di Rosa Ana De Santis

La Corte Europea di Strasburgo ha detto si all’adozione del secondo genitore omosessuale. L’istanza proveniva da una coppia austriaca di lesbiche e la sentenza prefigura aperture normative importanti e storiche per i diritti civili delle coppie omosessuali e per la loro legittima equiparazione a quelle etero. Un’operazione che sembra marziana per il Paese Italia in cui la carenza di diritti per le coppie omosessuali rappresenta ormai una prevaricazione pericolosa al pilastro dell’eguaglianza sancito in mille salse nella nostra Costituzione.

Mentre da noi si discute ancora a colpi di competizione elettorale di coppie di fatto e DICO, in Europa gli omosessuali possono costituire una famiglia a tutti gli effetti. Va da sé che la distanza con l’Europa imporrà ai nostri politici di recuperare il disavanzo che non può diventare tema di preoccupazione e monito solo quando si riferisce a spread e derivati. Come Paese membro del Consiglio d’Europa tale sentenza non potrà che essere recepita come tutte le altre sul matrimonio gay e il prossimo Parlamento dovrà sanare il vuoto legislativo a tutt’oggi esistente e illegittimo.

Mentre Rivoluzione Civile con Ingroia attraverso le parole di Paolo Ferrero applaude a questa sentenza di civiltà, Berlusconi e il Pdl prendono le distanze appellandosi a una non ben definita tradizione cristiana che può ammettere i diritti civili, ma non il matrimonio e tantomeno l’adozione. Non si capisce bene se l’Europa cui si riferisce il Cavaliere sia altra cosa da quella che tutti abbiamo studiato a scuola che di cristianità è imbevuta fino al midollo. Cristianità di cultura e tradizioni è materia ben diversa dal cattolicesimo confessionale romano. Ma è ragionamento troppo raffinato per i vaticanisti improvvisati.

Il twitter de La Destra, firmato Storace, con la consueta schiettezza popolare che lo contraddistingue, invita tutti a non scherzare sulla figura di “mamma e papà”. Diritti si, ma senza matrimonio e derivati è il tormentone della multiforme destra italiana. Uno spot che non chiarisce bene quali siano questi diritti da tutelare: forse quello di non essere discriminati e malmenati nelle strade di una città come Roma?

Deve sembrare già tanto a chi persevera, come l’onorevole Binetti UDC è tornata a ricordarci di recente in tv, nel sostenere che l’omosessualità sia una devianza, qualcosa di intrinsecamente contro natura e come tale insidioso. Contro la natura di chi, come il corretto metodo filosofico ci imporrebbe di articolare la domanda, non è dato sapere. Arriverà presto il commento del noto intellettuale Giovanardi e rendere questa pagina di storia del diritto un baratro di deriva morale rispetto al quale ci manca anche un papa da usare come asso nella manica.

Bersani apre ufficialmente al modello tedesco che vedrebbe unite tutte le anime del Pd. Dalla Concia a Fioroni? Speriamo. La legislazione tedesca prevede proprio con un nuovo allargamento del primo testo legislativo che i gay, cui è già riconosciuta una sorta di convivenza (non proprio l’istituto giuridico del matrimonio) con diritti, tutele e doveri al pari delle coppie eterosessuali possano, non congiuntamente, ma adottare il figlio ora anche adottivo e non solo biologico, del partner. Il caso è scoppiato appunto sul rifiuto inizialmente ricevuto da una donna bulgara di adottare la figlia adottiva della propria partner.

La discriminazione in effetti non riguardava più solo i gay, ma i diritti dei minori e poneva delle pericolose penalizzazioni tra figli biologici e adottivi. Questa la molla argomentativa che ha fatto scattare il passo in avanti della legge.

Una tappa importante, quindi, come dice la presidente dfi Gay Project, Imma Battaglia e un orizzonte di europeicità che entra per forza e finalmente anche dentro il recinto di casa. Un motivo in più per temere l’isolamento in cui cadrebbe il nostro Paese se mancasse l’appuntamento con l’Europa. Che se per una volta non fosse fatto di Germania solo nei conti della spesa, ma anche nelle carte dei diritti avrebbe dato a tutti i cittadini di questo paese un orgoglio, quasi il primo, di essere europei.

di Rosa Ana De Santis

Ne aveva parlato “Amore Criminale” come l’ennesima macelleria che lasciava a terra violata da 22 coltellate la giovane studentessa Alenja Bortolotto, di 22 anni fidanzata e compagna da appena venti mesi di un uomo che non era uno dei tanti. L’assassino è infatti il rampollo della dinastia Juker, famiglia ricchissima originaria della Svizzera di industriali e appassionati d’arte. Ruggero di 36 anni dopo l’assassinio finisce in strada a gridare di essere Bin Laden e non ricorda niente – come riferisce agli inquirenti - della mattanza, accaduta a luglio del 2002, con cui ha svegliato armato con un coltello da sushi la sua ignara fidanzata.

