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di Rosa Ana De Santis
Dopo annunci ripetuti e recenti sull’insostenibilità per troppi cittadini della sanità pubblica, esce con l’Espresso un’inchiesta dedicata agli esodati del sistema sanitario nazionale. I numeri lanciano un allarme come mai prima era accaduto e rendono ancor più inaccettabile i tentativi, spacciati per ricette tecnocratiche, di ripensare la sanità pubblica sul leit motiv della crisi economica sia per le ragioni di principio che sovraintendono a questo modo di pensare la salute pubblica sia per le ricadute, pesanti, che questo avrebbe su una popolazione sempre più priva di mezzi economici per vivere.
Sempre più persone riferiscono ai medici di famiglia di non riuscire a pagare il ticket per le visite mediche specialistiche e per l’esattezza parliamo di quasi 2 milioni di cittadini. Una cifra che fa scivolare l’Italia, che era seconda solo alla Francia, di parecchie posizioni. Una sconfitta che più che economica è politica e morale. Peraltro accade spesso che i cittadini che ancora riescono a sostenere le spese mediche si rivolgano ai centri privati invece che alle strutture pubbliche, sia per evitare lunghe file d’attesa sia perché moltissimi poli medici convenzionati o del tutto privati hanno introdotto tariffe promozionali in nome della crisi, cannibalizzando il sistema pubblico che unisce ai buchi assistenziali un problema di caos organizzativo.
Una concorrenza che mai aveva livellato il pubblico al privato fino a questo punto. Va aggiunto inoltre che lo spostamento verso centri privati pone anche un’incognita sulla qualità e l’eccellenza delle prestazioni sanitarie di cui si ha sempre meno il tempo di occuparsi visto il progressivo impoverimento delle famiglie. I saldi dai negozi di abbigliamento e alimentari si sono spostati anche nelle cure.
La notizia di qualche giorno fa è che una famiglia su tre non riesce più a garantire la cure dentistiche ai propri figli (quasi 2 milioni di bambini) e moltissimi hanno abbandonato lo studio privato di fiducia (quasi il 95% delle cure odontoiatriche in Italia era affidato al sistema privato) per tornare agli ospedali e alle ASL di appartenenza.
Quasi grottesca la situazione se ci spostiamo al ripetuto bombardamento mediatico che le pubblicità progresso fanno della prevenzione a tutti i livelli. Se già curarsi è un lusso, figuriamoci prevenire con la diagnosi precoce. Tutti sembrano non rendersi conto che un popolo di malati più gravi, oltre ad essere un dramma sociale e una regressione, è anche un costo più gravoso per le tasche di tutti.
Le entrate che le Regioni dovrebbero recuperare dai rimborsi ticket raggiungono cifre da milioni di euro e i bilanci in rosso metteranno molto presto a rischio la possibilità di erogare prestazioni mediche pubbliche con regolarità. Non è infrequente che in molti nosocomi del Lazio, tanto per citare una delle Regioni con la situazione più disastrosa nella sanità, le liste per alcuni esami medici o per interventi chirurgici siano letteralmente bloccate da tempo lasciando a piedi cittadini che hanno bisogno di cure e che non possono permettersi di pagarle di tasca propria.Già prima del caos elettorale, ai tempi del governo dei professori, la politica della spending review, per quanto Balduzzi avesse ribadito in più occasioni di non voler inquinare il sistema sanitario con ricette privatistiche, non aveva bloccato i tagli orizzontali che grazie all’ultima manovra finanziaria varata da Berlusconi e confermata per l’anno prossimo, che ha portato all’aumento del ticket lasciando invariati però tutti i problemi del sistema, taglia fuori una quota significativa della popolazione, la più vessata dalla crisi e dalla disoccupazione: quella che andava tutelata di più e per prima.
Nessuno, né Berlusconi né Monti, ha avuto il coraggio di affrontare gli sprechi della sanità, il modo di gestire i finanziamenti, l’efficienza dei servizi e quindi il lavoro degli operatori del settore. Nessuno ha avuto il coraggio di chiedere uno sforzo a quanti del Paese sfoggiano dichiarazioni dei redditi a tanti zeri: una sorta di fondo di solidarietà per le categorie più svantaggiate.
