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di Rosa Ana De Santis
C’erano due bambini sul barcone dei migranti soccorsi una settimana fa alle porte di Lampedusa: ben 103 strappati alle onde, tranne loro due, dispersi in mare. E c’era un adolescente tra i sei corpi distesi sul lungomare catanese. Sono sempre di più i migranti minori: bambini, adolescenti spesso non accompagnati. I dati di Save The Children, da gennaio a luglio di quest’anno, stimano 1.257 contro i 628 dell’anno passato. Si tratta in maggioranza di egiziani, eritrei e afghani e la Sicilia, con Lampedusa, rappresentano l’approdo principale.
Molti di questi, peraltro, spesso non vengono riconosciuti come minori e sono trattati, dalla detenzione nei CIE al resto, come maggiorenni a tutti gli effetti. Il fenomeno dei minori non accompagnati rappresenta un’emergenza nell’emergenza di cui finora lanciano segnali di fortissima preoccupazione soltanto le associazioni coinvolte.
Sono intervenuti Vincenzo Spadafora, Garante dell’Infanzia e il Ministro Kyenge a ricordare l’urgenza di azioni politiche di maggior controllo su questo esodo inarrestabile di migranti, profughi e rifugiati, chiedendo all’Europa una maggiore partecipazione e un coinvolgimento operativo nell’accoglienza di questi flussi della disperazione.
Esiste una proposta di legge promossa da Save The Children che ha raccolto pareri favorevoli dalla politica italiana in modo trasversale. Una legge ispirata alla Convenzione di New York, del resto recepita già dalle nostre Istituzioni, in cui si chiede di mettere in campo risorse e piani di programmazione e non misure emergenziali ed estemporanee per l’accoglienza dei migranti bambini.
Una informazione delle procedure di identificazione, una banca nazionale di dati per indirizzare i giovani nei centri giusti di tutte le regioni, un sistema nazionale con un fondo ad hoc ed un piano di interventi omogenei che si assicuri anche sul livello e la qualità delle collocazioni di questi minori: dalla scuola alla salute ad ogni tipo di supporto, specialmente per quanti vittime di abusi e sfruttamento.
Importante la figura dei “tutori volontari” fondamentali anche nel passaggio dalle strutture di accoglienza alle varie forme di affido familiare. La tutela speciale per l’infanzia non risponde soltanto ad un imperativo morale, ma anche alla possibilità - nel caso di bambini ben più semplice e realizzabile- di formare queste future generazioni come figli italiani a tutti gli effetti.
Se tutto il problema dei migranti rappresenta una voragine normativa ancora aperta e drammaticamente insoluta nella storia politica non solo italiana, ma europea in generale, l’emergenza dei bambini è prima di tutto un’omissione insostenibile in un sistema di civiltà democratica. I bambini detenuti nei CIE, abbandonati a se stessi in condizioni di totale promiscuità con gli adulti, senza strumenti di accoglienza e integrazione, senza scuola sono la ferita aperta più dolorosa per un paese come il nostro.
Un’infanzia in emergenza che non può attendere le leggi sulla cittadinanza e l’accordo dei nostri governi traballanti e stagionali. Serve un piano tecnico che adotti misure di buon senso e di programmazione sul lungo periodo, che tiri fuori soldi o che, ancor meglio, giacché i soldi vengono spesi lo stesso per interventi di soccorso una tantum, li investa in un piano sensato e organico ad hoc che riconosca ai fanciulli, quale che sia la loro provenienza, il diritto all’infanzia.
Non sono immigrati, non sono rifugiati, non sono clandestini, ma bambini e per giunta soli. L’ultimo dei quali è venuto a morire sulla spiaggia di uno stabilimento esclusivo ed elegante, alle porte di un ferragosto, vinto dalla fatica dell’ultima bracciata in mare. Come Se fosse un uomo.