Juker chiede il rito abbreviato ed evita così la pena dell’ergastolo e il Gup, riconoscendo l’aggravante della crudeltà e la parziale infermità, gli infligge 30 anni di reclusione. In secondo grado la barbarie si perde nella nebbia delle carte e l’omicidio perde le sue aggravanti. La pena viene ridotta così a 16 anni. Nessuno ricorda più l’efferatezza dell’accaduto, nessuno ricorda che il fegato di Alenja fu trovato in giardino tranne la sua famiglia e le tristi statistiche di qualche inchiesta fatta a dovere che raccontano al paese la carneficina impunita subita da tante donne per mano, quasi sempre, di propri cari.

Nel 2006 arriva l’indulto e successivamente i soliti sconti di tre mesi all’anno per buona condotta. Dopo dieci anni dall’omicidio Junker torna ad essere libero e chi lo ha curato per i disturbi bipolari da cui è affetto sostiene che non abbia bisogno di stare in strutture protette.

Rimane solo da sperare che la diagnosi di non pericolosità sia più attendibile e certa delle sentenze di un Tribunale che, dopo solo dieci anni dall’uccisione di una giovane ragazza, ha ritenuto che la pena fosse stata espiata. Un caso strano, come sempre troppi ne accadono quando le vittime sono donne, caratterizzato come molti altri da rapide derubricazioni delle pene, da recuperi sociali brillanti, da detenuti modello.

E’ vero che la legge Gozzini del 1986 ha reso possibile un nuovo modo di intendere la reclusione rendendo importante e centrale il monitoraggio della condotta, ma è vero anche che tutto questo non può essere sovrapposto con un colpo di mano alla gravità e all’odiosità del reato commesso. Esiste un tema di riprovazione morale e, in questo caso, forse anche di pericolosità sociale dato che la corte d’appello sull’infermità mentale non ha chiarito lo stato mentale dell’assassino nel momento del delitto che con lucidità, altro che raptus, dichiarò di essersi ispirato al film Hannibal.

Ma non è il solo ad aver scontato appena dieci anni di carcere dopo aver ucciso una donna, come si potrebbe pensare data la notorietà e il peso del suo cognome. Lo stesso premio per Nicola Sorgato che nel 2010 uccide sua moglie di 37 anni, Tiziana Falbo, strangolandola e ficcandole un cacciavite in gola nel tentativo, poco chiaro, di rianimarla.

O Carlo che non accetta la separazione e punisce la sua ex uccidendole sotto gli occhi sia la mamma che la sorella: trent’anni per due delitti e di ergastolo nemmeno a parlarne. E poi ancora Marco che uccide la giovane moglie Giulia con una pietra fino a spaccarle la testa e simula il suicidio con un sacchetto di plastica. La sua pena è di 19 anni. Infine, Domenico Maggio, che dopo aver ucciso a colpi d’ascia la moglie Addolorata ha avuto 15 anni. Le storie sono tutte molto simili e l’epilogo purtroppo anche. Pene ridicole per omicidi che sono sempre volontari, premeditati, condotte con le modalità più barbare, con l’odio più feroce.

Di fronte a certi numeri viene da chiedersi se il problema non sia sempre il solito cancro culturale del diritto che, debellato nella forma, persiste nella pratica. Sembra che i raptus, le debolezze caratteriali, le infermità siano diventate un altro modo, come un tempo era l’onore, di usare clemenza per i criminali. Quelli che si scaraventano nell’ombra di casa contro chi li ama e li ha amati nonostante tutto. Troppo.

