di Silvia Mari

L’inchiesta di Repubblica sulla chirurgia estetica restituisce un quadro di numeri e di storie che sembra lontano chilometri dalle pagine della crisi e da quelle della mattanza di mogli e fidanzate. Capitoli diversi eppure le protagoniste sono sempre loro: le donne e le mamme delle famiglie italiane. Quelle che devono far quadrare i conti della spesa, che lavorano sempre più degli uomini e sono sempre meno pagate, quelle che devono difendersi da molestatori allevati in casa in un rapporto che sembrava d’amore.

Tra di loro molte, troppe, sono sempre più ossessionate dal corpo perfetto e disposte a spendere per la chirurgia plastica ed estetica, spesso costrette a farlo in economia per far quadrare i bilanci, ricorrendo a pacchetti low cost per risparmiare senza rinunciare.

Liposcultura, botox contro il tempo, labbra e seni bombastici, glutei pompati e zigomi come le attrici del cinema. Le under 25 ricorrono alla chirurgia per avere maggiori opportunità di lavoro, le quarantenni per rilanciarsi dopo un amore finito e qualche delusione di troppo, le over 50 per vincere le rughe. Quasi 9 milioni le donne che in tutto il mondo si sono operate per bellezza e l’Italia è al terzo posto con 820 mila interventi. La spirale, confermata dagli analisti, è che ogni correzione estetica contribuisca a far uscire difetti o presunti tali che prima la donna non notava alimentando un vortice di ritocchi e ritocchini.

Gli psicologi si interrogano su un fenomeno che è ormai trasversale a fasce di età e anche a classi sociali diverse. Si scomoda l’autostima, i canoni estetici imposti dai media e la solita filippica del disagio interiore. Forse però la questione va restituita pienamente a una dinamica di genere, a un problema culturale delle donne con se stesse e con la propria identità affettiva e sociale. Per dirla in una battuta, con un processo di emancipazione mai compiuto e realizzato in profondità di cui prima o poi, queste stesse donne, dovranno essere consapevoli.

Se esiste un problema rispetto a questo ricorso facile e anche popolare alla chirurgia della bellezza non è tanto, come recita la vulgata moraleggiante di errato retaggio cattolico, quello secondo cui la bellezza esteriore non conta, la natura non va alterata perché ha un’armonia intrinseca e altre banalità di ragionamento smentite anche solo da un minimo senso di realtà. L’estetica, la correzione dei difetti, il miglioramento della propria immagine è senza dubbio una benedizione che dai trattamenti cosmetici alla sala operatoria può esser considerata un aiuto importante per vivere meglio.

Il vero elemento preoccupante è che questo processo, in moltissime donne, spesso di media istruzione e di posizione sociale buona, sia mediato esclusivamente dal gradimento maschile con una serie di conseguenze interiori devastanti soprattutto quando il risultato non è da copertina. L’amore finito, l’amore da conquistare, il tasso di eccitazione da scatenare in un prossimo flirt o relazione sembra essere la molla scatenata per andare dal chirurgo e magari per chiedere una quarta di seno invece che una terza.

Eppure la sessualità di una donna si nutre di elementi che sono ben lontani dalle misure bombastiche che piacciono agli uomini o a molti di essi.

C’è di mezzo, questa la vera emergenza, non il ricorso a una bellezza artificiale, ma ad una bellezza femminile vista esclusivamente con gli occhi dei maschi e dei maschi a testosterone attivo.

Quindi magrezza, quindi muscoli definiti, quindi forme esplosive nei punti giusti ma antigravitazionali, quindi bocche turgide e gonfie. Un modello che assomiglia molto alle bambole dei sexy shop e che omologa e annulla le differenze, anche quelle fisiche estetiche che dovrebbero invece essere preservate come patrimonio “genetico” dell’esser donne e belle.

Donne che sono irrimediabilmente diverse dal genere maschile: nei gusti, nel sentire, nel piacere, nel proporsi e nel modo di pensare il mondo e nello stesso atto del pensare. Che dovrebbero insegnare ai figli maschi un modo diverso di pensare la bellezza e di sentirla e che finiscono con assomigliare tutte a quello che i maschi si aspettano o desiderano a letto. La bellezza finisce nel sesso cosi come l’emancipazione in questo paese è diventata per le giovanissime solo esibizione di libertà sessuale.

