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di Rosa Ana De Santis
Non è più un “Quarto Grado”, ma una “Quinta Colonna” e con la solita sceneggiatura di uno spettacolo che voleva essere “giornalismo d’inchiesta”è andato in onda il Comandante Schettino, a una manciata d’ore dalla fine degli arresti domiciliari. Le voci del web parlano di un compenso di 50 mila euro, forse 57 mila, ma Sottile, il dominus della trasmissione, nega e rivendica la purezza del suo scoop giornalistico che certamente non potrebbe dirsi tale a fronte dell’emolumento versato all’illustre disoccupato.
L’intervista accompagna tutte le ore di quella tragica notte e il Comandante ricostruisce la sua verità sulla dinamica dell’incidente nautico e sulla sua onorabilità, persa prima ancora che davanti alla legge al cospetto dell’opinione pubblica.
Ha un tono calmo, non si scompone, preferisce non dare spazio alle lacrime e ai sentimenti per i 32 morti., ma quando Ilaria Cavo ricorda che la piccola Dayana Arlotti è stata trovata in acqua con un vestitino da sera allora il Comandante non ce la fa, si mette la mano sul cuore e preferisce passare ad altro. Non se ne sente colpevole, ma come capo delle nave quelle morti rimangono sue e la forza, il coraggio vero serviranno - cosi dichiara - per poter convivere con quelle scene negli occhi tutta la vita. Altro che pavido.
Ancora non ce la fa ad andare in mare. Vuole farlo al buio e prendere il surf per superare il trauma di quella notte. Per un attimo sembra lui la vittima numero uno del naufragio: quasi un capro espiatorio immolato per dare giustizia a una tragica fatalità.
La scatola nera, sostiene la giornalista che lo ha intervistato, confermerebbe solo una parte della ricostruzione di Schettino. L’inchino-non inchino, l’accostamento eccessivo della nave non avvistato nemmeno dalla Capitaneria di porto, troppo presto forse osannata nella figura di De Falco, la mano divina che avrebbe guidato Schettino nella virata verso la costa per portare via la nave dal fondale di 100 metri che avrebbe causato un veloce e repentino inabissamento e molte più vittime. Non sembra esserci dubbio che alla fine il Comandante rientra in plancia e compie la manovra della disperazione. Ma sono il prima e il dopo a rappresentare i grandi atti d’accusa.
Schettino vacilla sulla sua assenza in plancia (Domnica o no nei momenti di concitazione che seguono all’impatto lui si intrattiene altrove) sul suo ritardo nell’intervenire, sulla confusione delle decisioni e la totale dispersione di comandi e intese tra lui e i suoi ufficiali di bordo. Quindi sul ritardo di preziosi 45 minuti per lanciare l’ordine di “abbandono nave.”
Schettino si difende. Non bisognava diffondere panico tra i passeggeri senza aver avuto tutte le conferme opportune. E così mentre lui faceva le sue verifiche, un incidente di distrazione o di italiano-inglese nella catena dei comandi non gli faceva capire che l’acqua era arrivata al ponte zero.
Passiamo poi ai soccorsi, ai momenti (manciata di minuti dice il Comandante) in cui la nave si poggia su un fianco. Lui corre in cabina a mettersi un K-way: fa freddo e lui sa che lavorerà tutta la notte. Nessuna volontà di non essere riconosciuto a bordo. Ma poi invece non scivola, come i giornali hanno scritto, ma non ce la fa a trattenere - colpa dei gradi che stanno piegando la Concordia - il passo veloce che lo sta portando dritto dentro una scialuppa. Lì finisce, da li approda su uno scoglio e non torna più indietro.
Non per vigliaccheria come crede la gente o il Capitano De Falco. Ma perché non ce la può fare, dice lui. E’sul lato più buio, tiene il cellulare mezzo scarico in mano e da li chiama i soccorsi, gli elicotteri e coordina. Il codardo è colui, secondo Schettino, che si defila per avere un vantaggio e lui non ne avrebbe ricavato alcuno. Tranne uno: quello di essere bene accorto a non rischiare la vita.
