di Rosa Ana De Santis

Una cittadina austriaca a Vicenza viene stuprata da due ragazzi e il primo maggio i Carabinieri fermano subito i responsabili: sono due stranieri del Ghana. Un successo della giustizia cui fa ombra, subito dopo, l’invito del governatore del Veneto, Luca Zaia, al neo ministro dell’integrazione, Cecilie Kyenge a far visita alla vittima. Un invito peloso e polemico, che suona come un dovere, a tratti come un risarcimento. Più che un intervento delle Istituzioni sembra essere un atto di scuse dovuto, per la colpa, forse, di condividere con i due stupratori il colore della pelle. Nera.

Non si fa attendere la grossolana volgarità di Borghezio che non manca quest’occasione per speculare sull’orrore della violenza e tirare fuori il sillogismo tra immigrazione, clandestinità e delinquenza. Come a voler sottointendere, rispetto alla tragedia di questa giovane donna, che tutti gli stranieri che arrivano nel nostro Paese in illegalità rischiano di essere potenziali stupratori.

Ancor più grottesca la rivendicazione dell’”italianità” quando ricorda il rispetto della donna come pilastro della civiltà del nostro Paese, dimenticando che i numeri terrificanti del femminicidio ( 2.061 donne uccise tra il 2000 e il 2011, solo per citarne uno) raccontano che le donne non sono vittime di clandestini di colore, ma di padri, mariti o fidanzati italianissimi. Come italiano è l’ex che ha mandato per manovalanza un sicario (questo si albanese) a sfigurare di acido l’avvocatessa, giovane e bella, che aveva osato lasciarlo.

Il Pd, attraverso la deputata Miotto, ha risposto duramente alle parole di Zaia, accusandolo di alimentare razzismo e xenofobia. Del resto la Lega, che vanta una cattedra sulla materia, aveva già accolto la nomina di Kyenge con insulti e commenti via web che avevano reso necessario l’intervento della Presidente della Camera, Laura Boldrini, per ricordare ai tifosi del Carroccio che la liberta d’espressione non è il salvacondotto per esprimere la discriminazione razziale. Anche di questo increscioso episodio era stato lui, Borghezio, l’autore degli insulti più volgari: da “negra” a “zulu”.

Il Ministro Kyenge esprime semmai, anche simbolicamente, l’idea di un paese e di un’Italia nuova proiettata nel futuro, almeno questa la speranza e l’attesa.

La stessa, questo dovrebbe augurarsi Zaia con i suoi compari di partito, che la legge tuteli con rigore e attraverso pene esemplari tutte le donne vittime di violenza dai loro carnefici. Che si tratti di due clandestini, bianchi o di colore, di una statunitense come Amanda Knox, o del ricco figlio della nota famiglia Junker.

Se le istituzioni, come è giusto, dovranno esserci per questa povera ragazza, sarà nell’assicurarle assistenza, supporto e la giusta pena per i suoi carnefici invece che tagliando fondi ai centri anti violenza. La legge, come la giustizia, non conosce colori, (forse ad eccezione del verde marcio che ha l’onore di sostiene di legiferare ma lavora per le ragioni dell’odio, del pregiudizio e di una padanità). Furbetti e xenofobi travestiti da politici, che dell’Italia e della sua civiltà dicono di non volere quasi nulla, a parte le casse, le auto blu e le poltrone di Roma. Con cui magari comprare lauree e yacht.

di Rosa Ana De Santis

Bruno Vespa ha annunciato che nel salotto di Porta a Porta, nel giorno della festa del lavoro, i protagonisti saranno loro: i cittadini che vivono il disagio e le famiglie sofferenti. In collegamento esterno per la prima volta ci saranno i politici e se accade questo nel manifesto della tv nazionale è il segno che qualcosa di profondo è cambiato.

A dirlo con toni senza melodramma, ma solo con dramma, è l’ISTAT. In un anno si sono persi quasi 250 mila posti di lavoro e la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 38,4% e in generale registra un aumento rispetto all’anno precedente. Il neo governo ha annunciato che la direzione di marcia sarà la crescita e il lavoro, anche se i titoli delle prime pagine sembrano assestarsi sulla controversia IMU: se toglierla per tutti, come vorrebbe Berlusconi, o solo per i più sfortunati, come chiede il PD.

