di Vincenzo Maddaloni

Come nei  grandi film gli ingredienti ci sono tutti, per una trama sebbene conosciuta comunque coinvolgente se si vuole prevedere come si articolerà il finale. Il tema è il declino americano, un classico della cultura statunitense che s’inizia negli anni Cinquanta, quando i sovietici lanciando nello spazio lo Sputnik  shoccarono a tal punto gli americani che essi crederono di perdere per sempre il loro dominio sul mondo post Seconda guerra mondiale. Oggi è la Grande Recessione e la debolezza di Obama a far tremare  la Nazione.

Prima ancora c’erano le guerre di Bush e il conflitto di civiltà descritto da Huntington a farli immaginare come dei perdenti. Per non parlare dell’attentato dell’11 settembre, dopo il quale la visione americanocentrica del mondo era data per spacciata. Mai si era giunti a una conclusione così tranciante, nemmeno con la grande crisi petrolifera che pur aveva provocato non pochi dolori. Per ritrovare sulla stampa americana una visione così nera sul declino, bisogna risalire alla debacle in Vietnam con quel drammatico 15 agosto 1971, in cui il presidente Richard Nixon annunciò al mondo che i dollari non erano più convertibili in oro. Poiché - precisò - vi era ormai più moneta circolante che riserve di metallo nella Banca centrale.

Insomma - s’è visto - il tema del declino è una costante della cultura e della politica americana che forse risale addirittura da prima della fondazione stessa degli Stati Uniti. Il dramma è sempre lo stesso, cambiano soltanto i protagonisti e gli scenari.

Tra i protagonisti dei nuovi scenari c’è il movimento di «Occupy Wall Street». Le prime volte in cui si è  parlato di un gruppo di attivisti che il 17 settembre dell’anno scorso si era accampato a Zuccotti Park per protestare contro le politiche finanziarie statunitensi accusate di incrementare il divario tra ricchi e poveri, la vicenda occupava appena le prime pagine dei quotidiani locali americani. Questo accadeva sebbene Zuccotti Park si trovi a Downtown Manhattan, nel Distretto finanziario a due isolati dalla Borsa di Wall Street e a un isolato dall’area di Ground Zero;  sebbene sia un parco rettangolare di tremila metri quadrati, delimitato da Broadway, Trinity Place, Liberty Street e Cedar Street, cioè in pieno centro di New York.

Insomma, il 17 settembre il  neonato gruppo del movimento di «Occupy Wall Street» (OWS), che aveva compiuto i primi sit-in dimostrativi nella via adiacente alla Borsa e che ne era stato allontanato, si era installato a Zuccotti Park.  Vi restò per quasi due mesi, finché Il sindaco Mike Bloomberg  non passò dalla tolleranza totale alla tolleranza zero come accade a chi non rispetta il divieto, previsto anche per Zuccotti Park, di piantare tende e di rendere non godibili  agli altri cittadini gli spazi pubblici.

A sgomberarlo ci pensò con un blitz la polizia. Gli agenti si avvicinarono, provarono senza successo a sollevare gli attivisti di peso, li invitarono a più riprese ad «andare via subito», ma poiché la resistenza continuava scattò l’ordine di arrestarli. Alle 4,30 del mattino del 14 di novembre gli arrestati erano  140, ma  Zuccotti Park era sgomberato. Gli agenti smantellarono quanto era stato disseminato in quei due mesi di occupazione: sacchi a pelo, coperte, tavolini, librerie, cucine, insegne e bandiere, vennero accatastati e portati via.

Gli scontri dell’altra settimana a Chicago tra gli attivisti di «Occupy Wall Street» e le forze di polizia sono stati molto più pesanti. A decine i dimostranti sono stati sbattuti violentemente a terra, messi in manette e portati via mentre la folla lanciava ogni sorta di oggetti contro la polizia in assetto antisommossa. Gli scontri erano scoppiati quando al corteo diretto alla sede del summit della Nato, dove i leader dell’Alleanza stavano discutendo della guerra in Afghanistan, era stato impedito di proseguire.  Tanta era stata la violenza in quella giornata che il movimento si era conquistato l’attenzione dei media nazionali e internazionali e pure quella di centinaia di simpatizzanti che hanno espresso la loro solidarietà, inclusi molti leader sindacali, intellettuali di spicco  come Slavoj Zizek, e altre note figure come Michael Moore .

Così gli scontri tra polizia e manifestanti avevano distolto l’attenzione mediatica dal summit della Nato, o per essere più precisi essa si era soffermata soltanto su quell’«ora possiamo davvero porre fine a questa guerra», con il quale presidente americano, Barack Obama, aveva salutato l’accordo raggiunto sulla exit strategy dall’Afghanistan, dopo quasi 11 anni dall’inizio della guerra e a poco più di un anno dall’uccisione in Pakistan di Osama Bin Laden

Del resto era il ritiro delle truppe da Kabul la notizia più attesa. Molta meno attenzione invece era stata data alla strategia a più lungo termine dell’Alleanza atlantica che mira a includere il maggior numero possibile di Paesi nella  Nato, oramai votata a diventare, come ha spiegato il suo segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, «il nucleo di una rete di patti per la sicurezza e un centro di consultazione su questioni di sicurezza globale»; e naturalmente «un’istituzione collegata globalmente» con oltre quaranta Paesi  e con altrettante se non di più organizzazioni internazionali.

Per la cronaca, i Paesi coinvolti sono quelli europei che non fanno parte della Nato, come Austria, Svizzera, Finlandia e Svezia, e aspiranti e possibili membri della Nato come Bosnia, Serbia, Macedonia, Ucraina, Bielorussia e anche la Russia. Ai quali vanno aggiunti tutti i Paesi dell’Asia centrale - dal Turkmenistan al Kazakhstan, così come Armenia, Azerbaigian, Afghanistan, Pakistan e Mongolia - così come il Maghreb intero, dal Marocco all’Egitto, così come Israele, Giordania, Iraq, Bahrain, Qatar, Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti. Vi si aggiungano a completamento, i partner del Pacifico che includono Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.