La cronaca politica ne ha testimoniato tristi pagine per le nuove generazioni del paese. Le donne dovrebbero cominciare una parallela battaglia per affermare non solo i loro diritti, ma per difendere il loro modo di essere profondamente diverse dagli uomini. Iniziando per esempio a votare le donne. Per una legge e una politica finalmente non solo pensata dalla testa dei maschi. Gli stessi che le sognano tutte come Lara Kroft. Gli stessi che le operano.

di Rosa Ana De Santis

Il decreto legislativo che prevede l’equiparazione dei figli naturali a quelli nati in vincolo di matrimonio è in arrivo al Consiglio dei Ministri. Anche questa rivoluzione, normativa e culturale insieme, vede paladina il Ministro Kyenge che ci ha abituati a sfide di questa natura in un paese piuttosto innamorato del passato.

Ad oggi i figli nati fuori dal matrimonio oltre a non avere la stessa considerazione sociale degli altri,  per una sorte di cappa culturale di pregiudizio che ancore resiste, hanno meno tutele in caso di decesso dei genitori, ad esempio, o di gestione delle separazioni di fatto. L’esame del decreto coinvolgerà attivamente anche il Ministro della Giustizia e delle Politiche Sociali nel riconoscimento giuridico di una eguaglianza che ad oggi nessuno ha voluto davvero ratificare nero su bianco.

Ovvio che questo tipo di riconoscimento, inevitabilmente, aprirà la questione sulle coppie di fatto, che ad oggi, in Italia, non esistono secondo la legge aldilà di registri comunali auto-organizzati; allo stesso tempo dovrà comportare i cambiamenti necessari anche in materia di adozione, ad oggi prevista solo per le coppie legalmente coniugate da almeno tre anni. Se i figli sono e saranno tutti uguali, non si potrà certo fare discriminazioni di sorta per i figli adottivi considerandoli di serie B.

Mettere mano al diritto di famiglia è questione che rimbalza nelle cronache politiche, di legislatura in legislatura, ma è sempre mancato coraggio e coesione per farlo. E’ probabile che sia arrivato il momento in cui le divisioni accademiche, e tutte formali, tra conservatori e progressisti lascino il passo ad una diagnosi “sociologica” che racconta ormai di una famiglia già rivoluzionata di fatto.

Famiglie allargate, figli di immigrati, convivenze stabili, descrivono un modo di costruire la società profondamente diverso da quello di anche solo venti anni fa rispetto al quale lo Stato non può non intervenire a sanare il vuoto normativo con l’alibi di una Costituzione scritta ai tempi di un’Italia diversa. Se i valori non sono declinabili nel tempo storico, le organizzazioni umane assolutamente si, e ignorare questa differenza ha significato, finora, solo lasciare scoperte di diritti ampie quote della popolazione.

E’ proprio l’eguaglianza di fronte alla leggi quindi, prevista dalla Costituzione come principio assoluto, ad esser stata disattesa e beffata da una politica indolente e timorosa di alterare un diritto di famiglia di chiarissima ispirazione cristiano-cattolica.

Il decreto in questione avrà l’effetto del piccolo sassolino che incrina l’ingranaggio sia in termini di metodo che di merito. Chissà quanti se ne accorgeranno. Il metodo racconterà che la legge non può ignorare lo stato reale delle cose, e pensiamo anche al tema della cittadinanza dei figli degli immigrati, e il merito documenterà una famiglia finalmente emancipata da un connotato culturale di chiara ispirazione cattolica.

Sarebbe interessante capire perché la religione si debba predicare solo nelle Chiese e non in Parlamento, come tuonato da Cicchitto e i suoi contro Papa Francesco nella visita a Lampedusa, e debba invece essere legge nelle case e persino nelle stanze da letto di tutti gli italiani.



di Silvia Mari

Escozul è il nome di uno scorpione, tipico di Cuba, il cui veleno blu è utilizzato a scopo terapeutico, in particolar modo per le sue proprietà analgesiche, antinfiammatorie e, questa l’ultima frontiera della sperimentazione in atto, anche antitumorali. A stimolazione lo scorpione rilascia questa sostanza, non subisce alcuna tortura da cavia e non viene ucciso, per buona pace degli ambientalisti.

