esprimere sul piano simbolico e fattivo la natura del diritto di cittadinanza.

Strano, se non bizzarro, lasciare che ad esprimere il diritto di voto siano italiani che vivono fuori confine da generazioni, lontanissimi dal contesto nazionale, e che il medesimo diritto sia interdetto a chi contribuisce alla sopravvivenza del sistema Italia e ne vive e ne patisce limiti e opportunità.

La differenza infatti tra le due categorie è tutta esclusivamente legata al sangue. Italiani e non italiani. Sembrerebbe un discrimine enorme, più che valido come legittimazione, eppure un po’ di ragionamento senza coloriture nazionaliste ci aiuta a smascherarne facilmente la sostanza concettuale. E’ l’italianità ad essere legata allo status di cittadinanza e non il contrario. Non esiste infatti, tralasciando le derive pericolose che ne deriverebbero, una genitura italica pura in senso genetico-etnico. Gli italiani sono un po’ aragonesi, un po’ angioini, normanni, tedeschi. Diverse le loro storie, le origini etnico-geografiche, il sangue così tanto al centro delle rivendicazioni xenofobe.

Portogallo ed Italia sono i paesi in cui è più difficile trovare lavoro, Sempre in Italia il requisito dei documenti e l’iter burocratico rappresentano un ostacolo fortissimo al ricongiungimento familiare. Eppure il nostro paese vanta una posizione record nel coinvolgimento concreto degli stranieri alla vita civica.

Rimangono le difficoltà a parlare la lingua per mancanza di tempo e difficoltà ad accedere a corsi sostenibili, quasi tutti affidati alle forze del volontariato. Rispetto all’Europa nel nostro paese, nelle città campione di Milano e Napoli, gli stranieri dichiarano di sentirsi poco valorizzati rispetto ai titoli di studio, in controtendenza quindi con altri paesi. Situazione questa che tocca, peraltro, anche i cittadini italiani.

Da più  parti politiche arriva l’urgenza di normare la cittadinanza “di fatto” e di sistematizzarla in diritti riconosciuti, dal momento che i doveri ci sono già. Siamo in un vuoto giuridico tale per cui mentre un evasore fiscale può accedere ai servizi pubblici, nella totale impunità, un lavoratore regolare immigrato che paga tasse e servizi pubblici non può esprimere voto e partecipazione politica mentre aiuta tutto il Paese a pagare le pensioni, tenere aperte scuole e ospedali, mettere benzina al trasporto pubblico.

Il processo è già avviato, pur nella rimozione ufficiale della questione. Ad averlo inaugurato è stato proprio quel mito capitalista della globalizzazione che tanto osannato per l’opportunità dei guadagni urbi et orbi, sembra piacere sempre meno all’Occidente quando ad essere globalizzati sono i diritti, le conoscenze, la facilità dei contatti che ne segue. La globalizzazione si è trasformato in un cavallo di Troia restituendo indietro il colonialismo atavico con tutti gli interessi.

Da tempo la cittadinanza è un esercizio di funzioni secondo la legge e non una variabile cromosomica. Non c’è discorso più convincente di una bella fotografia sugli Stati Uniti d’America, su qualche grande metropoli europea o sulle nostre fabbriche. O ancora meglio dentro le nostre case.
 

di Rosa Ana De Santis

Le linee guida emerse nell’ultimo convegno programmatico dell’Agesci lanciano una condanna, solo in superficie edulcorata di tolleranza, sull’omosessualità. Sarebbe un problema serio avere capi scout omosessuali, non è da incoraggiare alcun “coming out” tra i ragazzi che mostrassero tendenze di questo tipo, ma piuttosto convocare con codice rosso genitori e psicologo. Perché no un esorcista, verrebbe da concludere.

Il manifesto del perfetto scout cattolico non poteva che essere in linea con la posizione ufficiale della Chiesa di Roma. Nessuno scandalo se l’educazione sessuale e l’identità di genere vedono nella funzione procreativa e quindi nell’eterosessualità l’unica legittima maniera di amarsi come Dio comanda.

