di Rosa Ana De Santis

Potrebbe funzionare molto bene come titolo di un classico filmetto erotico degli anni 80 e non saremmo in ogni caso troppo lontani dalla realtà. Si tratta invece dell’ultimo siparietto dei doppi sensi sdoganato dal barzellettiere Berlusconi che torna a candidarsi, non nascondendo che il lupo del pelo e del vizio è orgogliosamente sempre lo stesso. Non stupisce quindi che nel bel mezzo di una campagna elettorale delicatissima per le sorti del Paese, in una convention a Mirano al cospetto di una nutrita platea, Berlusconi abbia ingaggiato uno scambio di doppi sensi sul numero di orgasmi di una impiegata della Green Power, per concludere in bellezza con una richiesta di guardarle il fondoschiena e prometterle di lasciarle il suo numero di cellulare.

Si sa, queste cose agli italiani piacciono cosi tanto che nonostante le macerie di 17 anni di governi Berlusconi, sono già disposti a sostenerlo sulle promesse dell’Imu e su queste simpatiche goliardate che lo rendono, nel segreto della prima mattina davanti allo specchio di casa, un esempio per i maschietti del Belpaese. Almeno sui peggiori, quelli che lo votano perché lo invidiano.

Ma il dato sconfortante è lei: questa giovane donna che regge il gioco delle battute, che invece di reagire fermamente si volta mostrando il curriculum del sedere, che sghignazza piena di orgoglio e finto imbarazzo giulivo per aver avuto le attenzioni del ricco, vecchio feudatario del castello. Non c’è imbarazzo, rifiuto, c’è l’accoglienza del piano squallido delle battutine penose degne di Alvaro Vitali, il vero nume tutelare del piccoletto di Arcore.

La signora asseconda divertita, nella speranza che le attenzioni del vegliardo zeppo di soldi e potere possano rappresentare la sua grande occasione. Deve aver pensato che l’occasione non poteva essere sciupata per diventare finalmente candidabile anche lei per il gineceo, virtuale o reale che sia, dell’Olgettina. E’ lei infatti che non interrompe l’offensivo assedio da cliente di bordello, che non taglia corto, che non va oltre; è lei che ci dice che il problema dell’emancipazione mancata delle donne italiane è un tema che riguarda le donne e non tanto o non più tanto gli uomini.

Le piazze di “Se non ora quando?” sembrano diventate così vuote e inutili quando una giovane donna in una veste pubblica e professionale, non nel letto di casa sua quindi, non si offende, ma anzi si lusinga di esser trattata pubblicamente nemmeno come un corpo, ma come una mercanzia addetta agli sfizi sessuali. Di Berlusconi ovviamente, non dell’ultimo operario edile a busta paga che al suo posto  avrebbe ricevuto un ceffone e sarebbe stato accusato già, per storielle simili a quelle del premier, di essere un maniaco sessuale seriale.

L’obiettivo quindi di una nuova stagione di cultura di genere o del più storico femminismo dei diritti è riempire le piazze per le donne e non solo contro il Cavaliere. Per quelle che, come questa ragazza, non colgono più la gravità dell’offesa e la penalizzazione sul piano della dignità  e dell’autonomia che si patisce argomentando il sesso e il corpo non più nel contesto della scelta privata delle emozioni e del piacere, ma in quello del compenso, del lavoro, della misura esclusiva del proprio valore su piazza. E’ la storia più vecchia del mondo, dirà la vulgata del bar, non certo quella del più noto circolo culturale, quella delle donne che si concedono per carriera.

Va detto per amore di verità linguistica ormai sempre più incline alla mistificazione dei termini, che si tratta di un comportamento che in un altro clima storico, per bigottismo forse più che per reale consapevolezza, veniva considerato, giustamente, qualcosa di cui non andar fiere, una specie di salvagente per quante, belle e oche, non possedessero altri talenti. E’ su questo punto invece che c’è un dato nuovo che ha ormai alimentato una seconda stagione di feroce maschilismo, feroce perché all’apparenza sconfitto. Maschilismo perché il fraintendimento è sul significato dell’emancipazione.

A concedersi per il ricco feudatario o a desiderare di farlo come fosse titolo di merito sono un po’ tutte, anche quelle con la laurea in tasca. A non avere vergogna di dirlo sono troppe, nemmeno davanti alle telecamere o peggio ancora ai propri genitori. A crescere con questo sogno televisivo nel diario segreto sono molte figlie italiane, magari ben istruite, di buona famiglia come si usa dire.

Bisogna quindi trovare il coraggio di riconoscere, con buon mea culpa del femminismo, che lo fanno perché credono di essere emancipate, libere nei costumi, disinibite, furbe e con gli stessi diritti degli uomini. Perché la libertà sessuale è stata spesso l’unico viatico per parlare di libertà con la “L” maiuscola e di autonomia. Forse troppo.

