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di Rosa Ana De Santis
La prima sezione penale della Cassazione ha revocato la sentenza di secondo grado che aveva assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’accusa di aver ucciso la giovane Meredith nella notte del 2 novembre 2007 a Perugia, nella casa in cui le due ragazze vivevano insieme. La notizia sconvolge i legali della Difesa che pensavano ormai di aver inchiodato come unico colpevole della lunga agonia di Meredith l’ivoriano Rudy che con rito abbreviato e una verità confessata con troppe lacune è l’unico che sta scontando una pena di 16 anni in carcere.
Ritorna in scena la coppia che per quattro anni, dietro le sbarre della carcerazione preventiva, si è difesa, ha pianto, ha invocato la propria libertà. La “volpe in pelliccia”, l’angelica Amanda, e la sua famiglia che aveva addirittura smosso il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, avallando ingerenze inammissibili e rievocando una tradizione statunitense che per i propri cittadini è solita utilizzare strumenti non integerrimi di pressione e dissuasione. E poi lui, il signor Nessuno, l’universitario Sollecito, figlio di famiglia bene e difeso dalla Buongiorno, avvocato di prima classe e di nomi noti.
Il processo si sposterà a Firenze e tutte le perizie e le Ctu saranno rimesse sotto analisi davanti ad un nuovo collegio. Le prove maestre ovvero uno dei due coltelli con materiale genetico della Knox e della vittima e il suo gancetto del reggiseno con diversi campioni di dna, compreso quello di Sollecito, fanno pensare ad una scena del crimine che vede il concorso di più persone. Chi tiene ferma Meredith ai polsi (Rudy e Sollecito secondo la pubblica accusa), chi la molesta sessualmente, chi le sferra con la punta di coltello minacce fino a quel colpo mortale al collo della povera ragazza.
La Knox sarebbe l’assassina “attiva”, come sostiene l’accusa. La stessa che dice di esser tornata a casa e di non aver capito che la sua giovane amica giaceva a terra in una pozzanghera di sangue. La stessa che aveva calunniato, con condanna incassata e ricorso rifiutato, Lumumba poi prosciolto e dichiarato innocente. La stessa che assume, cosi risulta, un comportamento ben più cinico e glaciale di quel Rudy che in un atto di estrema pietà copre almeno il corpo martoriato della giovane vittima con una coperta.
Dovrà essere depositata la sentenza per avere chiare le motivazioni di questa decisione, ma prendendo spunto dal ricorso alla sentenza di secondo grado si può dedurre già che si va “dal vizio delle motivazioni, alla violazione delle regole sul giusto valore probatorio delle sentenze, fino al travisamento delle prove”. La sensazione, visto il clamore mediatico che è sempre stato intorno alla vicenda giudiziaria, è che non passeranno mesi prima che le motivazioni siano depositate agli atti.
La famiglia della giovane Meredith si dice fiduciosa, mentre i due imputati ricordano che l’annullamento non è una condanna. Mentre Sollecito si prepara alle feste di Pasqua in Puglia, la condizione della Knox è decisamente un’incognita visto che gli USA potrebbero opporsi all’estradizione dato che un cittadino statunitense può non essere processato due volte per la stessa accusa.
La Buongiorno invoca battaglia annunciando che farà esplorare strade finora poco battute, anche per niente, come quella delle macchie di sangue del piano di sotto date per sangue di gatto. Sembra un po’ la teoria dell’intruso di Cogne. Sembra.
Le condanne a 25 e 26 anni tornano ad essere una spada di Damocle sulla testa dei due principali indiziati e mentre gli Stati Uniti puntano il dito contro una giustizia italiana troppo lenta che da atto ad un capovolgimento giudiziario eclatante dal “fatto non sussite” al nuovo processo, la sorella di Meredith si dice “felice”. Felice per una famiglia che non ha mai cercato colpevoli a buon mercato, ma ricostruzioni chiare di quel gruppo d’amici trasformatisi in assassini forse, ma sicuramente in testimoni freddi, incerti, omertosi. Come lo shopping del giorno dopo di Amanda e Raffaele sbaciucchianti dietro una vetrina, come se a morire in modo tanto atroce non fosse stata una giovane comune amica. Quella della stanza accanto.