Proprio loro, i peggiori, che hanno ucciso come belve, riscuotono premi dal Paese che non sa come contenere i detenuti e che preferisce portare dietro le sbarre consumatori di droghe e immigrati clandestini, piuttosto che tenere ai ceppi quelli che come Junker sbranano gli agnelli.



di Rosa Ana De Santis

Potrebbe funzionare molto bene come titolo di un classico filmetto erotico degli anni 80 e non saremmo in ogni caso troppo lontani dalla realtà. Si tratta invece dell’ultimo siparietto dei doppi sensi sdoganato dal barzellettiere Berlusconi che torna a candidarsi, non nascondendo che il lupo del pelo e del vizio è orgogliosamente sempre lo stesso. Non stupisce quindi che nel bel mezzo di una campagna elettorale delicatissima per le sorti del Paese, in una convention a Mirano al cospetto di una nutrita platea, Berlusconi abbia ingaggiato uno scambio di doppi sensi sul numero di orgasmi di una impiegata della Green Power, per concludere in bellezza con una richiesta di guardarle il fondoschiena e prometterle di lasciarle il suo numero di cellulare.

Si sa, queste cose agli italiani piacciono cosi tanto che nonostante le macerie di 17 anni di governi Berlusconi, sono già disposti a sostenerlo sulle promesse dell’Imu e su queste simpatiche goliardate che lo rendono, nel segreto della prima mattina davanti allo specchio di casa, un esempio per i maschietti del Belpaese. Almeno sui peggiori, quelli che lo votano perché lo invidiano.

Ma il dato sconfortante è lei: questa giovane donna che regge il gioco delle battute, che invece di reagire fermamente si volta mostrando il curriculum del sedere, che sghignazza piena di orgoglio e finto imbarazzo giulivo per aver avuto le attenzioni del ricco, vecchio feudatario del castello. Non c’è imbarazzo, rifiuto, c’è l’accoglienza del piano squallido delle battutine penose degne di Alvaro Vitali, il vero nume tutelare del piccoletto di Arcore.

La signora asseconda divertita, nella speranza che le attenzioni del vegliardo zeppo di soldi e potere possano rappresentare la sua grande occasione. Deve aver pensato che l’occasione non poteva essere sciupata per diventare finalmente candidabile anche lei per il gineceo, virtuale o reale che sia, dell’Olgettina. E’ lei infatti che non interrompe l’offensivo assedio da cliente di bordello, che non taglia corto, che non va oltre; è lei che ci dice che il problema dell’emancipazione mancata delle donne italiane è un tema che riguarda le donne e non tanto o non più tanto gli uomini.

Le piazze di “Se non ora quando?” sembrano diventate così vuote e inutili quando una giovane donna in una veste pubblica e professionale, non nel letto di casa sua quindi, non si offende, ma anzi si lusinga di esser trattata pubblicamente nemmeno come un corpo, ma come una mercanzia addetta agli sfizi sessuali. Di Berlusconi ovviamente, non dell’ultimo operario edile a busta paga che al suo posto  avrebbe ricevuto un ceffone e sarebbe stato accusato già, per storielle simili a quelle del premier, di essere un maniaco sessuale seriale.

L’obiettivo quindi di una nuova stagione di cultura di genere o del più storico femminismo dei diritti è riempire le piazze per le donne e non solo contro il Cavaliere. Per quelle che, come questa ragazza, non colgono più la gravità dell’offesa e la penalizzazione sul piano della dignità  e dell’autonomia che si patisce argomentando il sesso e il corpo non più nel contesto della scelta privata delle emozioni e del piacere, ma in quello del compenso, del lavoro, della misura esclusiva del proprio valore su piazza. E’ la storia più vecchia del mondo, dirà la vulgata del bar, non certo quella del più noto circolo culturale, quella delle donne che si concedono per carriera.

Va detto per amore di verità linguistica ormai sempre più incline alla mistificazione dei termini, che si tratta di un comportamento che in un altro clima storico, per bigottismo forse più che per reale consapevolezza, veniva considerato, giustamente, qualcosa di cui non andar fiere, una specie di salvagente per quante, belle e oche, non possedessero altri talenti. E’ su questo punto invece che c’è un dato nuovo che ha ormai alimentato una seconda stagione di feroce maschilismo, feroce perché all’apparenza sconfitto. Maschilismo perché il fraintendimento è sul significato dell’emancipazione.

A concedersi per il ricco feudatario o a desiderare di farlo come fosse titolo di merito sono un po’ tutte, anche quelle con la laurea in tasca. A non avere vergogna di dirlo sono troppe, nemmeno davanti alle telecamere o peggio ancora ai propri genitori. A crescere con questo sogno televisivo nel diario segreto sono molte figlie italiane, magari ben istruite, di buona famiglia come si usa dire.

