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di Rosa Ana De Santis
Nella data della festa della mamma, domenica 12 maggio, nell’anniversario dell’uccisione della studentessa Giordana Masi, a Roma è andata in scena un’altra commemorazione. Dal Colosseo una marcia di 30 mila persone, con foto e immagini di embrioni e feti, ha manifestato per ricordare il valore sacro della vita e il rispetto dell’embrione. Che tradotto significa rimettere in discussione il diritto all’aborto sancito con la legge 194. Fedeli, parrocchie, religiosi e laici hanno attraversato Roma con un corredo quasi macabro di immagini che il sindaco della Capitale, proprio lui, ha interpretato come le prove di una attuale “strage degli innocenti”. Al calcolatore Alemanno deve esser sfuggito che le donne votano.
Se la questione morale sollevata dai manifestanti è certamente complessa e meritevole di analisi, l’uso pretestuoso e strumentale che senza dubbio ne fa un candidato alle elezioni comunali è tanto evidente quanto più grave. Avallare in fatti attraverso il peso del proprio status un’idea morale piuttosto che un’altra è profondamente insidioso perché compromette quel distinguo inviolabile tra laicità dello Stato e fede che è l’unica possibilità di sopravvivenza di uno Stato Moderno.
In nome del rispetto della vita, papa Francesco ha accolto i manifestanti, ribadendo la necessità di “proteggere” l’embrione. Già l’uso di un termine diverso da quello prettamente giuridico, aspro e conflittuale nel rapporto con la donna, della “tutela giuridica” e del “diritto” rimanda ad un approccio se non diverso nel merito, magari più attento alle problematiche vissute da una donna che deve scegliere se far nascere un figlio o meno. In ogni caso che la Chiesa esprima la tutela della vita dal concepimento e con essa i fedeli non stupisce. Ma che ci fossero numerosi esponenti del Pdl, da Gasparri e Giovanardi, cattolici solo nella censura dei diritti, e un candidato sindaco che dai gatti passa agli embrioni per raccogliere voti, non stupisce lo stesso, ma risulta epidermicamente poco nobile.
Alemanno spiega la sua partecipazione alla marcia accostando la strage dell’aborto alla battaglia contro la pena di morte e l’eutanasia. Un minestrone concettuale che tradisce l’impreparazione politica, non solo sua ahimè, a trattare temi diversissimi che sovrapponibili proprio non sono.
Intanto perché l’aborto coinvolge il diritto integrale di un’altra persona, la donna, unica protagonista della scelta in condizione di massima libertà possibile e rea di nulla; in secondo luogo perché l’embrione non può essere assimilato, secondo scienza, ad una persona. Chi crede che lo sia, appunto lo crede, ma non può dimostrarne la fondatezza scientifica e, dunque, manifesta niente altro che l’adesione ad una fede. Figurarsi poi accostarlo alla pena di morte (da qui la scelta simbolica del Colosseo) dove viene pianificato un omicidio di Stato contro una persona rea di colpe misurate secondo una procedura di giudizio.
Ignazio Marino, il candidato PD che si contende nei sondaggi il primato dei voti con il sindaco uscente, si dice per la vita, ma doverosamente lontano da questioni che attengono alle scelte etiche private degli individui e richiama Alemanno a rispondere su che tipo di investimenti siano stati fatti per aiutare le donne a far nascere i propri figli e a non trasformare i consultori in abortifici, comunque fondamentali nel ridurre il dramma dell’interruzione di gravidanza effettuata in clandestinità.
Anche questa giustificazione “sociale” dell’aborto non è propriamente corretta verso una questione che dovrebbe recuperare anzi conquistare una sua dignità nel ragionamento sui diritti di scelta delle donne, ma questo del resto è un po’ lo spirito dell’impianto della stessa legge 194.
Alemanno, a onor del vero, era stato alla marcia “pro life” anche l’anno scorso, ma forse adesso a pochi giorni dal voto capitolino, il peso del consenso fa la sua parte e in tempo di comizi vale più un corteo d’effetto che la misura del proprio lavoro. L’invisibile embrione diventa così una facile bandiera per chi non saprebbe spiegare cosa sia stato fatto davvero per sostenere la maternità e la famiglia. Come se far nascere equivalesse a far vivere. Un tema decisamente troppo grande per le vecchie oche del Campidoglio.