L’agenda delle urgenze, come ricorderà la piazza con i sindacati, dovrebbe essere quella del rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga, dell’ assunzioni di giovani e degli incentivi alle aziende per le assunzioni e le trasformazioni in contratti di lavoro stabili.

Nonostante l’inflazione sia stabile e si registri uno stop alla crescita tendenziale dei prezzi dei beni di consumo, il potere d’acquisto delle famiglie è miseramente crollato e la ragione risiede nel lavoro. L’allarme sui numeri dell’ISTAT è lanciato da Federconsumatori: a cambiare con le tasche degli italiani sono state le abitudini di vita, addirittura quelle alimentari e quelle mediche. Un corto circuito per l’economia come mai nella storia economica del paese. Il governo, a questo proposito, avrà l’obbligo di evitare la stangata trasversale dell’IVA che a luglio potrebbe dar luogo ad un ulteriore e dannoso stop ai consumi già ridotti all’osso.

Tra l’occupazione che cala quella “rosa” mantiene sempre un suo record, dovuto forse al fatto che la permanenza delle over 50 non basta più ad arginare il gap occupazionale tra i sessi.

Se Monti ha dovuto fronteggiare la crisi sul versante finanziario, cosi recita la vulgata più scontata del giornalismo televisivo, adesso a Letta e al governo delle larghe intese spetterebbe di risolvere quella economica. Come si possa ragionare di economia mettendo da parte la visione politica e quindi concertando opzioni eterogenee sulla società e sul modello di sviluppo è un mistero difficile da decifrare.

Come possa quindi questo Parlamento - azzerato nella sua dialettica fisiologica di opposizione e maggioranza - produrre qualcosa è a metà tra un sogno e una bugia per prendere tempo e superare la stagione balneare come prometteva non sarebbe stato il neo Ministro degli Interni, Alfano.

Se non è saggio accendere le piazze non lo è nemmeno speculare sulla sparatoria a danno dei due carabinieri. Vicenda drammatica e ambigua: certo è che un uomo sano di mente ed esasperato dalla crisi, con in mente il piano di uccidere un politico, non si capisce perché abbia deciso di fare fuoco su due uomini riconoscibilissimi in uniforme che certamente politici non sono. Una logica perversa come quella che ha portato a paralizzare il Parlamento per l’incapacità di spartirsi i poteri e di scegliere un uomo nuovo al Quirinale. Paralisi che adesso con una spartizione semplicemente sfacciata e rivendicata sembra diventata una benedizione e un atto di responsabilità.

Il non senso di questo triste fatto di cronaca che la giustizia forse chiarirà o forse no, come la storia d’Italia insegna, è la più degna fotografia di questo falso Avvento della politica in cui a cambiare davvero è la vita alle porte del Palazzo. Le piazze esasperate, i grillini, i colpi di pistola e la moltiplicazione certificata della nostra povertà.

di Rosa Ana De Santis

Dopo annunci ripetuti e recenti sull’insostenibilità per troppi cittadini della sanità pubblica, esce con l’Espresso un’inchiesta dedicata agli esodati del sistema sanitario nazionale. I numeri lanciano un allarme come mai prima era accaduto e rendono ancor più inaccettabile i tentativi, spacciati per ricette tecnocratiche, di ripensare la sanità pubblica sul leit motiv della crisi economica sia per le ragioni di principio che sovraintendono a questo modo di pensare la salute pubblica sia per le ricadute, pesanti, che questo avrebbe su una popolazione sempre più priva di mezzi economici per vivere.

Sempre più persone riferiscono ai medici di famiglia di non riuscire a pagare il ticket per le visite mediche specialistiche e per l’esattezza parliamo di quasi 2 milioni di cittadini. Una cifra che fa scivolare l’Italia, che era seconda solo alla Francia, di parecchie posizioni. Una sconfitta che più che economica è politica e morale. Peraltro accade spesso che i cittadini che ancora riescono a sostenere le spese mediche si rivolgano ai centri privati invece che alle strutture pubbliche, sia per evitare lunghe file d’attesa sia perché moltissimi poli medici convenzionati o del tutto privati hanno introdotto tariffe promozionali in nome della crisi, cannibalizzando il sistema pubblico che unisce ai buchi assistenziali un problema di caos organizzativo.

