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di Rosa Ana De Santis
Yael è una ragazza che frequenta il liceo artistico Caravillani, a Roma. Quella mattina di qualche mese fa è distratta; forse, anzi sembra certo, non si sente bene a causa di una forte emicrania. Entra ed esce dall’aula, ha la testa altrove. La professoressa la nota e le rivolge un commento lapidario “In un campo di concentramento saresti stata attenta”. E’ questa la ricostruzione di Roma ebraica, ma è questo quello che dicono i testimoni: gli attoniti compagni di classe che immediatamente esprimono vicinanza e solidarietà alla loro amica.
In questa poche battute c’è tutto il meglio e il peggio che la storia ci consegna del male assoluto che è occorso all’inizio del secolo. Addolora che sia proprio un’insegnante, un’educatrice, una cui non si può concedere alcuno sconto di indulgenza per ignoranza o immaturità, a farsi portavoce di uno spot nazista. Persino di fronte al Presidente della Comunità ebraica, Riccardo Pacifici, in un tentativo di chiarificazione delle proprie posizioni, la donna ha rivendicato il suo rimprovero pensando di poterlo argomentare. Auschiwitz, ha detto lei, per indicare un luogo di “ordine”.
Deve aver confuso il campo di sterminio con un college, deve non avere studiato abbastanza, ma poiché pare impossibile dato il suo ruolo nell’istruzione, deve appartenere a quel manipolo di persone che sminuiscono, banalizzano, arrotondano l’olocausto a un po’ di omicidi sporadici tipici del tempo di guerra.
La preside non sospende la professoressa, ma le invia una lettera di richiamo (un po’ pochino) e ora spetta al MIUR e all’ufficio scolastico regionale qualsiasi decisione più rigorosa. Il Ministro Profumo sembra intenzionato a non lasciar correre con qualche sit in di protesta e poco altro. Importante la reazione degli altri studenti, ma indecoroso che la responsabile di una frase antisemita abbia potuto per quasi sette mesi salire in cattedra e continuare indisturbata nella sua opera di docenza.Ora, temendo una sospensione quasi sicura, la prof è in malattia e i vincitori di questa brutta partita di negazionismo sono i più giovani, le nuove generazioni, che del passato forse hanno se non una memoria, la giusta conoscenza. La giornata della memoria celebrata ogni anno il 27 gennaio viene a volte raccontata come un rito che sembra doveroso, ma ormai superfluo. Eppure i fatti, dolorosamente, ci smentiscono.
Per l’episodio di questo liceo artistico, certo, ma anche per i volantini neonazisti, con la runa Wolfsangel, qualche giorno fa apparsi al Liceo Tasso di Roma e denunciati immediatamente dall’ANPI (associazione nazionale partigiani). E poi ancora il congresso nascente, sempre nella capitale, promosso dalla formazione neonazista Militia che sta aprendo canali di adesione internet, sezioni sul territorio e che tra i punti programmatici del proprio manifesto ha lo stop al sionismo (chissà se sanno davvero cosa sia nella storia di questo popolo) internazionale e frasi del tipo “Israele non ha diritto di esistere”.
Dove Israele non significa ripensare la questione geo-politica mediorientale e palestinese per intenderci, ma eliminare il popolo ebraico tout court, nello stile che il nazismo ha sufficientemente dimostrato nella teoria e nella pratica. Tra questi signori, molti già arrestati dai Ros, c’è chi nega la Shoah e chi si dice ammiratore di Hitler.
In questo clima di nostalgie illegali, pericolose e antidemocratiche, chiudere l’occhio o tendere all’indulgenza dentro una scuola e al cospetto di una ragazza ebrea insultata è grave e deprecabile. Solo le scuole ci salveranno infatti da chi non ha studiato e da chi non ha capito. E solo la legge infine ci aiuterà a difenderci da chi, pur sapendo, milita dalla parte dei carnefici. Quelli che Norimberga, il pensiero, la civiltà e i sopravvissuti hanno condannato. Non tutti nel modo migliore. E soprattutto - e purtroppo - non tutti.