Bisogna quindi trovare il coraggio di riconoscere, con buon mea culpa del femminismo, che lo fanno perché credono di essere emancipate, libere nei costumi, disinibite, furbe e con gli stessi diritti degli uomini. Perché la libertà sessuale è stata spesso l’unico viatico per parlare di libertà con la “L” maiuscola e di autonomia. Forse troppo.

Le donne emancipate vere sono costrette nel proprio luogo di lavoro ad indossare i pantaloni e a coprire le curve della propria bellezza per essere considerate brave e valenti come i colleghi maschi, salvo poi esser pagate meno per lavorare di più. Le più belle e magari anche più preparate giocano a volte la carta del sesso sapendo di poter avere tutto a partire da questa, quando dall’altra parte c’è uno come Berlusconi.

Bisogna partire dalle donne, magari dalle figlie e magari dovranno interrogarsi le madri di questa generazione schiacciata dal mago del consenso Mediaset. L’incognita è come un fenomeno televisivo abbia potuto svuotare così tanto la tradizione del femminismo fino a renderlo estraneo alle nuove generazioni nei suoi valori fondativi. Forse perché si sono sbagliati gli interlocutori e gli obiettivi.

L’episodio da barzelletta erotica dell’impenitente premier della giarrettiera è un bollino di garanzia sulle manie del Cavaliere che rimangono le stesse, ed è purtroppo un altro pezzetto di squallore che monta non tanto sugli esiti delle prossime elezioni, né su quanto gli italiani abbiano capito, piuttosto su cosa siano diventati. O sempre stati.


di Silvia Mari

A sentire la Lega, le tasse pagate dal Nord dovrebbero rimanere al Nord. Così, oltre alla riduzione draconiana della spesa sanitaria, l’universalità del servizio diverrebbe definitivamente un lusso per i ricchi. Semmai, proprio il centro-sud avrebbe bisogno di un robusto intervento pubblico di razionalizzazione ed ottimizzazione della spesa sanitaria per la quale già il nostro Paese risulta un’entità spaccata in due. E questo ancor più risulta evidente quando si entra sul terreno della prevenzione, dove si misura la peggiore iniquità tra utenti e cittadini dello stesso paese.

La differenza tra il Nord e il Sud del Paese, frutto di innumerevoli cause, rappresenta un vero e proprio attentato al diritto costituzionale alla salute, sia come priorità dell’individuo che della collettività, come sancito dall’articolo 32 della nostra Magna Charta. A confermare questo dato ci sono i numeri prodotti da uno studio dell’Istituto dei Tumori di Milano e pubblicati sulla rivista Cancer Epidemiology, che restituiscono un ritratto preoccupante della situazione nazionale sulla diagnosi e la cura del tumore del seno e di altre patologie oncologiche, quale il colon-retto.

Nel Mezzogiorno soltanto il 26% dei casi di tumore arriva alla cura ad uno stadio precoce, determinato da una buona e assidua prevenzione. Il resto delle donne arriva già con metastasi, casi avanzati che richiedono trattamenti chirurgici e terapeutici più impegnativi e costosi. Arrivare tardi nel caso del tumore del seno significa aver bisogno di interventi demolitivi della mammella con le conseguenze che questo rappresenta nella vita di una donna. E una donna di Sassari o di Napoli ha molte più cianche che questo le accada di una di Modena.

La ricerca non ha riguardato soltanto il seno, ma anche altre forme tumorali e lo scarto tra le due aree del paese è purtroppo confermato. Il tipo di disavanzo non è soltanto relativo alla diagnosi della malattia, ma anche, alla tipologia delle cure applicate che al Nord si avvale di protocolli più all’avanguardia rispetto alle linee seguite al Sud. Motivo di tanti viaggi della speranza che conosciamo. Nel caso del tumore del seno questo significa ricorrere a radioterapia intraoperatoria, ad esempio, e quindi a chirurgia conservativa o a tipologie plastico-ricostruttive di ultima generazione.