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di Carlo Musilli
Chi non vorrebbe guadagnare 3 mila euro al mese? Le risposte sono tre: i pochi che già li guadagnano, i pochissimi che ne guadagnano di più e Mauro Sentinelli. Che li guadagna in un giorno, e nemmeno di stipendio. Con i suoi 91.300 euro lordi l'anno, l'ex manager di Telecom - ricordato come l'ideatore della tessera ricaricabile per i cellulari - è il pensionato più aureo d'Italia. Il club dei "pensionababbi" conta 100 mila persone e ogni anno costa allo Stato circa 13 miliardi.
La top 10 dei paperoni previdenziali è stata resa pubblica ieri dalla deputata Pdl Debora Bergamini, che ha diffuso la risposta del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, a una sua interrogazione parlamentare. Per ragioni di privacy nel testo sono indicate solo le cifre, senza alcun nome associato. L'unica possibilità è ricostruire la classifica per induzione.
A parte Sentinelli - il cui primato era già noto - nelle posizioni di vertice troviamo una sfilza di ex manager. Chi occupi il secondo posto rimane un mistero (guadagna 66.436 euro al mese), ma al terzo dovrebbe collocarsi Mauro Gambaro (ex direttore generale di Interbanca e dell'Inter) con poco meno 52mila euro. Appena fuori dal podio Alberto De Petris (ex Infostrada e Telecom), che intasca un mensile da circa 51 mila euro. Poco sotto troviamo Germano Fanelli, manager specialista della componentistica elettronica.
Dal sesto al decimo posto l'incertezza è maggiore. Un tridente di "pensionababbi" dovrebbe viaggiare intorno ai 45 mila al mese: Vito Gamberale (per anni in Telecom, poi in Autostrade e oggi alla guida di F2i, uno dei fondi di Cassa Depositi e Prestiti, dove percepisce anche un lauto stipendio), Alberto Giordano (ex Cassa di Roma) e Federico Imbert (ex JP Morgan). Per il momento sugli altri è meglio non sbilanciarsi. Il decimo, in ogni caso, incassa 41.707 euro al mese.
Ora, senza voler fare del populismo spiccio, ci limitiamo a ricordare alcuni numeri pubblicati meno di un mese fa nel rapporto annuale Inps 2012, il primo redatto dopo l'incorporazione di Inpdap ed Enpals. Secondo l'Istituto di previdenza, nonostante l'anno scorso la spesa per le pensioni sia cresciuta, arrivando a sfiorare il 16% del Pil, quasi la metà degli oltre 15 milioni di pensionati prende meno di mille euro al mese. In particolare, il 14% (2,2 milioni di persone) riceve un assegno inferiore a 500 euro, mentre il 31% (4,9 milioni) incassa tra i 500 e i mille euro. Un altro 25% (3,9 milioni) si colloca fra mille e 1.500 euro. Il reddito pensionistico medio mensile è di 1.269 euro: 1.518,57 euro per gli uomini e 1.053,35 euro per le donne.
Di fronte a una situazione generale di questo tipo, è evidente che i trattamenti riservati ai "pensionababbi" siano vergognosi. "I dati dimostrano quanto sia urgente un intervento sulle cosiddette pensioni d'oro", ha sentenziato la stessa Bergamini.
Perché allora non facciamo nulla per introdurre un minimo d'equità? E' la legge, baby. Per quanto sproporzionati, gli assegni dei 100 mila paperoni sono perfettamente legali. Certo, li hanno calcolati sulla base di privilegi assurdi e quando ancora il metodo era retributivo, ossia basato sull'ultimo stipendio percepito (e nel caso di uno come Santinelli anche su benefit e stock option) anziché sull'ammontare totale dei contributi versati. Ma a quanto pare non ci si può fare nulla, sono intoccabili.
La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che aveva istituito dal primo agosto 2011 al 31 dicembre 2014 un "contributo di perequazione" sulle pensioni sopra i 90 mila euro lordi annui. Il prelievo era del 5% sulla parte eccedente fino a 150 mila euro, del 10% da 150 a 200 mila e del 15% oltre questa soglia.
La Consulta, però, lo ha giudicato in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, relativi rispettivamente al principio di uguaglianza e al sistema tributario. I giudici avranno avuto certamente delle argomentazioni ferree, ma è innegabile che si trovassero in conflitto d'interessi, in quanto futuri pensionati d'oro. In ogni caso, dopo la sentenza, l'Inps ha interrotto i prelievi e con insolita rapidità ha iniziato a restituire il maltolto ai facoltosi pensionati.