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di Rosa Ana De Santis
Ora che finalmente lo spread sembra uscito dalle prime pagine dei giornali, sono i problemi reali a tornare prepotentemente all’attenzione della politica e delle istituzioni. La lista delle urgenze inizia senza dubbio dall’emergenza sanità che alcune regioni del Paese attanaglia in modo particolare. Il Rapporto OASI dell’università Bocconi offre un quadro drammatico con preoccupanti elementi di novità del sistema sanitario nazionale.
A fronte dell’aumento dei ticket, di 5 milioni di tasse locali in più, addizionali Irpef in aumento a iosa per evitare di finire con i bilanci in rosso, i servizi sanitari non hanno comunque tenuto il passo, costringendo sempre più cittadini a rivolgersi al privato, spesso con la beffa di pagare di meno per medesime prestazioni specialistiche.
Il marketing dei centri privati ai tempi della crisi batte il deficit del sistema sanitario nazionale o, per meglio dire, la tolleranza agli sprechi. Perché rimane questo, a detta della Fiaso (la Federazione di ASL e ospedali) il responsabile numero uno del disastro sanità.
La riqualificazione del management sanerebbe molto meglio i conti di quanto non abbiano fatto finora i tagli orizzontali e il cieco rigore finanziario. La direzione giusta, come indicato in sede europea a Dublino da tutti i ministri di sanità d’Europa, è quella di attribuire a questi stessi dicasteri la gestione della loro economia e finanza.
Una scelta che nasce dall’ammissione condivisa, da una filosofia diremmo, secondo la quale investimenti nella ricerca e nella cura non possano finire nel computo del deficit nazionale, tantomeno la cura dei cittadini e la loro assistenza sanitaria che a tutto può servire tranne che a fare cassa e profitto in breve tempo a meno di non voler vedere tutti i malati cronici deceduti.
La rivoluzione necessaria per non far collassare il sistema sanitario nazionale non inizia dai numeri del debito, ma dall’approccio alla cura e da un ripensamento complessivo dei servizi fatto di territorialità, altissima specializzazione ed efficiente prevenzione: l’unica arma scientifica che può ridurre l’impatto economico – sul lungo periodo - della sanità. Quindi da criteri selettivi nella formazione e nel reclutamento del personale, da una migliore integrazione di clinica e assistenza sanitaria, e non da ultimo da trasparenza. Infine rigore. Non quello modaiolo dei grafici della finanza, ma quello delle buone regole e delle tutele.
Quello che deve imporre a tanti medici della vecchia casta di non spartire più a part time l’ospedale con la clinica a sfregio di lasciare gli ambulatori in mano a ricercatori specializzati con contratti fantasma e pochi spiccioli. Di non tenere macchine diagnostiche di ultima generazione imballate perché non si ha modo di formare il personale addetto.
Tutto questo che, soprattutto da Roma in giù, colleziona le sue prove magistrali non è il frutto della povertà, ma di una montagna di denaro sprecata altrove e male, in una parola dell’amministrazione errata. Il responsabile non è la crisi, ma la politica.
La crisi è quella che spinge i privati a fare buon marketing dei propri servizi sanitari. L’incompetenza è quella che spinge sempre di più i cittadini a rinunciare all’ospedale a causa delle infinite attese, a causa di un percorso di assistenza sanitaria che dal medico di base allo specialista arriva a singhiozzi e con scarsa chiarezza, a causa, infine, di una disperazione che sulla vita non accetta le ragioni della borsa, perché il diritto alla salute, in un paese civile, è quel costo altissimo che non importa quanto, ma tutti potranno pagare.
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di Rosa Ana De Santis
La storia è quella di Sofia, questo il nome della piccola protagonista, una bambina di tre anni affetta da una rara malattia - la leucodistrofia metacromatica - ed è il caso di una bimba che non può più essere curata. Il nome, che mette già paura, è quello di una patologia che impedisce di camminare, genera atrofia ottica e regressione mentale fino a portare alla totale decerebrazione. La morte arriva entro i cinque anni dalla comparsa dei sintomi: la stagione di una farfalla, appunto.
Il tribunale di Firenze si è espresso con parere negativo sulla somministrazione di una terapia a base di cellule staminali grazie alla quale Sofia iniziava ad avere importanti miglioramenti. Non si tratta di una cura vera e propria, va precisato, ma di un modo per arginare l’aggressività di questa malattia. L’AIFA e i Nas ne hanno bloccato la somministrazione per mancanza di effettivi riscontri. Difficile pensare di averli, peraltro, con numeri cosi ristretti e “giovani” di piccoli affetti. Le procedure poco sicure e rischiose per la vita dei pazienti, secondo l’AIFA, che venivano praticate nella struttura di Brescia avevano addirittura portato i Nas a mettere i sigilli al laboratorio.