Padre Francesco Compagnoni, docente di teologia morale all’Università S. Tommaso, intervenuto tra i relatori, riconosce all’omosessualità doti intrinseche di sensibilità e preziose attitudini artistiche (un ritratto che rasenta lo stereotipo più abusato), ma per quanto vada sostenuto il valore della tolleranza, questo non può restituire pari dignità morale a tutti i comportamenti.

Rimane quindi in serie B l’identità sessuale di chi non è etero ed e’ soprattutto sconsigliabile che siano omosessuali i capi scout che, per la funzione educativa e formativa che svolgono,  rappresentano un esempio a tutto tondo per i giovani lupetti. Poiché tutto il documento sgombra il campo da ogni confusione o sovrapposizione tra pedofilia e omosessualità, come giustamente è, non è ben chiaro quale sia il valore diseducativo dell’essere omosessuali se non la condizione in se stessa. Tutto cambia se il capo decide di tenere per sé la propria identità e non da mostra dei gusti sessuali. Una posizione a metà tra il comportamento ipocrita e l’ignoranza di credere che l’omosessuale sia una maschera folcloristica di vezzi femminili.

Tolleranza non è relativismo- recita il documento finale - e l’eguale dignità è delle persone non degli atti. Il parallelo, manco a dirlo, è con i criminali. Anche loro sono figli al cospetto di Dio. L’argomento non fa che riprendere la distinzione tra peccato e peccatore e tutta la potenza della misericordia di Dio che nell’enciclica Dives in Misericordia Giovanni Paolo II descrisse pensando proprio ai flagelli morali del disperato uomo contemporaneo.

Come metterla allora con tutti coloro che pur omosessuali volessero prendere i voti? E’ sufficiente la castità ad azzerare la peccaminosità del gusto sessuale considerato “deviato e non naturale”? Quindi è l’atto e non l’identità il vero imputato di tutto il ragionamento? Quindi è l’ipocrisia l’unico antidoto morale al male morale dell’anima?

All’Agesci va riconosciuta l’audacia, comunque preferibile al vuoto dell’omertà e della rimozione, di aver messo mano dentro le maglie complesse del rapporto con i giovani in una fase delicata della loro vita fisica ed affettiva. Sorprende però che non si parta dallo scandalo più grande che la Chiesa si porta dentro.

Quello dei preti molestatori, etero o omosessuali che siano  non importa. La sciagura delle molestie, degli abusi subiti nella vita del seminario. Tutte quelle devianze che quando non sono il frutto di autentiche personalità disturbate, sembrano piuttosto l’effetto collaterale di una vita affettiva e sessuale negata.

Un dogma davvero difficile da coniugare con il teorema della morale secondo natura. Non sarà che sono più coerenti i pastori protestanti? Dogma difficile soprattutto per chi non svolge una vita di contemplazione recluso in un luogo di preghiera, ma vive nel mondo.

Scegliere di parlare di omosessualità e non di pedofilia è il primo vero errore di questo decalogo dell’Agesci che più di altre organizzazioni cattoliche si confronta con il mondo giovanile. Sembra che ci sia troppa voglia di archiviare le nefandezze che proprio i più piccoli hanno pagato duramente annacquando i veri peccati con le sottili dissertazioni sull’identità di genere e quella sessuale.

E’ così ovvio riconoscere che la libertà di essere quello che si è non può fare del male a nessuno e l’unico atto colpevole è quello con cui si fa del male a qualcuno. Il gusto sessuale non si impone come un timbro sulla personalità, se è questo il grande tormento dei professori dell’Agesci, altrimenti da genitori etero non potrebbero nascere mai figli omosessuali.

Per mutuare il ragionamento teologico al fondo di tutto il teorema antiomosessualità possiamo dire che per gli  abusi e le violenze non c’è dignità morale. E forse non c’è nemmeno  per le persone, o almeno sembra impossibile vederla  se non si hanno gli occhi di quel famoso Dio della misericordia.