Se si tracciano i percorsi che dalla Nato s’irradiano verso tutti Paesi elencati e alla miriade di organizzazioni, si dipana una maglia fitta di presidi di sicurezza del tutto simile, nei tracciati, a una mappa di contatti Internet o a quelle che riproducono sugli atlanti la disposizione delle galassie. Così illustrando meglio si può ribadire ai più scettici che il mondo è cambiato, che non è più unipolare, bipolare, o anche multipolare, perché gli attori che contano non sono più i singoli Stati, ma i gruppi di Stati che s’interconettono ogni qualvolta c’è un attentato alla sicurezza o se ne paventi il pericolo.

Questo nelle intenzioni è il progetto del mutamento strutturale che secondo i promotori (leggi Usa) avrebbe un enorme significato pratico. Per cominciare vorrebbe dire che non solo i mezzi militari della Nato, ma anche il suo capitale umano e le nozioni pratiche nella lotta contro diversi tipi di minacce, sarebbero disponibili globalmente. Infatti, dopo l’implosione dell’Urss la Nato non è più il martello che si contrapponeva al Patto di Varsavia, piuttosto mira a diventare una sorta di kit di opzioni di sicurezza per affrontare le minacce comuni come il terrorismo, la proliferazione delle armi nucleari, chimiche e biologiche, senza escludere la pirateria.

Pertanto, quando il mutamento strutturale diventerà realtà la Nato potrà schierarsi accanto a qualsiasi Paese o gruppo di Paesi che «scelga di assumere un ruolo guida nell’adempimento di un mandato delle Nazioni Unite». Siccome il membro con più potere è quello che governa il maggior numero di collegamenti, il dominio americano è destinato a crescere.

Questo vorrebbe dire un Occidente sempre di più americanocentrico, (come scrive nei suoi libri lo scenarista e direttore dell’agenzia di intelligence privata Stratfor George Friedman), che potrebbe attrarre nella sua orbita l’Eurasia o comunque coartarla. Insomma, partendo dallo scudo missilistico che ormai è già operativo, con il nuovo assetto della Nato gli Stati Uniti continuerebbero a controllare i mari, a difendere il commercio globale, ormai diviso a metà sul versante Atlantico tra l’America e l’Europa e, per l’altra metà, sul versante Pacifico tra l’America e l’Asia. In breve, governerebbero un sistema di alleanze internazionali che raggruppa il 70 per cento del potere economico mondiale.

Lo scenario che si prospetta dispiace alla Russia, che ha già preso le distanze dalle iniziative americane. Infatti, quando il 17 novembre scorso l’Alleanza ha condotto un’esercitazione - «Rapid Arrow» - con la quale ha saggiato per la prima volta la sua capacità di abbattere missili lanciati contro il territorio europeo, la Russia ha manifestato in tempo reale il suo dissenso sullo scudo missilistico come difesa continentale, anzi lo ha definito un progetto ostile. Così di colpo sono montate le tensioni tra gli Usa e la Russia, tant’è che Vladimir Putin non ha partecipato al G8 americano di Camp David. Al suo posto ha mandato Medvedev, con cui si è scambiato la poltrona, nominandolo Primo Ministro. Uno sgarbo agli Stati Uniti che ha confermato il gelo sceso tra i due Paesi, come non si vedeva forse dai tempi in cui Boris Eltsin era stato progressivamente ammesso nel club dei grandi.

Tuttavia a Chicago, i leader dei Paesi membri dell'Alleanza avevano discusso di Afghanistan, di scudo missilistico europeo e di altri temi di sicurezza internazionale, come nulla fosse accaduto. Stessa sorte ( e non poteva essere altrimenti) avevano riservato ai clamori della piazza. Infatti il corteo dei dimostranti si era mosso a mezzogiorno  guidato dal reverendo Jesse Jackson e scortato da poliziotti a cavallo. La folla era composta soprattutto da persone che avevano poco a che fare con le tematiche affrontate nel 25esimo summit ufficiale dell'Alleanza creata nel 1949. Accanto agli attivisti per la pace e ai no global, la maggioranza era di persone che protestavano contro la sperequazione economica. Alla manifestazione, come detto, «Occupy» era tra i protagonisti principali, i suoi attacchi erano mirati a tutto campo: «La Nato è uno strumento per tenere poveri i poveri e ricchi i ricchi»; «La Nato è il braccio armato dell'uno per cento».

Noam Chomsky,  intellettuale di spicco, autore di molti libri e di articoli su questioni internazionali e socio-politiche, ha definito «Occupy» come un «qualcosa di estremamente emozionante. Senza precedenti, veramente». E ha concluso: «Non c’è mai stato niente di simile che mi venga in mente. Se riuscirà a sopravvivere anche durante il lungo periodo oscuro che ci aspetta - perché la vittoria non arriverà presto - potrebbe segnare un momento significativo nella storia americana». Sicuramente le sue considerazioni sono un po’ sopra le righe.

Dopotutto anche Chomsky , Institute Professor in pensione, appartiene alla razza dei vecchi che, come scrive Elio Vittorini, «hanno fino all’ultimo nel cuore un uccello che canta, e fino all’ultimo ascoltano il proprio cuore-canarino». Perché - si tenga a mente - per tutta una serie di accadimenti la democrazia nel corso dei decenni (negli Usa come altrove) si è andata sclerotizzando proprio nel suo punto centrale: la rappresentatività del governo nei confronti delle domande dei governati.