In materia di staminali il decreto Turco del 2006 parla chiaro: per curarsi c’è bisogno dell’autorizzazione del tribunale e cosi in Italia si è generata una situazione fatta di trattamenti difformi e differenze che in casi come questi segnano la distanza tra vivere o morire o tra vivere meglio o andare avanti tra sofferenze pesantissime.
Alcuni Tribunali (Venezia e Catania, rispettivamente per i casi di Celeste e Smeralda) ad oggi hanno aggirato il veto dell’AIFA consentendo di continuare la somministrazione per altri piccoli pazienti affetti da altre patologie gravissime, per Sofia ed altri due bambini non è andata cosi ed è sull’onda di questa discriminazione normativa di fatto che i suoi genitori hanno lanciato una denuncia e un appello direttamente al Ministro Balduzzi o a chi dovrà esserci in sua vece. Perché una questione è certa: Sofia non ha tempo per attendere la burocrazia, la politica e l’odiosità dei protagonismi para-democratici che occupano tutte le prime pagine dei quotidiani.
L’articolo 32, sancendo il diritto costituzionale alla salute, non lascia spazio all’interpretazione e non possono sussistere dubbi sulla sua applicabilità secondo principio eguaglianza, tantomeno nel caso delle cosiddette cure compassionevoli che riguardano situazioni di straordinaria gravità. L’interpretazione della legge ha creato di fatto una differenza che sta diventando una condanna ad una vita peggiore e di sofferenza per Sofia e altri piccoli come lei e la terapia della Stamina Foundation di Daniele Vannoni rimane oggi l’unica ed ultima possibilità. Dubbia, dirà l’AIFA, ma unica.
E’ certamente vero che la posizione delle Istituzioni preposte alla tutela della nostra salute non può essere aggirata, né per prassi né per principio, a colpi di sentenza. Eppure, anche in contesti molto diversi come quello della fecondazione e della contestatissima legge 40, sostanzialmente accade già di fatto che siano i tribunali a riscrivere la legge per la vita reale dei cittadini.
Se esiste un problema aperto a colpi di perizie e di protocolli bisognerebbe intanto che la commissione di esperti tornasse a riunirsi e a lavorare con urgenza su una materia che controversa e di difficile risoluzione è per tutte le malattie rare e i loro trattamenti. Diciamo anche che in questo campo, forse anche per la stessa condizione di rarità, bisogna dire grazie più alle maratone come Telethon e alla buona volontà di tante eccellenze mediche, che non di investiture dall’alto.
Il disallineamento tra le posizioni governative e le prove di efficacia addotte dai giudici, basate sulle condizioni effettive dei pazienti e sulla loro migliorata qualità di vita che non sulla guarigione, è un fatto che non può diventare ragione sufficiente per elargire cure sulla base delle differenze geografiche o del giudice di turno.
Ed infine, forse questo l’elemento che dovrebbe valere più di tutto, in questa giungla fatta di disordine e di continui dietro front in cui è un ospedale pubblico a rivendicare la correttezza del proprio operato e non uno stregone, non si può chiedere proprio a lei, la più piccola di questa storia, di pagare tutto il prezzo di quello che non sappiamo ancora di quei “comprovati risultati di efficacia”.
In certa misura anche le cure palliative ai terminali sono inefficaci, eppure esiste un tema di riduzione del dolore, di dignità e di qualità della vita. Se questo poco può bastare per vivere meglio, per continuare a nutrirsi un principio di buon senso dovrebbe indurre ad ascoltare la richiesta di aiuto dei suoi genitori che a breve non riusciranno più a nutrirla. Se la scienza può alleviare le sofferenze, anche se incapace di fornire soluzioni allora questa è la storia di un diritto negato: quella della farfalla che voleva essere una bambina.
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di Rosa Ana De Santis
Piazza San Pietro è gremita di fedeli per l’addio di Papa Ratzinger: 250.000 secondo le forze dell’ordine presenti. Commosso per tanta partecipazione il pontefice, ormai emerito, ribadisce che non abbandonerà la croce, ma che la servirà in modo nuovo pregando dentro la casa di Pietro: lì dove rimarrà fino alla fine. Da domani mattina Benedetto XVI toglierà la mantellina bianca, sfilerà l’anello del pescatore e lascerà le scarpe rosse. Questa la traduzione estetico-simbolica di un passaggio storico ed epocale che pur previsto dal diritto canonico ha il suo precedente soltanto nel passato remoto con Celestino V l’eremita.