Non sfiora neppure vagamente il pensiero a Schettino che un Comandante debba comunque tornare sulla nave o sotto la nave o che debba provarci anche se c’è una tempesta in corso. Se non ce la fa da solo, a nuoto (non era in alto mare), o su una scialuppa o su un gommone, ordinando ai suoi di seguirlo. Di aiutare le persone, di essere presente, di risalire sul ponte e aiutare i passeggeri a scendere a costo di rischiare la propria incolumità.
Schettino ragiona di efficacia, opportunità, fa valutazioni di ordine conservativo come si trattasse di economia. Non coglie il senso del simbolo (essere visto dai suoi passeggeri), non comprende che le ragioni di un sacrificio non sono quelle di un algebrico bilancio.
Il suo vuoto d’animo e l’assenza di nobiltà sembra essere il più grande dei suoi peccati se non come tecnico (lo stabilirà la giustizia), come uomo e come uomo di Marina. Al suo posto tanti anonimi eroi sono rimasti, senza k way, fino all’alba ad aiutare.
La trasmissione che doveva forse riabilitarlo si trasforma nel racconto del suo naufragio. Non c’è spazio per il tormento di non esser rimasto a vivere o forse a morire a bordo della Concordia, perché non c’è nessun Comandante.
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di Silvia Mari
Il Comitato di bioetica lancia l’allarme per il boom incontrollato di operazioni di chirurgia plastica, scelte per ragioni di pura estetica. Il problema numero uno è rappresentato dalla scelta, poco consapevole, di ottenere misure esagerate e di rispondere a canoni di bellezza, spesso poco proporzionati alla propria fisicità e dettati dall’ideale maschilista-sessista imperante nel nostro paese. Labbra paralizzate dal silicone, seni esagerati, zigomi gonfi come pomelli e occhi felini sono la ricetta della felicità per moltissime donne, magari giovani e già carinissime, con l’unico scopo di eccitare il testosterone e non di perfezionare difetti o di migliorare relazioni sociali compromesse da tratti fisici non gradevoli. Questo è il modello vincente: a metà tra la velina e la pornostar.
Questo richiamo alla deontologia per la chirurgia estetica e ricostruttiva sarà al centro di un documento, di cui sono firmatari il vicepresidente vicario Lorenzo D'Avack, Laura Palazzani e Giancarlo Umani Ronchi. Lo stop netto è per gli interventi sugli adolescenti o i disabili, finalizzato alla “conformazione al principio di normalità”. Nella parte ricostruttiva si presta invece molta attenzione, per le ricadute psicologiche, ai trapianti di viso e arti.
Occorrerebbe a questo proposito che, parallelamente alle questioni bioetiche sollevate sulla chirurgia ricostruttiva, il Ministero della salute portasse a termine il censimento degli interventi di ricostruzione mammaria eseguiti nei nosocomi italiani. La frammentazione dei dati tra le diverse strutture e le Breast unit impedisce ad oggi - fatto gravissimo - di possedere una mappa esaustiva e attendibile di tutti gli impianti e quindi anche di confrontare numeri e dati relativi a possibili complicazioni e ai follow up degli interventi.
Quel che è chiaro è che il bravo chirurgo plastico deve saper consigliare adeguatamente la paziente o il paziente che decidesse di “rifarsi” alcune parti del corpo, non soppiantando, per compiacere il desiderio e la parcella, i principi di salute di un corpo e dell’equilibrio psico-fisico. Un seno esagerato su una donna molto magra può procurare problemi di postura, rifarsi il naso dopo i 45 anni (quando ormai la vita di relazione sociale e affettiva è stata più che affrontata) può non essere ben vissuta dopo che per più della metà della vita ci sé abituati a una certa immagine del proprio viso. La dissuasione di un bravo specialista dovrebbe anche esser quella di sensibilizzare al gusto e alla bellezza, che non è esattamente quella che molte donne si sono convinte sia.
