di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto a Costa Volpino: i genitori hanno ritirato i propri figli dalla prima elementare perché in minoranza rispetto ai bambini stranieri: 14 contro 7. Hanno deciso di portarli in altre scuole pretendendone l’inserimento ad ogni costo, disponibili addirittura a recarsi in altri Comuni. La scuola attraverso il suo Dirigente, Umberto Volpi, non rilascia commenti ufficiali. Trapela solo amarezza e delusione per il comportamento di genitori italiani che rifiutano la convivenza dei loro figli con bambini africani o dell’est Europa.

Proprio perchè l’integrazione comincia dai banchi di scuola, il peso di questo fallimento e di questo rifiuto pregiudiziale è pesantissimo e poco confortante sul futuro. Sono queste le stesse famiglie che plaudirono alla proposta Gelmini delle famose classi ponte, un nome edulcorato per non chiamarle ghetti.

La convivenza con persone di diversi paesi e culture, è la cronaca a testimoniarlo, è certamente complessa e non sempre pacifica, ma è proprio l’educazione dall’infanzia uno degli strumenti privilegiati per arrivare ad una società in cui il multiculturalismo non sia più un accidente estraneo al dna di un paese, ma il suo profilo genetico consolidato. Una china peraltro inarrestabile, che piaccia o no questi genitori.

Esempi brillanti e di grande riuscita vengono ad esempio da scuole in cui sono presenti e radicate comunità straniere. E’ di pochi giorni fa la notizia di una scuola di Prato, lì dove la concorrenza della manodopera cinese ha anche procurato danni economici, nata per istruire i bambini italiani al bilinguismo italo-cinese. Non solo lingua, ma anche conoscenza di tradizioni, abitudini,filosofia di vita.

Una didattica ben congegnata e un’adeguata preparazione dei docenti consentirebbe proprio alle scuole in cui sono presenti studenti di diverse origini di avere una marcia in più. Agli stranieri per entrare nello spirito di questo Paese e conoscerne storia e diritti.

Del resto come si fa a rispettarli se non li conosce? Non è proprio questo ciò che viene contestato dai più conservatori a chi propone la cittadinanza secondo ius soli?

Per i figli italiani sarebbe un’opportunità in più di conoscere: storia che di solito non si studia, lingua che di solito non si conosce, religione che non sia solo quella del proprio catechismo.

Le mamme e papà di questa scuola bergamasca hanno perso l’occasione di insegnare ai propri bambini il valore della conoscenza. Che è quella che ti insegna chi sei a partire dalle differenze e non negandole alla tua istruzione. Nel primo caso si può diventare molto saggi, nel secondo caso si corre il rischio già a 18 anni di votare Lega Nord.

di Rosa Ana De Santis

Sono state depositate le motivazioni della sentenza il 3 settembre. Si sarebbe trattato di sindrome di inanizione (mancanza di cibo e acqua) e i colpevoli della sua morte sarebbero tutti dentro il padiglione dell’Ospedale Pertini dove Cucchi è morto una settimana dopo esser stato arrestato il 15 settembre 2009 per la detenzione di hashish, cocaina e antiepilettici.

Le lesioni, i traumi, le fratture visibili nelle fotografie dell’orrore scattate sul corpo senza vita e gli ematomi sul volto il giorno del processo, i segni di un violento pestaggio, scompaiono nelle 170 pagine scritte dai periti. Che in una improbabile rivisitazione della malnutrizione devono aver incluso tutto quanto era possibile vedere sul corpo martoriato di Stefano.

Inizialmente erano state portate sul banco degli imputati dodici persone in una sorta di concorso di colpa per la pietosa fine di Cucchi tra violenze fisiche e abbandono terapeutico: sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie. La condanna di omicidio colposo, peraltro arrivata a due anni, è piombata invece alla fine dei quattro anni di processo solo sui medici con assoluzione totale dei poliziotti che hanno malmenato un detenuto che era arrivato in cella senza lividi e con la colonna vertebrale integra.

La sentenza lasciava ovviamente intuire che la morte di Stefano fosse stata addebitata alla sola incuria sanitaria, certamente presente nei riguardi di un ragazzo ridotto a scheletro sotto un lenzuolo cui è stato negato di contattare familiari e l’assistente di comunità che lo seguiva e gli era di supporto.