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di Rosa Ana De Santis
E’ ancora buio, il 6 aprile del 2009 alle 3.32, quando una fortissima scossa di magnitudo momento 6,3 Mw smantella L’Aquila, numerosi altri centri della Regione Abruzzo e regioni limitrofe e scuote l’intero Paese. A morire nel cratere ci sono 308 vittime, di cui 55 studenti. Ancora oggi una passeggiata nelle strade de L’Aquila e del gioiello che fu il suo centro storico ha un sapore spettrale. Le new town, il G8 e la scenografia della ricostruzione rapida e indolore: tutto è rimasto imbrigliato nel sipario del grande trucco televisivo.
Le famiglie e soprattutto i genitori che hanno perduto i loro figli, non solo quelli della Casa dello Studente divenuta ormai il riferimento simbolico della distruzione, chiedono di essere visibili e di dare un senso alla tragedia accaduta. L’Italia non è nuova all’ecatombe delle catastrofi naturali ed è un paese del tutto incapace di gestire e affrontare il rischio naturale che, soprattutto in un territorio come il nostro, non può essere mai ridotto allo zero.
A ribadire il concetto della mancata prevenzione a pochi giorni dal doloroso anniversario sono stati i geologi del Consiglio Nazionale, in una conferenza stampa di presentazione del premio di laurea AVUS (Associazione Vittime Universitarie del Sisma), accanto ai genitori di 13 ragazzi rimasti uccisi nelle loro case. Le loro storie sono state raccolte nel libro “Macerie dentro e fuori”. Tra le pagine intessute di ricordi il giornalista che ne è autore, Umberto Braccili, ripercorre la necessità di trovare un senso. Ricordare è agire per chi come Sergio Bianchi ha perduto un giovane figlio e lo ha trovato con le sue mani dopo due giorni di scavi tra vivi e morti con una figlia distante appena pochi passi in attesa di rivedere il proprio fratello. Sono famiglie che raccontano il dramma dell’invisibilità che lo Stato gli ha riservato nel tempo.
E il processo solenne che ha visto condannare gli uomini della Commissione Grandi Rischi non sanerà tutte le ferite dei sopravvissuti se non si inizia con serietà e trasparenza ad agire sulla prevenzione. Perché se la scienza ha pagato un prezzo di colpevolezza, alla politica e a chi ha amministrato e gestito il territorio spetta ancora di pagare il suo. Se, oggi, questo il dato più amaro, dopo la cronaca del grande sisma la Regione Abruzzo si ritrova con meno geologi e figure esperte in materia di quante non ne avesse prima, allora più di qualcuno è autorizzato a pensare che non si sia imparato granché.I geologi parlano di urgente piano di risanamento di un costruito che ancora non ha recepito l’adeguamento alle norme antisismiche al fine di rilasciare ad ogni edificio una sorta di carta di idoneità. E poi ancora di garanzie per la presenza di figure specializzate, di investimenti nel risanamento, di attuazione integrale e a tappeto del piano lanciato proprio dopo il sisma del 2009, di snellimento burocratico nelle procedure di intervento spesso rallentate da conflittualità tra enti a suon di scartoffie.
L’Italia non è solo ai terremoti che deve pensare. Vulcani, alluvioni e rischio idrogeologico raccontano di un territorio vulnerabile, spesso flagellato da speculazioni fuori controllo, da illegalità e anche da comportamenti individuali scorretti. Parlare però ai cittadini senza pretendere dalle Istituzioni delle linee guida urgenti e chiare significa solo elargire retorica della memoria. Le case di sabbia e cemento non avrebbero lasciato scampo nemmeno al ragazzo più istruito sui piani di evacuazione.