Il miglioramento della propria immagine se è funzionale ad un maggiore equilibrio psico-emotivo ed allacciare relazioni sociali non penalizzate da difetti fisici evidenti può esser accettato anche a prescindere dal dogma della maggiore età. I dogmi della legge sono, ancora una volta, la tipica e incompleta risposta italiana alle trasformazioni sociali. Ad esempio, tenendo presente che una ragazza inizia la propria vita affettiva e sessuale ben prima dei 18 anni e che l’adolescenza è una fase durissima della crescita perché non autorizzare prima delle maggiore età un aumento del seno o una rinoplastica di fronte a difetti effettivamente penalizzanti?
Quello che conta è l’analisi delle motivazione, il dato fisico-oggettivo e l’adeguata consapevolezza della paziente. E’ questo l’esercizio di verifica che si chiede ad uno specialista, più che la verifica dei documenti.
In effetti è ben oltre la maggiore età la chirurgia plastica da pessime prove del proprio esercizio trasformando il corpo, specie delle donne, in un’opera di superamento estremo del limite. E se ognuno è libero di diventare ciò che desidera, la medicina ha il dovere preliminare di non dimenticare i propri doveri, almeno nell’obbligo della dissuasione e nell’arte del giusto consiglio.
La giovinezza esasperata e le dimensioni bombastiche sono le due prove di quanto sia necessaria un’operazione culturale per istruire le persone sul bello. Che non c’è dubbio, come insegnava Kant, risponde a canoni universali e oggettivi; ma che, proprio per questo, non può essere declinato per il gentil sesso (utenza principale della chirurgia estetica) ai soli dettami ormonali e non estetici dell’universo maschile.
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di Rosa Ana De Santis
Sono ancora piccoli, non ancora italiani e per molti inesistenti. Bambini, stranieri e fantasmi. I figli degli stranieri, nel nostro Paese, sono tutte e tre le cose con l’aggiunta di una quarta: non sono pochi. Sono infatti quasi un milione i minori residenti in Italia con cittadinanza straniera e il rapporto Anci presentato a Roma qualche giorno fa ritrae con precisione numeri e percentuali dei residenti stranieri minorenni. Rappresentano il 9,7% dei minori totale e poco più del 21% della popolazione di immigrati. Negli ultimi anni si è registrato un fortissimo incremento degli stranieri nati sul territorio italiano rispetto a quelli provenienti dai paesi d’origine, segno che vi è stata una progressiva stabilizzazione delle famiglie immigrate in Italia.
Le cosiddette seconde generazioni rappresentano quindi una consistente percentuale dell’universo minori in Italia, con numeri significativi soprattutto tra quanti frequentano il ciclo dell’istruzione obbligatoria (i minori di 15 anni sono circa l’87% della popolazione minorile straniera).
E’ su questa seconda generazione che si consuma il dibattito culturale e normativo di cui la politica dovrà presto assumersi responsabilità di analisi. Si tratta infatti di una generazione che vive, necessariamente, in un confronto - se non in un conflitto - permanente tra la cultura d’origine e quella del paese in cui cresce, tra la famiglia e le relazioni fuori casa, tra la condizione de facto uguale a quella dei propri coetanei, con l’assenza di un pieno riconoscimento giuridico come cittadini.
Sono quindi bambini e giovani che hanno all’apparenza due Patrie (quella dei genitori, che magari non hanno mai visto ma di cui vivono tradizioni e costumi e di cui sono cittadini per eredità di sangue) e quella del Paese in cui studiano e diventano grandi, la Patria di cui effettivamente fanno parte e che non li riconosce invece come cittadini. Un limbo culturale che racconta, con candore, come dietro alla legge e al diritto di cittadinanza ci sia ancora l’idea culturale del sangue e della genetica razziale a identificare diritti e dovere. Altra ipotesi percorribile è infatti quella di legami parentali con italiani o l’acquisizione per trasmissione da uno dei due genitori.
Quello che tante forze politiche chiedono - anche trasversalmente da sinistra a Fli - è che ci sia un superamento dello ius sanguinis e che la cittadinanza sia definitivamente associata a una funzione esigibile in termini di diritti-doveri e che sia pensata su criteri legali e non etici.
In un paese liberal-democratico è impensabile che si sia cittadini per tradizioni, folclore, credo religioso e dna e non per il rispetto delle regole comuni, il lavoro che si svolge, i contributi con cui si sostentano i servizi pubblici, la scuola in cui ci si forma nell’istruzione e nei valori culturali.
