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di Mario Braconi
Un piccolo caso divertente mette alla berlina l’ipocrita pruderie della corporate America. Il 10 settembre il feed Facebook del New Yorker pubblica la solita vignetta dall’umorismo sofisticato: Adamo ed Eva siedono, nudi, sotto un albero del giardino dell’Eden, nell’atteggiamento di una coppia che ha appena fatto l’amore. L’espressione facciale dei due denota insoddisfazione, mentre la donna tiene eloquentemente le braccia conserte sotto il seno: “Bè, è stato originale”, commenta sarcasticamente la madre dei viventi, facendo evidentemente riferimento al primo peccato commesso dall’uomo, appunto il “peccato originale”. Non ci sarebbe niente di particolare, se non fosse per il fatto che qualche utente di Facebook ha ritenuto che la pubblicazione di immagini stilizzate di nudo (femminile) urtasse la sua sensibilità.
In questi casi, come da procedura interna, un dipartimento specifico della società che gestisce il social network esamina la lamentela: al termine di della verifica potrà decidere di accogliere la contestazione, rimuovendo il materiale considerato offensivo, ovvero rimettendolo al suo posto. Bene, incredibile ma vero, i censori digitali al soldo di Mark Zuckerberg e soci hanno confermato che l’immagine non era coerente con gli standard di “decenza” che l’azienda si è data, e ha pertanto rimosso la vignetta.
Quel burlone di Steven ha finto di accondiscendere alle draconiane misure repressive di Facebook, ridisegnando la medesima scenetta, questa volta mettendo addosso ad Adamo ed Eva una gran quantità di vestiti (perfino la testa dei due pupazzi era coperta, rispettivamente, da un capellino da baseball e dal cappuccio di una felpa); in questo modo, nota Bob Mankoff, caporedattore delle vignette del New Yorker, la vignetta non solo non fa ridere, ma non ha neanche più senso. Si trattava di una distorsione sarcastica della realtà (la censura) il cui obiettivo era mettere il censore di fronte alle assurde conseguenze della sua azione: alcuni commentatori superficiali (compreso un redattore del New York Times) non hanno compreso la raffinatezza di questa polemica, interpretandola come il risultato di un atteggiamento passivo del cartoonist nei confronti del diktat di Facebook.
L’incidente si è verificato perché, secondo le regole del buon costume su (o quelle imposte dalla “squadra buoncostume di”) Facebook, foto e video che mostrino capezzoli maschili sono accettabili; non altrettanto nel caso in cui i capezzoli rappresentati appartengano ad un corpo femminile (viene stabilito in modo inequivocabile dal punto 2 della sezione “Sesso e Nudità” del manuale in dotazione ai censori).
Qui la cosa si fa interessante: perché, in effetti, al punto 8 della medesima sezione, si specifica che è bandita ogni forma di nudità espressa anche in forma digitale (avatar, ad esempio) o di cartoon (ad esempio le donnine nude degli hentai giapponesi non hanno un passaporto valido per accedere al recinto di Facebook). Tuttavia, in modo sibillino, il comma si conclude concedendo un lasciapassare alla nudità “artistica”.
Questo aspetto è ancora più curioso, dal momento che, secondo la sensibilità di chi ha formulato ed approvato queste regole, un nudo femminile fotografato è inaccettabile (in quanto mostra “parti intime”, e in particolare capezzoli o natiche), mentre lo stesso nudo realizzato, che so, a carboncino è perfettamente accettabile. Vittima di questo delirio è stato a suo tempo il pittore Steven Assael: quando la New York Academy of Art ha postato sul suo profilo un suo dipinto di che mostrava un busto femminile a il seno scoperto, si è vista rimuovere il contenuto in quanto non coerente con le policy aziendali. Le scuse recapitate in seguito da Facebook all’artista sono ancora più ridicole della vicenda in sé: l’amministratore si scusava dell’errore commesso, giustificandosi in modo untuoso quando affermava che il ritratto era così realistico da sembrare una foto, cosa di cui, anzi, desiderava complimentarsi con l’artista!