La letteratura ufficiale non riporta ancora evidenze cliniche ma empiriche, ma i viaggi della speranza dall’Europa, in modo massiccio dall’Italia, e da altri parti del mondo verso la piccola isola di Cuba alla ricerca di questo farmaco per casi di pazienti oncologici terminali come medicinale palliativo o per terapie alternative, quando la chemioterapia non funziona o non viene tollerata, continuano.

Esistono di questo principio attivo naturale due varietà, una delle quali - quella omeopatica - viene commercializzata da un’azienda italiana con sede a Tirana che produce il cosiddetto Vidatox, CH30 a partire dal 2011. Questa operazione di commercializzazione internazionale nasce proprio dalla difficoltà con cui si è imbattuto il governo cubano nel fronteggiare le numerosissime richieste provenienti dall’Italia. Tirana è vicina alle nostre coste e nel frattempo si spera di arrivare ad un accordo di distribuzione con l’AIFA.

Il farmaco puro, tratto dal veleno dello scorpione - nome scientifico Rhopalurus junceus, prodotto dal centro governativo Labiofam, nell’isola di Cuba è in sperimentazione anche nel trattamento dei tumori cosiddetti “solidi”, vale - a dire non leucemie o linfomi. La dottoressa Mariella Guevara, responsabile del protocollo in atto, ha spiegato in appuntamenti internazionali sia che la raccolta dati e casi è ancora all’inizio sull’efficacia antitumorale, sia - questo l’aspetto più importante - che non va considerata come una strada alternativa alle terapie tradizionali, quale la chemioterapia. Si tratta di una chiarificazione importante specie per quanti hanno tentato di alzare una condanna pregiudiziale contro la “scoperta” cubana spacciandola per una sorta di stregoneria in antitesi alla medicina tradizionale.

La reazione della medicina occidentale di fronte a questa come a tante altre strade alternative ai protocolli consolidati è di sospetto e più probabilmente di scarsa conoscenza. E’ soprattutto questo clima di diffidenza che i medici come la dottoressa Guevara vogliono superare, testimoniando numeri alla mano il lavoro che questo paese porta avanti ogni giorno nonostante cinquanta lunghissimi anni di embargo che impediscono ancora oggi che entri negli ospedali cubani anche solo un’aspirina.

Nella storia di Cuba, isola della salute, la medicina è forse la vera e unica religione del paese. Non soltanto nella garanzia di un diritto di cura accessibile per tutti, ma nell’assoluta considerazione e rigore e protezione con cui i medici sono trattati dal governo.

La formazione degli operatori sanitari e il rigore del loro operato è considerata un priorità assoluta da parte del governo del Paese. Nel centro Internacional de Salud La Pradera il protocollo in corso di sperimentazione per i pazienti oncologici prevede, tra i farmaci utilizzati, il famoso veleno naturale dello scorpione, custodito gelosamente dall’attenzione morbosa delle multinazionali occidentali.

Nel quadro di isolamento e di ostracismo internazionale che patisce l’isola ci si aspetterebbe di leggere di continue epidemie e tassi di mortalità simil Africa, se non peggio. Eppure cosi non è mai stato, anzi. Ad Haiti sono stati i medici cubani ad intervenire per arginare il disastro dell’epidemia. La competenza del personale sanitario è nota e vale la pena ricordare che i medici cubani vengono inviati a prestare opera nei Paesi afflitti da malattie e povertà. Questa eccellenza insieme alla garanzia della sanità per tutti è un miracolo autentico che l’Occidente tanto patisce quanto non capisce.

In virtù di questa tradizione così sentita e seria sono per prime le Istituzioni sanitarie e i medici di Cuba a non proporre l’escozul naturale come farmaco in grado di guarire il tumore; sia perché la sperimentazione è ancora in atto sia perché le proprietà del farmaco, che pure hanno avuto finora riscontri importanti in merito alla regressione delle neoplasie, hanno un largo spettro di applicazioni a fronte di una tossicità ridicola se non nulla se paragonata alle nostre terapie, dalla chemio alla radio che anzi se combinate all’uso di questo farmaco riescono ad essere meglio tollerate dai pazienti.

