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di Rosa Ana De Santis
La storia è quella di Sofia, questo il nome della piccola protagonista, una bambina di tre anni affetta da una rara malattia - la leucodistrofia metacromatica - ed è il caso di una bimba che non può più essere curata. Il nome, che mette già paura, è quello di una patologia che impedisce di camminare, genera atrofia ottica e regressione mentale fino a portare alla totale decerebrazione. La morte arriva entro i cinque anni dalla comparsa dei sintomi: la stagione di una farfalla, appunto.
Il tribunale di Firenze si è espresso con parere negativo sulla somministrazione di una terapia a base di cellule staminali grazie alla quale Sofia iniziava ad avere importanti miglioramenti. Non si tratta di una cura vera e propria, va precisato, ma di un modo per arginare l’aggressività di questa malattia. L’AIFA e i Nas ne hanno bloccato la somministrazione per mancanza di effettivi riscontri. Difficile pensare di averli, peraltro, con numeri cosi ristretti e “giovani” di piccoli affetti. Le procedure poco sicure e rischiose per la vita dei pazienti, secondo l’AIFA, che venivano praticate nella struttura di Brescia avevano addirittura portato i Nas a mettere i sigilli al laboratorio.
In materia di staminali il decreto Turco del 2006 parla chiaro: per curarsi c’è bisogno dell’autorizzazione del tribunale e cosi in Italia si è generata una situazione fatta di trattamenti difformi e differenze che in casi come questi segnano la distanza tra vivere o morire o tra vivere meglio o andare avanti tra sofferenze pesantissime.Alcuni Tribunali (Venezia e Catania, rispettivamente per i casi di Celeste e Smeralda) ad oggi hanno aggirato il veto dell’AIFA consentendo di continuare la somministrazione per altri piccoli pazienti affetti da altre patologie gravissime, per Sofia ed altri due bambini non è andata cosi ed è sull’onda di questa discriminazione normativa di fatto che i suoi genitori hanno lanciato una denuncia e un appello direttamente al Ministro Balduzzi o a chi dovrà esserci in sua vece. Perché una questione è certa: Sofia non ha tempo per attendere la burocrazia, la politica e l’odiosità dei protagonismi para-democratici che occupano tutte le prime pagine dei quotidiani.
L’articolo 32, sancendo il diritto costituzionale alla salute, non lascia spazio all’interpretazione e non possono sussistere dubbi sulla sua applicabilità secondo principio eguaglianza, tantomeno nel caso delle cosiddette cure compassionevoli che riguardano situazioni di straordinaria gravità. L’interpretazione della legge ha creato di fatto una differenza che sta diventando una condanna ad una vita peggiore e di sofferenza per Sofia e altri piccoli come lei e la terapia della Stamina Foundation di Daniele Vannoni rimane oggi l’unica ed ultima possibilità. Dubbia, dirà l’AIFA, ma unica.
E’ certamente vero che la posizione delle Istituzioni preposte alla tutela della nostra salute non può essere aggirata, né per prassi né per principio, a colpi di sentenza. Eppure, anche in contesti molto diversi come quello della fecondazione e della contestatissima legge 40, sostanzialmente accade già di fatto che siano i tribunali a riscrivere la legge per la vita reale dei cittadini.Se esiste un problema aperto a colpi di perizie e di protocolli bisognerebbe intanto che la commissione di esperti tornasse a riunirsi e a lavorare con urgenza su una materia che controversa e di difficile risoluzione è per tutte le malattie rare e i loro trattamenti. Diciamo anche che in questo campo, forse anche per la stessa condizione di rarità, bisogna dire grazie più alle maratone come Telethon e alla buona volontà di tante eccellenze mediche, che non di investiture dall’alto.
Il disallineamento tra le posizioni governative e le prove di efficacia addotte dai giudici, basate sulle condizioni effettive dei pazienti e sulla loro migliorata qualità di vita che non sulla guarigione, è un fatto che non può diventare ragione sufficiente per elargire cure sulla base delle differenze geografiche o del giudice di turno.
Ed infine, forse questo l’elemento che dovrebbe valere più di tutto, in questa giungla fatta di disordine e di continui dietro front in cui è un ospedale pubblico a rivendicare la correttezza del proprio operato e non uno stregone, non si può chiedere proprio a lei, la più piccola di questa storia, di pagare tutto il prezzo di quello che non sappiamo ancora di quei “comprovati risultati di efficacia”.