Il primo colpo glielo diede appunto Richard Nixon quando dovette ammettere che la Banca centrale non poteva più assicurare la convertibilità della moneta in oro. La nuova realtà significò per molti analisti una dichiarazione implicita di bancarotta. Infatti, da allora in poi il dollaro è stato sostenuto con le bombe perché restasse la valuta di riferimento, e così facendo si posero dei limiti sostanziali alla democrazia rappresentativa, come la indicò Lincoln nel discorso di Gettysburg (19 novembre 1863). Infatti egli dipinse un sistema nel quale, più che permettere alla popolazione di autogovernarsi le si accorda il potere di eleggere e destituire i suoi stessi governanti in modo regolare, per tutelare le proprie libertà.

Un secolo e mezzo dopo, nell'America attraversata dalla più grande crisi dai tempi della Grande Depressione, il sistema politico americano è stato messo letteralmente a nudo: la sua incapacità di amministrare l’economia (vuoi per incompetenza, vuoi perché le questioni vanno al di là della sfera nazionale) è ormai sotto gli occhi di tutti, come pure la sua insufficienza rappresentativa e la sua sottomissione ai poteri dei mercati, gli eccessi dei quali si dimostra incapace di governare.

Naturalmente il movimento  «Occupy Wall Street» non ha leader riconosciuti che abbiano titolo o volontà di stilare un programma che riempia il vuoto lasciato dal governo del presidente Obama. Gli aderenti si  barricano dietro lo slogan «siamo il 99 per cento» (della nazione americana), per poter urlare al mondo che è soltanto l’uno per cento che possiede la ricchezza negli Stati Uniti. Ma essi non vanno  oltre la protesta, sebbene il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, sostenendo che si è iniziata “l’èra dell'uno per cento”, abbia sollecitato un confronto su questa realtà.

Naturalmente, la critica al capitalismo e l’aspirazione ad una società più egualitaria, votata alla redistribuzione della ricchezza sono i temi che fanno da sottofondo al movimento. Così come pure l’adesione di sindacalisti, di anarchici, di personaggi come Michael Moore completano lo scenario. Tuttavia, sebbene il pugno chiuso e «La rivoluzione continua ovunque» che fanno parte del logo di OWS consacrano la volontà di rottura del sistema in atto, il movimento ha accentuato la sua peculiarità tutta economica più che ideologica della protesta.

Il modello è un po’ quello del  «Tea Party», l'ambiguo movimento liberista, libertario e conservatore, ma con toni infelici di estremismo che non è diventato partito, ma che ha aperto la strada alla protesta e ha condizionato gli uomini e le scelte dei repubblicani. La folla dei «Tea Party» è lo specchio del malcontento americano contro Washington visto da destra. «Occupy Wall Street»  è il malcontento schierato sul versante opposto. Il radicalismo della protesta - da sempre  - mobilita le coscienze, eccita gli animi, galvanizza i militanti. Si tenga a mente che gli americani imbracciano spesso i forconi della contestazione, come in una versione aggiornata del celebre dipinto «American Gothic» di Grant Wood  (1930). Il populismo di destra e di sinistra è  una costante della tradizione politica statunitense, specie in tempi di crisi economica come  adesso. Sicché il presidente Obama è compresso da una parte dal «Tea Party» che l’accusa di aver trasformato l'America in un paese socialista e dall’altra parte da «Occupy» che lo accusa di essersi svenduto a Wall Street.

Di norma in America le proteste populiste vengono alla lunga riassorbite nei meccanismi democratici e costituzionali, con meno traumi rispetto alla storia europea. Lo saranno anche questa volta? «Andiamo a Chicago per non tornare più indietro». Probabilmente esagerava Louis a parlare così, ma l’enorme tatuaggio che gli copre tutto il braccio destro era chiaro: «Faith is Pain», per credere bisogna soffrire. Sofferenze a parte, il movimento riesce a raccogliere proseliti, a centinaia. Tant’è che si è già stilato un calendario di manifestazioni che ne prevede una di grande a Filadelfia il 4 luglio, e una epocale a Zuccotti Park il 17 settembre - primo anniversario della fondazione di  «Occupy Wall Street» - dove si stima di poter radunare un milione di persone. Gli attivisti si organizzano prendendo spunto dalle tecniche di organizzazione sociale della sinistra radicale dettate negli anni Settanta da Saul Alinski. Non è un caso che nelle classifiche dei libri più venduti su Amazon siano saliti sia la saga antistatalista di Ayn Rand sia il manuale di regole per i radicali di Alinski.

Il fenomeno «Occupy Wall Street» e «Tea Party» ha comunque traumatizzato la società americana. Il primo a esserlo è Barack Obama, il presidente, che sembra non aver ancora trovato la chiave, i toni e le ricette per unificare il Paese nella crisi, far ripartire l'economia e assicurare la sicurezza sociale ai concittadini

Va pure riconosciuto che gli Stati Uniti sono vittime dei mercati finanziari che hanno portato l’economia al collasso. La speculazione è antica, ma gli sviluppi tecnologici, politici e finanziari l’hanno resa molto più aggressiva. Questo nuovo  modo di condurre l’attività bancaria attraverso scambi internazionali rapidissimi comporta rischi enormi. E si porta dietro la tentazione di colossali profitti finanziari che indignano l’opinione pubblica, la quale si radicalizza sempre di più.

Ne è una riprova la vicenda “Facebook” che ha portato alla luce uno di quei segreti che a Wall Street, pur facendo finta di nulla, tutti conoscono: i grandi investitori ricevono un trattamento di favore rispetto ai piccoli azionisti. Le polemiche scatenatesi nei giorni scorsi attorno al ruolo svolto da Morgan Stanley (la holding bancaria con facoltà di raccogliere anche depositi a risparmio) vertono proprio su questo, cioè sul fatto che alcuni grandi investitori siano stati informati della revisione al ribasso delle stime di fatturato del social network per il secondo trimestre e per l'intero 2012 dopo che erano affiorati nuovi dati, mentre al grande pubblico non è stato dato alcun avvertimento.