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di Rosa Ana De Santis
Il papa argentino parla alle donne della Chiesa in un’udienza privata, riservata alle suore dell’Unione internazione delle superiori generali. Si rivolge alle coppie non sposate ribadendo che la Chiesa deve accogliere tutti. E’ così che i cambiamenti che attraversano la cronaca della Chiesa non possono non suscitare riflessioni su quello che accade, o non accade, nel mondo fuori dal Vaticano.
Alle 800 donne consacrate papa Francesco ha lanciato un appello “a essere madri e non zitelle!”. Già, proprio così. In una battuta secca ed essenziale, ben incarnata di comune sentire, ha voluto dire e ribadire alle donne della Chiesa che la castità non può diventare chiusura al mondo e alla vita, ma deve piuttosto essere fecondità spirituale verso gli altri: non i propri figli come accade per le madri biologiche, ma tutti i figli.
Papa Bergoglio, dai contenuti al linguaggio, morde così ai fianchi la tradizione consolidata e dispensa già pillole di quello che sembra assumere i contorni di un vero e proprio Concilio Vaticano III, per ora vissuto nelle piazze, nei discorsi ai fedeli e non, o non ancora, nelle segrete stanze.
Parla di tenerezza, liberà e affettività: moti dell’animo, termini e diritti che erroneamente sono stati banditi nel modo di intendere la castità sessuofobica da tanta storia, nemmeno troppo remota, della Chiesa soprattutto per le donne che lì, come altrove, hanno sempre pagato una quota doppia di censura e di discriminazione rispetto ai maschi consacrati.
E se questo appello annuncia l’inizio di una possibile rivoluzione interna alla Chiesa più attenta al ruolo delle donne e finalmente sdoganata dal retaggio medievale della censura del corpo, parallelamente, con perfetto spirito sociologico, il papa ha ribadito l’urgenza e la necessità di adattarsi ai tempi accogliendo nella comunità cattolica le coppie non sposate, ancora adesso non previste nella forma.
Escluderle, questo il parallelismo di Bergoglio, significa tornare ai tempi andati quando non si poteva andare nelle case degli atei o dei socialisti. Basta pensare alla storia italiana per cogliere quanto certi veti abbiano condizionato la vita del paese con strascichi non del tutto estinti.Numerosissimi i genitori che non sono uniti in matrimonio e fanno battezzare i propri figli e di fatto fanno crescere la propria famiglia nello spirito della Chiesa. Tagliarli fuori significa non osservare la società che cambia e non prestare il giusto servizio alla comunità dei fedeli. Accoglienza, abbraccio, umiltà sono i valori in nome dei quali papa Francesco si scaglia contro i consacrati carrieristi e arrampicatori. Gli esclusi dalla Chiesa sono più loro che i conviventi o le famiglie di fatto. Questa la deduzione che qualche mal di pancia ai prelati dello stato non potrà non procurare.
La nomina di papa Francesco ha dimostrato di saper accettare sul serio la sfida del rinnovamento molto più di quanto mostrato finora dalle nostre Istituzioni. Eppure l’impronta del conservatorismo e del dogmatismo è più giustificabile tenga strette le briglie di uno stato confessionale come il Vaticano.
Così anche qui, dove lo Stato arranca a riconoscere i dico o i pacs, la Chiesa supera i dogmi del catechismo e si lancia in una ricognizione lucida della società e delle sue trasformazioni. Un vuoto che nella Chiesa poteva essere parzialmente riscattato dalle norme della dogmatica e che nello Stato costituisce solo una nuda e cruda inadempienza senza giustificazione alcuna.
Forse il discorso alle donne e il riconoscimento delle nuove famiglie di fatto non rappresentano ragionamenti disgiunti, ma il segno di un nuovo pensiero teologico che al centro ha scelto di mettere i problemi reali e i bisogni. Ricostruendo la fede dal basso e adottando la trasparenza di un linguaggio audace e semplice.