Se la scelta del papa asceta aveva lasciato la Chiesa nelle mani di Bonifacio VIII con lo sconforto che Dante aveva saputo ben esprimere nelle terzine della Commedia, questa seconda volta le “dimissioni” del papa con il mondo della spiritualità e della preghiera sembrano averci davvero poco a che fare. Il non detto della Curia, a parte l’indugiare nei dettagli del folclore e delle procedure, sembra dire più di ogni dichiarazione ufficiale sulla vecchiaia e le condizioni di salute. Otto anni fa forse Ratzinger pensava di andare incontro alla gioventù?
Nonostante la partecipazione di massa dei fedeli lo shock, per una decisione che uno si aspetterebbe dall’ad di un’azienda o da un presidente del Consiglio non certo da un capo spirituale, è palpabile. Come la sensazione generale che in questa fase abbiano perso tutti: il papa in carica, la Chiesa rimasta improvvisamente spoglia di egida spirituale e investitura divina e i credenti che fanno fatica a riconoscere nel vicario di Cristo in terra un uomo che può rinunciare perché stanco.
Da questo punto di vista il precedessore Wojtyla aveva incarnato perfettamente il simbolo di questa missione divina. Difficile dopo di lui accontentarsi di un modo diverso di portare la croce. I credenti che dovrebbero vivere un moto di autentica indignazione per le sorti della Chiesa di Dio, sembrano come assopiti nell’attesa che il conclave “motu proprio” scelga il successore di Benedetto XVI più che un papa per la chiesa dei cattolici.
Fanno sempre più rumore infatti, nonostante i tentativi di riempire con il fumo il vuoto che lascia il gesto del Pontefice, gli scandali che gravano come una nuvola sul Conclave. L’arrivo incerto del cardinale americano Roger Mahony, accusato di aver coperto 129 casi di vittime di abusi sessuali nella diocesi di Los Angeles, e soprattutto il dossier Vatileaks sulla lobby dei gay voluto proprio da Ratzinger di cui qualcosa è stato raccontato dalla penna di Concita De Gregorio su La Repubblica e Ignazio Ingrao su Panorama.
Il conflitto tra il Papa che apre il vaso di Pandora più sporco della Chiesa cattolica e i cardinali sembra essere un filo conduttore per leggere le trame non più tanto segrete. Un gran da fare per il Padre Lombardi della Sala Stampa vaticana e il segretario di Stato Bertone spiegare ai media che il Conclave dovrà lavorare al sicuro dalle cosiddette maldicenze e in un’attesa di preghiera.
Chissà quanti dei fedeli oggi in preghiera per Benedetto XVI nel giorno dell’addio sanno che il successore troverà ad aspettarlo, oltre le scarpe rosse e l’apparato della sacra gioielleria, il dossier bollente. Il volto peggiore della Chiesa degli uomini: quello che Ratzinger ha fatto immortalare e documentare dai suoi cardinali agenti, magari rinunciando ad essere Papa per questo, e lasciando per meritato contrappasso la Chiesa alla sua mezzanotte santa.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. D’ora in poi, in caso di stupro o violenza, gli ospedali cattolici tedeschi potranno prescrivere la “pillola del giorno dopo” a quelle donne che la richiedano. È quanto ha deciso la Conferenza episcopale tedesca dopo un lungo dibattito che ha indirettamente coinvolto anche il Vaticano, mettendo in discussione uno tra i più solidi principi della Chiesa cattolica, quello degli anticoncezionali. A far pensare sono comunque le coincidenze: i cattolici tedeschi propongono infatti la svolta approfittando di un momento in cui, in Vaticano, c’è un posto “vacante” particolarmente importante da occupare: quello del Pontefice.
La discussione è cominciata qualche settimana fa, dopo che il vescovo cattolico di Colonia, Joachim Meisner, in reazione a un grave fatto di cronaca, ha permesso la somministrazione della “pillola del giorno dopo” entro il suo arcivescovado. Due ospedali cattolici del capoluogo tedesco hanno rifiutato la suddetta misura anticoncezionale a una donna stuprata, suscitando grave imbarazzo nell’opinione pubblica. La dignità e la libertà di scelta di una donna sono state limitate dalla religione e la sua autodeterminazione come donna, ancora una volta, messa sotto i piedi e offesa.