Come si fa addirittura nelle aziende, non nelle onlus, con le casse integrazioni parziali. Nessuno ravvede nella sanità come nell’istruzione due valori assoluti e quindi l’urgenza di ribadire l’universalità di due diritti che sono sanciti dalla nostra Costituzione e che non possono essere licenziate come voci di esubero alla fine di un bilancio che in questo caso non conta gli avanzi del profitto, ma la sostanza di una civiltà. Quella che eravamo.
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di Rosa Ana De Santis
L’8 marzo è passato da poco: una ricorrenza speciale in cui si era scelto di parlare soprattutto, nelle piazze e nelle aule istituzionali, di violenza ai danni delle donne: un fenomeno che nel nostro Paese raggiunge numeri da allarme sociale. Una ogni tre giorni uccisa: una cifra che non ha bisogno di commenti e che una volta approfondita ci dice che sono soprattutto le mura domestiche e le relazioni affettive a guidare le mani degli assassini.
Mercoledì 17 aprile un’ avvocatessa di Pesaro rincasa e trova qualcuno, assoldato, come si scoprirà poi, che le butta sul viso dell’ acido. Lucia Annibali, questo il suo nome, rischia di perdere la vista oltre ad esser rimasta sfigurata in pieno volto. Il sospettato è l’ex, un suo collega, ed è stata proprio lei, nonostante la tragedia subita, a guidare immediatamente i sospetti e le prime indagini delle forze dell’ordine.
Pensavamo che certe tragedie avvenissero solo in paesi lontanissimi da qui, ad altre latitudini. Viene in mentre la storia di Fakhra Younas, donna pakistana sfigurata dal marito e divenuta simbolo dell’emancipazione femminile fintanto che il troppo dolore e un suicidio non hanno spento la sua opera di testimonianza. E invece no: accade a Pesaro e accade a due avvocati.
A Treviso,la sera del giorno prima, un’esecuzione in stile mafioso uccide sul colpo Denise Morello, giovanissima di 23 anni che rimane vittima dopo una vana supplica di un tiro al bersaglio. Dopo il delitto si uccide anche lui, Matteo Rossi, il fidanzato lasciato. Quello che a tutti i costi voleva tornare insieme tanto da comprare una pagina intera de Il Gazzettino per dichiarare i suoi sentimenti frustrati, le sue attese. Denise era andata dai carabinieri e l’ex era stato convocato in caserma. Tutto inutile e tutto tardi e soprattutto nulla di concreto che potesse impedirgli di mettere in atto il disegno criminale. Come sempre verrebbe da aggiungere.
Questa è la carneficina di un’edizione serale del TG come tante che si conclude poi con due processi. Uno la cui sentenza è imminente e che vede come vittima la piccola Sarah Scazzi per mano di altre due donne di famiglia e di qualche uomo ombra della saga e quello di Chiara Poggi che vede come unico imputato il suo ragazzo di allora, Alberto Stasi.In quest’ultimo caso il processo è da rifare. Troppe le lacune lasciate in sospeso e troppo poco e poco concordanti gli indizi a carico di quel fidanzato che riesce a camminare nella scena del crimine senza sporcarsi le scarpe e che non scende in cantina per accertarsi se la sua Chiara sia ancora viva.
E poi i titoli sulla vicenda di Yara rimangono nelle home page delle agenzie perché il delitto efferato si unisce ad un’analisi genetica in continua e difficile evoluzione che stana i segreti più immorali della valle: quelli dell’adulterio e dei figli illegittimi tra cui si nasconde il killer di una bambina ignara.
La carneficina ai danni delle mogli e delle figlie che per molto tempo si è consumata silenziosa oggi sembra fare più rumore. Forse perché la consapevolezza la rende più odiosa o perché sembra tutto più inaccettabile che questo accada sotto le bandiere dell’emancipazione e dell’eguaglianza sbattuta ovunque come una religione. Non è l’episodio sporadico o il caso isolato, ma una macelleria sistematica dove le donne che scelgono sono punite per la loro libertà di farlo.
Accade a un ragazzo semplice come ad un avvocato, accade nel nord e nel sud. Il contesto non regge a giustificare un dato tanto chiaro quanto grave che ci dice che la violenza ha a che vedere con l’essere donna. Anzi con l’essere uomini. Sbagliati.