Si può interpretare questa spietata matematica della speranza come il riflesso generalizzato di un atteggiamento culturale resistente alla responsabilizzazione da parte del paziente e quindi alla prevenzione. Questo il motivo che porta Istituzioni e associazioni a battersi per spiegare il fondamentale valore della prevenzione primaria e secondaria. Ma pensare al fatalismo come unico reo di questa geografia dell’ingiustizia significa non voler mettere a nudo le falle di un sistema che viene gestito male, con differenze tra le singole Regioni ingiustificate e motivate unicamente da carenze di ordine politico-governativo, se non da vere e proprie male gestioni come lo stato di commissariamento attuale della Regione Lazio, un esempio in negativo su tutti, dimostra a pieni voti.

La sanità ha certamente subito tagli importanti, quasi 3 miliardi solo nel 2011, ma certamente la gestione delle risorse e la pianificazione degli screening rimane la nota dolente, ancor più affidata al caso e all’estemporaneità se pensiamo poi a quelle quote della popolazione a rischio genetico per alcune neoplasie: ultimi dopo gli ultimi.

Per il tumore della mammella, della cervice uterina e del colon retto non c’è alcuna uniformità tra le Regioni e alcune sono assolutamente sprovviste di piani di screening concreti e seguiti. Chiaro che quest’assenza istituzionale genera odiose disparità economiche tali per cui la salute passa dall’essere un diritto costituzionale ad un benefit di censo che opprime di più proprio le aree depresse dell’Italia. L’adesione ai programmi di screening non supera il 56% per dirla in un numero, e il Sud è il grande assente, rosso come il colore delle legende che evidenziano l’assenza di dati e di risposte della popolazione.

Esiste poi un altro tema ineludibile che è quello dei cosiddetti DRG e dei rimborsi delle prestazioni sanitarie che in una Regione come il Lazio, non proprio la provincia di Kampala, sono ad oggi rimasti fermi a procedure e tecniche operatorie in parte superate da altre, quali quelle della ricostruzione della mammella con tessuti autologhi, ancora non riconosciute dal Ministero della Salute. Un disallineamento che produce una pericolosa asimmetria tra quello che accade in alcune strutture di alta specializzazione e le carte che normano la sanità e i fondi che servono per tenerla in piedi.

Inutile chiedersi perché gli ospedali rischino la bancarotta e perche le liste diventino una specie di imbuto penoso verso il privato, con tutti i rischi del caso. Per non parlare dell’effetto boomerang sulla formazione dei medici.

Un modello virtuoso, in tema di screening, è quello di una Regione come l’Emilia-Romagna che ha decentrato verso il territorio e i cosiddetti centri spoke, allargando il ventaglio del piano di screening mammografico e prevedendo una fortissima  tutela per le persone con mutazione genetica ad alto rischio. Basterebbe copiare la circolare 21 del 2011 o il Dgr 220 dello stesso anno e magari la testa di chi le ha pensate, la mano della politica che le ha volute e attuate. Ma per tutto questo la parola è dei cittadini: il voto e la scelta degli uomini e delle donne al governo.

Gli stessi cittadini che sempre di più sono vittime di questa inefficienza e di questi tentativi, nemmeno troppo sotto traccia, che hanno indotto, per citare la più recente cronaca, il premier para-tecnico Monti a parlare di rivoluzione della sanità. Le eccellenze ci sono e i fondi pure, manca la volontà di far funzionare la macchina e la regia della spesa e non c’è affatto bisogno di rivoluzionare alcunché. Tantomeno la lezione, che non si apprende in banca o in borsa o in azienda, che recita che la salute è un diritto rispetto al quale siamo tutti uguali, quale che sia la latitudine del paese, il genere o più miseramente il conto in banca. Risolvere un problema cancellando un diritto invece che assumendosene la responsabilità non è una nobile operazione tecnica, ma un ignobile attentato alla giustizia.

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Chiediamocelo subito, meglio il capitalismo? La domanda incombe ad ogni istante visitando alla "Berlinische Galerie" la mostra sulla fotografia d’autore nella ex Germania dell’Est  (Künstlerische Fotografie in der DDR 1945-1989), nella quale quattro decenni di Storia sono riassunti in immagini che permettono uno sguardo approfondito su un mondo ancora non del tutto conosciuto. Infatti, quello che della mostra più attrae sono i ritratti della vita di tutti i giorni nell’ex DDR.

Si comincia con una serie di immagini impressionanti sulle condizioni in cui versava la Germania dopo la guerra, dalla fine del Terzo Reich nel 1945 alla nascita della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949. Si prosegue con una carrellata di fotografie quasi tutte non ufficiali che, soffermandosi sui vari aspetti del sociale e sui suoi protagonisti, offre uno scenario reale di quella che era la vita nella Germania socialista fino a crollo del Muro.

Meglio il capitalismo allora? Andrea, classe 1961 che aveva 28 anni quando il muro cadde, mi risponde di sì, che è meglio, ma arriccia il naso. Confida che molti tra coloro che oggi hanno più di sessant’anni ricordano quegli anni con nostalgia, non certo per il sistema oligarchico che vi governava, ma perché vi era l’illusione che le aspirazioni del popolo fossero in cima alle priorità. Beninteso, questa nostalgia diffusa è storia recente che rischia di diventare contagiosa da quando la parola “gente” - qui come altrove in Europa - ha preso il posto della parola popolo.

Lo scambio è avvenuto sull’onda della crisi economica che ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell'economia e benché i movimenti popolari abbiano denunciato da tempo la distanza dei sistemi occidentali dai loro cittadini, ben poco essi possono fare per invertire la tendenza. Sicché le rivendicazioni della società civile sono diventate nel panorama mediatico un fastidioso incidente di percorso, e quindi - quando è possibile - sono cassate dai programmi.

Anche perché il Paese che tentasse di ostacolare le galoppate finanziarie del capitalismo liberista verrebbe punito dal mercato attraverso la fuga dei capitali, la svalutazione della moneta e l’abbassamento del rating del credito. E’ già accaduto nella storia dei Paesi industrializzati, sicché la grande impresa - con il pretesto dei rincari del costo del petrolio e delle materie prime, degli assilli della competizione globale - è sempre meno disposta a contrattare e sempre più propensa a indicare i lavoratori e le loro rivendicazioni contrattuali tra le maggiori cause del disastro economico.

Il risultato è che l’interesse collettivo che dovrebbe essere il principio ispiratore delle politiche pubbliche non è evidenziato dai media, come pure l’obbligo del governo di rendere conto del proprio operato ai cittadini. Pertanto la sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che esso non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo; anzi costoro sono accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire i propri interessi particolari.

Insomma, come già temeva lo scrittore Leonardo Sciascia: «Si è scavato un fossato tra le élites ed il popolo; un fossato ideologico e sociologico che non cessa di allargarsi». E’ un malessere che in Germania si manifesta anche con una pacata riflessione sulla qualità della vita dietro al Muro. Invece nell’Italia stravolta dalla crisi, esso rischia di rompere l’alleanza storica tra  capitalismo, stato sociale e democrazia, con il pericolo di trasformare definitivamente quest’ultima in un’oligarchia «formattata» dal «pensiero unico» sulla priorità assoluta dell’economia.

Insomma, i mercati asservendo i governi ai propri interessi gestiscono di fatto il potere con una determinazione, come mai era accaduto da sessant’anni e passa a questa parte. In Italia l’evento viene vissuto in una conflittualità a tutto tondo che la campagna elettorale aggrava, e che la scena mediatica amplifica piuttosto che analizzarla. Sicché, è già nata - ad esempio - una nuova sensibilità nell’interpretazione della miseria umana, intorno alla quale la Chiesa sta giocando un ruolo determinante poiché essa possiede lo straordinario potere, mettendo a nudo le disfunzioni della società, di condizionare le politiche dei governi.

Visto da Berlino lo svolazzar di tonache nel firmamento elettorale italiano non sorprende per nulla. Del resto è dal XIX secolo, da quando l’impero ottomano entrò nel suo pieno declino, che la cultura europea di matrice illuminista ha sollevato un muro tra l’Europa della laicità e l’Europa dell’arretratezza, includendo in questa Europa di “classe inferiore” insieme all’Islam anche la Chiesa cattolica romana. Pertanto da queste parti nemmeno ci si domanda perché quella che cinquant'anni fa si proclamava "la chiesa dei poveri" ora è una chiesa che opera per i poveri, ma parla sempre meno dei poveri, del popolo e tace sugli operai. Di converso, essa stigmatizza la politica perché “schiava della dittatura del relativismo", e sostiene i tecnici che la Chiesa assecondano sebbene essi parlino di gente invece che di popolo.

Infatti, sono oggi i teologi americani impegnati nel business ethics che stilano i documenti del magistero cattolico. Dai quali emerge che il problema principale è quello di formare dei business leaders e dei managers eticamente sensibili ad un'idea di "bene comune" assai vaga, e a una "solidarietà coi poveri" molto più vicina alle opere di carità individuale che alla giustizia sociale.

Stando così le cose, la laicità diventa la prova nodale per Monti, in un paese dove la Chiesa s'intromette nella politica pesantemente e dove l'egemonia ecclesiastica non è esercitata dagli eredi del Concilio, bensì  dall'onda lunga del reaganismo cattolico che negli Usa sostiene il Partito repubblicano, come ha spiegato sull’Huffington Post il professore di Storia del cristianesimo Massimo Faggioli. Tuttavia, ancora non conosciamo bene la visione che il Professore ha del mondo. Se egli sostiene il modello liberista che prevede una netta separazione tra lo Stato e le imprese private. Oppure, dopo l’esperienza di governo, egli predilige il mercantilismo, che offre una visione corporativa in cui lo Stato e le imprese private sono alleati e collaborano nel perseguimento di obiettivi comuni, come la crescita economica interna, l’equità sociale.

Beninteso, sebbene Monti sembri godere della considerazione internazionale, non credo che le sue decisioni condizionino le scelte che il mondo si appresta a fare e dalle quali dipenderà il destino futuro di gran parte dell’umanità. Perché oggi il confronto non è più sul conflitto capitalismo - socialismo, bensì è nella lotta tra due opposte scuole di pensiero: il "liberismo" e il "mercantilismo". Il liberalismo economico, con la sua enfasi sul valore dell'imprenditoria privata ed il libero mercato, è la dottrina oggi dominante. Ma in realtà, come profetizza Dani Rodrik, docente di International Political Economy all’Università di Harvard, «il mercantilismo rimane vivo e vegeto, ed è probabile che il suo continuo conflitto con il liberalismo sia una delle forze più importanti nel determinare il futuro dell'economia globale».

Per supportare la sua ipotesi egli ricorda l’esempio cinese in quanto modello della "collaborazione governo-impresa" o dello "stato pro-impresa". Infatti la Cina è - spiega Dani Rodrik - il corifeo della nuova sfida mercantilista, anche se i leader cinesi non lo ammetteranno mai, poiché il termine stride in un contesto comunista. Tuttavia, la gran parte del miracolo economico della Cina è il prodotto di un governo socialista che ha sostenuto, stimolato e apertamente sovvenzionato i grandi imprenditori industriali sia nazionali che esteri.

Il professor Dani Rodrik esemplifica: «Anche se la Cina ha eliminato molte delle sovvenzioni esplicite all'esportazione, come condizione per l’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (a cui ha aderito nel 2001), il sistema di supporto mercantilistico resta ampiamente in atto. In particolare, il governo ha gestito il tasso di cambio per mantenere la redditività dei costruttori, determinando un consistente surplus commerciale (che è sceso da poco, ma in gran parte a causa del rallentamento economico mondiale). E tuttavia, le imprese esportatrici continuano a beneficiare di una serie di incentivi fiscali».

Perché mi sono dilungato sul significato della lotta tra le due scuole di pensiero, su questa esaltazione del mercantilismo? Perché meglio di qualsiasi altro esempio spiega come  la “crisi economica” sia diventata un sipario dietro il quale si nasconde e opera una nuova compagine di comando eletta dalla globalizzazione, che unisce dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti convinti della pericolosità del popolo ogni qualvolta esso constata che la politica è soffocata dall’economia, è affidata al governo degli esperti che penalizzano gli aspetti sociali.

Certamente tornando per un attimo ancora sullo scenario italiano, il Professore né si pone né  propone domande sul perché la “gente” ha preso il posto del popolo, o perché prevale il “politicamente corretto” piuttosto che la difesa degli interessi della classe operaia, come si continuano a chiedere seppure in un contesto economicamente migliore quei tedeschi che vissero di qua e di là del Muro. Ad onor del vero una risposta il professore l’ha data quando infastidito dalle tante, lente procedure della democrazia, aveva auspicato una società che tramite i suoi manager, o i suoi banchieri, o i suoi economisti, "educhi il Parlamento e la politica”, e li sorpassi. L’aveva detto il 5 agosto nell'intervista al settimanale tedesco Spiegel. Non so quanti in Italia se ne rammentino. Soprattutto a sinistra.

www.vincenzomaddaloni.it

 


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