Il messaggio che arriva forte da questa prima giornata della memoria è quella dell’impegno e della denuncia: una missione in cui la scienza entra doverosamente nella politica. Per ricordare che a fronte di una natura che non può essere fermata c’è chi ha avallato sanatorie facili, costruzioni fuori dalle regole, case alle pendici dei vulcani o sui corsi dei torrenti, torri di sabbia in cui mettere a dormire dei ragazzi. Una mentalità del saccheggio irriverente contro cui la natura si scaglia senza distinzioni tra innocenti e colpevoli. Quella distinzione che i sopravvissuti de L’Aquila ci portano alla coscienza: con le lettere, i premi, le battaglie in tribunale. Perché questo in fondo significa non dimenticare.
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di Rosa Ana De Santis
Per chi non lo ricordasse, la morte del diciottenne Federico Aldovrandi, avvenuta nel 2005, ha i nomi e i cognomi dei quattro agenti di polizia condannati anche dalla Cassazione a 3 anni e 6 mesi di reclusione per reato di omicidio colposo per aver ammazzato di botte un ragazzo inerme. Le foto della salma distesa in obitorio, oggi dai poliziotti del Coisp denunciate come “fotomontaggi”, sono le protagoniste di questi giorni. Da quando Patrizia Moretti, la madre di Federico, sotto le finestre del proprio ufficio viene sorpresa, il 27 marzo, da un sit in di solidarietà dei poliziotti del Coisp con gli agenti assassini.
Una provocazione che le viene gridata da una strada e che la fa piangere. E’ allora che la madre scende con la gigantografia di Federico in obitorio. Lei che vorrebbe non mostrarla più, silenziosa e fiera, ma distrutta. E’ allora che vanamente interviene il sindaco di Ferrara per convincere i manifestanti ad andare a casa o almeno altrove.
La madre di Federico raccoglie la solidarietà di tutte le Istituzioni che definiscono incivili le accuse mosse dai manifestanti, in primis il Presidente del Senato Aldo Grasso. Gelo e spaccatura con tutti gli altri sindacati, dalla CGIL all’UGL. Forse una manifestazione del genere non si sarebbe mai dovuto autorizzarla, tantomeno nella libertà di poter andare sotto le finestre di una madre cui è stato ucciso un figlio.
Tutte le forze politiche prendono le distanze dal gruppetto di poliziotti difensori. Importanti segni di condanna dalla Boldrini, dall’ex capo della Polizia De Gennaro, dalla Cancellieri che con parole decise afferma che quel sit in e quelle persone non rappresentano la polizia italiana. Un discredito senza scampo. Una condanna tombale.Fu la tenacia della madre di Federico e di tutti i familiari, delle perizie e contro perizie di Fabio Anselmo, legale della famiglia, delle foto in cui la salma del povero ragazzo mostra i segni e il sangue della violenza che lo colpì, senza risparmiargli cranio e volto, a portare ad un raro caso di processo giusto ad uniformi che hanno ucciso.
La condanna definitiva, sempre per onore della cronaca e della scarsa memoria dilagante, aveva incassato anche le scuse formali e ufficiali dell’allora capo della polizia Manganelli.
I calci e i pugni avevano bloccato e soffocato il ragazzo, i poliziotti, per l’occasione improvvisati sceriffi, avrebbero alzato il gomito del manganello lasciando sull’asfalto una vittima. Un ragazzo come tanti altri figli che non ha avuto nemmeno il diritto di un gruppo di poliziotti degni di un Paese civile e nemmeno di un defibrillatore, ultima arma contro la furia cieca.
Patrizia Moretti annuncia querela contro chi l’ha offesa e ingiuriata con le accuse di aver ritoccato la foto e a quel drappello di difensori della strada risponde con l’unica verità che nessuno ha il pudore, il brivido o la paura di dire. Lei per prima vorrebbe ancora oggi, proprio adesso, che quella foto non fosse vera.