Come scrive Adrian Chen su Gawker, la policy di Facebook ci deve essere “qualcosa di particolarmente sconveniente nei fotoni che rimbalzano dal petto di una donna, penetrano le lenti di una macchina fotografica e vanno a colpire un sensore luminoso.” Per rendersi conto di quanto sia falso ed ipocrita questo punto di vista, continua Chen, basta vedere la campagna orchestrata dalla ditta di abbigliamento American Apparel, la quale, per pubblicizzare le sue mutande, ha creduto bene di lanciare una campagna con cui le modelle erano rappresentate nell’atto di togliersele. Niente foto, per carità, ma dei pregevoli disegni “artistici” a carboncino.
Non occorre essere bacchettoni per notare, tra l’altro, che la cosa davvero disturbante di quei disegni non è tanto la posa volutamente inelegante e provocante, quanto piuttosto il fatto che le modelle sembrano davvero un po’ troppo giovani: sono, visibilmente, parecchio minorenni. Meraviglie del disegno: la American Apparel, da fabbrica di stracci a buon mercato si è magicamente trasformata in un mecenate, mentre le sue discutibili campagne filo-pedofile una raccolta di opere d’arte.
In ogni caso l’innocente cartoon di Steven sarebbe dovuto passare senza danni attraverso le forche caudine della censura su Facebook, in quanto nudo “artistico”; il tutto senza contare che qui i temutissimi capezzoli non sono altro che due puntini tracciati con una matita. Eppure si è verificato un errore. Un errore umano, ovviamente. I gestori di Facebook, infatti, comprensibilmente controllano il materiale che viene caricato dagli utenti, in qualche caso passando il lavoro in appalto a società esterne. Queste ultime si servono di lavoratori di paesi in via di sviluppo che, per la fantasmagorica cifra (promessa) di 4 dollari l’ora, si danno a visionare, in turni di quattro ore, i modi in cui la nequizia umana si deposita in una rete sociale.
Lo scorso aprile Gawker è riuscito ad entrare in contatto con uno di questi schiavi moderni addetti a questo modernissimo lavoro e progressivo, il marocchino Derkaoui. Derkaoui, le cui ragioni di malanimo nei confronti dei suoi sfruttatori non sono difficili da immaginare, ha passato al periodico anche il manuale operativo del bravo censore, da cui sono stati estratti i comandamenti sopra riportati. Vi si trovano altre regole assurde e ridicole: non si possono mostrare donne nell’atto di nutrire i loro bimbi al seno, a meno che, petto a parte, non siano completamente vestite; si possono mostrare i liquidi corporali, ad eccezione dello sperma; non è possibile postare foto che mostrino confronti tra due soggetti (paura del razzismo?), e sono vietate tassativamente le foto ritoccate al photoshop (?).
Non è proprio una sorpresa constatare, come fa Chen in un altro pezzo su Gawker, che la sensibilità degli amministratori di Facebook nei confronti della violenza esplicita è assai più modesta di quella dimostrata nei confronti di questioni legate (anche alla lontana) al sesso o (anche alla vicina) alle secrezioni umane: scrivere “amo sentire un teschio che si spacca” è vietato, ma è ammesso mostrare foto di crani effettivamente schiacciati, purché il cervello spappolato non risulti visibile, così come sono ammissibili foto di muscoli, tendini, ferite profonde e di sangue in quantità...
Intendiamoci, un minimo di controllo sui contenuti, per una piattaforma come Facebook non è solo consigliabile, ma quasi obbligatorio: ospitare un social network è un po’ come invitare amici, conoscenti e persone quasi estranee nella propria casa, per fare una festa, divertirsi, presentare cosmetici o un libro, poco importa. Il padrone di casa (quello che ci mette la tecnologia, la banda e i soldi) ha diritto ad assicurarsi che i suoi ospiti non si insultino, non si uccidano l’un l’altro, e, incidentalmente, che non gli brucino i tappeti buoni. Mentre però su alcune cose (pedofilia, stupro, violenza) c’è un accordo unanime sul fatto che debbano essere banditi, su altri temi le regole necessariamente riflettono idiosincrasie ed ipocrisie del padrone di casa. E spesso il lavoro è svolto da qualcuno che sta mettendo i soldi da parte per scappare dal suo inferno (reale).
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di Rosa Ana De Santis
Il Welfare è sotto la lente d’ingrandimento, alla tre giorni a Capodarco del X "Forum Sbilanciamoci". In questa sede non si analizza il rapporto tra la crisi e le piazze degli affari, ma tra insicurezza economica e welfare. Come al solito i servizi nel nostro Paese patiscono non tanto un’insufficienza di risorse e fondi, quanto la distorta distribuzione e le scelte economiche con cui vengono investite. Paradossalmente, nel momento storico in cui l’emancipazione delle donne dovrebbe essere definitiva, assistiamo in Italia a un ritorno ai ruoli antichi di genere come unica forma di assistenza sociale per la famiglia.