Ma nessuna sembra interrogarsi sul perché un ragazzo processato per direttissima debba finire ricoverato. E’ forse la droga, come riferiva il pessimo Giovanardi ai tempi, a procurare ematomi e a danneggiare la colonna vertebrale? Ammesso che non si potesse stabilire il tempo delle fratture perché mai un ragazzo entra sulle sue gambe a Piazzale Clodio ed esce su una barella incapace di stare in piedi? E’ un effetto della droga?

I medici sono stati certamente “negligenti e sciatti”, ma la sparizione dell’altra parte della storia sulle violenze subite da Stefano lascia i familiari del ragazzo interdetti. Non un’anomalia, va precisato, in casi analoghi che hanno già visti coinvolti gli uomini dello Stato, proprio coloro i quali dovrebbero difendere i cittadini dai soprusi e dalla violenza. Una sentenza che sembra cucita su misura per garantire un ulteriore innalzamento dell'asticella dell'impunità per chi, con una divisa indosso, si sente padrone della vita di chi é affidato alla sua custodia e controllo.

Ilaria Cucchi, la sorella, che del caso personale ha voluto fare una bandiera di giustizia e di impegno politico commenta la sentenza sperando sia impugnata dalla Procura di Roma o da quella generale e parla di”indagini inadeguate”e di contraddizioni.

Stefano descritto troppo magro nella documentazione già prima dell’arresto praticava invece pugilato nei “pesi mosca” e non era certamente né un anoressico né debilitato. Il dubbio - che rimane legittimo e insoluto nelle pagine delle motivazioni - che altre persone avessero malmenato il ragazzo in stato di fermo: carabinieri o poliziotti?

La prescrizione seppellirà tutto insieme a Stefano. L’epitaffio che sembra pacificare le coscienze di è che fosse soltanto un ex tossicodipendente. Questo deve aver convinto tutti che ridurlo in quel modo non avrebbe suscitato chissà che scalpore.

Un tossico figlio di una famiglia “normale” non da scandalo. Nemmeno quando un padre e una madre decidono con chissà che dolore di postare su web le foto di un figlio con le ossa rotte.



di Rosa Ana De Santis

La sanità del Lazio, saccheggiata e di fatto “commissariata” da un buco nero ereditato di dieci miliardi di euro, torna in cronaca per una decisione istituzionale importante su vari fronti. Con decreto varato dalla Regione sarà consentita la Nutrizione Artificiale Domiciliare (Nad), parentale (Npd) ed enterale (Ned) a pazienti che, per gravi situazioni di ordine medico o chirurgico, non possono avvalersi o non in modo soddisfacente della nutrizione naturale.

Saranno 1.400 le famiglie a beneficiare di questa novità che porterà una migliore qualità della vita per moltissime persone e che consentirà agli ospedali di non essere sovraccaricati di liste di attesa ormai ingestibili.

Centri di assistenza domiciliare con equipe di medici e infermieri gestiranno questo servizio sanitario sul territorio e ogni Asl, come previsto nel provvedimento, dovrà avere un’unità Nad. Il problema di queste persone gravemente malate era fermo sul tavolo della Regione da moltissimo tempo e le famiglie, con enormi difficoltà, erano rimaste sole a fronteggiare problemi di salute che tra propri mezzi e risorse e ospedali venivano gestiti a singhiozzi e con enorme solitudine, spesso procurando peggioramenti significativi delle condizioni di vita di questi pazienti e carichi economici non per tutti sostenibili.

La decisione quindi della Regione Lazio acquista in questa materia specifica e in generale sul tema sanità una serie di importanti connotazioni. Sul piano strettamente economico è una decisione che punta e investe alla delocalizzazione sul territorio e sulle unità specialistiche piuttosto che sulla concentrazione massiccia e indiscriminata sull’ospedale.

E’ un provvedimento che porta risparmio e traccia un percorso da seguire anche per altro genere di servizi sanitari, basti pensare al tema ancora in sospeso della prevenzione e delle breast unit su modello Emilia-Romagna che tanto ha da insegnare alle Regioni Italiane.

Si tratta infine, ma non da ultimo, di un segnale che in termini morali significa moltissimo per famiglie e malati che per anni sono stati di fatto lasciati soli. Questo ha voluto ribadire il Presidente Zingaretti che in campagna elettorale del tema sanità ha fatto una bandiera di programma, quando ha parlato di “mettere al centro i pazienti”.

Il segnale quindi è importante: risparmio e miglioramento della qualità dei servizi possono andare avanti insieme con una gestione diversa e rinnovata della sanità. Il Lazio paga il prezzo di un saccheggio dettato da sprechi e scarsi controlli, da un sistema non al passo con i necessari cambiamenti.