Come audace la scelta di volere santo uno come Romero. La speranza è che un nuovo modello di fede cosi coraggioso da azzerare il volto peggiore della Chiesa sia un modello di metodo utile e condizionante, per una volta verso la modernità, anche dall’altra parte del Tevere.
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di Rosa Ana De Santis
I dati vengono dal Consiglio d’Europa: l’Italia ha le carceri con un problema drammatico di sovraffollamento e si colloca al terzo posto dopo la Serbia, la Grecia e l’Ungheria. La triste media nazionale vede 147 detenuti dietro le sbarre contro i 100 previsti, con l’aggravante di condizioni spesso disumane di vita carceraria. I numeri dell’Europa rimbalzano dietro l’ennesima notizia della cronaca che nei giorni scorsi ha visto morire a San Vittore un uomo di 78 anni cui mancavano sei mesi per scontare tutta la pena.
Nonostante le segnalazioni del medico sulle sue gravi condizioni di salute l’uomo è rimasto in cella dopo un infarto, un diabete e un’insufficienza renale che lo aveva quasi paralizzato. L’avvocato ha scoperto per caso della sua morte e con lui i familiari dell’uomo.
Il tema delle carceri e della loro umanità è stato spesso strumentalmente portato in primo piano da poche forze politiche e con fortissima prudenza, visto che i diritti dei detenuti non portano voti e non colpiscono certo la sensibilità dell’opinione pubblica. Le istituzioni dovrebbero farsene carico come emergenza democratica, dato che in Italia la pena non può essere mai disgiunta dal recupero del detenuto.
La popolazione carceraria è costituita per lo più da stranieri con a carico reati minori, non certo da ergastolani mafiosi, e proprio per questa ragione è ancor più grave che nessuno sia riuscito a metter mano a questa emergenza che non va risolta con la costruzione di nuove carceri, ma con una depenalizzazione di alcuni reati per rendere intanto le condizioni dietro le sbarre umane e compatibili con una reale possibilità di recupero. Come previsto dalla nostra Costituzione e non dalla solita sinistra garantista.
Stupefacenti e furti sono in cima alla lista della detenzione e basta riflettere sull’assurdità della legge Fini - Giovanardi, per venire a uno degli esempi più eclatanti, che prevede la detenzione per il possesso di droghe leggere, per capire sia perché le carceri siano piene, sia quanto nessuno si preoccupi seriamente del recupero di un ragazzo consumatore di cannabis, nel momento in cui l’unica premura è portarlo dietro le sbarre. Del resto gli alcolizzati o i ludopati, nuova patologia di gran moda, non vengono messi in carcere per essere recuperati dalla dipendenza che li affligge, anche quando – specie nel primo caso - questa potrebbe essere nociva verso la collettività.Sulla questione delle carceri e dei detenuti l’Italia non mostra grande abilità, né dentro casa né fuori. Anche se in questa seconda circostanza il problema ha a che vedere con i rapporti internazionali e il dialogo tra sistemi giudiziari diversi,anche qui i numeri sono sconcertanti: sono 3.103 detenuti italiani all’estero di cui ben 2.400 in attesa di giudizio. Persone letteralmente dimenticate in cambio di qualche caso eclatante, ben cavalcato per emozioni a buon mercato da portare in urna elettorale, come quello recente dei marò.
Se sul versante internazionale il problema è meritevole di un’analisi ad hoc, dentro i confini la questione delle carceri dovrebbe innanzitutto prevedere, tanto per iniziare a parlarne con serietà, come ricorda Giovanni D’Agata, fondatore dello sportello dei diritti, l’istituzione di un Garante dei detenuti con sedi in tutte le regioni in cui sono presenti strutture detentive. Fondare quest’istituzione significa innanzitutto dare visibilità e dignità istituzionale ad una quota della popolazione che per quanto rea rimane parte integrante del Paese con diritti inalienabili di cui, volente o nolente come la legge richiede, non ci si può non occupare.