E se non sono mamme, sono nonne o donne immigrate. Non c’è scampo.
L’impegno del pubblico nel finanziamento del welfare è sempre più ridotto, molto più basso rispetto alle medie europee e spesso demandato alle scarse possibilità dei Comuni. E’ evidente come le istituzioni lo interpretino come spreco e non è un caso che sia l’ambito più tartassato dai tagli invocati in nome della crisi. Povertà, disoccupazione, disabilità sono territori quasi abbandonati e il welfare è spesso solo carità per i più bisognosi.
Il forum lavora non soltanto nella direzione di denunciare lo svuotamento del welfare , ma in quella - costruttiva e importante - di rendicontare, regione per regione, una sorta di mappa dei danni che i tagli indiscriminati possono generare nel tessuto sociale. Un esempio su tutti è quello dei centri psichiatrici e delle persone che ci vivono. Le loro storie e i loro casi sono semplicemente al buio, dimenticati e al massimo ripescati da qualche fattaccio di cronaca nera eclatante.
Il pilastro delle donne non può funzionare più come ammortizzatore dei costi delle famiglie. E’ la sociologia a confermarlo. La precarietà, conferma Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci, a dispetto di ogni infatuazione per il mercato, è solo un valore negativo di disgregazione sociale e di pesante impoverimento del ceto medio. Il populismo dietro l’angolo ne è sul piano politico e culturale la prova più pericolosa. Continuità di reddito, nuove formule di assunzione con sgravi fiscali e servizi sociali sono l unica strada in grado di rilanciare la vita anche economica dell’Italia.
Sbilanciamoci e lo Studio Ambrosetti (che ha riunito a Cernobbio il gotha dell’impresa italiana) ricordano Davide contro Golia. Li definisce “germogli che vanno protetti”, don Vinicio Albanese, presidente della Comunità di Capodarco. Eppure i 38 anni di proposte cattedratiche dell’impresa e della politica italiana ci ha portati per mano a questi giorni di baratro economico.
Ripartire dalle persone in carne e ossa non significa abbandonarsi a romanticherie inattuabili, ma vuole dire qualcosa di molto più concreto. Sostenibilità ambientale dell’economia (vedi l’Ilva di Taranto), fine della disgregazione individualistica dei contratti di lavoro, nuovo piano di occupazione, servizi sociali per reintrodurre chi più di altri patisce la crisi del lavoro per costruire un circuito virtuoso e non una piramide sociale tra i ricchissimi e i paria. Controllo a tappeto dell’evasione per risanare i vuoti dei servizi pubblici, legalità a tutti i livelli.
Persone e non banche, economia reale e non speculazione. La crisi vera sta tutta qui: in quello che di questo Paese non si vuole, come non si è mai voluto, cambiare. Anche ora che non è più colpa dei politici che s’inventano tecnici ma dei tecnici che fanno politica.
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di Mario Braconi
Ogni giorno dobbiamo confrontarci con le follie di un sistema di produzione e consumo di massa non solo irresponsabile ma anche imbecille: il bombardamento mediatico è tale che ormai ci si rassegna a subire passivamente il profluvio senza fine di messaggi che spesso ci spingono a separarci dal nostro denaro per acquistare oggetti inutili se non dannosi. In questo contesto è piacevole apprendere che sul sito britannico di Amazon si è realizzato un piccolo miracolo: un consumatore un po’ più brillante e volenteroso degli altri si è ribellato contro i diktat del consumo forzato di massa, e ha reagito all’idiozia del marketing con l’arma più tagliente ed efficace che ci sia, l’ironia.
A raccontarci questa piccola storia di speranza sono il sito femminista Jezebel, seguito a ruota dal Gawker, blog di newyorkese dedicato al gossip. Succede dunque che BIC, il produttore di biro, accendini e rasoi, per imperscrutabili ragioni si sia dato alla produzione e quindi al lancio pubblicitario di una nuova linea di penne a sfera studiate specificamente “per il pubblico femminile”. Secondo il claim ideato dai geniali pubblicitari al soldo della multinazionale, il nuovo prodotto è stata “progettato per stare bene tra le mani di una signora”. Per non parlare del tocco di classe: il fusto della biro è disponibile in colori molto “fru-fru”: rosa o violetto, a scelta.