Sarebbe bene domandarsi perché non crei analogo scompiglio sapere che di un vaccino fondamentale come quello contro l’Hpv, nella versione tetravalente della Sanofi Pasteur o in quella bivalente Cervarix prodotta da GlaxosmithKline, ancora non sia dato stabilire quanto protegga e per quanto tempo una donna che lo faccia dopo aver già iniziato una vita sessuale, nonostante sia raccomandato fortemente dai ginecologi anche a questa categoria entro una certa soglia di età.

Eppure, al netto di questa incognita, le donne si vaccinano, pagando di tasca propria il costo della medicina,  (ancora poche a dire il vero e purtroppo) e continuano a sottoporsi allo screening ginecologico annuale. Stupisce che analogo atteggiamento prudenziale, ma non censorio non si possa adottare per un farmaco a zero effetti collaterali su cui, anche fuori dai confini cubani, non c’è business se paragonato al mercato dei farmaci occidentali che ora ha messo a pagamento, di tasca propria da parte degli ospedali, alcuni chemioterapici di nuovissima generazione trattati come farmaci da banco.

In Italia il dibattito sull’escozul è iniziato con maggior clamore dopo un servizio giornalistico delle Iene, andato in onda nel 2010 e nel 2012 è iniziata un’indagine conoscitiva sulla variante omeopatica Escozul da parte della Commissione sanità del Senato. Istituto Superiore di Sanità e Società di Farmacologia sono al lavoro per raccogliere dati scientifici, ma non esistono ancora pubblicazioni incontrovertibili in tal senso.

Non si tratta di una smentita, ma dei necessari numeri che la casistica medica richiede per avvalorare una scoperta che al momento ha solo delle evidenze empiriche ogni giorno maggiori. Sarebbe quindi auspicabile che l'Italia si aggiornasse sugli studi cubani sul medicinale, che negli ultimi anni hanno fatto passi avanti considerevoli.

Quel che manca da parte della medicina tradizionale e dell’Occidente è un atteggiamento di apertura a questa sfida terapeutica che non porta l’ombra di alcun danno per chi volesse avvalersene. Sono i pazienti e i loro familiari ad essersi armati per una battaglia senza frontiera per la libertà di cura, forse spesso anche con una dose ingenua di speranza sulla guarigione dal cancro.

Una speranza che non è poi tanto diversa da quella di chi si accanisce fino all’ultimo ciclo di chemioterapia su corpi debilitati e spenti da cure molto tossiche che serviranno, su casi avanzati e terminali, al massimo per qualche mese di sopravvivenza in più. Eppure nessuno rifiuta tentativi estremi, magari spesso anche sbagliando nel non dire con esattezza la prognosi di una malattia, specialmente in Italia.

I due mondi, forse questo la scuola di Cuba vuole suggerire al mondo dei big del farmaco, hanno bisogno di incontrarsi riconoscendo all’isola che sfida i giganti il miracolo, anche politico e sociale, di una scoperta che copiata da qualche colosso farmaceutico avrebbe già, fuori da quell’isola, il nome di un brevetto.

di Silvia Mari

Sono passati diversi giorni dalla confessione shock di Angelina Jolie. Il tam tam dei media italiani, affascinati e allarmati dalla novità del caso, lasciano il campo ad una riflessione forse meno incline al sensazionalismo e finalmente più concreta. L’immagine di una mutilazione preventiva in assenza di malattia conclamata ha generato allarmismo, panico e spesso ha impedito all’opinione pubblica di cogliere gli argomenti scientifici che sono e devono essere alla base di una scelta cosi radicale come quella di Angelina.

C’è stata una stampa attenta e scrupolosa che ha saputo presentare doverosamente il caso scientifico e i suoi presupposti e c’è stata la moda del sensazionalismo che ha tentato di associare la chirurgia preventiva a una sorta di reazione isterica alla paura di ammalarsi. Le emozioni entrano nel gioco molto meno di quanto non si creda.