In certa misura anche le cure palliative ai terminali sono inefficaci, eppure esiste un tema di riduzione del dolore, di dignità e di qualità della vita. Se questo poco può bastare per vivere meglio, per continuare a nutrirsi un principio di buon senso dovrebbe indurre ad ascoltare la richiesta di aiuto dei suoi genitori che a breve non riusciranno più a nutrirla. Se la scienza può alleviare le sofferenze, anche se incapace di fornire soluzioni allora questa è la storia di un diritto negato: quella della farfalla che voleva essere una bambina.
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di Rosa Ana De Santis
Piazza San Pietro è gremita di fedeli per l’addio di Papa Ratzinger: 250.000 secondo le forze dell’ordine presenti. Commosso per tanta partecipazione il pontefice, ormai emerito, ribadisce che non abbandonerà la croce, ma che la servirà in modo nuovo pregando dentro la casa di Pietro: lì dove rimarrà fino alla fine. Da domani mattina Benedetto XVI toglierà la mantellina bianca, sfilerà l’anello del pescatore e lascerà le scarpe rosse. Questa la traduzione estetico-simbolica di un passaggio storico ed epocale che pur previsto dal diritto canonico ha il suo precedente soltanto nel passato remoto con Celestino V l’eremita.
Se la scelta del papa asceta aveva lasciato la Chiesa nelle mani di Bonifacio VIII con lo sconforto che Dante aveva saputo ben esprimere nelle terzine della Commedia, questa seconda volta le “dimissioni” del papa con il mondo della spiritualità e della preghiera sembrano averci davvero poco a che fare. Il non detto della Curia, a parte l’indugiare nei dettagli del folclore e delle procedure, sembra dire più di ogni dichiarazione ufficiale sulla vecchiaia e le condizioni di salute. Otto anni fa forse Ratzinger pensava di andare incontro alla gioventù?
Nonostante la partecipazione di massa dei fedeli lo shock, per una decisione che uno si aspetterebbe dall’ad di un’azienda o da un presidente del Consiglio non certo da un capo spirituale, è palpabile. Come la sensazione generale che in questa fase abbiano perso tutti: il papa in carica, la Chiesa rimasta improvvisamente spoglia di egida spirituale e investitura divina e i credenti che fanno fatica a riconoscere nel vicario di Cristo in terra un uomo che può rinunciare perché stanco.
Da questo punto di vista il precedessore Wojtyla aveva incarnato perfettamente il simbolo di questa missione divina. Difficile dopo di lui accontentarsi di un modo diverso di portare la croce. I credenti che dovrebbero vivere un moto di autentica indignazione per le sorti della Chiesa di Dio, sembrano come assopiti nell’attesa che il conclave “motu proprio” scelga il successore di Benedetto XVI più che un papa per la chiesa dei cattolici.Fanno sempre più rumore infatti, nonostante i tentativi di riempire con il fumo il vuoto che lascia il gesto del Pontefice, gli scandali che gravano come una nuvola sul Conclave. L’arrivo incerto del cardinale americano Roger Mahony, accusato di aver coperto 129 casi di vittime di abusi sessuali nella diocesi di Los Angeles, e soprattutto il dossier Vatileaks sulla lobby dei gay voluto proprio da Ratzinger di cui qualcosa è stato raccontato dalla penna di Concita De Gregorio su La Repubblica e Ignazio Ingrao su Panorama.
Il conflitto tra il Papa che apre il vaso di Pandora più sporco della Chiesa cattolica e i cardinali sembra essere un filo conduttore per leggere le trame non più tanto segrete. Un gran da fare per il Padre Lombardi della Sala Stampa vaticana e il segretario di Stato Bertone spiegare ai media che il Conclave dovrà lavorare al sicuro dalle cosiddette maldicenze e in un’attesa di preghiera.
Chissà quanti dei fedeli oggi in preghiera per Benedetto XVI nel giorno dell’addio sanno che il successore troverà ad aspettarlo, oltre le scarpe rosse e l’apparato della sacra gioielleria, il dossier bollente. Il volto peggiore della Chiesa degli uomini: quello che Ratzinger ha fatto immortalare e documentare dai suoi cardinali agenti, magari rinunciando ad essere Papa per questo, e lasciando per meritato contrappasso la Chiesa alla sua mezzanotte santa.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. D’ora in poi, in caso di stupro o violenza, gli ospedali cattolici tedeschi potranno prescrivere la “pillola del giorno dopo” a quelle donne che la richiedano. È quanto ha deciso la Conferenza episcopale tedesca dopo un lungo dibattito che ha indirettamente coinvolto anche il Vaticano, mettendo in discussione uno tra i più solidi principi della Chiesa cattolica, quello degli anticoncezionali. A far pensare sono comunque le coincidenze: i cattolici tedeschi propongono infatti la svolta approfittando di un momento in cui, in Vaticano, c’è un posto “vacante” particolarmente importante da occupare: quello del Pontefice.