Come noto, Amazon, come altri siti dedicati alle vendite al dettaglio via click, concede agli utenti registrati di esprimere commenti sui prodotti esposti nelle sue vetrine virtuali. Non appena la BIC per signore è stata “esposta” sugli scaffali virtuali di Amazon.co.uk, un utente ha scritto una falsa recensione allo scopo di ridicolizzare il prodotto, evidenziando la sua stupidità sessista da diverse angolazioni.
La ribellione gentile di quel geniale utente ha dato l’avvio ad una piccola sfida di talenti letterari in vena di ironia. C’è chi ha deciso di impersonare in modo sarcastico l’odioso stereotipo della femmina sciocca dedita esclusivamente alla cucina e alla casa; e chi invece ha dato voce ad un maschio oppressore; e chi addirittura ha usato l’improvvisato quanto inatteso “speaker’s corner” digitale per prendere bonariamente in giro gli eccessi del femminismo militante.
Ad aprire le danze, l’utente contraddistinto dal nickname M Holloway, il quale, sotto l’enfatico titolo “La mia vita è cambiata!” mette in scena una geniale parodia. Racconta Holloway, in prima persona, la vicenda umana di una sciampista, “le cui mani sembravano create per stringere tra le mani la ramazza” con cui spazza il pavimento del parrucchiere dove lavora, eppure abile assai a realizzare fantastici manicaretti. Incapace, ahimè, la poverina, di comporre frasi sul suo laptop rosa per più di quattro minuti di seguito...
Questo perché, racconta, gli occhi le danno fastidio: essendo donna, infatti, non riesce a distinguere se non le sfumature di grigio o nero (velenoso riferimento all’inspiegabile successo planetario della serie di romanzetti porno-soft britannici che hanno spopolato quest’estate, “Cento sfumature di grigio”, etc). Per fortuna, continua Holloway, tutto cambia con l’arrivo delle magnifiche nuove penne BIC, che le consentono finalmente di dedicarsi alla scrittura (quale originalità) di un romanzo sexy-vampiresco!
Vi sono poi i falsi mariti, preoccupati delle inquietanti metamorfosi subite dalle loro fino ad allora miti e sottomesse compagne di vita: tale Drake Tungsten (un nome è che è tutto un programma, davvero), racconta che, da quando ha imposto alla moglie l’uso le nuove penne BIC per signora, lei ha interrotto la stesura del suo manifesto femminista e ha ricominciato a comportarsi come si conviene ad una vera ragazza americana: ovvero, cucina torta di mele e passa l’aspirapolvere indossando (solo?) graziose scarpette coi tacchi a spillo...
Non poteva mancare il personaggio della femminista arrabbiata, che fa notare come la forma delle penne continui ad essere ancora palesemente troppo simile ad un fallo: “si tratta del solito attrezzo patriarcale. Al di là dell’ingannevole colore delicato, si cela un nero inchiostro maschilista. E’ ora di pretendere una penna a forma di vagina”.
Si potrebbe andare avanti ancora, riassumendo le divertenti finte recensioni che hanno velocemente popolato lo spazio messo disposizione da Amazon per scopi commerciali... Basti notare, qui, che le stolide BIC per donne hanno prodotto un piccolo capolavoro di creatività e di ribellione. Chissà che, questa sì, diventi una moda.
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di Rosa Ana De Santis
E’ agosto, il 14 per l’esattezza. La calura dell’Africa brucia la Capitale e per i moltissimi romani rimasti a casa la vita scorre lentissima. Peggio del solito. E’ in arrivo un pacco firmato Poste Italiane in un quartiere della periferia nord della Capitale. Si tratta di un delizioso regalo di compleanno partito da Sarzana con Posta Celere 1.
Il corriere arriva alle 12.35. Lo manco per 5 minuti, dopo averlo aspettato ai domiciliari per due mattine, date come possibili senza indicazioni di orario, e solo dopo, troppo dopo , trovo la ricevuta color arancio della mancata consegna, attaccata con adesivo sul citofono del mio palazzo. Sembrava un cartoncino pubblicitario buttato tra tanti e ancora oggi mi domando perché non gli sia stata preferita la mia cassetta della posta, in teoria adibita proprio a questo uso.