Una concorrenza che mai aveva livellato il pubblico al privato fino a questo punto. Va aggiunto inoltre che lo spostamento verso centri privati pone anche un’incognita sulla qualità e l’eccellenza delle prestazioni sanitarie di cui si ha sempre meno il tempo di occuparsi visto il progressivo impoverimento delle famiglie. I saldi dai negozi di abbigliamento e alimentari si sono spostati anche nelle cure.

La notizia di qualche giorno fa è che una famiglia su tre non riesce più a garantire la cure dentistiche ai propri figli (quasi 2 milioni di bambini) e moltissimi hanno abbandonato lo studio privato di fiducia (quasi il 95% delle cure odontoiatriche in Italia era affidato al sistema privato) per tornare agli ospedali e alle ASL di appartenenza.

Quasi grottesca la situazione se ci spostiamo al ripetuto bombardamento mediatico che le pubblicità progresso fanno della prevenzione a tutti i livelli. Se già curarsi è un lusso, figuriamoci prevenire con la diagnosi precoce. Tutti sembrano non rendersi conto che un popolo di malati più gravi, oltre ad essere un dramma sociale e una regressione, è anche un costo più gravoso per le tasche di tutti.

Le entrate che le Regioni dovrebbero recuperare dai rimborsi ticket raggiungono cifre da milioni di euro e i bilanci in rosso metteranno molto presto a rischio la possibilità di erogare prestazioni mediche pubbliche con regolarità. Non è infrequente che in molti nosocomi del Lazio, tanto per citare una delle Regioni con la situazione più disastrosa nella sanità, le liste per alcuni esami medici o per interventi chirurgici siano letteralmente bloccate da tempo lasciando a piedi cittadini che hanno bisogno di cure e che non possono permettersi di pagarle di tasca propria.

Già prima del caos elettorale, ai tempi del governo dei professori, la politica della spending review, per quanto Balduzzi avesse ribadito in più occasioni di non voler inquinare il sistema sanitario con ricette privatistiche, non aveva bloccato i tagli orizzontali che grazie all’ultima manovra finanziaria varata da Berlusconi e confermata per l’anno prossimo, che ha portato all’aumento del ticket lasciando invariati però tutti i problemi del sistema, taglia fuori una quota significativa della popolazione, la più vessata dalla crisi e dalla disoccupazione: quella che andava tutelata di più e per prima.

Nessuno, né Berlusconi né Monti, ha avuto il coraggio di affrontare gli sprechi della sanità, il modo di gestire i finanziamenti, l’efficienza dei servizi e quindi il lavoro degli operatori del settore. Nessuno ha avuto il coraggio di chiedere uno sforzo a quanti del Paese sfoggiano dichiarazioni dei redditi a tanti zeri: una sorta di fondo di solidarietà per le categorie più svantaggiate.

Come si fa addirittura nelle aziende, non nelle onlus, con le casse integrazioni parziali. Nessuno ravvede nella sanità come nell’istruzione due valori assoluti e quindi l’urgenza di ribadire l’universalità di due diritti che sono sanciti dalla nostra Costituzione e che non possono essere licenziate come voci di esubero alla fine di un bilancio che in questo caso non conta gli avanzi del profitto, ma la sostanza di una civiltà. Quella che eravamo.

di Rosa Ana De Santis

L’8 marzo è passato da poco: una ricorrenza speciale in cui si era scelto di parlare soprattutto, nelle piazze e nelle aule istituzionali, di violenza ai danni delle donne: un fenomeno che nel nostro Paese raggiunge numeri da allarme sociale. Una ogni tre giorni uccisa: una cifra che non ha bisogno di commenti e che una volta approfondita ci dice che sono soprattutto le mura domestiche e le relazioni affettive a guidare le mani degli assassini.

Mercoledì 17 aprile un’ avvocatessa di Pesaro rincasa e trova qualcuno, assoldato, come si scoprirà poi, che le butta sul viso dell’ acido. Lucia Annibali, questo il suo nome, rischia di perdere la vista oltre ad esser rimasta sfigurata in pieno volto. Il sospettato è l’ex, un suo collega, ed è stata proprio lei, nonostante la tragedia subita, a guidare immediatamente i sospetti e le prime indagini delle forze dell’ordine.

