di Rosa Ana De Santis

Sono ancora piccoli, non ancora italiani e per molti inesistenti. Bambini, stranieri e fantasmi. I figli degli stranieri, nel nostro Paese, sono tutte e tre le cose con l’aggiunta di una quarta: non sono pochi. Sono infatti quasi un milione i minori residenti in Italia con cittadinanza straniera e il rapporto Anci presentato a Roma qualche giorno fa ritrae con precisione numeri e percentuali dei residenti stranieri minorenni. Rappresentano il 9,7% dei minori totale e poco più del 21% della popolazione di immigrati. Negli ultimi anni si è registrato un fortissimo incremento degli stranieri nati sul territorio italiano rispetto a quelli provenienti dai paesi d’origine, segno che vi è stata una progressiva stabilizzazione delle famiglie immigrate in Italia.

Le cosiddette seconde generazioni rappresentano quindi una consistente percentuale dell’universo minori in Italia, con numeri significativi soprattutto tra quanti frequentano il ciclo dell’istruzione obbligatoria (i minori di 15 anni sono circa l’87% della popolazione minorile straniera).

E’ su questa seconda generazione che si consuma il dibattito culturale e normativo di cui la politica dovrà presto assumersi responsabilità di analisi. Si tratta infatti di una generazione che vive, necessariamente, in un confronto - se non in un conflitto - permanente tra la cultura d’origine e quella del paese in cui cresce, tra la famiglia e le relazioni fuori casa, tra la condizione de facto uguale a quella dei propri coetanei, con l’assenza di un pieno riconoscimento giuridico come cittadini.

Sono quindi bambini e giovani che hanno all’apparenza due Patrie (quella dei genitori, che magari non hanno mai visto ma di cui vivono tradizioni e costumi e di cui sono cittadini per eredità di sangue) e quella del Paese in cui studiano e diventano grandi, la Patria di cui effettivamente fanno parte e che non li riconosce invece come cittadini. Un limbo culturale che racconta, con candore, come dietro alla legge e al diritto di cittadinanza ci sia ancora l’idea culturale del sangue e della genetica razziale a identificare diritti e dovere. Altra ipotesi percorribile è infatti quella di legami parentali con italiani o l’acquisizione per trasmissione da uno dei due genitori.

Quello che tante forze politiche chiedono - anche trasversalmente da sinistra a Fli - è che ci sia un superamento dello ius sanguinis e che la cittadinanza sia definitivamente associata a una funzione esigibile in termini di diritti-doveri e che sia pensata su criteri legali e non etici.

In un paese liberal-democratico è impensabile che si sia cittadini per tradizioni, folclore, credo religioso e dna e non per il rispetto delle regole comuni, il lavoro che si svolge, i contributi con cui si sostentano i servizi pubblici, la scuola in cui ci si forma nell’istruzione e nei valori culturali.

Se seguissimo alla lettera lo ius sanguinis dovremmo forse ridiscutere la cittadinanza di molti stessi italiani, arrivando a conseguenze legali e culturali disastrose. Dovremmo risalire alle appartenenze etniche, dare una doppia cittadinanza agli italiani di fede ebraica, e arriveremmo a interrogarci se uno zelante fedele islamico possa dirsi italiano.

L’estensione della cittadinanza secondo criteri di ius soli servirà non a scongiurare i rischi di discriminazioni e tensioni sociali, ma a ricordare il valore soprattutto della legge. Oggi troppo spesso ridotta alle ragioni del confine e del sentimento. Tutto quello che non potrà renderci mai, come giustizia vuole in un paese civile, davvero uguali.

di Rosa Ana De Santis

La promessa elettorale di Hollande diventerà legge di Francia. In un discorso programmatico in Parlamento il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, ha annunciato che dal primo semestre 2013 gli omosessuali potranno sposarsi e adottare figli. Finiranno quindi le odiose discriminazioni che ad oggi penalizzano i gay rispetto agli eterossessuali. La società civile francese è pronta per questo cambiamento, anche se molto di più per il matrimonio che per l’adozione.