Insomma, i mercati hanno sottomesso il potere politico ai loro interessi, diventando una sfera di potere autonomo e indipendente. Il risultato è che l’interesse collettivo è relegato in secondo piano, come principio ispiratore delle politiche pubbliche, così come si stempera da parte del governo l’obbligo di rendere conto del proprio operato ai cittadini. La svolta americana si è rivelata contagiosa, sicché mentre dal punto di vista quantitativo le democrazie trionfano nel mondo, dal punto di vista qualitativo si sono considerevolmente deteriorate.

Insomma, la crisi ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell'economia e i movimenti popolari denunciano la distanza dei sistemi occidentali dai loro cittadini, ma ben poco possono fare per invertire la tendenza. Anche perché il Paese che tentasse di ostacolare le galoppate finanziarie del capitalismo liberista verrebbe punito dal mercato attraverso la fuga dei capitali, la svalutazione della moneta e l’abbassamento del rating del credito. E’ già accaduto nella storia dei Paesi industrializzati. L’Eurasia ha di che preoccuparsene.

Pertanto l’ordine è perentorio: tutti allineati e coperti perché il G-20, il club che avrebbe dovuto coinvolgere le economie emergenti, dal Brasile all'India, è stato stoppato dalla crisi finanziaria internazionale e dall'impossibilità di trovare una soluzione condivisa della governance mondiale. Non è nemmeno ipotizzabile alla guida del mondo l'alternativa del G-3 - America, Europa e Giappone - perché agli Stati Uniti mancano le risorse, l'Unione Europea è impegnata nel salvataggio della sua moneta e il Giappone ha numerosi problemi interni. Insomma, vivremmo già nel mondo del G-Zero.

Almeno così la pensa Ian Bremmer, politologo internazionale, che in questi giorni è alla ribalta delle cronache  per l’uscita nelle librerie del suo ultimo saggio: “Every Nation for Itself: Winners and Losers in a G-Zero World”. Il mondo è del G-Zero perché, spiega Ian Bremmer, nessuna nazione, nessun blocco di Paesi, nessun leader internazionale ha la forza, la volontà e il peso specifico per guidare la comunità internazionale. Le grandi potenze mondiali, secondo lo studioso americano, hanno messo da parte ogni aspirazione globale.

Siccome l'èra delle grandi potenze contrapposte è finito, rincara Bremmer, anche il mondo unipolare è stato archiviato con l'uscita di George W. Bush dalla Casa Bianca. Si aggiunga pure che un’impetuosa ascesa da parte di altri Paesi, “the rise of the rest”, non c'è stata. Pertanto, Obama amministra il declino americano, contribuendo alla creazione del mondo del G-Zero che, secondo  le conclusioni catastrofiche del “doctor” Bremmer provocherà più conflitti che cooperazione.

Infatti, per prevenirli il Presidente dell’America in declino dovrà, seppure riluttante, assumere il ruolo egemone nel mondo del G-Zero. Almeno, finché il nuovo assetto della Nato non sarà operativo, la pace in Medio Oriente non sarà raggiunta, la minaccia nucleare iraniana cancellata, la ripresa economica avviata. Siccome c’è ancora parecchio da fare il mondo resterà americanocentrico - con tutti i guai che ne conseguono - per molto tempo ancora. Sicuramente troppo.

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di Ilvio Pannullo

La sbornia di Parma, dalle 17.15 di lunedì 21 maggio 2012 la Stalingrado grillina d’Italia, non accenna a smettere. Si è detto e scritto tanto, tantissimo, forse addirittura troppo, sul Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ma quello che è certo riguarda soltanto il passato: il futuro è tutto da scrivere ed è già in cammino. Il successo elettorale, lontano dall’essere inaspettato e imprevedibile, ha galvanizzato i militanti, il popolo delle rete e tutti coloro che sperano in un cambiamento, in una nuova prospettiva, in futuro che sia migliore del tragico presente.

A chi osserva, a quanti apprezzano l’effetto ma mai voterebbero per il vate genovese, perché restii a concedere il proprio favore a chi urla da un palco, negandosi al tempo stesso ad ogni democratico confronto, non resta che sperare nell’onda d’urto, nell’effetto a catena che il Movimento 5 Stelle ha inesorabilmente innescato.

Il neo eletto sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, ha saputo vincere ed esultare, accendendo gli animi e la speranza. «É l’alba della Terza Repubblica», dice in versione Pifferaio di Hamelin, inseguito dalla stampa di mezzo globo e accolto ovunque dagli osanna dei suoi ragazzi. «É la svolta», gli fa eco Giovanni Favia, proconsole in Regione del Movimento. Adesso, però, viene il bello. O il brutto, dipendendo il giudizio finale da cosa concretamente verrà fatto.

Il partito anti-partito deve infatti fare subito i conti con il mostruoso debito del Comune, che alcune voci accreditano essere pari a 600 milioni di euro. A ciò si aggiunga il profondo rosso del Teatro Regio, stimato dai 7 ai 12 milioni di euro, e la clausola penale, pari a 180 milioni di euro, prevista nel contratto stipulato tra il Comune di Parma e la Iren Emilia s.p.a. e che andrà pagata, per cestinare quell’inceneritore tanto osteggiato in campagna elettorale. Problemi enormi per un tecnico informatico, eletto sindaco di una città che conta appena 200.000 anime.

Dal giorno della vittoria elettorale il titolo della società quotata “Iren Emilia”, con sede legale e direzione centrale a Reggio Emilia, non fa che andare giù: a preoccuparsi, oltre agli azionisti disperati, è l’intero settore dell’economia tradizionale. Grillo fa paura e a fare ancora più paura sono le idee veicolate dal Movimento di cui è il portavoce: democrazia diretta, controllo in tempo reale della corretta esecuzione del mandato elettorale, selezione meritocratica dei candidati sulla base delle esperienze e dei programmi.