La discussione è cominciata qualche settimana fa, dopo che il vescovo cattolico di Colonia, Joachim Meisner, in reazione a un grave fatto di cronaca, ha permesso la somministrazione della “pillola del giorno dopo” entro il suo arcivescovado. Due ospedali cattolici del capoluogo tedesco hanno rifiutato la suddetta misura anticoncezionale a una donna stuprata, suscitando grave imbarazzo nell’opinione pubblica. La dignità e la libertà di scelta di una donna sono state limitate dalla religione e la sua autodeterminazione come donna, ancora una volta, messa sotto i piedi e offesa.
Ed è così che Meisner ha pensato bene di agire: la Germania è sì attenta al potere del Vaticano, ma ci sono altri principi: come l’uguaglianza degli uomini (e delle donne), che contano di più. Il Vaticano non ha in Germania la stessa più o meno esplicita influenza che ha in Italia e questo si era capito già da qualche secolo.
Ed è di pochi giorni fa la notizia dell’allineamento ufficiale della Conferenza episcopale tedesca all’atto solitario di Meisner: i vescovi tedeschi sostengono pienamente il religioso di Colonia, definendosi tuttavia anche in accordo con le dottrine del Vaticano. Durante la conferenza di Treviri (Germania occidentale) i vescovi tedeschi hanno ammesso la prescrizione, in casi particolari quali violenze e stupri, di quelle pillole che impediscono l’ovulazione, invitando le cliniche cattoliche del Paese ad adeguarsi. I cattolici tedeschi continuano a non ammettere i preparati che vanno a impedire lo sviluppo ulteriore di un ovulo già fecondato, sottolineano da Treviri: in questa distinzione scientifica la risoluzione all’apparente ambiguità della dottrina cattolica.
Anche il Vaticano, da parte sua, ha provato a parare il colpo, cercando di riportare le conclusioni di Meisner entro le proprie dottrine teoriche. Secondo il vescovo Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia accademia per la vita, la decisione dei tedeschi è in perfetta sintonia con un principio che la Chiesa accetta da oltre cinquant’anni, una linea in qualche modo sempre fraintesa da fedeli e religiosi.Perché anche il Vaticano non si è mai esposto contro le pillole che impediscono l’ovulazione, spiega Carrasco, bensì contro quei medicinali e processi che provocano l’aborto. Uccidere l’embrione è anticattolico, impedire l’ovulazione no perché la vita non è ancora cominciata. I progressi medici rendono oggi possibile questa differenziazione e, secondo quanto riporta il quotidiano conservatore della capitale tedesca, il Berliner Morgenpost, i vescovi tedeschi non avrebbero fatto altro che esprimersi secondo questa linea e chiarire la “confusione” fra i medicinali.
Al presentarsi sul mercato della “pillola del giorno dopo”, una decina di anni fa, la Pontificia accademia per la vita si era espressa chiaramente circa tale medicamento, specificando la non moralità di tale misura. Nel Comunicato sulla cosiddetta pillola del giorno dopo, 31 ottobre 2000, il Vaticano spiegava: “Decidere di utilizzare la dizione ovulo fecondato per indicare le primissime fasi dello sviluppo embrionale, non può portare in alcun modo a creare artificialmente una discriminazione di valore tra momenti diversi dello sviluppo di un medesimo individuo umano. Lo sviluppo infatti non è caratterizzato da fasi “quantitative” separabili, ma c’è un continuum di potenzialità della vita umana che non è sezionabile.
In altre parole, se può essere utile, per motivi di descrizione scientifica, distinguere con termini convenzionali (ovulo fecondato, embrione, feto, etc.) differenti momenti di un unico processo di crescita, non può mai essere lecito decidere arbitrariamente che l'individuo umano abbia maggiore o minor valore (con conseguente fluttuazione del dovere alla sua tutela) a seconda dello stadio di sviluppo in cui si trova” (www.vatican.va). Viene difficile ora giustificare il comportamento dei vescovi tedeschi secondo una presunta dottrina vaticana mal interpretata, soprattutto alla luce di questo scritto. Si tratta di una novità vera e propria e per questo dirompente.