Oggi, in Europa,  il diritto al matrimonio per i gay esiste in 7 paesi: Danimarca, Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia e Gran Bretagna e la svolta socialista francese preoccupa i cattolici, in modo particolare i vicini di casa italiani. Avvenire parla di pericoloso “zapaterismo” e mette in evidenza la resistenza della Conferenza dei vescovi francesi e del Partito democristiano. Anche se  i toni della Chiesa cattolica francese non sono in alcun modo sovrapponibili a quelli del Vaticano e alla modalità di confronto con le Istituzioni cui siamo abituati nel nostro Paese.

La Chiesa francese rivendica il diritto di “manifestare ciò che rifiuta”, come in qualsiasi dinamica democratica e liberale che si rispetti. Ma la politica fa e farà il suo corso, senza interferenze legate al credo religioso e alle letture soggettive del bene. La legge ragiona squisitamente in termini di diritti e in Francia questo è patrimonio dei costituzionalisti, ma anche della gente comune.

Si fa strada l’idea che esistano diversi modelli familiari e non uno solo, dogmatico e rigido. Del resto sono già 200mila i bambini che in Francia vivono in famiglie omoparentali.

Lo sguardo all’Italia è piuttosto desolante perché è principalmente nella società civile che sono radicate forme di  discriminazione e di rifiuto e nessuna opera di educazione e sensibilizzazione, che non sia qualche campagna spot, è mai stata seriamente promossa dalle Istituzioni. Soltanto pochi giorni fa era stata la televisione, attraverso le parole di un calciatore molto popolare, a veicolare tutti i tradizionali pregiudizi contro i gay e a farlo in orario di cena.

Del resto in un paese dove ancora i numeri di violenza contro le donne sono da capogiro, è evidente che la strada dell’emancipazione e della cultura della differenza è ancora tutta da costruire. Soprattutto, lo sappiano i teorici della famiglia giusta, aspettiamo di veder dimostrato il valore intrinseco della famiglia eterossessuale che continua ad essere confuso con la naturalità della procreazione.

Uno sguardo alla cugina Francia ancora una volta, come tante altre nella storia, potrebbe aiutarci a diventare un vero paese liberal-democratico e a riconoscere il valore di tante, anonime - e oggi clandestine - famiglie. Sacre come tutte le altre.

 

di Carlo Musilli

"Che c'avete un'amica per italiano e latino?". La settimana scorsa al Provveditorato di Roma - l'ufficio provinciale che si occupa di scuola - poteva capitare di sentire una domanda del genere. E' così che alcuni impiegati del ministero dell'Istruzione hanno nominato i sostituti dei commissari esterni per gli esami di Stato, la beneamata maturità. Parliamo di chi è subentrato agli insegnanti già nominati che all'ultimo hanno dato forfait. Incarichi assegnati a caso, a chi passava di lì, ad amici e conoscenti dei professori o degli impiegati stessi. Poco importa che altri insegnanti - magari più titolati - avessero fatto domanda proprio per quel posto.