L’uomo delle consegne ha avuto la premura di lasciare il suo numero cellulare, ma di non riportare il numero della spedizione. E’ così che inizia un’avventura investigativa a pagamento con il numero verde, gratuito solo per chi chiama da telefono fisso. Alla fine del disco, delle attese e delle conversazioni con gli operatori, capaci di dare tre versioni diverse nel giro di mezz’ora, scopro che sono in ritardo per chiamare il corriere sul cellulare, ma soprattutto per fermare il secondo tentativo di consegna che avverrà nel giorno in cui so già di non essere reperibile a casa.
La procedura è irreversibile, dicono. Il fatto assume sembianze quasi fantascientifiche. La Posta non può parlare con i suoi corrieri e per concordare un altro appuntamento devo attendere la mattina del giorno seguente, quando avrò in mano la seconda bolla color arancio, o chiamare la sera dello stesso giorno, poco prima delle 20, quando i terminali riporteranno la sigla ufficiale che dice a Poste quello che io provo a dire da due giorni: ovvero che non mi avrebbero trovata nel mio domicilio.
La macchina della burocrazia avvitata su se stessa è partita e non c’è nessuno, nemmeno io che dichiaro che non sono in casa, che può fermarla. Soldi, tempo, lavoro di tutti buttato al vento.
L’ennesima telefonata mi svela l’ultima delle sorprese, finora strategicamente celata. Non è possibile concordare un terzo appuntamento e sarà mia onere ritirare il pacco nell’ufficio postale designato. Sono tre giorni che lavoro per Poste al recupero di un mio oggetto e, a quanto pare, completerò l’opera con un degno self service. Chissà se avrò un compenso a fine progetto.
La ciliegina sulla torta è che l’ufficio postale che custodisce il mio regalo non è però la mia filiale, il luogo più vicino, per intenderci, dove pago le mie bollette e ritiro le mie raccomandate. Ne ho vinto uno molto più distante. Mi indicano la sede SDA che si trova in Via Corcolle, oltre l’anello del Raccordo Anulare sulla Tiburtina e solo per un mio eccesso di zelo e un’altra telefonata scopro che non ho bisogno di uscire dalla città, ma che basta andare all’ufficio postale sito in Viale Adriatico. Un altro piccolo errore del numero verde.
E’ qui che vado la mattina di venerdi 17 agosto. E scopro, leggendo un confuso avviso cartaceo inchiodato al cancello, che quest’ ufficio è chiuso per lavori e le sue competenze sono smistate in altre due filiali di due diversi quartieri. Mi allontano con una domanda che infittisce il giallo del mio recupero: in quale dei due sarà il mio regalo? In quello dei pacchi e raccomandate o in quell’altro che smaltisce le giacenze di quello chiuso per lavori in corso? Per non parlare degli orari diversi, con differenza di una manciata di 5 minuti e e delle mille eccezioni di festivi e feriali e dei giorni festivissimi di ferragosto e dintorni. Quante combinazioni dovrò seguire sabato mattina alla ricerca del mio pacco, tenuto conto che il sabato è un prefestivo e che nessuno risponderà mai al telefono?
Il rebus mi appare da subito troppo complicato e mi rivolgo testarda e forse anche troppo ingenua di nuovo al call center. L’operatore cerca di placare le mie intemperanze e prova a difendere, timidamente a dire il vero, la correttezza di Poste Italiane che “le sue cose” le comunica. Magari con un pizzino di carta che mi ha obbligato ad arrivare in faccia ad un ufficio chiuso, perdendo una mattina di lavoro, ma l’ha fatto. Mi precisa che loro peraltro non sono dipendenti di Poste e non parlano con le Poste, ma consultano dei terminali.
Mi chiedo allora se non sia più economico mettere dei risponditori automatici, visto che il metodo è quello di appaltare all’esterno per risparmiare. Misuro con rassegnazione quanto poco possano importare le rimostranze dei cittadini se non si lavora più in seno ad un’azienda e non si ha più alcuna responsabilità diretta nel merito dei servizi erogati. Ma se prendessi i loro quattro spiccioli e rispondessi da un garage adibito ad ufficio, farei lo stesso, penso.