Si tratta piuttosto di ragionamento rispetto a ciò che la scienza oggi può offrire alle persone che hanno in mano una diagnosi genetica di rischio oncologico altissimo e quasi certo. Un metodo di agire illuministico che rende la genetica sempre più regina della medicina e della diagnosi, come già lo è nei protocolli terapeutici. Angelina e le donne come lei non tolgono il seno per paura, ma per atto consapevole, per una scelta di autotutela che abbia le maggiori cianche di avere successo.

Passato il tempo della testimonianza, preziosa per accendere luce sul problema, oggi è il momento delle Istituzioni, dei centri specialistici, dei medici e dei pazienti. Oggi è il tempo in cui si deve trovare il modo di campionare le famiglie che come quelle della Jolie sono candidabili al test del dna, di istruirle sui centri giusti cui rivolgersi, offrire loro adeguato counseling e assistere le persone nelle scelte che seguiranno alla diagnosi della mutazione genetica che non è solo BRCA1/2.

In un paese a macchia di leopardo, con il perdurare di flussi migratori dal Sud al Nord, con la disomogeneità imperante di codici di esenzione e tutele, il dovere dell’informazione è quello di trasformare il clamore di una confessione in un’occasione di ragionamento politico su casi di questo genere. Perché è una politica seria a fare una sanità eccellente ed efficiente.

Il sistema italiano può vantare di essere un paradigma e di avere mezzi e risorse d’avanguardia. Oggi basterebbe blindarlo dai tagli orizzontali e avviare una mappatura di costi, bisogni e regole piuttosto che abdicare alla centralità che lo Stato in nome del federalismo moderno e dell’idea, intollerabile, che ci siano regioni più ricche e quindi dotate di migliori ospedali e cure.

La politica della sanità ci dovrà spiegare perché da regione a regione ci siano differenze importanti di assistenza, follow up e tutela giuridica sulle persone a rischio genetico. Perché la sola Emilia Romagna abbia individuato un codice per i mutati: il D99. Perché le breast unit che l’Europa ci chiede non decollano e non siano distribuite equamente sul territorio nazionale. Perché lo screening mammografico, che non riguarda certo le sole donne mutate, sia assente in alcune regioni del Paese.

Il caso genetico, che certamente riguarda quote ristrette della popolazione, può rappresentare un efficace viatico per ampliare la riflessione sui sistemi, i numeri, la sostenibilità della prevenzione tout court e forse mettere in campo adesso questa operazione, che se potrebbe sembrare velleitaria al tempo della crisi, è invece doppiamente necessaria per ricordare l’imprescindibilità di alcuni diritti e la colpevole irrazionalità di alcune scellerate gestioni della “res pubblica”.

Quindi grazie alla Jolie per il coraggio di confessare una scelta impopolare e poco seduttiva - per lei in particolar modo, eroina sexy del cinema -  e  per ogni donna. Grazie per averci ricordato - cosa che la nostra stampa avrebbe dovuto ribadire meglio e di più - che qui in Italia, dove in Costituzione non è scritto il diritto alla felicità come negli Stati Uniti, è scritto invece che nessuno paga per guarire, per combattere una malattia o per prevenirla.

L’auspicio è questa vicenda sia anche l’occasione per riflettere sull’eccellenza del nostro modello di sanità e sulla necessità di parlare meglio e con più rigore in Italia della rivoluzione che la genetica sta portando nella scienza medica, piuttosto che occultandola per paura e prudenza. Una serie di scoperte che non vanno recepite con ingenuità o semplificazione, ma che, come tutti i traguardi della ricerca scientifica, possono aiutarci a vivere meglio e se possibile a soffrire meno. Spetta agli uomini e alle donne l’intelligenza di saperlo capire in tempo.

di Rosa Ana De Santis

E' passata una setimana da quando Papa Francesco ha fatto riferimento alla lobby gay che domina in Vaticano, ma il silenzio dei media sulla questione é sconcertante. I crismi della notizia ci sono tutti e anche di più, ma non sembra che il giornalismo italiano vi presti particolare attenzione. Proviamo quindi a riassumere. La notizia è apparsa sul sito cileno Reflexion y Liberacion in occasione dell’incontro del 6 giugno scorso di Papa Francesco con i rappresentanti dell’America Latina.