Cosa si può fare a questo punto? Ben poco. Bergamini però - le va riconosciuto - ci prova: "Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità - ha detto -, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti".
Pare invece ormai rassegnato il ministro Giovannini, che ha sottolineato come "misure volte in modo diretto ed immediato a ridurre l’ammontare delle pensioni in godimento" potrebbero incorrere nuovamente in "profili d’incostituzionalità".
I milioni di pensionati normali dovranno farsene una ragione. E faranno meglio a non ricordarsi dei "pensionababbi" quando alla fine dei soldi rimarrà ancora troppo mese.
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di Silvia Mari
L’inchiesta di Repubblica sulla chirurgia estetica restituisce un quadro di numeri e di storie che sembra lontano chilometri dalle pagine della crisi e da quelle della mattanza di mogli e fidanzate. Capitoli diversi eppure le protagoniste sono sempre loro: le donne e le mamme delle famiglie italiane. Quelle che devono far quadrare i conti della spesa, che lavorano sempre più degli uomini e sono sempre meno pagate, quelle che devono difendersi da molestatori allevati in casa in un rapporto che sembrava d’amore.
Tra di loro molte, troppe, sono sempre più ossessionate dal corpo perfetto e disposte a spendere per la chirurgia plastica ed estetica, spesso costrette a farlo in economia per far quadrare i bilanci, ricorrendo a pacchetti low cost per risparmiare senza rinunciare.
Liposcultura, botox contro il tempo, labbra e seni bombastici, glutei pompati e zigomi come le attrici del cinema. Le under 25 ricorrono alla chirurgia per avere maggiori opportunità di lavoro, le quarantenni per rilanciarsi dopo un amore finito e qualche delusione di troppo, le over 50 per vincere le rughe. Quasi 9 milioni le donne che in tutto il mondo si sono operate per bellezza e l’Italia è al terzo posto con 820 mila interventi. La spirale, confermata dagli analisti, è che ogni correzione estetica contribuisca a far uscire difetti o presunti tali che prima la donna non notava alimentando un vortice di ritocchi e ritocchini.
Gli psicologi si interrogano su un fenomeno che è ormai trasversale a fasce di età e anche a classi sociali diverse. Si scomoda l’autostima, i canoni estetici imposti dai media e la solita filippica del disagio interiore. Forse però la questione va restituita pienamente a una dinamica di genere, a un problema culturale delle donne con se stesse e con la propria identità affettiva e sociale. Per dirla in una battuta, con un processo di emancipazione mai compiuto e realizzato in profondità di cui prima o poi, queste stesse donne, dovranno essere consapevoli.
Se esiste un problema rispetto a questo ricorso facile e anche popolare alla chirurgia della bellezza non è tanto, come recita la vulgata moraleggiante di errato retaggio cattolico, quello secondo cui la bellezza esteriore non conta, la natura non va alterata perché ha un’armonia intrinseca e altre banalità di ragionamento smentite anche solo da un minimo senso di realtà. L’estetica, la correzione dei difetti, il miglioramento della propria immagine è senza dubbio una benedizione che dai trattamenti cosmetici alla sala operatoria può esser considerata un aiuto importante per vivere meglio.
Il vero elemento preoccupante è che questo processo, in moltissime donne, spesso di media istruzione e di posizione sociale buona, sia mediato esclusivamente dal gradimento maschile con una serie di conseguenze interiori devastanti soprattutto quando il risultato non è da copertina. L’amore finito, l’amore da conquistare, il tasso di eccitazione da scatenare in un prossimo flirt o relazione sembra essere la molla scatenata per andare dal chirurgo e magari per chiedere una quarta di seno invece che una terza.
Eppure la sessualità di una donna si nutre di elementi che sono ben lontani dalle misure bombastiche che piacciono agli uomini o a molti di essi.
C’è di mezzo, questa la vera emergenza, non il ricorso a una bellezza artificiale, ma ad una bellezza femminile vista esclusivamente con gli occhi dei maschi e dei maschi a testosterone attivo.