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di Vincenzo Maddaloni
Ma che angoscia! Con l'elezione di papa Francesco è ormai «da mezzo secolo che a Roma non siede più un papa italiano». Se ne lamentava con molta passione sul Corriere della Sera di qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia. Il quale s’affannava a spiegare che « la Chiesa italiana riflette quello che sembra il destino del Paese. Non esprime più, perlomeno nei suoi luoghi «alti» e ufficiali, momenti importanti di dibattito e di elaborazione culturali». Insomma, un guaio di tali dimensioni da togliere il sonno. Cosicché il rapporto sugli squilibri macroeconomici pubblicato in quegli stessi giorni dalla Commissione europea che sottolineava “la perdita di competitività e l’alto indebitamento” dell’Italia, diventava una notizia di secondo piano, non meritevole di attenzione più di tanto.
Infatti, nonostante il terremoto politico che il Paese sta vivendo, prevale l’abitudine di non andare fino al fondo delle cose davvero importanti, nell’illusione della classe politica di continuare a regnare come s’è sempre fatto. Pertanto accade che per smorzare le rivendicazioni dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, si continuino a creare delle coinvolgenti distrazioni, demonizzabili a piacimento, si strumentalizzino i conflitti culturali, ci si soffermi sui personaggi esotici come Francesco I. Ne è un esempio appunto il lamento di Ernesto Galli della Loggia che rinsalda l’attitudine - tutta italiana - di privilegiare l’indignazione piuttosto che la riflessione, soffermandosi su argomenti di secondo piano quando le priorità sono ben altre.
Che sia una priorità l’Italia malata di poco lavoro e di povertà in aumento non possono esserci dubbi. Se serve qualche cifra l’Istat ne ha date in abbondanza, a partire da quel 19,5 per cento di italiani che già nel 2011 erano a rischio povertà; una percentuale che arriva al 28,4 per cento se si aggiunge il rischio di esclusione sociale. E sulle terapie quale accordo c’è? Il minor peso delle imposte su lavoro è una ricetta che piace a molti: ai «saggi» che hanno appena finito il loro lavoro di proposta per un prossimo governo; così come ai sindacati e alle imprese, anche se ovviamente i primi vogliono vedere soprattutto salire il netto in busta paga e i secondi chiedono invece che scenda il lordo da pagare. Sarebbe un terreno sul quale l’approfondimento e d’obbligo perché un governo possa muoversi, anche se le risorse necessarie dovrebbero venire da difficili trattative europee per ammorbidire i criteri di bilancio pubblico.Sicché sempre più grande diventerebbe la responsabilità dei Paesi fondatori dell’Unione europea con le democrazie consolidate come Francia, Inghilterra, Germania e Italia appunto. Ma se questa parte d’Europa, come hanno rilevato mille e uno sondaggi, vive il presente con fastidio e guarda al futuro con pessimismo, sempre meno avrà stimoli e voglia di occuparsi di quel che le accade intorno. Eppure non è difficile immaginare il malessere delle genti dell’Europa “allargata”, quelle che fino all’altro ieri, dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà, turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il proprio Paese perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non conoscevano.
E’ l’Italia industrializzata -non certamente la Grecia - con la politica in stallo quella che più di altri paesi crea un malessere diffuso, il timore di un qualche cosa di imprevedibile e ineffabile che ora si trova in accordo e ora in disaccordo con il sentimento di costruire programmi condivisi, sicché l’Europa non sa cosa l’attende e l’Italia ha tutti gli occhi addosso.
Tuttavia il problema Italia non deriva dalla nostra incapacità ad anticipare, ma dalla nostra reticenza ad agire. Si tenga a mente poi che i metodi per uscire dalla crisi raccomandati dai numerosi economisti si sono tutti dimostrati inefficaci economicamente e del tutto inadatti a eliminare le ragioni culturali e politiche di questa crisi. Per prima cosa andrebbe spiegato alla comunità democratica che cosa è esattamente l’interesse comune, poiché più del bene comune è l'interesse comune a tenere insieme i cittadini.
Lo sa benissimo il M5S, che ha prosperato su questo sentimento ma ora scopre che non lo sa gestire. Infatti, per determinare qual è l'interesse comune abbiamo bisogno di comprendere quali sono i nostri interessi particolari o di gruppo. Abbiamo anche bisogno di individuare delle priorità e di dare un carattere gerarchico ai nostri interessi. Soltanto un consenso sulla gerarchia delle priorità da realizzare permetterà di fare progressi, ben oltre la semplice correzione della situazione attuale. Ma per ora sembra impossibile perché l'incapacità della politica tradizionale di trovare soluzioni stabili pone le condizioni per un ulteriore aggravamento della crisi economica e di conseguenza farà lievitare la protesta contro la politica tradizionale.
Stando così le cose non è fantapolitica quella del filosofo polacco Marcin Król quando scrive sul settimanale Wprost (Il Time polacco) che: «Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di venticinque anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. Una rivoluzione non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico, ma perfettamente udibile».
Marcin Król che da poco ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine"), non è ottimista perché spiega: «I nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro dieci-trent’anni. Non sanno che nella Storia non si torna mai indietro».Sicuramente i politici italiani - se non tutti, almeno una parte - coltivano questa illusione perché, come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera «non passa giorno che i capigruppo dei grillini, Lombardi e Crimi, non inciampino in qualche gaffe, non sfiorino il ridicolo, non dimostrino di essere maldestri. Questi sono dei pasticcioni e dei presuntuosi. Roberta Lombardi non si tira mai indietro: un giorno strologa di «fascismo buono», un altro si avventura, senza conoscere la materia, sull'articolo 18, un altro ancora definisce «una porcata di fine legislatura» la decisione del governo di stanziare 40 miliardi affinché la Pubblica amministrazione saldi i debiti con i fornitori…».
Naturalmente Lombardi e Crimi siedono sugli scranni del Parlamento perché il M5s ha stravinto tra i giovani (41 per cento). Infatti, se da un punto di vista strettamente elettorale il successo di Grillo è trasversale (sia per quanto riguarda la provenienza politica, sia per l'età media) è però innegabile che sono i giovani di 20-30 anni i protagonisti del M5S: sono loro gli attivisti, sono loro a costituire l'humus culturale e il braccio tecnologico del Movimento, sono loro, in gran parte, a essere stati eletti.
Non a caso Marcin Król ricorda che le rivoluzioni scoppiano per abbattere la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Si tenga a mente che i capi della rivoluzione francese erano dei trentenni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre sessanta. Beninteso, gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma se si tiene conto dei progressi della medicina «è molto probabile», avverte Marcin Król, «che tra vent’ anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione».
Naturalmente, ci sono i pretesti per una rivoluzione. I tagli di bilancio che si sono susseguiti non soltanto in Spagna e in Grecia, ma anche in Francia e nel Regno Unito, come in Italia del resto, hanno generato una drastica riduzione delle garanzie sociali in materia di diritto del lavoro, di pensioni, di disoccupazione, e stanno creando di conseguenza una generazione di giovani privi di prospettive di un impiego stabile, senza i presupposti materiali per poter mettere su famiglia. Nei paesi colpiti più duramente dalla crisi, come Spagna o Portogallo, dovrà passare almeno una generazione prima che si riesca a compensare il calo del livello di vita. Non è che in Italia sia di gran lungo diversa la situazione, se vi si aggiunge poi il lamento del professor Ernesto Galli della Loggia siamo alla catastrofe.«Cresciuto nel benessere ma alle prese con la disoccupazione, comprensibilmente schifato dalla politica che ha conosciuto fino a oggi e costituzionalmente incosciente, facilmente entusiasta circa le potenzialità ancora inespresse di un mezzo nuovo che percepisce come “suo”. Questo è l'identikit del giovane militante del Movimento 5 Stelle, questa è la chiave per comprenderne il successo - tutt'altro che inaspettato - per quelli della mia età», scrive Nicola Predazzi , 26 anni, nel saggio “Il grillismo come revanchismo generazionale” pubblicato dal Mulino.
In poche righe egli riassume la Storia, il destino della generazione di Internet. «Non siamo - spiega - proprio nativi digitali, ma orfani della Storia, abbiamo capito che questa è l'èra della Rete. Finalmente una svolta epocale in grado di coinvolgere e unire! Il profumo è quello della rivoluzione, soprattutto per chi, come me, è nato a cavallo tra due egemonie tecnologiche: dopo essere stati per tutta l'infanzia e l'adolescenza spettatori televisivi, ecco che gli attori diventiamo noi, su YouTube e sui social networks; basta una webcam o un blog e la rivoluzione copernicana è compiuta: io divento l'artista, il giornalista, la star, il politico».
Non voglio fare il “laudator temporis acti”, ho sempre detestato chi diceva: “Ai miei tempi”, ma se qualcosa spicca in questa affermazione generazionale è l’assoluta mancanza di ogni senso della misura alla quale dovremmo fare l’abitudine. Altro che “nuovo ‘68”. Non sanno nemmeno cosa sia il ’68 questi appartenenti al popolo del “copia e incolla”, che s’inventano i ruoli e le professioni senza sapere da che parte si comincia, per poi stupirsi se nessuno li assume. Il giovane Predazzi parla di «tragico analfabetismo democratico dei miei coetanei» e di «incapacità rivoluzionaria dei rivoluzionari di oggi». La colpa? Dei genitori naturalmente, perché, spiega Predazzi «entrambe queste nostre carenze derivano dall'Italia in cui siamo nati e cresciuti». Insomma, ce n’é per tutti noi che apparteniamo all’altra generazione, quella che non avrebbe saputo governare.
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di Rosa Ana De Santis
La storia è accaduta a Milano e riguarda una bellissima cittadina italiana, di 21 anni, laureanda in beni culturali, preparata e molto bella. Sara è figlia di egiziani e indossa il velo islamico. Non quello che copre il volto e impedisce di identificarti, ma il classico hijab. Non trova un lavoro saltuario, nemmeno la distribuzione di volantini per strada e la sua disoccupazione totale non è dovuta alla crisi del mercato del lavoro.
Le accade addirittura, nella sua città, che un’azienda che si occupa di eventi sia arrivata a scriverle nero su bianco che l’impedimento per assumerla era dovuto al suo rifiuto di togliere il velo. La vicenda è ora arrivata al Tribunale di Lodi dopo che Sara si è rivolta ad uno studio di avvocati specializzati in discriminazione razziale: perché di questo si tratta.
L’azienda in questione deve innanzitutto aver dimenticato che Sara è italiana e che con quella mail, Costituzione alla mano, avrebbe creato un caso normativo grave e che il velo; poi che il velo è un segno culturale e religioso distintivo, non può inficiare in alcun modo i motivi di un’occupazione se non perché esiste un diffuso pregiudizio, in modo particolare nei riguardi dei musulmani.
L’azienda scrive infatti a Sara che i clienti “non sono flessibili”, dove flessibile sta per tolleranti o non razzisti. Se avesse indossato una bella croce al collo come molti italiani, non avrebbe avuto problemi, forse perché un italiano è per definizione cristiano-cattolico, forse perché non si pensa che all’ateo potrebbe dare altrettanto fastidio o magari, pietosamente, perché esistono religioni lecite e religioni di serie B.
Il caso di Sara e la sua brillante determinazione a far nascere una questione di pubblica attenzione ci ricorda innanzitutto l’arretratezza culturale in cui l’Italia è ancora amaramente immersa. Altro che non siamo razzisti. Basta andare in una qualsiasi città europea, persino la Londra colpita al cuore dal terrorismo islamico, e vedere ovunque ragazze in chador nei negozi, nelle librerie, nelle boutique senza che questo susciti nemmeno più attenzione o stupore.
Ci ricorda infine quanto siano numerose, magari spesso taciute e nascoste, le discriminazioni che patiscono le persone portatrici di una differenza. Oggi è il velo di Sara e una scelta religiosa, ma potrebbe essere la “pelle nera” o il Tilak, il terzo occhio degli indiani, magari succederà un po’ meno per la Kippah degli ebrei, ma in Italia tutto è possibile.Certo è che da noi chi non rientra nel canone dell’italiano medio spesso non lavora o, comunque, raramente in posizioni che non siano umile manodopera, anche quando il candidato ha il profilo giusto, magari anche migliore di quello degli italiani concorrenti.
Non c’è da stupirsi se l’immigrazione non riesce ad essere digerita dalla società italiana, se nemmeno per una ragazza che è figlia di questo Paese e che è italiana a tutti gli effetti si riesce ad onorare il minimo dovuto dei diritti costituzionali.
La vicenda è grave e nello stesso tempo grottesca perché il paradosso della discriminazione aziendale subita da Sara è che i clienti sono davvero “poco flessibili”. Il ritratto è impietoso, ma non falso. E allora forse proprio per questo le persone come Sara devono essere assunte.
Non solo perché così esige la legge, perché i suoi genitori lavorano da mezzo secolo per la nostra economia e pagano le tasse a questo paese. Ma perché le persone vanno educate in ogni modo possibile.
Del resto questa è la stessa Italia che tra il 2010 e il 2011 ha collezionato il 35% di discriminazioni a danno di persone con disabilità, soprattutto nelle fasi di inserimento occupazionale. Questo il risultato della ricerca DIVERSITALAVORO che racconta di come anche in questo caso sia la differenza a scatenare paura e diffidenza nel cliente quando magari incontra un impiegato in carrozzina.
Sempre lui, il cliente poco flessibile come lo chiamerebbe l’azienda portata in tribunale da Sara. Il cittadino medio, razzista nella pancia e patriota davanti alla partita di calcio o nei respingimenti in mare dei disperati: il peggior marchio dell’italietta che non cambia mai.
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di Rosa Ana De Santis
Il bombardamento di giornali e tv sull’allarme sociale della crisi scatena ormai un terrore collettivo. L’ultimo triplice “suicidio di Stato”a Civitanova Marche, come lo ha battezzato la piazza, ha tolto ogni residuo indugio alla denuncia e alla disperazione. Mentre le ipotesi di governo si sono trasformate in una gara di estro e poesia, i numeri dell’Istat non lasciano spazio ad altre attese.
Nel corso del 2012 il potere d’acquisto delle famiglie è letteralmente crollato e non andrà meglio nel prossimo futuro. Il 51% di esse, esaurite le spese, non ha soldi da spendere per null’altro, mentre l’8% non arriva più a pagare il dovuto. La Coldiretti ha analizzato i dati ISTAT in relazione alla spesa e ai consumi alimentari e persino qui, dove l’Italia ha sempre tenuto, il picco è in discesa.
Nell’anno in corso, in aumento rispetto al passato, c’è stato il meno 4,2% di consumo frutta, calo negli ortaggi e ben il 7% in meno per la carne. Il menu non cambia, ma vince, purtroppo, il cibo low cost e peggiora la qualità della tavola. E’ raddoppiata, e fa venire in mente l’Italia della guerra, la percentuale delle persone che non riescono più ad avere un pasto proteico adeguato almeno ogni due giorni.
A pagare ora sono le famiglie, quelle che fino a un paio di anni fa rappresentavano il salvadanaio del risparmio del paese. In particolare quelle a reddito fisso sono rimaste stritolate tra l’inflazione e l’aumento delle imposte a tutti i livelli ed è anche a loro, e non solo alle piccole e medie aziende, che le banche hanno chiuso i rubinetti del prestito togliendo ogni possibilità di ossigeno per un mercato fermo dove o non si lavora o chi lavora non guadagna abbastanza per spendere.Urge un pacchetto di azioni immediate: dall’eliminazione del prossimo aumento IVA previsto a luglio, al rilancio dell’occupazione attraverso uno sgravio dei costi di assunzione, all’allentamento del patto di stabilità con gli enti locali. Primi provvedimenti che non riescono a nascere nel contesto della paralisi istituzionale che va dal risultato debole delle elezioni al semestre bianco del Presidente della Repubblica, generando uno stand by pericolosissimo per la tenuta democratica dell’Italia. Si unisce al coro la denuncia di Federconsumatori che ricorda come il mix della crisi con gli aumenti fiscali sia servito solo a ingrandire le file dei disoccupati e a far chiudere più di mille imprese al giorno nel corso del 2012.
In questa fase a vacillare, insieme al mercato, è la politica e l’assenza del timone di governo al paese rischia di minare la tenuta democratica. La responsabilità imporrebbe scelte di grandi intese (basterebbe copiare da altri paesi europei) a partire da quei provvedimenti di rilancio economico su cui tutti davanti ai microfoni dicono di essere pronti e d’accordo. Lo sono meno a telecamere spente.
Per questo se è vero che non piace la pioggia di fischi che ha investito la neo presidente della Camera, Laura Boldrini, l’unica ad esser andata ai funerali delle tre vittime della povertà, non piace e anzi fa tremare che, persino dopo il voto, nessuno, nemmeno gli adepti di un comico neo Savonarola, abbiano capito che per cambiare il paese bisogna prima decidere di governarlo. Sempre che se ne sia capaci.