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di Rosa Ana De Santis
La prima sezione penale della Cassazione ha revocato la sentenza di secondo grado che aveva assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’accusa di aver ucciso la giovane Meredith nella notte del 2 novembre 2007 a Perugia, nella casa in cui le due ragazze vivevano insieme. La notizia sconvolge i legali della Difesa che pensavano ormai di aver inchiodato come unico colpevole della lunga agonia di Meredith l’ivoriano Rudy che con rito abbreviato e una verità confessata con troppe lacune è l’unico che sta scontando una pena di 16 anni in carcere.
Ritorna in scena la coppia che per quattro anni, dietro le sbarre della carcerazione preventiva, si è difesa, ha pianto, ha invocato la propria libertà. La “volpe in pelliccia”, l’angelica Amanda, e la sua famiglia che aveva addirittura smosso il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, avallando ingerenze inammissibili e rievocando una tradizione statunitense che per i propri cittadini è solita utilizzare strumenti non integerrimi di pressione e dissuasione. E poi lui, il signor Nessuno, l’universitario Sollecito, figlio di famiglia bene e difeso dalla Buongiorno, avvocato di prima classe e di nomi noti.
Il processo si sposterà a Firenze e tutte le perizie e le Ctu saranno rimesse sotto analisi davanti ad un nuovo collegio. Le prove maestre ovvero uno dei due coltelli con materiale genetico della Knox e della vittima e il suo gancetto del reggiseno con diversi campioni di dna, compreso quello di Sollecito, fanno pensare ad una scena del crimine che vede il concorso di più persone. Chi tiene ferma Meredith ai polsi (Rudy e Sollecito secondo la pubblica accusa), chi la molesta sessualmente, chi le sferra con la punta di coltello minacce fino a quel colpo mortale al collo della povera ragazza.
La Knox sarebbe l’assassina “attiva”, come sostiene l’accusa. La stessa che dice di esser tornata a casa e di non aver capito che la sua giovane amica giaceva a terra in una pozzanghera di sangue. La stessa che aveva calunniato, con condanna incassata e ricorso rifiutato, Lumumba poi prosciolto e dichiarato innocente. La stessa che assume, cosi risulta, un comportamento ben più cinico e glaciale di quel Rudy che in un atto di estrema pietà copre almeno il corpo martoriato della giovane vittima con una coperta.Dovrà essere depositata la sentenza per avere chiare le motivazioni di questa decisione, ma prendendo spunto dal ricorso alla sentenza di secondo grado si può dedurre già che si va “dal vizio delle motivazioni, alla violazione delle regole sul giusto valore probatorio delle sentenze, fino al travisamento delle prove”. La sensazione, visto il clamore mediatico che è sempre stato intorno alla vicenda giudiziaria, è che non passeranno mesi prima che le motivazioni siano depositate agli atti.
La famiglia della giovane Meredith si dice fiduciosa, mentre i due imputati ricordano che l’annullamento non è una condanna. Mentre Sollecito si prepara alle feste di Pasqua in Puglia, la condizione della Knox è decisamente un’incognita visto che gli USA potrebbero opporsi all’estradizione dato che un cittadino statunitense può non essere processato due volte per la stessa accusa.
La Buongiorno invoca battaglia annunciando che farà esplorare strade finora poco battute, anche per niente, come quella delle macchie di sangue del piano di sotto date per sangue di gatto. Sembra un po’ la teoria dell’intruso di Cogne. Sembra.
Le condanne a 25 e 26 anni tornano ad essere una spada di Damocle sulla testa dei due principali indiziati e mentre gli Stati Uniti puntano il dito contro una giustizia italiana troppo lenta che da atto ad un capovolgimento giudiziario eclatante dal “fatto non sussite” al nuovo processo, la sorella di Meredith si dice “felice”. Felice per una famiglia che non ha mai cercato colpevoli a buon mercato, ma ricostruzioni chiare di quel gruppo d’amici trasformatisi in assassini forse, ma sicuramente in testimoni freddi, incerti, omertosi. Come lo shopping del giorno dopo di Amanda e Raffaele sbaciucchianti dietro una vetrina, come se a morire in modo tanto atroce non fosse stata una giovane comune amica. Quella della stanza accanto.