Quindi magrezza, quindi muscoli definiti, quindi forme esplosive nei punti giusti ma antigravitazionali, quindi bocche turgide e gonfie. Un modello che assomiglia molto alle bambole dei sexy shop e che omologa e annulla le differenze, anche quelle fisiche estetiche che dovrebbero invece essere preservate come patrimonio “genetico” dell’esser donne e belle.
Donne che sono irrimediabilmente diverse dal genere maschile: nei gusti, nel sentire, nel piacere, nel proporsi e nel modo di pensare il mondo e nello stesso atto del pensare. Che dovrebbero insegnare ai figli maschi un modo diverso di pensare la bellezza e di sentirla e che finiscono con assomigliare tutte a quello che i maschi si aspettano o desiderano a letto. La bellezza finisce nel sesso cosi come l’emancipazione in questo paese è diventata per le giovanissime solo esibizione di libertà sessuale.
La cronaca politica ne ha testimoniato tristi pagine per le nuove generazioni del paese. Le donne dovrebbero cominciare una parallela battaglia per affermare non solo i loro diritti, ma per difendere il loro modo di essere profondamente diverse dagli uomini. Iniziando per esempio a votare le donne. Per una legge e una politica finalmente non solo pensata dalla testa dei maschi. Gli stessi che le sognano tutte come Lara Kroft. Gli stessi che le operano.
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di Rosa Ana De Santis
Il decreto legislativo che prevede l’equiparazione dei figli naturali a quelli nati in vincolo di matrimonio è in arrivo al Consiglio dei Ministri. Anche questa rivoluzione, normativa e culturale insieme, vede paladina il Ministro Kyenge che ci ha abituati a sfide di questa natura in un paese piuttosto innamorato del passato.
Ad oggi i figli nati fuori dal matrimonio oltre a non avere la stessa considerazione sociale degli altri, per una sorte di cappa culturale di pregiudizio che ancore resiste, hanno meno tutele in caso di decesso dei genitori, ad esempio, o di gestione delle separazioni di fatto. L’esame del decreto coinvolgerà attivamente anche il Ministro della Giustizia e delle Politiche Sociali nel riconoscimento giuridico di una eguaglianza che ad oggi nessuno ha voluto davvero ratificare nero su bianco.
Ovvio che questo tipo di riconoscimento, inevitabilmente, aprirà la questione sulle coppie di fatto, che ad oggi, in Italia, non esistono secondo la legge aldilà di registri comunali auto-organizzati; allo stesso tempo dovrà comportare i cambiamenti necessari anche in materia di adozione, ad oggi prevista solo per le coppie legalmente coniugate da almeno tre anni. Se i figli sono e saranno tutti uguali, non si potrà certo fare discriminazioni di sorta per i figli adottivi considerandoli di serie B.
Mettere mano al diritto di famiglia è questione che rimbalza nelle cronache politiche, di legislatura in legislatura, ma è sempre mancato coraggio e coesione per farlo. E’ probabile che sia arrivato il momento in cui le divisioni accademiche, e tutte formali, tra conservatori e progressisti lascino il passo ad una diagnosi “sociologica” che racconta ormai di una famiglia già rivoluzionata di fatto.
Famiglie allargate, figli di immigrati, convivenze stabili, descrivono un modo di costruire la società profondamente diverso da quello di anche solo venti anni fa rispetto al quale lo Stato non può non intervenire a sanare il vuoto normativo con l’alibi di una Costituzione scritta ai tempi di un’Italia diversa. Se i valori non sono declinabili nel tempo storico, le organizzazioni umane assolutamente si, e ignorare questa differenza ha significato, finora, solo lasciare scoperte di diritti ampie quote della popolazione.
E’ proprio l’eguaglianza di fronte alla leggi quindi, prevista dalla Costituzione come principio assoluto, ad esser stata disattesa e beffata da una politica indolente e timorosa di alterare un diritto di famiglia di chiarissima ispirazione cristiano-cattolica.