C'era perfino la graduatoria con i punteggi, una vera e propria classifica delle persone che avevano diritto a quel lavoro e a quei soldi (circa 700 euro, oltre la metà di uno stipendio medio nella scuola italiana). Ma bisognava andarle a ritrovare, convocarle, chiedere la loro disponibilità e se non accettavano passare al nome successivo sulla lista. Perché perdere tempo ed energie, quando si poteva risolvere tutto all'italiana? Altrenotizie ha raccolto la denuncia di Stefania: 32 anni, romana, insegnante precaria di storia e filosofia abilitata nel 2007.
Com'è andata al Provveditorato?
"Quando sono arrivata per chiedere la nomina eravamo in cinque. Alla fine della mattina eravamo diventati una cinquantina di professori in tutto. Un'impiegata ha preso i nomi della mia classe di concorso, poi ha iniziato a farci entrare nell'ufficio per assegnarci alle varie scuole. Il problema è che ci ha chiamato nell'ordine della lista che avevano stilato lì per lì, non ha nemmeno guardato le domande, la graduatoria, chi di noi era abilitato e chi no. Tutto nella più assoluta irregolarità".
E voi non glielo avete fatto notare?
"Certo... La collega con il punteggio più alto ha protestato e l'impiegata ha dovuto ammettere che aveva ragione. Da quel momento ha iniziato a seguire l'ordine della graduatoria, lasciando i non abilitati in fondo. Ci ha messo una pezza, ma nemmeno questa era la procedura corretta da seguire".  
Quali dovevano essere i criteri per le nomine?
"Per prima cosa avrebbero dovuto contattare tutti gli insegnanti abilitati che avevano fatto domanda per diventare commissari esterni. Una volta esauriti quei nomi bisognava passare alle graduatorie, a partire ovviamente dai punteggi più alti. Solo come ultima spiaggia si doveva ricorrere ai non abilitati".
E invece?
"Invece ha regnato il caos più totale: praticamente hanno preso in considerazione soltanto le persone che quella mattina passavano dal Provveditorato, a prescindere da chi fossero. Dico solo che verso mezzogiorno è arrivata una collega direttamente dalla spiaggia per chiedere se ci fosse un posticino per lei. Intanto l'impiegata ci domandava se avessimo un'amica per fare il commissario di italiano e latino...".
Ma perché insieme a voi non c'erano tutti i professori abilitati che avevano fatto domanda?
"Semplicemente perché non lo sapevano! Non esiste alcuna norma che obblighi gli insegnanti alla presenza fisica in Provveditorato per ottenere l'incarico. Penso che se tutti lo avessero saputo quella mattina saremmo stati in centinaia. Io ci sono arrivata per sentito dire. Me l'ha detto un'amica...".
Chi sono i non abilitati?
"Sono persone che hanno conseguito solo la laurea, ma non hanno alcuna abilitazione professionale. Possono insegnare nelle scuole private, non in quelle pubbliche (a meno di esaurimento graduatorie) ma capita spesso che per vivere facciano tutt'altre professioni. Fino al 2008 per essere abilitati bisognava frequentare per due anni la SSIS (la Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario, ndr). Per entrare c'era un concorso pubblico e alla fine bisognava sostenere un esame di Stato. Dal 2012, invece, partono i Tfa (Tirocini formativi attivi, ndr), che durano un solo anno".   
Secondo te in che modo sono stati condizionati gli esami di quest'anno?
"Se io fossi il genitore di un ragazzo bocciato o uscito con un voto molto basso e venissi a sapere che il commissario esterno non era nemmeno abilitato, farei uno di quei ricorsi da togliere anche le mutande alla scuola pubblica. I ragazzi hanno diritto ad essere valutati da chi ha i titoli per sedere dietro alla cattedra. Il voto di maturità può essere decisivo per entrare in certe facoltà universitarie a numero chiuso. Ha una rilevanza perfino in alcuni concorsi. Lavorare così non è giusto né per gli insegnanti né per gli studenti". 

di Mario Braconi

E’ ufficiale: per una somma attorno ai 100 milioni di dollari, Facebook ha acquistato la start-up israeliana Face.com. Si completa così un percorso iniziato lo scorso aprile con la conquista di Istagram, piccola società che fornisce ai suoi iscritti (clienti Apple, e da poco anche Android) la possibilità di archiviare le fotografie scattate con gli smartphone, ritoccandole al volo. Il fondatore di Istagram, Kevin Systrom, aveva inizialmente fatto sapere che la società era valutata attorno ai 500 milioni di dollari.

Zuckerberg era talmente desideroso di portare a casa Istagram da intavolare una trattativa diretta con Systrom senza nemmeno parlarne con il Consiglio di amministrazione e senza il supporto di banche o avvocati. Al termine delle negoziazioni Zuckerberg ha finito per pagarla il doppio di quanto inizialmente richiesto dal suo fondatore, ovvero un miliardo di dollari.