Ed è così che Meisner ha pensato bene di agire: la Germania è sì attenta al potere del Vaticano, ma ci sono altri principi: come l’uguaglianza degli uomini (e delle donne), che contano di più. Il Vaticano non ha in Germania la stessa più o meno esplicita influenza che ha in Italia e questo si era capito già da qualche secolo.
Ed è di pochi giorni fa la notizia dell’allineamento ufficiale della Conferenza episcopale tedesca all’atto solitario di Meisner: i vescovi tedeschi sostengono pienamente il religioso di Colonia, definendosi tuttavia anche in accordo con le dottrine del Vaticano. Durante la conferenza di Treviri (Germania occidentale) i vescovi tedeschi hanno ammesso la prescrizione, in casi particolari quali violenze e stupri, di quelle pillole che impediscono l’ovulazione, invitando le cliniche cattoliche del Paese ad adeguarsi. I cattolici tedeschi continuano a non ammettere i preparati che vanno a impedire lo sviluppo ulteriore di un ovulo già fecondato, sottolineano da Treviri: in questa distinzione scientifica la risoluzione all’apparente ambiguità della dottrina cattolica.
Anche il Vaticano, da parte sua, ha provato a parare il colpo, cercando di riportare le conclusioni di Meisner entro le proprie dottrine teoriche. Secondo il vescovo Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia accademia per la vita, la decisione dei tedeschi è in perfetta sintonia con un principio che la Chiesa accetta da oltre cinquant’anni, una linea in qualche modo sempre fraintesa da fedeli e religiosi.
Perché anche il Vaticano non si è mai esposto contro le pillole che impediscono l’ovulazione, spiega Carrasco, bensì contro quei medicinali e processi che provocano l’aborto. Uccidere l’embrione è anticattolico, impedire l’ovulazione no perché la vita non è ancora cominciata. I progressi medici rendono oggi possibile questa differenziazione e, secondo quanto riporta il quotidiano conservatore della capitale tedesca, il Berliner Morgenpost, i vescovi tedeschi non avrebbero fatto altro che esprimersi secondo questa linea e chiarire la “confusione” fra i medicinali.
Al presentarsi sul mercato della “pillola del giorno dopo”, una decina di anni fa, la Pontificia accademia per la vita si era espressa chiaramente circa tale medicamento, specificando la non moralità di tale misura. Nel Comunicato sulla cosiddetta pillola del giorno dopo, 31 ottobre 2000, il Vaticano spiegava: “Decidere di utilizzare la dizione ovulo fecondato per indicare le primissime fasi dello sviluppo embrionale, non può portare in alcun modo a creare artificialmente una discriminazione di valore tra momenti diversi dello sviluppo di un medesimo individuo umano. Lo sviluppo infatti non è caratterizzato da fasi “quantitative” separabili, ma c’è un continuum di potenzialità della vita umana che non è sezionabile.
In altre parole, se può essere utile, per motivi di descrizione scientifica, distinguere con termini convenzionali (ovulo fecondato, embrione, feto, etc.) differenti momenti di un unico processo di crescita, non può mai essere lecito decidere arbitrariamente che l'individuo umano abbia maggiore o minor valore (con conseguente fluttuazione del dovere alla sua tutela) a seconda dello stadio di sviluppo in cui si trova” (www.vatican.va). Viene difficile ora giustificare il comportamento dei vescovi tedeschi secondo una presunta dottrina vaticana mal interpretata, soprattutto alla luce di questo scritto. Si tratta di una novità vera e propria e per questo dirompente.
Il Vaticano cerca quindi di motivare quelle decisioni già prese da subordinati che sviano dai sentieri prescritti dalle gerarchie ecclesiali di Roma, e per farlo si arrampica sui vetri della medicina e della scienza, senza tuttavia riuscire a nascondere la parziale mutevolezza della propria linea. Per qualcuno la decisione dei vescovi tedeschi è una svolta vera e propria, che apre le porte a una maggiore considerazione della donna (e degli esseri umani più in generale) alla luce della nuova dignità sociale che il genere femminile ha riacquistato nel corso dei secoli. Per altri, invece, i tedeschi hanno voluto lanciare un chiaro e semplice messaggio al Papa che verrà e hanno approfittato del vuoto di potere: c’è bisogno di rinnovarsi e il cambiamento deve cominciare da Roma.