Se seguissimo alla lettera lo ius sanguinis dovremmo forse ridiscutere la cittadinanza di molti stessi italiani, arrivando a conseguenze legali e culturali disastrose. Dovremmo risalire alle appartenenze etniche, dare una doppia cittadinanza agli italiani di fede ebraica, e arriveremmo a interrogarci se uno zelante fedele islamico possa dirsi italiano.
L’estensione della cittadinanza secondo criteri di ius soli servirà non a scongiurare i rischi di discriminazioni e tensioni sociali, ma a ricordare il valore soprattutto della legge. Oggi troppo spesso ridotta alle ragioni del confine e del sentimento. Tutto quello che non potrà renderci mai, come giustizia vuole in un paese civile, davvero uguali.
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di Rosa Ana De Santis
La promessa elettorale di Hollande diventerà legge di Francia. In un discorso programmatico in Parlamento il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, ha annunciato che dal primo semestre 2013 gli omosessuali potranno sposarsi e adottare figli. Finiranno quindi le odiose discriminazioni che ad oggi penalizzano i gay rispetto agli eterossessuali. La società civile francese è pronta per questo cambiamento, anche se molto di più per il matrimonio che per l’adozione.
Oggi, in Europa, il diritto al matrimonio per i gay esiste in 7 paesi: Danimarca, Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia e Gran Bretagna e la svolta socialista francese preoccupa i cattolici, in modo particolare i vicini di casa italiani. Avvenire parla di pericoloso “zapaterismo” e mette in evidenza la resistenza della Conferenza dei vescovi francesi e del Partito democristiano. Anche se i toni della Chiesa cattolica francese non sono in alcun modo sovrapponibili a quelli del Vaticano e alla modalità di confronto con le Istituzioni cui siamo abituati nel nostro Paese.
La Chiesa francese rivendica il diritto di “manifestare ciò che rifiuta”, come in qualsiasi dinamica democratica e liberale che si rispetti. Ma la politica fa e farà il suo corso, senza interferenze legate al credo religioso e alle letture soggettive del bene. La legge ragiona squisitamente in termini di diritti e in Francia questo è patrimonio dei costituzionalisti, ma anche della gente comune.
Si fa strada l’idea che esistano diversi modelli familiari e non uno solo, dogmatico e rigido. Del resto sono già 200mila i bambini che in Francia vivono in famiglie omoparentali.
Lo sguardo all’Italia è piuttosto desolante perché è principalmente nella società civile che sono radicate forme di discriminazione e di rifiuto e nessuna opera di educazione e sensibilizzazione, che non sia qualche campagna spot, è mai stata seriamente promossa dalle Istituzioni. Soltanto pochi giorni fa era stata la televisione, attraverso le parole di un calciatore molto popolare, a veicolare tutti i tradizionali pregiudizi contro i gay e a farlo in orario di cena.
Del resto in un paese dove ancora i numeri di violenza contro le donne sono da capogiro, è evidente che la strada dell’emancipazione e della cultura della differenza è ancora tutta da costruire. Soprattutto, lo sappiano i teorici della famiglia giusta, aspettiamo di veder dimostrato il valore intrinseco della famiglia eterossessuale che continua ad essere confuso con la naturalità della procreazione.
Uno sguardo alla cugina Francia ancora una volta, come tante altre nella storia, potrebbe aiutarci a diventare un vero paese liberal-democratico e a riconoscere il valore di tante, anonime - e oggi clandestine - famiglie. Sacre come tutte le altre.
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di Carlo Musilli
"Che c'avete un'amica per italiano e latino?". La settimana scorsa al Provveditorato di Roma - l'ufficio provinciale che si occupa di scuola - poteva capitare di sentire una domanda del genere. E' così che alcuni impiegati del ministero dell'Istruzione hanno nominato i sostituti dei commissari esterni per gli esami di Stato, la beneamata maturità. Parliamo di chi è subentrato agli insegnanti già nominati che all'ultimo hanno dato forfait. Incarichi assegnati a caso, a chi passava di lì, ad amici e conoscenti dei professori o degli impiegati stessi. Poco importa che altri insegnanti - magari più titolati - avessero fatto domanda proprio per quel posto.