Sarà il medico di base il primo anello di questo percorso che porterà a casa di tanti cittadini un servizio importante e fondamentale per la cura e la vita. Riqualificazione quindi e capillarità sono le parole chiavi di questa decisione politica che traccia una nuova filosofia di gestione.

Una bella pagina di sanità regionale quindi e una speranza. Quella di chi “Immagina” come recitava il claim della campagna elettorale di Zingaretti, tutto quello che potrà esser fatto ancora per restituire alle eccellenze della sanità del Lazio, che ci sono, degna visibilità e valorizzazione. Non tanto sui giornali, ma davanti ai cittadini che in una Regione diversa, riscattata dalla lunga era degli scandali e del malgoverno, hanno scelto con fermezza di crederci portando Zingaretti a vincere con un trionfo di voti, rispetto al vecchio stile Storace-Polverini.

di Rosa Ana De Santis

Per molti, moltissimi è una ludica vetrina del sé. Foto e post delle ultime vacanze o del prossimo compleanno in casa. Per molti altri è uno strumento vero e proprio di dialogo, di espressione dei propri pensieri: partiti politici, commenti alla società, idee religiose. Sono tanti a non pretendere amicizia virtuale pur di esibire la propria vita e documentarla con estrema cura. In quel caso il profilo è aperto a tutti: curiosi e investigatori del web compresi.

Molti preferiscono un tocco di riservatezza in più, limitandosi alla cerchia delle conoscenze. Ma è la rete di corrispondenze, di gusti, di gruppi cui ci si iscrive a tracciare una vera e propria mappa che conduce ad ognuno, con un grado di approfondimento che spesso supera la consapevolezza del proprietario del profilo. Quest’ultimo e il sé non coincidono spesso in modo perfetto e armonioso ed è il profilo a prendere il sopravvento.

Non è sempre l’occasione di marketing a sfruttare il capitale della piattaforma. Di recente il caso è scoppiato per le informative chieste dai servizi di intelligence di diversi paesi: ben 25.000, la maggior parte delle quali provenienti dagli USA. Seguono India, Regno Unito, Germania e Italia per un complessivo di 38.000 persone che sono passate sotto screening.

Colin Stretch, vice presidente del General Cousel di Facebook, rassicura sull’impegno a non vendere questi dati e a respingere le richieste. Non è difficile intuire il braccio di ferro sbilanciato e truccato, quando dall’altra parte si siede uno Stato con presunti motivi di sicurezza nazionale da mettere sul tavolo. Esiste un vuoto giuridico a riguardo e un’interpretazione lasciata tutto sommato all’occasione di turno.

Certo è che chi si iscrive a una piattaforma stile Facebook ha deciso in autonomia di violare già un po’ della propria riservatezza e privacy, pur esistendo una scala di livelli attraverso cui condividere parte della propria vita professionale e personale.

E’ stato il recente scandalo Snowden ad alzare il polverone sul caso Facebook e a ricordare come i social network rappresentino strumenti boomerang, ad alto tasso di invasività in termini di tutela e riservatezza. Chi li utilizza deve prenderne piena coscienza e spesso anche chi non li utilizza può finire, suo malgrado, nella ragnatela delle informazioni a catena e combinate tra i vari profili e risultare in qualche misura rintracciabile.

Il rapporto in questione non dice in ogni caso nulla di realmente nuovo. A livelli anche meno impegnativi dei motivi di intelligence Facebook è utilizzato da molti per carpire informazioni delicate e sensibili. Magari prima di un colloquio di lavoro o di una qualsiasi selezione.

Anche chi pubblica la cronaca delle ultime vacanze o il commento sul fatto del giorno dovrà ricordare che non solo sta dicendo molto di sé, ma soprattutto che lo sta dicendo a moltissimi se non a tutti accendendo una luce anche sulla trama delle proprie relazioni personali.

E in questa esibizione del sé, per molti trasformatasi in una vera vita parallela in cui la cronaca online del proprio vissuto diventa essenziale, che a volte si rivela pericolosissima – come tante tristi notizie confermano - per i giovanissimi con risvolti psicologici pesantissimi. Qui, oltre che nella violazione di ogni privacy, sta la più grande insidia del social network in voga.