Pensavamo che certe tragedie avvenissero solo in paesi lontanissimi da qui, ad altre latitudini. Viene in mentre la storia di Fakhra Younas, donna pakistana sfigurata dal marito e divenuta simbolo dell’emancipazione femminile fintanto che il troppo dolore e un suicidio non hanno spento la sua opera di testimonianza. E invece no: accade a Pesaro e accade a due avvocati.

A Treviso,la sera del giorno prima, un’esecuzione in stile mafioso uccide sul colpo Denise Morello, giovanissima di 23 anni che rimane vittima dopo una vana supplica di un tiro al bersaglio. Dopo il delitto si uccide anche lui, Matteo Rossi, il fidanzato lasciato. Quello che a tutti i costi voleva tornare insieme tanto da comprare una pagina intera de Il Gazzettino per dichiarare i suoi sentimenti frustrati, le sue attese. Denise era andata dai carabinieri e l’ex era stato convocato in caserma. Tutto inutile e tutto tardi e soprattutto nulla di concreto che potesse impedirgli di mettere in atto il disegno criminale. Come sempre verrebbe da aggiungere.

Questa è la carneficina di un’edizione serale del TG come tante che si conclude poi con due processi. Uno la cui sentenza è imminente e che vede come vittima la piccola Sarah Scazzi per mano di altre due donne di famiglia e di qualche uomo ombra della saga e quello di Chiara Poggi che vede come unico imputato il suo ragazzo di allora, Alberto Stasi.

In quest’ultimo caso il processo è da rifare. Troppe le lacune lasciate in sospeso e troppo poco e poco concordanti gli indizi a carico di quel fidanzato che riesce a camminare nella scena del crimine senza sporcarsi le scarpe e che non scende in cantina per accertarsi se la sua Chiara sia ancora viva.

E poi i titoli sulla vicenda di Yara rimangono nelle home page delle agenzie perché il delitto efferato si unisce ad un’analisi genetica in continua e difficile evoluzione che stana i segreti più immorali della valle: quelli dell’adulterio e dei figli illegittimi tra cui si nasconde il killer di una bambina ignara.

La carneficina ai danni delle mogli e delle figlie che per molto tempo si è consumata silenziosa oggi sembra fare più rumore. Forse perché la consapevolezza la rende più odiosa o perché sembra tutto più inaccettabile che questo accada sotto le bandiere dell’emancipazione e dell’eguaglianza sbattuta ovunque come una religione. Non è l’episodio sporadico o il caso isolato, ma una macelleria sistematica dove le donne che scelgono sono punite per la loro libertà di farlo.

Accade a un ragazzo semplice come ad un avvocato, accade nel nord e nel sud. Il contesto non regge a giustificare un dato tanto chiaro quanto grave che ci dice che la violenza ha a che vedere con l’essere donna. Anzi con l’essere uomini. Sbagliati.




di Vincenzo Maddaloni

Ma che angoscia! Con l'elezione di papa Francesco è ormai «da mezzo secolo che a Roma non siede più un papa italiano». Se ne lamentava con molta passione sul Corriere della Sera di qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia. Il quale s’affannava a spiegare che « la Chiesa italiana riflette quello che sembra il destino del Paese. Non esprime più, perlomeno nei suoi luoghi «alti» e ufficiali, momenti importanti di dibattito e di elaborazione culturali». Insomma, un guaio di tali dimensioni da togliere il sonno. Cosicché il rapporto sugli squilibri macroeconomici pubblicato in quegli stessi giorni dalla Commissione europea  che sottolineava “la perdita di competitività e l’alto indebitamento” dell’Italia,  diventava una notizia di secondo piano, non meritevole di attenzione più di tanto.

Infatti, nonostante il terremoto politico che il Paese sta vivendo, prevale l’abitudine di non andare fino al fondo delle cose davvero importanti, nell’illusione della classe politica di continuare a regnare come s’è sempre fatto. Pertanto accade che per smorzare le rivendicazioni dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, si continuino a creare delle coinvolgenti distrazioni, demonizzabili a piacimento, si strumentalizzino i conflitti culturali, ci si soffermi sui personaggi esotici come Francesco I. Ne è un esempio appunto  il lamento di Ernesto Galli della Loggia che rinsalda l’attitudine - tutta italiana - di privilegiare l’indignazione piuttosto che la riflessione, soffermandosi su argomenti di secondo piano quando le priorità sono ben altre.