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

Alleato più che pubblicizzato di tutte le diete, protagonista di bevande e caramelle, snack dietetici e barrette di ogni tipo, l’aspartame è sempre più al centro di ricerche mediche che ne attesterebbero la pericolosità per la nostra salute. Ci ha pensato l’ultima puntata di Report a ricordare al pubblico gli inquietanti risultati dimostrati dall’Istituto Ramazzini nel corso dei suoi esperimenti su una colonia di ratti trattata in laboratorio con aspartame. Ricerche ed evidenze di cui nessuno sa - se non attraverso i siti della controinformazione - e che sono state tranquillamente riposte in un cassetto nell’imperturbabile silenzio delle autorità preposte alla tutela della salute pubblica che, va ricordato, in nulla hanno osteggiato la diffusione commerciale del prodotto rimasto a disposizione di tutti, grandi e piccini.

L’Istituto Ramazzini, con una ricerca mirata sul sucralosio, ha evidenziato nelle cavie decedute, attraverso i relativi rilievi autoptici, un incremento di linfomi e leucemie anche con un tasso di aspartame inferiore a quello previsto per gli uomini, ovvero 20 mg/kg di peso corporeo. La corrispondenza di aspartame e tumori maligni (responsabile anche le dosi di metanolo che sprigiona nell’organismo) è stata quindi rilevata anche a partire da dosi inferiori a quelle ritenute ammissibili per gli essere umani.

Questo avrebbe dovuto almeno destare un legittimo sospetto e indurre, se non ad un  divieto che dovrebbe allora riguardare tanto altro cibo ingerito (come la carne agli estrogeni) ad un atteggiamento di prudenza e di cautela e, inevitabilmente, ad un programma di informazione ed educazione alimentare. Nulla di tutto questo è avvenuto se non una denuncia di terrorismo scientifico contro una delle maggiori Istituzioni di ricerca e studio dell’oncologia del nostro Paese. L’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro (IARC) dell'Organizzazione mondiale della Sanità ribadisce peraltro che tutti gli agenti considerati cancerogeni, anche quando sono presenti in dosi non alte, non possono mai essere considerati non dannosi per la salute dell’uomo.

Dopo la denuncia andata in onda su Rai3 nella commissione Affari Sociali della Camera, il PD ha posto al Ministro Balduzzi l’urgenza di fare chiarezza sulla sostanza che peraltro è presente anche in moltissimi prodotti farmaceutici, compresi quelli pediatrici. Il Ministro della Salute si è sempre interessato di altro. Non troppo tempo fa aveva proposto di super tassare le industrie che producono prodotti extra dolcificati con l’obiettivo di intervenire sulla patologia dell’obesità e in cambio di metterci a tavola l’incantesimo dei prodotti dolci, ma ipocalorici.

Una stranezza che meriterebbe qualche attenzione in più, visto che la formula magica del “dolce che non è zucchero” è proprio tutta concentrata sull’aspartame e i suoi parenti. La sola vaga possibilità di consegnare la popolazione tutta ad un rischio di cancro dovrebbe rappresentare un elemento sufficiente di analisi e di stop alla diffusione dei prodotti. Ma evidentemente la richiesta di prudenza viene ritenuta ormai solo il delirio di qualche integralista anti occidentale.

La storia della commercializzazione dell’aspartame dalle sue origini è stata tutt’altro che semplice e il battesimo della sua non pericolosità arrivò con Reagan e il cambio del direttore della Food and drug administration. A beneficiarne fu Donald Rumsfeld, all'epoca amministratore delegato della casa produttrice di aspartame (e in seguito Segretario alla Difesa dell’Amministrazione Bush). Oggi in Europa torna con urgenza il bisogno di aprire un dossier di ricerca, per la pressione dei media e di molti parlamentari.

In Italia abbiamo di più. Abbiamo i risultati apprezzabili di un centro di ricerca da sempre apprezzato e considerato di riferimento assoluto che ha deciso di rifare e aggiornare le ricerche eseguite troppi anni fa per essere considerate attendibili oggi. L’atteggiamento delle autorità di fronte a queste evidenze è stato assolutamente superficiale, se non sconsiderato. Già nel 2005, ai con Storace Ministro della Salute, una lettera al Consiglio Superiore di Sanità chiedeva di occuparsi del problema aspartame, nonostante l’Europa fosse contraria ad ogni misura restrittiva sul prodotto. Da allora ad oggi niente è stato fatto e anzi la moda dei prodotti Light è incontenibile.