E qui viene il bello: i programmi. Già, perché se è vero che Grillo è il leader del Movimento 5 Stelle, per il semplice motivo che è in grado di gridare nelle piazze - e su un blog seguitissimo - quello che decine di milioni di persone andavano discutendo in rete da anni, è vero anche che non ha inventato nulla: quel che dice Grillo viene scritto su milioni di pagine internet di tutto il globo, ogni giorno.

E’ inutile riepilogare i principi e gli obiettivi del Movimento 5 Stelle, ma i giornali tradizionali mentono sapendo di mentire quando parlano di "idee di Grillo" come se fossero il parto di un comico e nulla più di questo. Sono invece il parto di milioni di teste pensanti globali che da anni riflettono sulla crisi ambientale e sulla sovranità alimentare, sulla crisi energetica e sulle energie rinnovabili, sulla crisi economica e sulla sovranità monetaria: il frutto di un pensiero diffuso e ben consolidato che Grillo ha avuto il merito di portare al grande pubblico italiano. Come un megafono.

Sbagliano i partiti e i loro organi di potere ancillari a definire, più o meno direttamente, il genovese più famoso d’Italia come una testa di... In verità è una testa d’ariete, un Ulisse dei tempi moderni e il Movimento 5 Stelle una sorta di cavallo di Troia. Ciò che deve essere oggetto di discussione sono “i greci” al suo interno: i programmi, le idee di cui il Movimento si vuole fare portavoce e tra queste ve n’è una assai interessante.

Si è detto della situazione debitoria in cui versa il Comune di Parma. Un problema comune all’Italia, alla Grecia, all’intero ClubMed e - perché no? - all’intera area d’influenza angloamericana. In un momento di crisi, dove il sistema bancario, per rispondere ai criteri di capitalizzazione imposti dall’accordo Basilea 3, si permette di incamerare circa 1000 miliardi di euro emessi dalla Banca Centrale Europea al tasso dell’1%, per poi reinvestirli in titoli di Stato resi appetibili da rendimenti oscillanti tra il 5 e il 6%, il problema della moneta circolante è un problema da risolvere urgentemente.

Già, perché la moneta sta all’economia come il sangue sta all’organismo: è semplicemente essenziale. Se manca, l’organismo muore. La moneta può essere, però, esattamente come il sangue, buona o cattiva. Nel primo caso l’organismo sarà sano e vigoroso; nel secondo, per non essendo morto, sarà ciclicamente colpito da malanni più o meno gravi. Esattamente quello che sta accadendo alla nostra Europa.

L’idea, anche questa, non è nuova, ma per la prima volta potrebbe avere un’applicazione su larga scala: Parma potrebbe dotarsi di una propria «moneta». Ovviamente si tratta di un’imprecisione, di una semplificazione utile al giornalista per agevolare la comprensione e la diffusione dell’idea, ma invisa a ogni buon giurista. Dire “moneta locale”, infatti, significa dire falso nummario. L’idea di una moneta locale alternativa all’Euro è affascinante, ma perfeziona l’elemento tipico di un reato penale.

Chiunque legga gli articoli dal 453 al 466 del codice penale potrà infatti ben capire il perché nessun pubblico ufficiale, neanche il più illuminato, possa permettersi il lusso di parlare di moneta locale, ma solo di buoni sconto da spendersi tra persone fisiche e giuridiche liberamente affiliate ad un'associazione privata. E' un problema più giuridico che economico, dunque molto noioso è poco interessante, ma se si pensa che è stato istituito un nucleo speciale in seno all'Arma dei Carabinieri - il Comando carabinieri antifalsificazione monetaria - gerarchicamente dipendente dalla Banca d'Italia, al di là della noia si capisce bene che un problema c'è.

Utilizzando una prospettiva economica, da intendersi qui con la “e” minuscola, quella della spesa al mercato (e non al super-mercato), delle bollette, delle piccole spese e delle piccole necessità quotidiane, oggi così difficili da soddisfare, è forse più utile guardare alla sostanza dei rapporti economici, che alla definizione giuridica del mezzo di scambio utilizzato tra i vari attori dell’economia locale. La notizia circolata negli ultimi giorni, infatti, riguarda i contatti (anzi le email, per usare il nuovo codice parmigian-grillista 2.0) tra lo staff di Pizzarotti e due economisti eretici dell’Università Bocconi: Massimo Amato, professore di storia economica, e Luca Fantacci, docente di storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario.

La coppia di quarantenni ha messo a punto un progetto di valuta complementare all’euro. Secondo il Movimento sarebbe un sistema di credito cooperativo tra aziende per rafforzare il tessuto locale. In pratica un modo per mettere in scacco l’usurocrazia europea e lo strozzinaggio in atto ai danni dei “maiali” europei.

Questo sistema lungi dall’essere una chimera è già in vigore in molti paesi e, in alcuni di essi, su tutti Svizzera, Germania e Giappone, con risultati straordinari. In tutto il mondo si contano un totale di circa ottomila monete complementari, ma nessuno ne parla. Le valute alternative altro non sono che strumenti di scambio con cui è possibile scambiare beni e servizi affiancando il denaro ufficiale (rispetto al quale sono appunto complementari).

Solitamente le valute complementari non hanno corso legale e sono accettate su base volontaria: ciò contribuisce al loro aspetto identitario, cioè al loro identificare la comunità all'interno della quale sono usate alla stregua dei vantaggi di una tessera associativa. Il tutto ha il risultato di aumentare il potere economico dei soggetti che aderiscono al circuito, decidendo di accettare una parte del prezzo nella “moneta locale” che poi potranno a loro volta spendere presso gli altri soggetti -persone fisiche, professionisti, negozi e società - che partecipano al progetto.