I profili crescono sotto le mani di chi dovrebbe governarli e regalano con facilità e senza disturbo informazioni preziose. Anche quando non è la sicurezza nazionale ad interessarsene, c’è qualcuno pronto a carpire qualcosa. Ai più ingenui per una foto estiva sbagliata, ai meglio attrezzati per quel commento di troppo sulla cronaca. Quello che prima si bisbigliava davanti ad un caffè, adesso è un gruppo e basta dire “Mi Piace”.

di Rosa Ana De Santis

E’ nata la banca delle mutazioni genetiche umane. Al momento vi sono 3.396 geni classificati nelle loro mutazioni e il numero è destinato a crescere. A coordinare il progetto è Sebastian Nijman, del Centro di Medicina Molecolare dell’Accademia Austriaca delle Scienze. Di questa novità si è occupata la rivista scientifica Nature Methods e non vi è dubbio che il valore autentico risiede nello studio di tutte le mutazioni e della correlazione con le patologie possibili.

Sembra un romanzo di fantascienza, ma è questo il traguardo che oltre dieci anni fa si è spalancato agli scienziati con il sequenziamento del genoma umano.  I circa 20.000 geni sequenziati sono ancora ignoti nel loro meccanismo di funzionamento ed è in questa incognita che risiede il limbo non del tutto chiarito tra alterazioni e polimorfismi, tra mutazioni  e predisposizioni alla malattia o patologie conclamate.

Il clamore anche ingenuo che aveva portato a pensare che bastasse dare un nome ai geni per avere in pugno il dna è ormai superato dalla consapevolezza che le migliaia di osservazioni sul funzionamento della comunicazione cellulare saranno fondamentali per dare un vero senso di utilità alla genetica rispetto alla salute delle persone e alla prevenzione. La banca in questione va in questa direzione specialmente per quanto riguarda lo studio delle mutazioni e delle malattie che ne conseguono: cellule identiche con geni mutati all’interno rappresentano il tesoro custodito.

La frustrazione più grande che vive la medicina oggi, sul confine della cosiddetta medicina predittiva, è di aver individuato la correlazione, con stime percentuali, tra mutazioni e malattie o rischi di malattie, senza aver però colto il modo in cui inibire questa relazione con terapie geniche, a volte impedite dalla legge, o farmacologiche, spesso mai tentate per mancanza di fondi adeguati alla ricerca.

Il limite è quindi di natura conoscitiva, ma non solo e non sempre. Se è velleitario pensare di poter arrivare ad una mappa completa di queste mutazioni, è anche lecito supporre che potrebbe diventare scomodo su più fronti, non tutti di ordine morale, pensare di poter arrestare malattie e impedirne preventivamente la comparsa.

Fatto è che la genetica, ormai riconosciuta come regina della medicina, è ancora vittima tanto di pregiudizi e timori di ordine morale, quanto di semplificazioni come quelle di chi pensa che la natura umana e le sue deviazioni patologiche abbiano nei geni la loro unica risposta e ragione.

In termini filosofici potremmo dire che l’uomo è anche i suoi geni, ma che in essi non risolve pienamente se stesso. Esistono tutta una serie di cause e azioni cosiddette epigenetiche che intervenendo sul corredo di partenza possono scatenare malattie o caratteristiche di adattamento e magari anche, questa la frontiera della scienza, correttivi.

Dare un nome a tutte le mutazioni o prefiggersi di farlo è in ogni caso un salto di evoluzione per la conoscenza e la scienza. Per aiutare le persone a difendersi, sempre che alla ricerca sia consentito di andare avanti e che  uomini e donne non siano abbandonati  ad un referto genetico che non prevede una cura. Tutto questo può aiutare la civiltà umana a comprendere, prove di laboratorio alla mano, che non esistono nature rette e nature deviate, come il termine mutazione indurrebbe a credere scatenando, come spesso è accaduto, trattamenti discriminatori per i portatori.

Ma esistono nature diverse, con assoluti e multiformi scambi di comunicazione e comportamento, molti dei quali ancora ignoti, che spiegano soltanto la profonda differenza tra le persone. Ognuna della quali prima o poi saprà di avere in quella banca la sigla del suo tallone di Achille.

Non un destino ineluttabile scritto nelle stelle, ma un’identità infinitamente piccola per cui speriamo, e la scienza deve aiutarci a farlo, di trovare rimedi e cure secondo un preciso riferimento morale che ci obblighi a trattare queste mutazioni come differenze inclusive e non come penalizzazioni discriminante. Perché “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”, avrebbe scritto anche oggi Kant allo scienziato del DNA.




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