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di Rosa Ana De Santis
Ora che finalmente lo spread sembra uscito dalle prime pagine dei giornali, sono i problemi reali a tornare prepotentemente all’attenzione della politica e delle istituzioni. La lista delle urgenze inizia senza dubbio dall’emergenza sanità che alcune regioni del Paese attanaglia in modo particolare. Il Rapporto OASI dell’università Bocconi offre un quadro drammatico con preoccupanti elementi di novità del sistema sanitario nazionale.
A fronte dell’aumento dei ticket, di 5 milioni di tasse locali in più, addizionali Irpef in aumento a iosa per evitare di finire con i bilanci in rosso, i servizi sanitari non hanno comunque tenuto il passo, costringendo sempre più cittadini a rivolgersi al privato, spesso con la beffa di pagare di meno per medesime prestazioni specialistiche.
Il marketing dei centri privati ai tempi della crisi batte il deficit del sistema sanitario nazionale o, per meglio dire, la tolleranza agli sprechi. Perché rimane questo, a detta della Fiaso (la Federazione di ASL e ospedali) il responsabile numero uno del disastro sanità.
La riqualificazione del management sanerebbe molto meglio i conti di quanto non abbiano fatto finora i tagli orizzontali e il cieco rigore finanziario. La direzione giusta, come indicato in sede europea a Dublino da tutti i ministri di sanità d’Europa, è quella di attribuire a questi stessi dicasteri la gestione della loro economia e finanza.
Una scelta che nasce dall’ammissione condivisa, da una filosofia diremmo, secondo la quale investimenti nella ricerca e nella cura non possano finire nel computo del deficit nazionale, tantomeno la cura dei cittadini e la loro assistenza sanitaria che a tutto può servire tranne che a fare cassa e profitto in breve tempo a meno di non voler vedere tutti i malati cronici deceduti.La rivoluzione necessaria per non far collassare il sistema sanitario nazionale non inizia dai numeri del debito, ma dall’approccio alla cura e da un ripensamento complessivo dei servizi fatto di territorialità, altissima specializzazione ed efficiente prevenzione: l’unica arma scientifica che può ridurre l’impatto economico – sul lungo periodo - della sanità. Quindi da criteri selettivi nella formazione e nel reclutamento del personale, da una migliore integrazione di clinica e assistenza sanitaria, e non da ultimo da trasparenza. Infine rigore. Non quello modaiolo dei grafici della finanza, ma quello delle buone regole e delle tutele.
Quello che deve imporre a tanti medici della vecchia casta di non spartire più a part time l’ospedale con la clinica a sfregio di lasciare gli ambulatori in mano a ricercatori specializzati con contratti fantasma e pochi spiccioli. Di non tenere macchine diagnostiche di ultima generazione imballate perché non si ha modo di formare il personale addetto.
Tutto questo che, soprattutto da Roma in giù, colleziona le sue prove magistrali non è il frutto della povertà, ma di una montagna di denaro sprecata altrove e male, in una parola dell’amministrazione errata. Il responsabile non è la crisi, ma la politica.
La crisi è quella che spinge i privati a fare buon marketing dei propri servizi sanitari. L’incompetenza è quella che spinge sempre di più i cittadini a rinunciare all’ospedale a causa delle infinite attese, a causa di un percorso di assistenza sanitaria che dal medico di base allo specialista arriva a singhiozzi e con scarsa chiarezza, a causa, infine, di una disperazione che sulla vita non accetta le ragioni della borsa, perché il diritto alla salute, in un paese civile, è quel costo altissimo che non importa quanto, ma tutti potranno pagare.