Un sistema di valuta complementare è infatti accettato ed utilizzato all’interno di un gruppo, di una rete, di una comunità per facilitare e favorire lo scambio di merci, la circolazione di beni e servizi all’interno di quella rete sociale, rispetto al resto della comunità, in modo del tutto identico a quanto accade con la moneta avente corso forzoso.

Va da sé che se ad aderire al progetto di una “moneta locale” o, per facilitare i neo eletti sindaci a 5 stelle, a costituire un’associazione di diritto privato cui liberamente associarsi, è un Comune di 200.000 anime, l’effetto che si ottiene è semplicemente esponenziale. Basterebbe per il Comune limitarsi ad accettare una piccola parte di una qualsiasi tassa comunale - mettiamo, a titolo esemplificativo, il 10% della TAssa sui Rifiuti Solidi Urbani - per incentivare tutti i cittadini, tutti i negozianti e qualsivoglia operatore economico tenuto per legge al pagamento della T.A.R.S.U. ad iscriversi all’associazione di diritto privato di cui sopra. Il risultato che si otterrebbe sarebbe pari ad un aumento del potere di acquisto di ogni iscritto all’associazione, in una misura variabile a seconda degli sconti accettati dai singoli partecipanti.

Per comprendere le ragioni che danno vita ad un sistema di valuta complementare, è utile rifarsi al significato antico del denaro: un accordo all’interno di una comunità che accetta di utilizzare "qualcosa" come bene di scambio riconosciuto. Le valute complementari si collocano, dunque, come “sistemi di accordo” all’interno di una comunità e promuovono la pianificazione a lungo termine, stimolando i partecipanti al circuito ad investire in attività produttive connesse, piuttosto che nell’accumulo di denaro. Esse incoraggiano gli scambi e la cooperazione con la propria rete di aderenze, attraverso la circolazione del bene di scambio a cui, solitamente, viene attribuito un valore etico ed ideale. Questo perché l’economia può essere etica solo se lo è anche il mezzo. In Italia un esempio già c’è: lo SCEC, acronimo di “Solidarietà ChE Cammina”. Un mondo diverso è dunque possibile. A Parma, ma anche altrove. Basta crederci.

 

di Andrea Santoro

Trovare parcheggio a Roma è una delle attività più odiate dai suoi abitanti, che spesso si trovano a preferire il rischio di una multa piuttosto che girare intorno alla destinazione come avvoltoi affamati intorno alla preda. Le multe fioccano, si parte da 39 euro per sosta vietata. In tanti si sono visti recapitare a casa la famigerata busta verde contenente il bollettino per poi dover andare alle poste e pagare la somma. A volte però l'iter delle multe è un po' diverso, può succedere di aprire la cassetta della posta e trovarci dentro sempre lei, la busta verde, ma con una piccola differenza rispetto al solito: la somma questa volta è una cifra a tre zeri.

Sono migliaia i casi in Italia, assurdi e tristemente noti, come il caso di un pensionato che si è visto pignorare, ipotecare e svendere all'asta la propria casa perché, essendo malato di alzheimer, aveva scordato di pagare una multa di 63 euro. Volendo essere precisi lo sfortunato non ha nemmeno potuto seguire queste tre fasi di deprivazione dei propri beni, trovandosi poi a ricomprare ad un prezzo maggiorato la propria abitazione dai tre vincitori dell'asta: l'agenzia preposta al recupero della sanzione ha notificato il tutto al pensionato solo momento in cui l'asta si è conclusa. Ora la questione è appannaggio del tribunale di Genova, ma le vicende simili si moltiplicano di giorno in giorno e purtroppo solo una minoranza sono imputabili alle cosiddette 'cartelle pazze', quelle cartelle cioè che contengono errori palesi o addirittura inviate per errore.

Chi si occupa del recupero imposte e crediti in Italia e perché l'odio nei confronti dell'esattore, figura storicamente invisa, si è tramutato negli ultimi mesi in una disperata lotta per difendersi dal leviatano, fino a sfociare nella violenza? La legge 248/2005 ha sollevato gli enti privati dall'onere della riscossione, delegandolo a Riscossioni SPA poi rinominata nel 2007 Equitalia SPA, con non poca ironia. Questa società per azioni offre i suoi servizi su tutto il territorio nazionale ad esclusione della Sicilia ed è costituita per il 49% dall'INPS e per il restante 51% dall'agenzia delle entrate.

Dal gennaio 2011 si susseguono le raccolte firme e le azioni, più o meno dimostrative, nei confronti di questo ente accusandolo di usura ed invocandone la soppressione, ma quali sono i limiti entro cui si può muovere la longa manus dell'agenzia delle entrate e quali le illiceità perpetrate?

La critica più comunemente mossa ad Equitalia è appunto quella di applicare tassi simili a quelli dell'usura: una multa non pagata di 200 euro può lievitare in soli quattro anni fino a raggiungere la cifra di oltre 2200 euro, come capitato a molti nella capitale, il cui comune nel 2007 ha passato le cartelle all'agenzia che ha impiegato circa quattro anni per notificarle: ora i cittadini si trovano schiacciati tra il muro di gomma del comune, che ha perso la competenza su quelle cartelle e l'agenzia di riscossione, che sostiene di doverle incassare senza poterne diminuire l'importo.

E' senz'altro vero, però, che i dipendenti di questa società sono schiacciati dagli ingranaggi ben oliati della macchina di riscossione debiti che automatizza il processo di ipoteca, pignoramento e riscossione dalla data della notifica, senza che il singolo possa modificare alcunché e anzi, nel caso il dipendente voglia dimenticare una pratica perché mosso da sentimenti umani, incapperebbe in sanzioni per negligenza ed abuso di ufficio, dal momento che la l248 stabilisce per legge l'obbligo della riscossione.

In questo contesto non si può però scordare il servizio apparso un anno fa su Report(Rai3) dove veniva regolarmente dimostrata la propensione dell'agenzia ad essere meno severa con chi dispone di redditi molto alti o di discreta fama, portando tra gli altri l'esempio del favoritismo nei confronti un piccolo politico del nord Italia impegnato alla lotta ai fannulloni: se è quindi inoppugnabile la scarsa o nulla responsabilità dei dipendenti allo sportello è altrettanto incontestabile una certa torbidezza nel cursus che precede la notifica delle cartelle.

Avere come obiettivo Equitalia è in qualche modo fuorviante, odiarne i dipendenti, specie quelli nei settori più bassi della piramide, si traduce troppo spesso in una guerra tra poveri. I grandi spazi di manovra offerti al rullo compressore degli esattori sono prevalentemente frutto della legge che li delimita; considerare Equitalia un problema a compartimento stagno senza interconnessioni col governo e la pubblica amministrazione, è come voler processare il boia.

È proprio la legge a consentire all'agenzia la richiesta di interessi multipli sulla riscossione, sua principale fonte di sostentamento. Questi sono il diritto all’aggio (9% ), una percentuale sull’interesse di mora (0,615% annuo), un diritto alle spese di esecuzione ed alle spese di notifica, un diritto al rimborso delle quote inesigibili ed un altro 9% sugli interessi di mora.

Il vero punto di forza però sta nel poter notificare la cartella quando preferiscono: pensate a cosa possono significare questi interessi in 10 anni. A questo si aggiunga il moltiplicarsi di cartelle pazze anche solo in parte, con voci incomprensibili ai più e maggiorazioni assurde degli interessi. Tutto questo nell'ipotesi che abbiate i soldi per pagare l'agenzia delle entrate.

Lo scenario per i debitori insolventi diviene ancora più assurdo: un imprenditore insolvente, con un debito superiore agli 8000 euro, verrà colpito dalle cosiddette ganasce amministrative: i mezzi di produzione di sua proprietà verranno confiscati, messi all'asta, venduti. Il dubbio è spontaneo: come si può produrre senza i mezzi di produzione? Da dove proviene il plusvalore senza macchinari, con cosa dovrebbero essere pagati i lavoratori?

E' un cane che si morde la coda. Non è vessazione togliere a produttori e lavoratori la loro dignità, la loro libertà di produrre, in nome di un'esazione che dovrebbe ridare fiato ad una macchina statale ormai stanca, che si rispecchia in una società che non le da più alcuna fiducia, visti i continui scandali, corruzioni, intrighi di basso impero? Non lo è nemmeno ipotecare la casa altrui, gli affetti, il futuro? Quale può essere il sentimento nei confronti della comunità, che poi è lo Stato, di chi da questa si vede depredato, ingannato, ferito a morte?

Può sembrare strano ma la trasparenza è un concetto diverso da quello di invisibilità e la sua assenza sta diventando ingombrante: una amministrazione pubblica più vicina al singolo, meno disumanizzata, può rafforzare il contratto sociale attraverso la ripartizione effettiva delle risorse sul territorio, può riavvicinare il singolo alla comunità. Tutto ciò non può prescindere da una riforma costituzionale che vada ad incidere seriamente sui costi della politica e della pubblica amministrazione, non può prescindere dalla modifica di un assetto rappresentativo che giorno dopo giorno allontana i rappresentati dai rappresentanti. Equitalia avrebbe potuto essere una fusione che ricordi il rinnovamento cui tendere tutti insieme, non la misura della distanza tra il popolo e il suo palazzo.

di Rosa Ana De Santis

L’Istat, nella Giornata Mondiale contro l’omofobia, ha presentato alla Camera dei Deputati i propri numeri: sono circa un milione gli italiani che si dichiarano omosessuali o bisessuali. Uomini per lo più del nord e del Centro Italia. Un numero certamente approssimato per difetto, dal momento che tanti omosessuali non si dichiarano, visto il clima socioculturale imperante.

La famiglia è il luogo in cui è più difficile fare outing e il sistema normativo italiano, al confronto di molti altri Paesi europei, mostra tutte le sue anacronistiche lacune sull’argomento. Eppure il 43,9% degli italiani si dice d’accordo al matrimonio gay, e il 62% a una qualche altra forma di regolamentazione. E’ invece sull’adozione dei figli che gli italiani in maggioranza dicono di no.

La mancanza di riconoscimento giuridico, unita ai sempre più diffusi episodi di discriminazione, obbliga a ragionare concretamente e subito sulla necessità di approvare una legge contro l’omofobia. Rispetto infatti alla discriminazione normativa che subiscono tutte le coppie di fatto nel nostro Paese, gli omosessuali patiscono un doppio danno nel momento in cui, in un clima che racconta frequenti episodi di penalizzazione, se non di veri e propri maltrattamenti, non vengono tutelati da una legge contro l’omofobia.

La scusa che la politica affidata alla patologia omofobica dei vari Giovanardi ha sempre addotto per rifiutare la legge, è sempre stata quella di non volere che la norma assumesse intrinsecamente un dato di merito sull’orientamento sessuale come criterio di tutela specifica. Sarebbe proprio questa architettura a generare una prima discriminazione. Si adduce, in opposizione ad una normativa antidiscriminatoria, che tutti siamo cittadini, tutti siamo persone. Ma è una concezione astratta, che vede la giurisprudenza come “neutra”.

Perché se è vero che il ragionamento è giusto sul piano squisitamente teorico, è vero anche che la legge parla ai fatti e non con se stessa. E i fatti ci dicono, come è stato nella storia per il razzismo contro i neri o l’emancipazione delle donne, che c’è a volte bisogno, anche in forma transitorie, di misure speciali quando i reati hanno un’impronta forzatamente ideologica.