Il Vaticano cerca quindi di motivare quelle decisioni già prese da subordinati che sviano dai sentieri prescritti dalle gerarchie ecclesiali di Roma, e per farlo si arrampica sui vetri della medicina e della scienza, senza tuttavia riuscire a nascondere la parziale mutevolezza della propria linea. Per qualcuno la decisione dei vescovi tedeschi è una svolta vera e propria, che apre le porte a una maggiore considerazione della donna (e degli esseri umani più in generale) alla luce della nuova dignità sociale che il genere femminile ha riacquistato nel corso dei secoli. Per altri, invece, i tedeschi hanno voluto lanciare un chiaro e semplice messaggio al Papa che verrà e hanno approfittato del vuoto di potere: c’è bisogno di rinnovarsi e il cambiamento deve cominciare da Roma.
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di Rosa Ana De Santis
La Corte Europea di Strasburgo ha detto si all’adozione del secondo genitore omosessuale. L’istanza proveniva da una coppia austriaca di lesbiche e la sentenza prefigura aperture normative importanti e storiche per i diritti civili delle coppie omosessuali e per la loro legittima equiparazione a quelle etero. Un’operazione che sembra marziana per il Paese Italia in cui la carenza di diritti per le coppie omosessuali rappresenta ormai una prevaricazione pericolosa al pilastro dell’eguaglianza sancito in mille salse nella nostra Costituzione.
Mentre da noi si discute ancora a colpi di competizione elettorale di coppie di fatto e DICO, in Europa gli omosessuali possono costituire una famiglia a tutti gli effetti. Va da sé che la distanza con l’Europa imporrà ai nostri politici di recuperare il disavanzo che non può diventare tema di preoccupazione e monito solo quando si riferisce a spread e derivati. Come Paese membro del Consiglio d’Europa tale sentenza non potrà che essere recepita come tutte le altre sul matrimonio gay e il prossimo Parlamento dovrà sanare il vuoto legislativo a tutt’oggi esistente e illegittimo.
Mentre Rivoluzione Civile con Ingroia attraverso le parole di Paolo Ferrero applaude a questa sentenza di civiltà, Berlusconi e il Pdl prendono le distanze appellandosi a una non ben definita tradizione cristiana che può ammettere i diritti civili, ma non il matrimonio e tantomeno l’adozione. Non si capisce bene se l’Europa cui si riferisce il Cavaliere sia altra cosa da quella che tutti abbiamo studiato a scuola che di cristianità è imbevuta fino al midollo. Cristianità di cultura e tradizioni è materia ben diversa dal cattolicesimo confessionale romano. Ma è ragionamento troppo raffinato per i vaticanisti improvvisati.
Il twitter de La Destra, firmato Storace, con la consueta schiettezza popolare che lo contraddistingue, invita tutti a non scherzare sulla figura di “mamma e papà”. Diritti si, ma senza matrimonio e derivati è il tormentone della multiforme destra italiana. Uno spot che non chiarisce bene quali siano questi diritti da tutelare: forse quello di non essere discriminati e malmenati nelle strade di una città come Roma?Deve sembrare già tanto a chi persevera, come l’onorevole Binetti UDC è tornata a ricordarci di recente in tv, nel sostenere che l’omosessualità sia una devianza, qualcosa di intrinsecamente contro natura e come tale insidioso. Contro la natura di chi, come il corretto metodo filosofico ci imporrebbe di articolare la domanda, non è dato sapere. Arriverà presto il commento del noto intellettuale Giovanardi e rendere questa pagina di storia del diritto un baratro di deriva morale rispetto al quale ci manca anche un papa da usare come asso nella manica.
Bersani apre ufficialmente al modello tedesco che vedrebbe unite tutte le anime del Pd. Dalla Concia a Fioroni? Speriamo. La legislazione tedesca prevede proprio con un nuovo allargamento del primo testo legislativo che i gay, cui è già riconosciuta una sorta di convivenza (non proprio l’istituto giuridico del matrimonio) con diritti, tutele e doveri al pari delle coppie eterosessuali possano, non congiuntamente, ma adottare il figlio ora anche adottivo e non solo biologico, del partner. Il caso è scoppiato appunto sul rifiuto inizialmente ricevuto da una donna bulgara di adottare la figlia adottiva della propria partner.
La discriminazione in effetti non riguardava più solo i gay, ma i diritti dei minori e poneva delle pericolose penalizzazioni tra figli biologici e adottivi. Questa la molla argomentativa che ha fatto scattare il passo in avanti della legge.
Una tappa importante, quindi, come dice la presidente dfi Gay Project, Imma Battaglia e un orizzonte di europeicità che entra per forza e finalmente anche dentro il recinto di casa. Un motivo in più per temere l’isolamento in cui cadrebbe il nostro Paese se mancasse l’appuntamento con l’Europa. Che se per una volta non fosse fatto di Germania solo nei conti della spesa, ma anche nelle carte dei diritti avrebbe dato a tutti i cittadini di questo paese un orgoglio, quasi il primo, di essere europei.