C'era perfino la graduatoria con i punteggi, una vera e propria classifica delle persone che avevano diritto a quel lavoro e a quei soldi (circa 700 euro, oltre la metà di uno stipendio medio nella scuola italiana). Ma bisognava andarle a ritrovare, convocarle, chiedere la loro disponibilità e se non accettavano passare al nome successivo sulla lista. Perché perdere tempo ed energie, quando si poteva risolvere tutto all'italiana? Altrenotizie ha raccolto la denuncia di Stefania: 32 anni, romana, insegnante precaria di storia e filosofia abilitata nel 2007.
Com'è andata al Provveditorato?
"Quando sono arrivata per chiedere la nomina eravamo in cinque. Alla fine della mattina eravamo diventati una cinquantina di professori in tutto. Un'impiegata ha preso i nomi della mia classe di concorso, poi ha iniziato a farci entrare nell'ufficio per assegnarci alle varie scuole. Il problema è che ci ha chiamato nell'ordine della lista che avevano stilato lì per lì, non ha nemmeno guardato le domande, la graduatoria, chi di noi era abilitato e chi no. Tutto nella più assoluta irregolarità".
E voi non glielo avete fatto notare?
"Certo... La collega con il punteggio più alto ha protestato e l'impiegata ha dovuto ammettere che aveva ragione. Da quel momento ha iniziato a seguire l'ordine della graduatoria, lasciando i non abilitati in fondo. Ci ha messo una pezza, ma nemmeno questa era la procedura corretta da seguire".
Quali dovevano essere i criteri per le nomine?
"Per prima cosa avrebbero dovuto contattare tutti gli insegnanti abilitati che avevano fatto domanda per diventare commissari esterni. Una volta esauriti quei nomi bisognava passare alle graduatorie, a partire ovviamente dai punteggi più alti. Solo come ultima spiaggia si doveva ricorrere ai non abilitati".
E invece?
"Invece ha regnato il caos più totale: praticamente hanno preso in considerazione soltanto le persone che quella mattina passavano dal Provveditorato, a prescindere da chi fossero. Dico solo che verso mezzogiorno è arrivata una collega direttamente dalla spiaggia per chiedere se ci fosse un posticino per lei. Intanto l'impiegata ci domandava se avessimo un'amica per fare il commissario di italiano e latino...".
Ma perché insieme a voi non c'erano tutti i professori abilitati che avevano fatto domanda?
"Semplicemente perché non lo sapevano! Non esiste alcuna norma che obblighi gli insegnanti alla presenza fisica in Provveditorato per ottenere l'incarico. Penso che se tutti lo avessero saputo quella mattina saremmo stati in centinaia. Io ci sono arrivata per sentito dire. Me l'ha detto un'amica...".
Chi sono i non abilitati?
"Sono persone che hanno conseguito solo la laurea, ma non hanno alcuna abilitazione professionale. Possono insegnare nelle scuole private, non in quelle pubbliche (a meno di esaurimento graduatorie) ma capita spesso che per vivere facciano tutt'altre professioni. Fino al 2008 per essere abilitati bisognava frequentare per due anni la SSIS (la Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario, ndr). Per entrare c'era un concorso pubblico e alla fine bisognava sostenere un esame di Stato. Dal 2012, invece, partono i Tfa (Tirocini formativi attivi, ndr), che durano un solo anno".
Secondo te in che modo sono stati condizionati gli esami di quest'anno?
"Se io fossi il genitore di un ragazzo bocciato o uscito con un voto molto basso e venissi a sapere che il commissario esterno non era nemmeno abilitato, farei uno di quei ricorsi da togliere anche le mutande alla scuola pubblica. I ragazzi hanno diritto ad essere valutati da chi ha i titoli per sedere dietro alla cattedra. Il voto di maturità può essere decisivo per entrare in certe facoltà universitarie a numero chiuso. Ha una rilevanza perfino in alcuni concorsi. Lavorare così non è giusto né per gli insegnanti né per gli studenti".