Il decreto in questione avrà l’effetto del piccolo sassolino che incrina l’ingranaggio sia in termini di metodo che di merito. Chissà quanti se ne accorgeranno. Il metodo racconterà che la legge non può ignorare lo stato reale delle cose, e pensiamo anche al tema della cittadinanza dei figli degli immigrati, e il merito documenterà una famiglia finalmente emancipata da un connotato culturale di chiara ispirazione cattolica.
Sarebbe interessante capire perché la religione si debba predicare solo nelle Chiese e non in Parlamento, come tuonato da Cicchitto e i suoi contro Papa Francesco nella visita a Lampedusa, e debba invece essere legge nelle case e persino nelle stanze da letto di tutti gli italiani.
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di Silvia Mari
Escozul è il nome di uno scorpione, tipico di Cuba, il cui veleno blu è utilizzato a scopo terapeutico, in particolar modo per le sue proprietà analgesiche, antinfiammatorie e, questa l’ultima frontiera della sperimentazione in atto, anche antitumorali. A stimolazione lo scorpione rilascia questa sostanza, non subisce alcuna tortura da cavia e non viene ucciso, per buona pace degli ambientalisti.
La letteratura ufficiale non riporta ancora evidenze cliniche ma empiriche, ma i viaggi della speranza dall’Europa, in modo massiccio dall’Italia, e da altri parti del mondo verso la piccola isola di Cuba alla ricerca di questo farmaco per casi di pazienti oncologici terminali come medicinale palliativo o per terapie alternative, quando la chemioterapia non funziona o non viene tollerata, continuano.
Esistono di questo principio attivo naturale due varietà, una delle quali - quella omeopatica - viene commercializzata da un’azienda italiana con sede a Tirana che produce il cosiddetto Vidatox, CH30 a partire dal 2011. Questa operazione di commercializzazione internazionale nasce proprio dalla difficoltà con cui si è imbattuto il governo cubano nel fronteggiare le numerosissime richieste provenienti dall’Italia. Tirana è vicina alle nostre coste e nel frattempo si spera di arrivare ad un accordo di distribuzione con l’AIFA.
Il farmaco puro, tratto dal veleno dello scorpione - nome scientifico Rhopalurus junceus, prodotto dal centro governativo Labiofam, nell’isola di Cuba è in sperimentazione anche nel trattamento dei tumori cosiddetti “solidi”, vale - a dire non leucemie o linfomi. La dottoressa Mariella Guevara, responsabile del protocollo in atto, ha spiegato in appuntamenti internazionali sia che la raccolta dati e casi è ancora all’inizio sull’efficacia antitumorale, sia - questo l’aspetto più importante - che non va considerata come una strada alternativa alle terapie tradizionali, quale la chemioterapia. Si tratta di una chiarificazione importante specie per quanti hanno tentato di alzare una condanna pregiudiziale contro la “scoperta” cubana spacciandola per una sorta di stregoneria in antitesi alla medicina tradizionale.
La reazione della medicina occidentale di fronte a questa come a tante altre strade alternative ai protocolli consolidati è di sospetto e più probabilmente di scarsa conoscenza. E’ soprattutto questo clima di diffidenza che i medici come la dottoressa Guevara vogliono superare, testimoniando numeri alla mano il lavoro che questo paese porta avanti ogni giorno nonostante cinquanta lunghissimi anni di embargo che impediscono ancora oggi che entri negli ospedali cubani anche solo un’aspirina.
Nella storia di Cuba, isola della salute, la medicina è forse la vera e unica religione del paese. Non soltanto nella garanzia di un diritto di cura accessibile per tutti, ma nell’assoluta considerazione e rigore e protezione con cui i medici sono trattati dal governo.
La formazione degli operatori sanitari e il rigore del loro operato è considerata un priorità assoluta da parte del governo del Paese. Nel centro Internacional de Salud La Pradera il protocollo in corso di sperimentazione per i pazienti oncologici prevede, tra i farmaci utilizzati, il famoso veleno naturale dello scorpione, custodito gelosamente dall’attenzione morbosa delle multinazionali occidentali.