Mi rendo conto infine di quanto sia frustrante e vessatorio vivere sottomessi all’odiosità di procedure, burocrazie e avvitamenti insensati di un sistema di regole e cavilli obeso e privo di senso. Tenuto in vita apposta per azzerare i diritti, senza il disturbo di annunciarne l’estinzione. Una vecchia e nota malattia nazionale del sistema Italia.
La burocrazia, le procedure senza testa, di cui questa banale storia è solo una prova minima e senza dolorose conseguenze, sono diventate lo specchio migliore di un paese arretrato, lontanissimo dagli standard della cosiddetta civiltà.
I cittadini e gli utenti sono affidati a società fantasma che prendono due lire per mantenere indisturbata l’inefficienza dei servizi all’apparenza accessibili ai cittadini. Devi conoscere il direttore di turno e chiamarlo sul cellulare: è l’unico metodo efficace per sfangare un diritto in Italia. Così recita la vulgata al bar o alla pensilina degli autobus. E mentre ci penso su, mi rendo conto che non ne conosco nessuno e che per il prossimo compleanno spero di farmi recapitare il pacco molto più a Nord delle Alpi. La sensazione è che oltreconfine arriverà sicuramente prima.
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di Mario Braconi
Essere punk in una democrazia occidentale può essere divertente: ribellione, anarchia, oltre alla sperimentata triade sesso, droga e rock and roll. Ci sono ovviamente eccezioni: muovendosi lungo la scena culturale punk, infatti, può capitare di incontrare gente davvero brutta (ala neonazista) o, all’estremo opposto, soggetti impregnati di un salutismo fisico e psicologico estremo (la cosiddetta subcultura “punk straightedge”, punk che scelgono di dire no alle seduzioni della democrazia capitalista rigando dritto: niente promiscuità sessuale, niente droga né alcol, niente caffè, dieta vegetariana o vegan).
Essere punk anarchici, anzi o meglio punk anarchiche nella Russia di Putin è tutt’altra cosa: esprimere in modo artistico la propria rabbia può significare mesi di galera. E’ quanto sta accadendo a tre ragazze del collettivo musicale anarco-femminista Pussy Riot, imprigionate in un carcere russo in seguito ad una loro performance artistica.
Ma andiamo con ordine: lo scorso 21 febbraio il collettivo femminile ha preso parte alle proteste popolari contro la rielezione di Putin alla carica di presidente. Il contributo delle Pussy Riot è stato un concerto flash di cinque minuti all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Diverse “gattine in rivolta” nelle loro uniformi ufficiali (vestiti interi, passamontagna e calze sgargianti) si sono dapprima prodotto nell’imitazione satirica di una preghiera, per poi cantare, al suono di una chitarra elettrica, uno dei pezzi del loro repertorio. Una canzone davvero adatta al luogo, visto che si tratta di “Punk Prayer” (preghiera punk): un inno anti-Putin, impreziosito da un ritornello blasfemo. Con la loro preghiera sui generis le punk intendevano denunciare lo stato di polizia instaurato da Putin, come pure l’atteggiamento filo-governativo della chiesa ortodossa russa: “tutti i parrocchiani si affollano ad omaggiare / la tonaca nera e le spalline dorate / il fantasma della libertà è in paradiso / mentre il Gay Pride è spedito in Siberia in catene (...) / il Patriarca Gundyaev crede in Putin / farebbe meglio a credere in Dio, piuttosto / la cintura della Vergine non può sostituire assemblee di massa / Maria, madre di Dio, protesta assieme a noi”.
Ovviamente la performance non poteva però rimanere impunita. Il 5 marzo, sette persone sospettate di aver dato vita al concerto improvvisato nella cattedrale sono state prelevate dalla polizia, anche se solo due di loro, Nadezhda Tolokonnikova e Maria Alyokhi, sono state fermate. Il reato ipotizzato è quello di “teppismo”, per il quale in Russia si rischiano pene detentive fino a sette anni. Sin da subito è stato chiaro, inoltre, che le autorità russe intendevano tenere in prigione le due ragazze fino alla celebrazione del processo, inizialmente previsto per aprile: questa circostanza ha spinto le due giovani ad iniziare uno sciopero della fame. Il sedici marzo è stata arrestata una terza ragazza, Irin Loktina, inizialmente sentita come testimone dei fatti. E’ molto difficile per le autorità accusare qualcuno che durante i fatti contestati aveva il volto celato da un passamontagna, come nel caso delle tre musiciste- attiviste. Per questa ragione, tanto le accuse che la detenzione in attesa di processo sono palesemente illegittime.