Con Istagram, Facebook capitalizza una immensa quantità di scatti amatoriali: infatti, se la licenza d’uso Istagram prevede che le foto caricate sul sito restino di proprietà di chi le ha scattate, è pur vero che l’azienda si riserva un diritto di utilizzo (non esclusivo) di quel contenuto, da remunerarsi con pagamento onnicomprensivo (niente royalty da pagare per ogni utilizzo, per intenderci). Molte di quelle fotografie hanno per oggetto volti: quelli di fidanzati, compagni, amici, figli, amanti …

Ed è qui che entra in gioco l’ultimo gioiello della corona di re Zuckerberg. Sembra infatti che i software prodotti la società acquistata ieri, Face.com, riescano a “riconoscere” un volto in una fotografia. In questo modo per ogni singola fotografia caricata su Istagram, il codice scritto dagli ingegneri di Face si metterà al lavoro registrando, confrontando e salvando informazioni, fino ad essere in grado di associare a quell’immagine un’identità.

L’amministratore delegato di Face, Gil Hirschon, sostiene in un post ufficiale sul blog della società che “la nostra missione è ed è sempre stata quella di inventare modi sempre nuovi ed elettrizzanti per trasformare il riconoscimento facciale in elemento divertente e accattivante della vita quotidiana delle persone.” Ma le cose non stanno esattamente così.

In generale, la tecnologia di riconoscimento facciale rappresenta un salto quantico nelle interazioni persona-macchina, dal momento che consente per la prima volta ad esseri inanimati di “guardare” in faccia esseri umani e di riconoscerli. Questa funzione per millenni è stata appannaggio esclusivo dell’uomo: persino un neonato, che vede poco e male, a poche ore di vita è già in grado di riconoscere il volto della madre.

Le macchine, insomma, hanno cominciato, in massa, a ricambiare il nostro sguardo. La cosa dà veramente i brividi se si considera che, secondo alcune stime, ogni giorno vengono caricate su Facebook qualche cosa come 200 milioni di fotografie degli utenti. La possibilità che i database di Facebook possano diventare un domani un modo per sorvegliare e controllare le masse non è un più l’esito morboso di deliri paranoici e/o neo-luddisti.

Certo, il social network, tra le altre cose, ci ha consentito di condividere con centinaia di “amici” virtuali emozioni e pensieri momentanei - se rimanessero confinati nella nostra scatola cranica, peraltro, non sarebbe poi un gran danno - ma questa è un’altra storia. Tuttavia, l’interconnessione pesante ha un prezzo. Pensiamo ad una tecnologia come quella dei cosiddetti “smart billboard” (ovvero cartelloni pubblicitari “furbi”, in grado di determinare dall’apparenza il sesso e i movimenti delle persone che li stanno guardando).

E ora abbiniamo quella diavoleria ad un database che contiene qualche miliardo di immagini di persone di cui “conosce” nome e cognome, indirizzo e ogni altra cosa che volontariamente esse decidano di dargli in pasto. Ecco, potremmo avere presto un cartellone pubblicitario che ti guarda in faccia e che in pochi decimi di secondi saprà come ti chiami, che sei single e gay, ascolti musica country e ami le auto sportive. Senza contare che questa tecnologia, applicata su così larga scala, diventerà l’Eldorado di stalker e maniaci vari, che domani potrebbero semplicemente rubare una foto ad una ragazza, per poi scoprire su di lei (in tempo reale e senza sforzo) un mucchio di informazioni: le sue abitudini, i locali che frequenta, eccetera. Il paradiso dell’interazione mediata dal silicio, con qualche click, può diventare l’inferno.

Va detto che Facebook ha già dimostrato in passato un forte interesse per la tecnologia di riconoscimento facciale: talmente forte da far passare in secondo piano ogni considerazione in merito alla privacy. Un software simile a Face era infatti stato attivato per gli utenti americani sin dal lontano dicembre 2010: questo codice, dopo aver “visto” un po’ di foto dello stesso soggetto, provvedeva a proporre una proposta di tag (etichetta) a chi ne caricasse una nuova che contenesse l’immagine di una persona con fattezze simili a quelle riscontrate su altre foto etichettate in precedenza.

Peccato che agli utenti europei il servizio fosse stato attivato senza alcun avviso: c’era sempre la possibilità di fare “opt-out”, ovvero di disattivare il servizio, ma la gran parte degli iscritti non era a conoscenza del fatto che esso era stato messo in funzione. Attualmente la situazione non è chiara. Se si va sul pannello dei settaggi della privacy di Facebook, un menù ci chiede semplicemente chi vogliamo autorizzare a suggerire “tag” su foto che “sembrano riprodurre la tua immagine”. Questo sembrerebbe significare che per default Facebook continua ad ispezionare le foto che “postiamo” e a cercare associazioni con elementi noti.