Che sia una priorità l’Italia malata di poco lavoro e di povertà in aumento non possono esserci dubbi. Se serve qualche cifra l’Istat ne ha date in abbondanza, a partire da quel 19,5 per cento di italiani che già nel 2011 erano a rischio povertà; una percentuale che arriva al 28,4 per cento se si aggiunge il rischio di esclusione sociale. E sulle terapie quale accordo c’è? Il minor peso delle imposte su lavoro è una ricetta che piace a molti: ai «saggi» che hanno appena finito il loro lavoro di proposta per un prossimo governo; così come ai sindacati e alle imprese, anche se ovviamente i primi vogliono vedere soprattutto salire il netto in busta paga e i secondi chiedono invece che scenda il lordo da pagare. Sarebbe un terreno sul quale l’approfondimento e d’obbligo perché un governo possa muoversi, anche se le risorse necessarie dovrebbero venire da difficili trattative europee per ammorbidire i criteri di bilancio pubblico.

Sicché sempre più grande diventerebbe la responsabilità dei Paesi fondatori dell’Unione europea con le democrazie consolidate come Francia, Inghilterra, Germania e Italia appunto. Ma se questa parte d’Europa, come hanno rilevato mille e uno sondaggi, vive il presente con fastidio e guarda al futuro con pessimismo, sempre meno avrà stimoli e voglia di occuparsi di quel che le accade intorno. Eppure  non è difficile immaginare il malessere delle genti dell’Europa “allargata”, quelle che fino all’altro ieri, dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà, turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il proprio Paese perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non conoscevano.

E’ l’Italia industrializzata -non certamente la Grecia - con la politica in stallo quella che più di altri paesi crea un malessere diffuso, il  timore di  un qualche cosa di imprevedibile e ineffabile che ora si trova in accordo e ora in disaccordo con il sentimento di costruire programmi condivisi, sicché l’Europa non sa cosa l’attende e l’Italia ha tutti gli occhi addosso.

Tuttavia il problema Italia non deriva dalla nostra incapacità ad anticipare, ma dalla nostra reticenza ad agire. Si tenga a mente poi che i metodi per uscire dalla crisi raccomandati dai numerosi economisti si sono tutti dimostrati inefficaci economicamente e del tutto inadatti a eliminare le ragioni culturali e politiche di questa crisi. Per prima cosa andrebbe spiegato alla comunità democratica che cosa è esattamente l’interesse comune, poiché più del bene comune è l'interesse comune a tenere insieme i cittadini.

Lo sa benissimo il M5S, che ha prosperato su questo sentimento ma ora scopre che non lo sa gestire. Infatti, per determinare qual è l'interesse comune abbiamo bisogno di comprendere quali sono i nostri interessi particolari o di gruppo. Abbiamo anche bisogno di individuare delle priorità e di dare un carattere gerarchico ai nostri interessi. Soltanto un consenso sulla gerarchia delle priorità da realizzare permetterà di fare progressi, ben oltre la semplice correzione della situazione attuale. Ma per ora sembra impossibile perché l'incapacità della politica tradizionale di trovare soluzioni stabili pone le condizioni per un ulteriore aggravamento della crisi economica e di conseguenza farà lievitare la protesta contro la politica tradizionale.

Stando così le cose non è fantapolitica quella del filosofo polacco Marcin Król quando scrive sul settimanale Wprost (Il Time polacco) che: «Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di venticinque anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. Una rivoluzione non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico, ma perfettamente udibile».

Marcin Król che da poco ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine"), non è ottimista perché spiega: «I nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro dieci-trent’anni. Non sanno che nella Storia non si torna mai indietro».

Sicuramente i politici italiani - se non tutti, almeno una parte - coltivano questa illusione perché, come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera «non passa giorno che i capigruppo dei grillini, Lombardi e Crimi, non inciampino in qualche gaffe, non sfiorino il ridicolo, non dimostrino di essere maldestri. Questi sono dei pasticcioni e dei presuntuosi. Roberta Lombardi non si tira mai indietro: un giorno strologa di «fascismo buono», un altro si avventura, senza conoscere la materia, sull'articolo 18, un altro ancora definisce «una porcata di fine legislatura» la decisione del governo di stanziare 40 miliardi affinché la Pubblica amministrazione saldi i debiti con i fornitori…».