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di Rosa Ana De Santis
Ne aveva parlato “Amore Criminale” come l’ennesima macelleria che lasciava a terra violata da 22 coltellate la giovane studentessa Alenja Bortolotto, di 22 anni fidanzata e compagna da appena venti mesi di un uomo che non era uno dei tanti. L’assassino è infatti il rampollo della dinastia Juker, famiglia ricchissima originaria della Svizzera di industriali e appassionati d’arte. Ruggero di 36 anni dopo l’assassinio finisce in strada a gridare di essere Bin Laden e non ricorda niente – come riferisce agli inquirenti - della mattanza, accaduta a luglio del 2002, con cui ha svegliato armato con un coltello da sushi la sua ignara fidanzata.
Juker chiede il rito abbreviato ed evita così la pena dell’ergastolo e il Gup, riconoscendo l’aggravante della crudeltà e la parziale infermità, gli infligge 30 anni di reclusione. In secondo grado la barbarie si perde nella nebbia delle carte e l’omicidio perde le sue aggravanti. La pena viene ridotta così a 16 anni. Nessuno ricorda più l’efferatezza dell’accaduto, nessuno ricorda che il fegato di Alenja fu trovato in giardino tranne la sua famiglia e le tristi statistiche di qualche inchiesta fatta a dovere che raccontano al paese la carneficina impunita subita da tante donne per mano, quasi sempre, di propri cari.
Nel 2006 arriva l’indulto e successivamente i soliti sconti di tre mesi all’anno per buona condotta. Dopo dieci anni dall’omicidio Junker torna ad essere libero e chi lo ha curato per i disturbi bipolari da cui è affetto sostiene che non abbia bisogno di stare in strutture protette.
Rimane solo da sperare che la diagnosi di non pericolosità sia più attendibile e certa delle sentenze di un Tribunale che, dopo solo dieci anni dall’uccisione di una giovane ragazza, ha ritenuto che la pena fosse stata espiata. Un caso strano, come sempre troppi ne accadono quando le vittime sono donne, caratterizzato come molti altri da rapide derubricazioni delle pene, da recuperi sociali brillanti, da detenuti modello.E’ vero che la legge Gozzini del 1986 ha reso possibile un nuovo modo di intendere la reclusione rendendo importante e centrale il monitoraggio della condotta, ma è vero anche che tutto questo non può essere sovrapposto con un colpo di mano alla gravità e all’odiosità del reato commesso. Esiste un tema di riprovazione morale e, in questo caso, forse anche di pericolosità sociale dato che la corte d’appello sull’infermità mentale non ha chiarito lo stato mentale dell’assassino nel momento del delitto che con lucidità, altro che raptus, dichiarò di essersi ispirato al film Hannibal.
Ma non è il solo ad aver scontato appena dieci anni di carcere dopo aver ucciso una donna, come si potrebbe pensare data la notorietà e il peso del suo cognome. Lo stesso premio per Nicola Sorgato che nel 2010 uccide sua moglie di 37 anni, Tiziana Falbo, strangolandola e ficcandole un cacciavite in gola nel tentativo, poco chiaro, di rianimarla.
O Carlo che non accetta la separazione e punisce la sua ex uccidendole sotto gli occhi sia la mamma che la sorella: trent’anni per due delitti e di ergastolo nemmeno a parlarne. E poi ancora Marco che uccide la giovane moglie Giulia con una pietra fino a spaccarle la testa e simula il suicidio con un sacchetto di plastica. La sua pena è di 19 anni. Infine, Domenico Maggio, che dopo aver ucciso a colpi d’ascia la moglie Addolorata ha avuto 15 anni. Le storie sono tutte molto simili e l’epilogo purtroppo anche. Pene ridicole per omicidi che sono sempre volontari, premeditati, condotte con le modalità più barbare, con l’odio più feroce.
Di fronte a certi numeri viene da chiedersi se il problema non sia sempre il solito cancro culturale del diritto che, debellato nella forma, persiste nella pratica. Sembra che i raptus, le debolezze caratteriali, le infermità siano diventate un altro modo, come un tempo era l’onore, di usare clemenza per i criminali. Quelli che si scaraventano nell’ombra di casa contro chi li ama e li ha amati nonostante tutto. Troppo.
Proprio loro, i peggiori, che hanno ucciso come belve, riscuotono premi dal Paese che non sa come contenere i detenuti e che preferisce portare dietro le sbarre consumatori di droghe e immigrati clandestini, piuttosto che tenere ai ceppi quelli che come Junker sbranano gli agnelli.