D’altra parte, come giustamente ricorda PC World, è importante scindere le funzioni che il sistema mette a disposizione degli utenti e quello che i suoi algoritmi continuano a fare, che gli utenti lo sappiano o meno. In altre parole, anche se Facebook disattivasse completamente il riconoscimento facciale come funzione che aiuti gli utenti a catalogare velocemente le foto degli amici, nulla impedirebbe ai suoi meccanismi interni di continuare ad analizzare e catalogare le nostre foto.

Da questo punto di vista, è essenziale che le società tecnologiche dialoghino apertamente con i propri utenti, spiegando loro senza infingimenti quello che sono in grado di fare: solo così si può immaginare un “opt-out” che abbia senso compiuto. E’ infatti difficile rinunciare a qualche cosa che non si conosce nei dettagli.

Va detto che anche Facebook non è l’unico attore interessato alla facial recognition: a giugno dell’anno scorso, Eric Schimdt, presidente del consiglio di amministrazione di Google, dichiarò che la “sorprendente accuratezza” del riconoscimento facciale è “davvero preoccupante”. Una ammissione un po’ ipocrita, dal momento che chiunque si sia gingillato un po’ con gli album virtuali di PICASA (una utility Google per l’archiviazione delle foto) avrà notato che quel software, già diversi anni fa, era in grado, su richiesta, di analizzare tutto il disco fisso alla ricerca di immagini che ci assomigliassero.

Non che il programma funzionasse bene: a chi scrive ad esempio è toccato il lusinghiero quanto incongruo merito di essere scambiato per … David Bowie! Questo solo per dire che a Google l’idea di un software che riconosca i volti delle persone non dispiace. Tanto è vero che Google Plus, il social network della casa di Mountain View, sta attivando un servizio simile a quello di Facebook, dal nome “Find my face” (trova la mia faccia).

La buona notizia è che tale accessorio è attivabile su richiesta (“opt-in”) e che quindi in teoria gli iscritti non dovrebbero avere sorprese. Fermo restando quanto sopra detto per Facebook: ovvero che la semplice potenzialità di analisi è un rischio in sé, indipendentemente dal modo in cui il fornitore decida di condividerla con i suoi utenti. La buona notizie è che esiste un modo per proteggersi: taggare con il vostro nome e cognome splendide foto di alberi e peluche. Per le macchine questo piccolo stratagemma potrebbe essere fatale.

di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto a Roma mercoledi scorso, zona Eur. Guido Allegrezza, uno degli organizzatori della Settimana Arcobaleno è stato aggredito. La sua faccia pestata a sangue compare sulle pagine di tutti i quotidiani e la polizia indaga sugli aggressori tutti romani, protagonisti di un assalto in pieno stile omofobo. Arriva la consueta solidarietà dalle Istituzioni, di Sindaco e vicesindaco, che però non sprecano mezza parola sulla mancanza di una legge ad hoc, finora ostacolata dal bigottismo della solita area cattolica che finge di non vedere la vera emergenza che colpisce la Capitale, non l’ultimo paesello dell’entroterra.

Il Pd, attraverso le parole di Enzo Foschi - consigliere della Regione - avanzerà la proposta di una legge almeno regionale.

Andrà avanti l’organizzazione della Settimana della Cultura che culminerà il 22 giugno e le associazioni di riferimento del mondo gay e trans gender assicurano che non si lasceranno intimidire dalle violenze. Rimane la sola paura di assistere impotenti ad una escalation di pestaggi che ha lasciato per strada una lunga lista di persone prima di Guido Allegrezza.

Impotenti, anzi complici, come diventano le Istituzioni che non sanno o non vogliono tutelare cittadini che più di altri patiscono discriminazioni. La storia dell’emancipazione femminile o delle aggressioni razziste o antisemite sembra non aver insegnato nulla.


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