Avrebbe parlato di corruzione e di corrente di potere omosessuale all’interno della Chiesa romana. Frasi che padre Lombardi non commenta, trattandosi di un incontro privato e di appunti presi a memoria. Le frasi che il pontefice avrebbe espresso nel manifestare l’urgenza di una riforma radicale, farebbero il paio con le memorie bollenti lasciate da Benedetto XVI nel famoso dossier di Vatileaks e dalla sala Vaticana non è arrivato un commento, ma nemmeno una smentita.

La Presidenza del Consiglio Latino Americano dei Religiosi pur esprimendo rammarico per la fuga di notizie e non potendo stabilire le parole esatte che papa Francesco avrebbe utilizzato per questa esternazione non ha potuto arginare l’eco di questa vera e forse prima confessione pubblica di un papa su un tema tanto difficile e scandaloso.

Che Papa Francesco su innumerevoli fronti, dalla sobrietà della Chiesa alle questioni della giustizia sociale, abbia lanciato agli apparati ecclesiastici strali di moniti e inviti al cambiamento non è una notizia di oggi, ma aver denunciato la presenza di una vera e propria lobby di omosessuali nelle segrete stanze del Vaticano è oltre ogni ipotesi anche solo probabile.

Si tratterebbe di carriere non ostacolate – anzi - da relazioni omosessuali, di promozioni vescovili di uomini anche scoperti in flagranza di relazioni sessuali, di laici entrati nelle grazie della Curia per giri sporchissimi. E ci sono poi le conferme che arrivano dal sito internet “Venerabilis” promosso dai membri della Homosexual Roman Catholic Priests Fraternity, in cui chiaramente si parla di alti prelati sensibili al fascino omosessuale.

Il dato più sconvolgente non è certamente quello dei gusti sessuali, ma della modalità di carrierismo che nella corruzione e nel sesso vede, a quanto pare, le sue strade di trasmissione. Niente di diverso dal mondo fuori, anzi qualcosa di più forte quanto più impenetrabile e nascosto. Lo scandalo risiede specialmente nel gruppo di potere che condiziona e nomina le carriere curiali, che decide dell’omertà di numerose nefandezze, lo stesso che poi sbandiera veti di eticità e moralità sulla vita delle persone fino a condizionare le leggi di questo paese, quasi sempre quelle che colpiscono la vita delle donne: dall’aborto alla fecondazione assistita. Una vaga ombra di misoginia?

Quello che per alcuni dei settori più conservatori del Vaticano rappresenta forse il primo inciampo mediatico del nuovo Pontificato - ma forse nemmeno troppo considerata l’impronta di cambiamento già annunciata dal nuovo Pontefice - è passato quasi sotto silenzio nei tg nazionali.

Mentre la notizia è sui blog di tutto il mondo, il Tg1 il Tg2 e il Tg5 non nominano nemmeno la lobby dei gay. Un atteggiamento di piaggeria omertosa che non sorprende visto lo stato di salute della stampa nazionale, ma che diventa grottesco quando è per primo il Vaticano a non smentire formalmente queste frasi di commento nate nel corso di questo dialogo privato. Non le avvalora, ne ribadisce la cornice, al limite le relativizza, ma non nega. Come se persino nelle segrete stanze l’attesa per una riforma per la quale lo stesso Bergoglio chiede aiuto di organizzazione fosse diventata una necessità. Quella di ripulire e di rifondare, dopo la corruzione, gli orrori della pedofilia, i colpevoli coperti.

Una verità che ha una forza quasi eversiva e che purtroppo fa meno notizia delle scuse di rito, in ritardo di secoli, che consegnarono Giovanni Paolo II alla storia di un pontificato rinnovato. Per aver riabilitato Galileo Galilei e per aver chiesto perdono per le streghe mandate a morire. Mentre pedofili, corrotti e soldi continuavano, a quanto ne sappiamo, a fare vittime proprio dentro le chiese e le stanze consacrate. L’unica verità che l’informazione italiana nella sera del 6 giugno ha scelto di non raccontare, mentre proprio il capo della Chiesa di Roma sceglieva - come ha scelto - di non fare un solo passo indietro.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy