di Rosa Ana De Santis

Sono numeri importanti, specialmente al Sud Italia, quelli che indicano le quantità degli obiettori di coscienza, ginecologi in testa. In regioni come la Basilicata, il Molise e la Campania si arriva a picchi di oltre l’80%, per raggiungere l’86% in Sicilia e in Calabria. Un impedimento di fatto e una seria compromissione dei diritti riconosciuti a norma di legge per tutte quelle donne che in queste regioni volessero interrompere la gravidanza, anche ricorrendo alla RU 486.

La relazione sull’applicazione della legge 194 mostra una diminuzione di casi di aborto nel biennio 2011-2012 (specialmente nel Mezzogiorno) in linea, ovviamente, anche con le stime degli obiettori e con un aumento dell’aborto chimico ormai possibile in tutte le Regioni, tranne che nelle Marche.

Il Ministro della Salute Balduzzi parla di stime stabili, dopo gli aumenti degli anni passati per gli obiettori ginecologici ed anestesisti. Se la riduzione dell’interruzione volontaria di gravidanza è la prova di una maggiore consapevolezza nella propria vita sessuale e della disponibilità di numerosi strumenti contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate, rimane il problema serio dei troppi medici obiettori.

Il fenomeno è davvero molto poco conciliabile con il rigore che esige la legge e con l’impegno costituzionale che pretende la garanzia della tutela dei diritti di tutti, senza discriminazioni di sorta. Non c’è dubbio che una donna che decida per l’aborto in Toscana o in Val D’Aosta (dove si registrano percentuali ridottissime di obiettori di coscienza) abbia un percorso ben diverso da quella siciliana o calabrese che dovrà faticosamente cercare il medico disponibile in una via crucis di ospedali e di dinieghi, conditi con chissà quale atteggiamento di riprovazione morale. È la sorte, res sic stantibus, di nascita e di collocazione geografica a intervenire in modo dirimente sulla tutela della propria salute psico-fisica: diritto che rappresenta uno dei pilastri fondanti della legge 194 sul diritto all’aborto.

L’obiezione di coscienza meriterebbe un’attenzione istituzionale e normativa ben diversa da quella del registro e del monitoraggio. Sono proprio i suoi criteri di ammissibilità che dovrebbero essere ripensati profondamente. In un ospedale pubblico vige la legge dello Stato e non la fede o la filosofia di vita del singolo medico. Altrimenti dovremmo considerare accettabile che un medico con la fede di Geova si rifiutasse di fare trasfusioni ai malati. O vale solo l’obiezione di coscienza della fede cattolica?

Probabilmente è così, vista la contaminazione e confusione continua tra morale pubblica (che è quella che si specchia nel diritto dello stato) e morale religiosa, che è cosa ben diversa, attiene alla sfera privata, intima e vale solo per i credenti e non per i cittadini tutti.

Bisognerebbe ripartire almeno da quote minime garantite di medici non obiettori per garantire l’universalità della prestazione sancita dalla legislazione. E’ abbastanza noto che miolti dei cosiddetti “obiettori” lo sono solo nelle strutture pubbliche, giacché operano interruzioni di gravidanza senza obiezioni nelle cliniche private. Ma non si vuole qui generalizzare. Chi non fosse disponibile ad operare, perché preso dalla fede religiosa o perché detentore della “buona coscienza”, potrebbe prestare la propria opera professionale in strutture private, non pagate con i soldi dei contribuenti. Perché tra essi vi sono anche quelle donne che vengono private del diritto fondamentale alla propria salute psico-emotiva e fisica con una tirannide moraleggiante venduta per coscienza a spese dello Stato.


di Rosa Ana De Santis

In Europa il cancro rappresenta ormai un’epidemia vera e propria, ed anche un allarme in termini di costi economici. I numeri diffusi in occasione del congresso della Società Europea di Oncologia Medica svoltosi a Vienna, non lasciano scampo. Centoventiquattro miliardi all’anno i costi della malattia oncologica, che è la seconda per mortalità. L’invecchiamento progressivo della popolazione porterà i tumori maligni ad essere i primi killer, in testa rispetto al record oggi detenuto dalle patologie cardiovascolari.

Numerosi i costi di terapie e farmaci non rimborsati dall’assistenza diretta, il calo di produttività nei posti di lavoro, la mortalità prematura, l’assistenza domiciliare. E’ tutto questo che porta il conto pro capite del cancro a salire sui 240 euro. E’ il cancro al seno il più costoso, mentre quello al polmone rappresenta il danno economico più grande a causa della mortalità prematura.

Il primo passo fondamentale è quello di stabilire un confronto sistematico tra i vari paesi dell’ Unione Europea per una gestione più omogenea e unitaria dei dati epidemiologici e dei protocolli. Non possono esserci disparità troppo grandi, né sul fronte delle cure né su quello della spesa, dovuto quasi sempre però, come dimenticarsene, alla differenza di status socio-economico dei paesi coinvolti. Inutile stigmatizzare le differenze siderali tra una Germania e una Lituania.

Sul fronte invece della forte diffusione del cancro, sempre più spesso anche tra i giovani, il monito unanime dei 15 mila esperti riuniti a congresso è di portare fondi alla ricerca medica. Un invito che si teme sarà disatteso data la crisi incombente, specialmente sul Sud Europa, e la ricetta dei tagli alla spesa pubblica che vedrà penalizzati i programmi di screening previsti dai sistemi sanitari nazionali. Proprio quelli che dovrebbero essere potenziati, estesi e implementati. Basta guardare all’Italia e al Sud e al fatto che non tutte le regioni sono coperte dallo screening mammografico e da quello del vaccino HpV contro le infezioni precancerose del collo dell’utero.

Un tema di salute pubblica così importante e con un impatto generale - anche numerico - così severo obbligherebbe la politica nazionale di ogni paese europeo a investire maggiori risorse, indirizzando la spending review su altre voci di bilancio.

Se è vero che molta incidenza con una precocità del cancro è dovuta ad abitudini di vita sbagliate e alla quasi scomparsa della prevenzione primaria (alimentazione, sport) per stili di vita inadeguati, è vero anche che non si può trovare in questo aspetto, pure cosi importante, l’unica motivazione e il comodo alibi per non parlare delle questioni politiche ed economiche che sono determinanti, mai come ora visto il tempo di crisi, per la salute pubblica e per gli screening proposti alla popolazione generale.

Basti pensare alla possibilità, carente e non democraticamente diffusa, di accedere alla prevenzione secondaria (ovvero ai controlli diagnostici periodici) in tempi rapidi e a costi sostenibili, ai - purtroppo spesso - diversi livelli di qualità e specializzazione dei trattamenti terapeutici per le malattie oncologiche da paese a paese, da regione a regione e, infine, soprattutto alla situazione in cui versa la ricerca, specie in alcuni paesi dell’Unione Europea, Italia in testa.

Pochi e spesso inconsistenti gli sforzi che vanno nella direzione di finanziare il lavoro dei ricercatori. In questa indolenza continua indisturbato il flagello dei tumori: meno mortalità, ma crescente morbilità. I numeri del 2012 dicono che nell’anno in corso, in Europa,  stimeremo 1,3 milioni di morti per tumore mentre ai nuovi malati si toglie a piccole dosi la speranza di cura,  riducendo all’elemosina il sostegno pubblico alla scienza. Per lasciarlo a qualche privato farmaceutico interessato con il doppio svantaggio di aver depauperato il pubblico di un’occasione di crescita e di eccellenza, e un po’ tutti di una legittima speranza.

 

di Rosa Ana De Santis

Ha poco più di diciotto anni l’abilissimo hacker dell’Istituto “Marzotto” di Valdagno (Vicenza) che è riuscito ad entrare nel sistema scolastico e a cambiare le pagelle grazie ad un programmino da lui ideato. Un geniaccio con un bel 10 (taroccato) in informatica, che forse ha poca voglia di studiare altre materie. I suoi stessi docenti raccontano di una genialità evidente, pare che il suo stesso professore d’informatica abbia dichiarato che il ragazzo ne sa quanto e più di lui. Non fosse ancora uno studente sembrerebbe una storia ben confezionata da un ufficio stampa.

Invece la storia è vera e l’epilogo un po’ beffardo della vicenda è che il giovanotto affronterà la giustizia, ma ha già trovato lavoro. La disponibilità a farsi carico delle spese legali e la successiva assunzione sono gli aspetti che compongono la proposta che gli è arrivata, ben confezionata, dalla Ceremit di Thiene, azienda di ingegneria che vende informatica e non legalità.

La storia, così divertente e a lieto fine, non è una novità. Moltissimi sono gli ex hacker che oggi siedono in tanti colossi del software: recentissimo il caso di Chiarlie Miller con Twitter e prima ancora la Microsoft con un quattordicenne irlandese che era riuscito a mostrare le falle di sicurezza della piattaforma xbox life.

E sono numerosi i casi di hacker che vìolano siti e banche dati online anche di strutture che fanno della sicurezza dei dati in loro possesso il loro core business. Frequentemente succede che coloro i quali s’introducono nei sistemi dimostrino infatti capacità almeno maggiori di quegli ingegneri informatici che quegli stessi sistemi avevano implementato. Da qui partono i due step successivi: il primo è stupirsi di come ha fatto, il secondo assumerlo perché non continui a farlo. Da ladri di casseforti ci si trasforma così in dipendenti trattati con i guanti bianchi.

Una strategia vincente, non c’è dubbio, per quelle aziende che sanno guardare lontano la cui vittoria si misura esclusivamente sul business. Quindi quale mossa migliore se non trasformare i nemici in amici? Un po’ diverso il caso vicentino in cui l’aggressione è ai danni della scuola e del merito riconosciuto e guadagnato sul campo davanti ai docenti e agli altri studenti.

Il giovane hacker sarà sicuramente abilissimo e intelligente, ma questo di per sé non vuol dire meritevole, altrimenti perché aumentarsi vertiginosamente i voti sulla scheda di valutazione? Evidentemente il merito certificato dalla scuola non era dei migliori.

La storia fortunata di questo studente è il racconto di come la furbizia paghi con mille complimenti e tanta ammirazione, s’intende. Sempre e soprattutto adesso. Adesso che il lavoro rimane un miraggio per tantissimi giovani e specialmente per i più meritevoli, gli studiosi, i volenterosi. Quelli che non hanno tempo di giocare al pc perché hanno mattoni da studiare. Quelli che la crisi non perdona e non assume. Quelli che la preparazione e l’istruzione danneggia perché la crisi ci vuole rapidi, scaltri e furbi. Con poco più di tre I nella testa.

di Rosa Ana De Santis

Il dossier presentato da Save the Children al ministro Elsa Fornero e alla vice-presidente del Senato, Emma Bonino restituisce un‘immagine negativa e arretrata della condizione femminile nel nostro Paese. Numeri che lasciano ancor più amarezza alla vigilia di un mese, come quello di ottobre, che sarà interamente dedicato alle donne e alla cultura di genere su tutti i fronti: dalla salute al lavoro.

Il bivio, che a parole sembrava superato, rimane sempre lo stesso: essere madri e assecondare la propria potenzialità biologica o avere un ruolo e una funzione sociale. Se ci sono due figli, due donne su tre non hanno lavoro per interruzioni forzate nella maggior parte dei casi. La carenza di servizi di welfare a sostegno delle famiglie e le discriminazioni ancora presenti nel mondo del lavoro obbligano moltissime donne giovani (tra i 25 e i 34 anni) ad essere inattive.

Le donne quindi pagano due volte la crisi economica, costrette spesso per necessità al part-time o alla rinuncia totale di un’occupazione. E insieme a loro pagano i figli e il tenore di vita di numerosissime famiglie. Questo è l’effetto collaterale che una certa politica maschile e una sociologia fintamente neutra cerca di nascondere sotto il tappeto. Non fa differenza il livello di formazione e di istruzione, che anzi paradossalmente costituisce una penalizzazione ulteriore rispetto agli uomini e ai loro livelli di occupazione e remunerazione.

Il record, purtroppo, è tutto italiano, dato che nel contesto europeo il nostro Paese investe meno di tutti nei servizi per le famiglie e per l’infanzia e non sarà certo la sola investitura formale di un Garante dell’Infanzia, senza voci di bilancio adeguate, ad intervenire seriamente sul problema e a farlo diventare qualcosa di più di una mera vetrina mediatica.

Alle mancanze dei servizi e alle lacune del sistema welfare si unisce poi un gap culturale che la società italiana non è riuscita ancora a metabolizzare. Gli uomini continuano ad impegnarsi molto meno nel lavoro familiare e domestico, lasciando alle mamme il carico maggiore e sottraendogli di fatto opportunità concrete di lavoro e di guadagno.

Un doppio assedio quindi quello che grava sulla condizione delle donne italiane: da una parte l’alibi della crisi che le vede comunque maggiormente penalizzate degli uomini e dall’altra una parziale assimilazione del principio dell’eguaglianza che le vede confinate alla sfera familiare come un ripiego e come un’esclusione definitiva o quasi dalla dimensione pubblica in ogni suo aspetto.

Non c’è dubbio quindi che la carenza di un welfare degno rappresenti un ulteriore elemento di squilibrio tra generi: le donne sono le principali vittime di una organizzazione sociale arretrata e di un mercato del lavoro ormai in preda alla deriva mercatista. Sono i due elementi della condanna maggiore che costringe le donne che sono mamme a doversi occupare integralmente del lavoro di cura non disponendo di alcun aiuto.

La famiglia tradizionale, sbandierata da destra a sinistra come pilastro della società e come esclusivo, legittimo luogo della rappresentanza corretta degli affetti, viene clamorosamente ignorata proprio dalle politiche del lavoro e da quelle sul welfare. A questo si aggiunge poi che la scarsa cultura dell’eguaglianza che caratterizza l’Italia rende tutto più sopportabile e comprensibile. Ovviamente per i padri, i mariti e per i datori di lavoro.


di Fabrizio Casari

Un figlio su tre, afferma una ricerca del Censis, vive con sua madre. Si parla di alcuni milioni di italiani, quindi. Non hanno un lavoro e, quando ce l’hanno, è precario e mal pagato. Non trovano casa perché, quando c’è, il costo del canone affianca o supera quello del salario. Se si tratta di diritti civili s’invoca la famiglia, ma quando la famiglia la si prova a costruire appare il cartello con scritto: iscrizioni chiuse.

Un figlio su tre, infatti, non può neanche sposarsi o convivere, perché quando il precariato assoluto e il carovita s’incontrano, una coppia scoppia: a basso reddito e alti costi, l’unione fa la debolezza. Risultato? Il 60% dei giovani dai 18 ai 29 anni abita con la madre e idem il 45% tra i 30 e i 45 anni. Tutti bamboccioni? Vittime di loro stessi o dell’insindacabile ed osannata autoregolamentazione del mercato?

Un figlio su tre non ha nemmeno dove andare, mica tutti possono fare i cervelli in fuga: i condannati al nulla sono milioni e i cervelli sono alcune migliaia; le fughe sono costose, dunque per pochi. Un figlio su tre, o anche due su tre, vedono da anni la rottura definitiva delle corde dell’ascensore sociale: non staranno meglio dei loro padri, bensì peggio.

Hanno studiato di più e lottato di meno, subiscono il rincoglionimento mediatico e diffidano del plurale, convinti dai furbetti del capitalismo straccione che “tanti” non è mai un plurale di diritti e doveri, ma una somma di occasioni al singolare. Sarà per questo che il 45% tra i 30 e i 45 anni vive con la madre? Non hanno colto le occasioni o le occasioni non si fanno cogliere perché destinate in esclusiva ad alcuni, ai figli più figli degli altri?

Il mercato rigetta le eccedenze e gli ecceduti, dal canto loro, di mercato conoscono a malapena quello della frutta e verdura vicino casa. Così, a immaginare quello che è stato quando c’era lo Stato, due figli su tre possono solo ricordare i racconti paterni del tinello, dove si parlava di come, anche quel tinello, era stato costruito. Risparmio e lavoro, sacrifici e lavoro, rinunce e lavoro, e poi ancora lavoro, risparmio e altro lavoro.

L’aspirazione di ogni genitore a vedere i propri figli salire sull’ascensore sociale, la voglia di riscatto, il desiderio di evitare a loro almeno una parte dei sacrifici sostenuti, erano le molle che hanno spinto uomini e donne di diverse generazioni a convincere i propri figli ad avere un’istruzione migliore, perché - si diceva - alla fine sarai quel che saprai. E adesso si scopre invece che in un mercato del lavoro flessibile fino a divenire un elastico con il quale giocare al ribasso dei salari e al rialzo della fatica, quel sapere non serve più.

Ma i padri e le madri non potevano saperlo, e volevano credere che davvero il sapere avrebbe fatto rima con l’essere e poi con l’avere. Non potevano immaginare che il lavoro sarebbe stato ridotto a merce in deterioro da acquistare solo a basso costo e che, del sapere, se ne sarebbe fatto volentieri a meno.

Il sapere intralcia, ti invita a tenere il cappello in testa quando passa il padrone, pone ambizioni e obiettivi, costruisce sogni e speranze; per questo va abbattuto, o almeno depotenziato, perché la logica del mercato non prevede che tu possa entrarvi, ma solo che lui entri dentro di te.

L’affermarsi definitivo dell’idolatria del mercato e la concomitante fine dello Stato hanno segnato la progressiva scomparsa di ogni paradigma di civiltà e di compatibilità sociale che formava il tessuto connettivo di ogni comunità.

Il welfare, strumento pubblico pagato con le risorse pubbliche, aiuto per tutti grazie al contributo di alcuni, è ormai un ricordo. E’ la famiglia il nuovo ente di assistenza e sostegno per chi rimane indietro.

Ad essa si affianca l’immigrazione, cioè la fascia più povera e ricattabile della società che, arruolata di volta in volta a seconda delle necessità, svolge il ruolo di supplenza del welfare in forma di assistenza, cioè di tutto quello di cui avremmo diritto perché pagato e perché esseri umani, ma che ci viene sottratto perché costoso e non redditizio.

Mai che il paradigma dell’autoregolamentazione del mercato fosse messo in discussione, mai che almeno a sinistra insorgesse il virus del voler riprendere a pensare, parlare, proporre, battagliare. Due generazioni di leaderini o presunti tali sono invecchiati, ingrassati ma mai cessati dalle loro funzioni. Nel paese di Pulcinella, due portaborse su tre sono diventati leader. Un figlio su tre, invece, è costretto ad invecchiare senza essere diventato adulto.

 


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