Nel quadro di isolamento e di ostracismo internazionale che patisce l’isola ci si aspetterebbe di leggere di continue epidemie e tassi di mortalità simil Africa, se non peggio. Eppure cosi non è mai stato, anzi. Ad Haiti sono stati i medici cubani ad intervenire per arginare il disastro dell’epidemia. La competenza del personale sanitario è nota e vale la pena ricordare che i medici cubani vengono inviati a prestare opera nei Paesi afflitti da malattie e povertà. Questa eccellenza insieme alla garanzia della sanità per tutti è un miracolo autentico che l’Occidente tanto patisce quanto non capisce.
In virtù di questa tradizione così sentita e seria sono per prime le Istituzioni sanitarie e i medici di Cuba a non proporre l’escozul naturale come farmaco in grado di guarire il tumore; sia perché la sperimentazione è ancora in atto sia perché le proprietà del farmaco, che pure hanno avuto finora riscontri importanti in merito alla regressione delle neoplasie, hanno un largo spettro di applicazioni a fronte di una tossicità ridicola se non nulla se paragonata alle nostre terapie, dalla chemio alla radio che anzi se combinate all’uso di questo farmaco riescono ad essere meglio tollerate dai pazienti.
Sarebbe bene domandarsi perché non crei analogo scompiglio sapere che di un vaccino fondamentale come quello contro l’Hpv, nella versione tetravalente della Sanofi Pasteur o in quella bivalente Cervarix prodotta da GlaxosmithKline, ancora non sia dato stabilire quanto protegga e per quanto tempo una donna che lo faccia dopo aver già iniziato una vita sessuale, nonostante sia raccomandato fortemente dai ginecologi anche a questa categoria entro una certa soglia di età.
Eppure, al netto di questa incognita, le donne si vaccinano, pagando di tasca propria il costo della medicina, (ancora poche a dire il vero e purtroppo) e continuano a sottoporsi allo screening ginecologico annuale. Stupisce che analogo atteggiamento prudenziale, ma non censorio non si possa adottare per un farmaco a zero effetti collaterali su cui, anche fuori dai confini cubani, non c’è business se paragonato al mercato dei farmaci occidentali che ora ha messo a pagamento, di tasca propria da parte degli ospedali, alcuni chemioterapici di nuovissima generazione trattati come farmaci da banco.
In Italia il dibattito sull’escozul è iniziato con maggior clamore dopo un servizio giornalistico delle Iene, andato in onda nel 2010 e nel 2012 è iniziata un’indagine conoscitiva sulla variante omeopatica Escozul da parte della Commissione sanità del Senato. Istituto Superiore di Sanità e Società di Farmacologia sono al lavoro per raccogliere dati scientifici, ma non esistono ancora pubblicazioni incontrovertibili in tal senso.
Non si tratta di una smentita, ma dei necessari numeri che la casistica medica richiede per avvalorare una scoperta che al momento ha solo delle evidenze empiriche ogni giorno maggiori. Sarebbe quindi auspicabile che l'Italia si aggiornasse sugli studi cubani sul medicinale, che negli ultimi anni hanno fatto passi avanti considerevoli.
Quel che manca da parte della medicina tradizionale e dell’Occidente è un atteggiamento di apertura a questa sfida terapeutica che non porta l’ombra di alcun danno per chi volesse avvalersene. Sono i pazienti e i loro familiari ad essersi armati per una battaglia senza frontiera per la libertà di cura, forse spesso anche con una dose ingenua di speranza sulla guarigione dal cancro.
Una speranza che non è poi tanto diversa da quella di chi si accanisce fino all’ultimo ciclo di chemioterapia su corpi debilitati e spenti da cure molto tossiche che serviranno, su casi avanzati e terminali, al massimo per qualche mese di sopravvivenza in più. Eppure nessuno rifiuta tentativi estremi, magari spesso anche sbagliando nel non dire con esattezza la prognosi di una malattia, specialmente in Italia.
I due mondi, forse questo la scuola di Cuba vuole suggerire al mondo dei big del farmaco, hanno bisogno di incontrarsi riconoscendo all’isola che sfida i giganti il miracolo, anche politico e sociale, di una scoperta che copiata da qualche colosso farmaceutico avrebbe già, fuori da quell’isola, il nome di un brevetto.