Naturalmente Lombardi e Crimi siedono sugli scranni del Parlamento perché il M5s ha stravinto tra i giovani (41 per cento). Infatti, se da un punto di vista strettamente elettorale il successo di Grillo è trasversale (sia per quanto riguarda la provenienza politica, sia per l'età media) è però innegabile che sono i giovani di 20-30 anni i protagonisti del M5S: sono loro gli attivisti, sono loro a costituire l'humus culturale e il braccio tecnologico del Movimento, sono loro, in gran parte, a essere stati eletti.

Non a caso  Marcin Król  ricorda che le rivoluzioni scoppiano per abbattere la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Si tenga a mente che i capi della rivoluzione francese erano dei trentenni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre sessanta. Beninteso, gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma se si tiene conto dei progressi della medicina «è molto probabile», avverte Marcin Król, «che tra vent’ anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione».

Naturalmente, ci sono i pretesti per una rivoluzione. I tagli di bilancio che si sono susseguiti non soltanto in Spagna e in Grecia, ma anche in Francia e nel Regno Unito, come in Italia del resto, hanno generato una drastica riduzione delle garanzie sociali in materia di diritto del lavoro, di pensioni, di disoccupazione, e stanno creando di conseguenza una generazione di giovani privi di prospettive di un impiego stabile, senza i presupposti materiali per poter mettere su famiglia. Nei paesi colpiti più duramente dalla crisi, come Spagna o Portogallo, dovrà passare almeno una generazione prima che si riesca a compensare il calo del livello di vita. Non è che in Italia sia di gran lungo diversa la situazione, se vi si aggiunge poi il lamento del professor Ernesto Galli della Loggia siamo alla catastrofe.

«Cresciuto nel benessere ma alle prese con la disoccupazione, comprensibilmente schifato dalla politica che ha conosciuto fino a oggi e costituzionalmente incosciente, facilmente entusiasta circa le potenzialità ancora inespresse di un mezzo nuovo che percepisce come “suo”. Questo è l'identikit del giovane militante del Movimento 5 Stelle, questa è la chiave per comprenderne il successo - tutt'altro che inaspettato - per quelli della mia età», scrive Nicola Predazzi , 26 anni, nel saggio “Il grillismo come revanchismo generazionale” pubblicato dal Mulino.

In poche righe egli riassume la Storia, il destino della generazione di Internet. «Non siamo - spiega - proprio nativi digitali, ma orfani della Storia, abbiamo capito che questa è l'èra della Rete. Finalmente una svolta epocale in grado di coinvolgere e unire! Il profumo è quello della rivoluzione, soprattutto per chi, come me, è nato a cavallo tra due egemonie tecnologiche: dopo essere stati per tutta l'infanzia e l'adolescenza spettatori televisivi, ecco che gli attori diventiamo noi, su YouTube e sui social networks; basta una webcam o un blog e la rivoluzione copernicana è compiuta: io divento l'artista, il giornalista, la star, il politico».

Non voglio fare il “laudator temporis acti”, ho sempre detestato chi diceva: “Ai miei tempi”, ma se qualcosa spicca in questa affermazione generazionale è l’assoluta mancanza di ogni senso della misura alla quale dovremmo fare l’abitudine. Altro che “nuovo ‘68”. Non sanno nemmeno cosa sia il ’68  questi appartenenti al popolo del “copia e incolla”, che s’inventano i ruoli e le professioni senza sapere da che parte si comincia, per poi stupirsi se nessuno li assume. Il giovane Predazzi parla di «tragico analfabetismo democratico dei miei coetanei» e di «incapacità rivoluzionaria dei rivoluzionari di oggi». La colpa? Dei genitori naturalmente, perché, spiega Predazzi «entrambe queste nostre carenze  derivano dall'Italia in cui siamo nati e cresciuti». Insomma, ce n’é per tutti noi che apparteniamo all’altra generazione, quella che non avrebbe saputo governare.

www.vincenzomaddaloni.it











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