Sarebbe già molto realizzare una campagna di educazione alimentare che invitasse a ridurre gli zuccheri, piuttosto che fiancheggiare un mercato che premia l’acqua senza l’acqua e il dolce senza zucchero mettendoci nel piatto distillato di pesticidi e chimica industriale.

La società occidentale deve fare i conti con un aumento impressionante, anche in età giovanile, di tumori maligni. La malattia è espressione di diversi fattori: non una sola è la causa, neppure nelle forme di origine genetica.

Non c’è dubbio che ambiente e cibo sono i grandi elementi che sono cambiati nel corso del tempo. Inquinamento e cibo drogato di ormoni, colture transgeniche, antibiotici e pesticidi stanno attaccando la nostra incolumità.

Teorizzava Feuerbach, nel suo anti idealismo e materialismo radicale, che l’uomo è ciò che mangia. Il filosofo non voleva certo teorizzare un’operazione di banale equazione al minimo o di riduzionismo della natura umana. Per capirlo basta osservare l’istantanea su quello che siamo diventati.

Una cultura che non riconosce i germi del proprio suicidio collettivo neppure quando l’ipersviluppo e il business si siedono alla nostra tavola, ci tolgono il pane e  riempiono il piatto e la pancia dei nostri figli con il cartone e la vernice dell’ultima pubblicità. Che uccidono noi per fare ricche le corporations.

di Vincenzo Maddaloni

Se le tante sinistre facessero il loro mestiere, che è anche quello di correlare i meriti e i demeriti all’assetto sociale, sicuramente vivremmo la trasformazione del mondo lavoro con qualche speranza in più. Che non è poco se si pensa che in questo Paese tre lavoratori al giorno muoiono a causa delle condizioni nelle quali si trovano a svolgere la propria attività; e nel silenzio pressoché totale. «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», scriveva nei "Quaderni dal carcere" Antonio Gramsci, del quale ricorre il settantacinquesimo anniversario della morte, (Roma, 27 aprile 1937).

Eppure i fatti di cronaca non mancano. Ogni giorno ci sono spunti per riaccendere la discussione sull’argomento. Basti pensare che a livello nazionale nei primi quattro mesi di quest’anno ci sono stati 105 morti sul lavoro, dei quali quindici soltanto in Lombardia e addirittura sei a Brescia. Vuol dire che gli operai sono disattenti? Che il lavoro è male organizzato? O peggio ancora che si debba morire lavorando? Lavorando per salari bassi, talvolta perfino indecenti. Insomma, si deve disseppellire il concetto di egemonia culturale inventato da Gramsci? Secondo il quale per egemonia culturale s’intende l’imposizione, attraverso le pratiche quotidiane e le credenze condivise, delle rappresentazioni e della visione culturale di un gruppo egemone (quello borghese) agli altri gruppi sociali, fino alla loro interiorizzazione.

Succede perché le istituzioni egemonizzate come la scuola dell'obbligo, i mass media, la cultura popolare, i tecnocrati indottrinano le masse dei lavoratori verso una falsa coscienza, con l’ acquisizione di falsi valori, come lo sono il consumismo ed il nazionalismo. Insomma la classe egemone «attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise», crea «i presupposti per un complesso sistema di controllo», avvertiva Gramsci.

Come oggi sta accadendo col governo tecnico di Monti? Oppure il monito di Gramsci è al giorno d’oggi esagerato? Credo di no, perché il mondo del lavoro sta vivendo uno dei suoi momenti più neri. Infatti, i salari italiani sono i più bassi tra quelli dei paesi fondatori dell’Unione europea, e diversamente da quanto è avvenuto in Francia, Germania e Inghilterra, in termini reali quelli italiani sono rimasti pressoché fermi se si tiene a mente che sono saliti dell'1,2 per cento su base annua. E' la crescita tendenziale più bassa dall'inizio delle serie storiche ricostruite, cioè si è tornati al 1983. Lo dichiara l’Istat, che sottolinea che la forbice tra stipendi e inflazione è al top, a far data dal 1995. E il governo che fa? Tace e aumenta le tasse mantenendo le motivazioni sul vago.

Eppure una delle cause, la più macroscopica è l’aumento massiccio del lavoro precario dovuto al fatto che le imprese tendono sempre di più a sostituire porzioni di forza lavoro stabile e qualificata con forza lavoro precaria e atipica. Sono quest’ultime figure contrattuali, tutte debolissime, quelle che puntano non ad elevare la condizione del lavoratore, ma ad aggredire la condizione del lavoratore stabile. Si tenga a mente pure - lo sottolinea sempre l’Istituto di Statistiche - che la media dei mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto è aumentata rispetto ad aprile del 2011. Oggi essa supera ampiamente i due anni. La ministra Fornero tutte queste cose le sa?

Certo che lo sa, tuttavia - per la prima volta in Italia e nonostante i tecnocrati al governo - coloro che lavorano rischiano di ritrovarsi in condizioni economiche non diverse da quelle del disoccupato assistito. Inoltre, chiunque abbia superato i quarant’anni è consapevole che ai primi segni di crisi il suo posto di lavoro è a rischio, e che in caso di licenziamento sarà molto difficile trovarne un altro di pari livello professionale e a parità di retribuzione.

Infine, l’allungamento dell’età pensionabile rende particolarmente critica la condizione di tale fascia delle forze di lavoro. Ma non va bene nemmeno per i giovani, anzi. Secondo i dati sulla disoccupazione giovanile pubblicati dall’Istat, tra il 2008 e il 2011 il numero degli occupati tra i 15 e i 34 è calato di un milione e 54 mila unità, passando dai 7 milioni e 110 mila di quattro anni fa ai 6 milioni e 56 mila dello scorso anno. Le giovani generazioni sono dunque quelle che scontano più di ogni altro gli effetti della crisi economico-finanziaria.

Tuttavia al di là della crisi c’è pure una rivoluzione in atto con protagonista la tecnologia che oggi non è più un mezzo nelle mani dell’uomo, ma per effetto della globalizzazione è diventata la vera protagonista del mondo dell’economia e del lavoro. La tecnologia non conosce il sociale, sa soltanto ottimizzare l’ impiego minimo delle risorse umane per conseguire il massimo dell’utile. Progetti a lunga durata se ne fanno sempre di meno per il semplice motivo che, la nuova tecnologia agisce in un arco di tempo compreso tra il recente passato e l’immediato futuro preferendo soprattutto l’immediato. E dunque alla progettazione di lungo periodo è subentrata quella di breve periodo, il che vuol dire la ricerca spasmodica per inserirsi in circostanze favorevoli tendenti a sfruttare tutte opportunità che esse possono offrire.

In un contesto del genere quel che si richiede al lavoratore è la capacità di cambiare tattica e stile nel breve periodo con la cosidetta flessibilità, che naturalmente deve essere a basso costo, di alta efficienza e di perfetta funzionalità poiché è la macchina, e soltanto essa che determina la tempistica di produzione e quindi ancora rimane - come nel più cupo fordismo - il modello che incanala e impone all’operaio il ritmo alla corsa.

Sicché Gramsci aveva visto giusto quando scriveva che il dominio di un gruppo su altri gruppi, con o senza la coercizione della forza, viene esercitato finché i modelli culturali del gruppo dominante si impongono agli altri, i quali si adattano e favoriscono il gruppo egemone. Il fatto è che in questo confronto i lavoratori partono svantaggiati poiché tra essi e le imprese non vi è (nemmeno vi è mai stata) una normale relazione di scambio, bensì un rapporto strutturalmente asimmetrico. Infatti, i lavoratori partono da posizioni di estrema debolezza ogni volta che debbono contrattualizzare la propria forza lavoro, poiché chi sa soltanto lavorare e possiede soltanto il “bene” lavoro non ha altre alternative di scambio da proporre.