Non c’è dubbio che il tema delle carceri in Italia paghi anche il prezzo di una scarsa evoluzione culturale, anche della società civile. Si confonde il senso sacrosanto di giustizia e il rigore della pena con la vessazione indiscriminata, tipica del giustizialismo da popolino che vuole vendetta, che non distingue tra uno straniero clandestino e uno spacciatore.
Proprio per arginare questo atteggiamento pericoloso e inefficace le Istituzioni avrebbero una responsabilità in più: portate i valori di una civiltà democratica ovunque e soprattutto in quegli spazi oscuri della società e impegnarsi piuttosto per pene severe e rigorose, spesso scontate all’inverosimile per sgombrare le carceri con indulti e buon mercato. Il tutto per far posto a qualche povero cristo, magari straniero e schiavo di qualcun altro, che, ben nascosto alla conoscenza e alla memoria di tutti ci farà sentire giusti solo per aver messo due ceppi in più.
Non importa come e a chi e per arrivare a cosa. Come se la giustizia non fosse quel valore e quel principio morale altissimo che è. Come se un colpevole smettesse di essere un uomo. Come se essere giusti, è proprio il caso di dirlo, fosse un’impresa semplice e alla portata di tutti e non solo dei migliori.
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di Rosa Ana De Santis
Una cittadina austriaca a Vicenza viene stuprata da due ragazzi e il primo maggio i Carabinieri fermano subito i responsabili: sono due stranieri del Ghana. Un successo della giustizia cui fa ombra, subito dopo, l’invito del governatore del Veneto, Luca Zaia, al neo ministro dell’integrazione, Cecilie Kyenge a far visita alla vittima. Un invito peloso e polemico, che suona come un dovere, a tratti come un risarcimento. Più che un intervento delle Istituzioni sembra essere un atto di scuse dovuto, per la colpa, forse, di condividere con i due stupratori il colore della pelle. Nera.
Non si fa attendere la grossolana volgarità di Borghezio che non manca quest’occasione per speculare sull’orrore della violenza e tirare fuori il sillogismo tra immigrazione, clandestinità e delinquenza. Come a voler sottointendere, rispetto alla tragedia di questa giovane donna, che tutti gli stranieri che arrivano nel nostro Paese in illegalità rischiano di essere potenziali stupratori.
Ancor più grottesca la rivendicazione dell’”italianità” quando ricorda il rispetto della donna come pilastro della civiltà del nostro Paese, dimenticando che i numeri terrificanti del femminicidio ( 2.061 donne uccise tra il 2000 e il 2011, solo per citarne uno) raccontano che le donne non sono vittime di clandestini di colore, ma di padri, mariti o fidanzati italianissimi. Come italiano è l’ex che ha mandato per manovalanza un sicario (questo si albanese) a sfigurare di acido l’avvocatessa, giovane e bella, che aveva osato lasciarlo.
Il Pd, attraverso la deputata Miotto, ha risposto duramente alle parole di Zaia, accusandolo di alimentare razzismo e xenofobia. Del resto la Lega, che vanta una cattedra sulla materia, aveva già accolto la nomina di Kyenge con insulti e commenti via web che avevano reso necessario l’intervento della Presidente della Camera, Laura Boldrini, per ricordare ai tifosi del Carroccio che la liberta d’espressione non è il salvacondotto per esprimere la discriminazione razziale. Anche di questo increscioso episodio era stato lui, Borghezio, l’autore degli insulti più volgari: da “negra” a “zulu”.Il Ministro Kyenge esprime semmai, anche simbolicamente, l’idea di un paese e di un’Italia nuova proiettata nel futuro, almeno questa la speranza e l’attesa.
La stessa, questo dovrebbe augurarsi Zaia con i suoi compari di partito, che la legge tuteli con rigore e attraverso pene esemplari tutte le donne vittime di violenza dai loro carnefici. Che si tratti di due clandestini, bianchi o di colore, di una statunitense come Amanda Knox, o del ricco figlio della nota famiglia Junker.