Madeleine Kruhly di The Atlantic ha tentato di inquadrare da un punto di vista socio-culturale il reato di “teppismo” in Russia, interpellando Neil B. Weissman, autore di un saggio sui casi di “teppismo” registrati in Russia tra il 1905 al 1918. All’inizio del Novecento, spiega Wiessman, “la polizia russa cominciò ad appioppare questa accusa a tutti i responsabili di reati di danneggiamento contro la élite (...) finché la classe dei poveri decise di commettere il suo atto di ‘teppismo’ più clamoroso, ovvero sbarazzarsi della sua élite una volta per tutte”. Corsi e ricorsi storici, dunque. Un tempo la classe degli oppressori (nobili e chiesa) ha inventato una fattispecie giuridica per garantirsi lo status quo e punire ogni forma di ribellione agli abusi perpetrati ai danni del popolo. Oggi, quello stesso reato viene usato, in modo molto simile, da una nuova élite, per le stesse ragioni: non si tratta più dell’aristocrazia, ma di una cricca di ex agenti segreti dal grilletto facile. E’ chiaro che oggi a protestare (in modo peraltro molto più blando di quanto accadesse oltre un secolo fa) sono le classi intellettuali: tuttavia, atti di “teppismo” come quelli perpetrati dalle Pussy Riot, allora come oggi, “rappresentano una forma di dissenso pubblico contro tirannide e leggi ingiuste. E oggi come ieri in Russia, il dissenso pubblico viene visto come qualcosa da temere e reprimere”.
In realtà, l’incarcerazione delle Pussy Riot serve come pro-memoria a tutte le donne e gli uomini russi: questo è il destino che attende chi contesta Putin. Dietro la burletta dell’accusa di teppismo, in effetti, si cela un processo poltico con tutte le situazioni farsesche che esso comporta. Come la presentazione, lo scorso 4 luglio, di un verbale di accusa di 2.800 pagine, cui le imputate sono state chiamate a replicare entro il 9 luglio. Non a caso, Amnesty International ha nel frattempo lanciato un’azione globale urgente finalizzata alla liberazione delle tre giovani “imprigionate per aver espresso pacificamente il proprio pensiero”.
La ONG sottolinea come agli imputati e i loro avvocati sia stato fornito un solo originale del faldone da tremila pagine (più dieci ore di registrazioni), da condividere, dal momento che non è stata messa a loro disposizione nemmeno una fotocopiatrice. Per non parlare dell’ennesima proroga dei tempi di carcerazione preventiva: in un primo momento essa era stata estesa fino al 24 luglio. Ma l’udienza preliminare del 20 luglio la ha riconfermata per ulteriori sei mesi: in altre parole, i cinque minuti di protesta stanno costando alle tre musiciste-attiviste quasi un anno di carcere (per un delitto d’opinione). Nella seconda sessione dell’udienza preliminare del 23 luglio, poi, il giudice ha concesso alle imputate altri quattro (quattro!) giorni per studiare le carte, respingendo al mittente le richieste dei loro avvocati, che avevano proposto un supplemento di indagine e l’avocazione di testimoni, tra cui Putin e il Patriarca della Chiesa Ortodossa. La corte, inoltre, si è riservata di valutare in un secondo momento le perizie linguistiche e psicologiche ordinate per verificare se nelle parole della canzone suonata nella cattedrale a febbraio si possano riscontrare gli estremi di un altro reato, l’incitazione all’odio razziale: un prendere tempo non giustificato, dal momento che già due dei tre esperti consultati hanno escluso tale possibilità.
In ogni caso, la protesta delle Pussy Riot sta creando una grande onda anomala dentro e fuori la Federazione. Grazie ad iniziative coraggiose come quelle delle Pussy Riot, l’autoritarismo di Putin sotto gli occhi del mondo, mentre in Russia perfino il fronte dei fedelissimi a Putin accusa qualche segno di cedimento: infatti, sotto i diversi appelli contro l’incriminazione della giovani russe, sono sorprendentemente comparse anche le firme di artisti considerati politicamente vicini a Putin. Nel frattempo diversi musicisti mainstream, tra cui Sting, i Red Hot Chili Peppers hanno “adottato” le Pussy Riot. Una cosa è sicura: Putin ha sottovalutato l’effetto boomerang della sua campagna di repressione del dissenso.