E’ questo lo strumento che una società moderna ed attenta ai diritti civili si da per opporre con più forza il rigore della legge nei casi in cui essa viene violata in assenza di causa che non sia la discriminazione ideologica. E’ così, proprio per sanzionare l’odio razziale, che il razzismo è diventato un aggravante, èd è così, per contrastare la discriminazione di genere, che quasi ovunque sono nate le quote rosa.

A fronte della fotografia ISTAT l’Arcigay muove al nostro Parlamento la richiesta di lavorare con urgenza su un fronte importante, da troppo tempo disatteso. Per ora il governo, attraverso il Dipartimento delle Pari Opportunità, ha annunciato un maggior impegno di sensibilizzazione a partire dai banchi di scuola. Un’opera nobile e senz’altro necessaria che non dovrebbe escludere però quanto può esser fatto subito e dall’alto perché non si ripetano episodi di maltrattamenti gravissimi in una città come Roma e non nell’ultimo lembo isolato del paese.

Soltanto ieri, nel 2010, le Mine Vaganti di Ozpetek, un film che racconta delle resistenze ataviche e dei pregiudizi sull’omosessualità era stato accolto con grande partecipazione emotiva dagli italiani come il ritratto più fedele di un certo modo di pensare che ancora, purtroppo, non si è estinto e come la poesia più sofferta per raccontare il danno dell’ignoranza e la paura della differenza. Una legge contro l’omofobia potrebbe contribuire certamente a diminuire lo spread tra intolleranza e civiltà.

 

 

di Rosa Ana De Santis

Se ne parla sempre di più nel dibattito politico contemporaneo e la questione della cittadinanza per gli stranieri rappresenta, non soltanto nel nostro Paese, un esempio paradigmatico di come i fatti abbiano di gran lunga superato la speculazione teorica. Gli immigrati regolari si comportano infatti come cittadini a tutti gli effetti: pagano le tasse e i contributi, partecipano alla vita politica, specialmente quella locale, rappresentano una quota significativa della società civile e delle famiglie, dovuta anche alla forte tendenza di fare figli, contrariamente agli italiani.

La ricerca in questione in Italia è stata condotta dall’Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità). Sono stati intervistati 797 immigrati che risiedono a Milano e Napoli. La ricerca è stata realizzata, oltre che dall'Ismu, anche da King Baudouin foundation, Migration policy group e ReteG2 – Seconde generazioni. L’80% degli immigrati in Italia chiede di poter accedere alle urne e votare. E’ infatti questo diritto-dovere di partecipazione politica ad esprimere sul piano simbolico e fattivo la natura del diritto di cittadinanza.

Strano, se non bizzarro, lasciare che ad esprimere il diritto di voto siano italiani che vivono fuori confine da generazioni, lontanissimi dal contesto nazionale, e che il medesimo diritto sia interdetto a chi contribuisce alla sopravvivenza del sistema Italia e ne vive e ne patisce limiti e opportunità.

La differenza infatti tra le due categorie è tutta esclusivamente legata al sangue. Italiani e non italiani. Sembrerebbe un discrimine enorme, più che valido come legittimazione, eppure un po’ di ragionamento senza coloriture nazionaliste ci aiuta a smascherarne facilmente la sostanza concettuale. E’ l’italianità ad essere legata allo status di cittadinanza e non il contrario. Non esiste infatti, tralasciando le derive pericolose che ne deriverebbero, una genitura italica pura in senso genetico-etnico. Gli italiani sono un po’ aragonesi, un po’ angioini, normanni, tedeschi. Diverse le loro storie, le origini etnico-geografiche, il sangue così tanto al centro delle rivendicazioni xenofobe.

Portogallo ed Italia sono i paesi in cui è più difficile trovare lavoro, Sempre in Italia il requisito dei documenti e l’iter burocratico rappresentano un ostacolo fortissimo al ricongiungimento familiare. Eppure il nostro paese vanta una posizione record nel coinvolgimento concreto degli stranieri alla vita civica.

Rimangono le difficoltà a parlare la lingua per mancanza di tempo e difficoltà ad accedere a corsi sostenibili, quasi tutti affidati alle forze del volontariato. Rispetto all’Europa nel nostro paese, nelle città campione di Milano e Napoli, gli stranieri dichiarano di sentirsi poco valorizzati rispetto ai titoli di studio, in controtendenza quindi con altri paesi. Situazione questa che tocca, peraltro, anche i cittadini italiani.

Da più  parti politiche arriva l’urgenza di normare la cittadinanza “di fatto” e di sistematizzarla in diritti riconosciuti, dal momento che i doveri ci sono già. Siamo in un vuoto giuridico tale per cui mentre un evasore fiscale può accedere ai servizi pubblici, nella totale impunità, un lavoratore regolare immigrato che paga tasse e servizi pubblici non può esprimere voto e partecipazione politica mentre aiuta tutto il Paese a pagare le pensioni, tenere aperte scuole e ospedali, mettere benzina al trasporto pubblico.

Il processo è già avviato, pur nella rimozione ufficiale della questione. Ad averlo inaugurato è stato proprio quel mito capitalista della globalizzazione che tanto osannato per l’opportunità dei guadagni urbi et orbi, sembra piacere sempre meno all’Occidente quando ad essere globalizzati sono i diritti, le conoscenze, la facilità dei contatti che ne segue. La globalizzazione si è trasformato in un cavallo di Troia restituendo indietro il colonialismo atavico con tutti gli interessi.

Da tempo la cittadinanza è un esercizio di funzioni secondo la legge e non una variabile cromosomica. Non c’è discorso più convincente di una bella fotografia sugli Stati Uniti d’America, su qualche grande metropoli europea o sulle nostre fabbriche. O ancora meglio dentro le nostre case.
 


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