Gli imprenditori, invece, possono essere meno «impazienti» nell’acquistare la forza lavoro, poiché  possono sopravvivere consumando il proprio capitale. Inoltre, soltanto gli acquirenti della forza lavoro possono perseguire strategie dirette ad indebolire la controparte, vuoi ricorrendo a tecnologie risparmiatrici di manodopera, vuoi spostando gli investimenti da un Paese all’altro, vuoi modificando i requisiti professionali richiesti. E così da un’asimmetria strutturale nasce una prevaricazione di potere delle imprese sui lavoratori. Gramsci, aveva visto giusto? Settantacinque anni dopo la sua scomparsa il suo pensiero è ancora valido?

In Italia quel che più preoccupa sono i rapporti di lavoro non standard, quelli che fanno temere una maggiore instabilità del posto e tragitti lavorativi più discontinui, tanto più che il centro-destra aveva aggiunto un armamentario di impieghi flessibili alle modalità già introdotte dal centro-sinistra. Va anche detto che i vari tipi di contratti a termine hanno sostituito il tradizionale periodo di prova, sia perché certi imprenditori li sfruttano per dilazionare al massimo l’assunzione stabile, o per evitarla, sia perché molti ritengono insufficiente il periodo previsto dai contratti.

Spiega il segretario confederale della Cgil Vincenzo Scudiere : «La credibilità e l’efficacia delle politiche economiche del governo si misura esattamente dalle politiche per la crescita, rispetto alle quali si registra un grave ritardo. Se da una parte si contano un milione di under 35 occupati in meno in tre anni», continua Scudiere, «dall’altra parte abbiamo tre miliardi di ore di cassa integrazione relative allo stesso periodo: uno scenario che raffigura la pesantezza di una crisi che si abbatte prevalentemente sulle fasce più deboli, i giovani».

Infatti sempre l’Istat rileva che tra il 2010 e il 2011 il numero dei giovani occupati (15-34 anni) si è ridotto di 233 mila unità. Ancor più drammatica la situazione dei giovanissimi (fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni), la cui quota di occupati è crollata del 20,5 per cento tra il 2008 e il 2011 (303 mila unità in meno). Per completare il quadro va aggiunto che sebbene rappresentino un’opportunità di ingresso nel mondo lavoro, i rapporti a termine creano la «ghettizzazione» professionale e l’emarginazione sociale quando il lavoratore vi rimane intrappolato. Infatti, è risaputo che chi ha un contratto a termine stenta a ottenere prestiti e ad affittare appartamenti. Così diventa comunque difficile costruirsi un percorso, formulare previsioni e progetti di una certa portata in campo professionale e spesso anche in campo esistenziale e familiare.

Come si fa di fronte a tanta evidenza, a non capire che il problema del lavoro con tutte quelle morti bianche, assieme ai suicidi dei tanti piccoli imprenditori è un problema prioritario? Dire che non si risolve commemorando le vittime degli incidenti nei cantieri e nelle fabbriche, o predicando che è tutta colpa della crisi economica che stiamo vivendo è storia vecchia, troppo vecchia ormai.

Le sinistre, come detto, dovrebbero ritornare a farsene carico adeguando le strategia ai nuovi tempi, ma finché continuano a sbranarsi, compagno contro compagno sul partito di sinistra ideale da fondare o sulle alleanze da fare, non s’inquadrano i problemi nuovi del mondo del lavoro. Sicché o sbagliano quando intervengono poiché non hanno proposte adeguate da presentare o, nel peggiore dei casi, addirittura non le presentano affatto. Insomma, una catastrofe.

Intanto, la grande impresa - con il pretesto dei rincari del costo del petrolio e delle materie prime, degli assilli  della competizione globale - è sempre meno disposta a contrattare e sempre più disposta a indicare i lavoratori e le loro rivendicazioni contrattuali come tra le maggiori cause del disastro economico. Così vivendo il rischio è che prevarrà nella società civile la convinzione secondo la quale “è giusto” “è bello” soltanto la conquista dell’utile economico. Sicché le rivendicazioni operaie non possono essere considerati che un fastidioso incidente di percorso, e quindi vanno cassate. Gramsci, aveva visto giusto, almeno così pare.

www.vincenzomaddaloni.it

 


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