Se le istituzioni, come è giusto, dovranno esserci per questa povera ragazza, sarà nell’assicurarle assistenza, supporto e la giusta pena per i suoi carnefici invece che tagliando fondi ai centri anti violenza. La legge, come la giustizia, non conosce colori, (forse ad eccezione del verde marcio che ha l’onore di sostiene di legiferare ma lavora per le ragioni dell’odio, del pregiudizio e di una padanità). Furbetti e xenofobi travestiti da politici, che dell’Italia e della sua civiltà dicono di non volere quasi nulla, a parte le casse, le auto blu e le poltrone di Roma. Con cui magari comprare lauree e yacht.
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di Rosa Ana De Santis
Bruno Vespa ha annunciato che nel salotto di Porta a Porta, nel giorno della festa del lavoro, i protagonisti saranno loro: i cittadini che vivono il disagio e le famiglie sofferenti. In collegamento esterno per la prima volta ci saranno i politici e se accade questo nel manifesto della tv nazionale è il segno che qualcosa di profondo è cambiato.
A dirlo con toni senza melodramma, ma solo con dramma, è l’ISTAT. In un anno si sono persi quasi 250 mila posti di lavoro e la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 38,4% e in generale registra un aumento rispetto all’anno precedente. Il neo governo ha annunciato che la direzione di marcia sarà la crescita e il lavoro, anche se i titoli delle prime pagine sembrano assestarsi sulla controversia IMU: se toglierla per tutti, come vorrebbe Berlusconi, o solo per i più sfortunati, come chiede il PD.
L’agenda delle urgenze, come ricorderà la piazza con i sindacati, dovrebbe essere quella del rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga, dell’ assunzioni di giovani e degli incentivi alle aziende per le assunzioni e le trasformazioni in contratti di lavoro stabili.
Nonostante l’inflazione sia stabile e si registri uno stop alla crescita tendenziale dei prezzi dei beni di consumo, il potere d’acquisto delle famiglie è miseramente crollato e la ragione risiede nel lavoro. L’allarme sui numeri dell’ISTAT è lanciato da Federconsumatori: a cambiare con le tasche degli italiani sono state le abitudini di vita, addirittura quelle alimentari e quelle mediche. Un corto circuito per l’economia come mai nella storia economica del paese. Il governo, a questo proposito, avrà l’obbligo di evitare la stangata trasversale dell’IVA che a luglio potrebbe dar luogo ad un ulteriore e dannoso stop ai consumi già ridotti all’osso.
Tra l’occupazione che cala quella “rosa” mantiene sempre un suo record, dovuto forse al fatto che la permanenza delle over 50 non basta più ad arginare il gap occupazionale tra i sessi.Se Monti ha dovuto fronteggiare la crisi sul versante finanziario, cosi recita la vulgata più scontata del giornalismo televisivo, adesso a Letta e al governo delle larghe intese spetterebbe di risolvere quella economica. Come si possa ragionare di economia mettendo da parte la visione politica e quindi concertando opzioni eterogenee sulla società e sul modello di sviluppo è un mistero difficile da decifrare.
Come possa quindi questo Parlamento - azzerato nella sua dialettica fisiologica di opposizione e maggioranza - produrre qualcosa è a metà tra un sogno e una bugia per prendere tempo e superare la stagione balneare come prometteva non sarebbe stato il neo Ministro degli Interni, Alfano.
Se non è saggio accendere le piazze non lo è nemmeno speculare sulla sparatoria a danno dei due carabinieri. Vicenda drammatica e ambigua: certo è che un uomo sano di mente ed esasperato dalla crisi, con in mente il piano di uccidere un politico, non si capisce perché abbia deciso di fare fuoco su due uomini riconoscibilissimi in uniforme che certamente politici non sono. Una logica perversa come quella che ha portato a paralizzare il Parlamento per l’incapacità di spartirsi i poteri e di scegliere un uomo nuovo al Quirinale. Paralisi che adesso con una spartizione semplicemente sfacciata e rivendicata sembra diventata una benedizione e un atto di responsabilità.
Il non senso di questo triste fatto di cronaca che la giustizia forse chiarirà o forse no, come la storia d’Italia insegna, è la più degna fotografia di questo falso Avvento della politica in cui a cambiare davvero è la vita alle porte del Palazzo. Le piazze esasperate, i grillini, i colpi di pistola e la moltiplicazione certificata della nostra povertà.