Le donne emancipate vere sono costrette nel proprio luogo di lavoro ad indossare i pantaloni e a coprire le curve della propria bellezza per essere considerate brave e valenti come i colleghi maschi, salvo poi esser pagate meno per lavorare di più. Le più belle e magari anche più preparate giocano a volte la carta del sesso sapendo di poter avere tutto a partire da questa, quando dall’altra parte c’è uno come Berlusconi.

Bisogna partire dalle donne, magari dalle figlie e magari dovranno interrogarsi le madri di questa generazione schiacciata dal mago del consenso Mediaset. L’incognita è come un fenomeno televisivo abbia potuto svuotare così tanto la tradizione del femminismo fino a renderlo estraneo alle nuove generazioni nei suoi valori fondativi. Forse perché si sono sbagliati gli interlocutori e gli obiettivi.

L’episodio da barzelletta erotica dell’impenitente premier della giarrettiera è un bollino di garanzia sulle manie del Cavaliere che rimangono le stesse, ed è purtroppo un altro pezzetto di squallore che monta non tanto sugli esiti delle prossime elezioni, né su quanto gli italiani abbiano capito, piuttosto su cosa siano diventati. O sempre stati.


di Silvia Mari

A sentire la Lega, le tasse pagate dal Nord dovrebbero rimanere al Nord. Così, oltre alla riduzione draconiana della spesa sanitaria, l’universalità del servizio diverrebbe definitivamente un lusso per i ricchi. Semmai, proprio il centro-sud avrebbe bisogno di un robusto intervento pubblico di razionalizzazione ed ottimizzazione della spesa sanitaria per la quale già il nostro Paese risulta un’entità spaccata in due. E questo ancor più risulta evidente quando si entra sul terreno della prevenzione, dove si misura la peggiore iniquità tra utenti e cittadini dello stesso paese.

La differenza tra il Nord e il Sud del Paese, frutto di innumerevoli cause, rappresenta un vero e proprio attentato al diritto costituzionale alla salute, sia come priorità dell’individuo che della collettività, come sancito dall’articolo 32 della nostra Magna Charta. A confermare questo dato ci sono i numeri prodotti da uno studio dell’Istituto dei Tumori di Milano e pubblicati sulla rivista Cancer Epidemiology, che restituiscono un ritratto preoccupante della situazione nazionale sulla diagnosi e la cura del tumore del seno e di altre patologie oncologiche, quale il colon-retto.

Nel Mezzogiorno soltanto il 26% dei casi di tumore arriva alla cura ad uno stadio precoce, determinato da una buona e assidua prevenzione. Il resto delle donne arriva già con metastasi, casi avanzati che richiedono trattamenti chirurgici e terapeutici più impegnativi e costosi. Arrivare tardi nel caso del tumore del seno significa aver bisogno di interventi demolitivi della mammella con le conseguenze che questo rappresenta nella vita di una donna. E una donna di Sassari o di Napoli ha molte più cianche che questo le accada di una di Modena.

La ricerca non ha riguardato soltanto il seno, ma anche altre forme tumorali e lo scarto tra le due aree del paese è purtroppo confermato. Il tipo di disavanzo non è soltanto relativo alla diagnosi della malattia, ma anche, alla tipologia delle cure applicate che al Nord si avvale di protocolli più all’avanguardia rispetto alle linee seguite al Sud. Motivo di tanti viaggi della speranza che conosciamo. Nel caso del tumore del seno questo significa ricorrere a radioterapia intraoperatoria, ad esempio, e quindi a chirurgia conservativa o a tipologie plastico-ricostruttive di ultima generazione.

Si può interpretare questa spietata matematica della speranza come il riflesso generalizzato di un atteggiamento culturale resistente alla responsabilizzazione da parte del paziente e quindi alla prevenzione. Questo il motivo che porta Istituzioni e associazioni a battersi per spiegare il fondamentale valore della prevenzione primaria e secondaria. Ma pensare al fatalismo come unico reo di questa geografia dell’ingiustizia significa non voler mettere a nudo le falle di un sistema che viene gestito male, con differenze tra le singole Regioni ingiustificate e motivate unicamente da carenze di ordine politico-governativo, se non da vere e proprie male gestioni come lo stato di commissariamento attuale della Regione Lazio, un esempio in negativo su tutti, dimostra a pieni voti.

La sanità ha certamente subito tagli importanti, quasi 3 miliardi solo nel 2011, ma certamente la gestione delle risorse e la pianificazione degli screening rimane la nota dolente, ancor più affidata al caso e all’estemporaneità se pensiamo poi a quelle quote della popolazione a rischio genetico per alcune neoplasie: ultimi dopo gli ultimi.

Per il tumore della mammella, della cervice uterina e del colon retto non c’è alcuna uniformità tra le Regioni e alcune sono assolutamente sprovviste di piani di screening concreti e seguiti. Chiaro che quest’assenza istituzionale genera odiose disparità economiche tali per cui la salute passa dall’essere un diritto costituzionale ad un benefit di censo che opprime di più proprio le aree depresse dell’Italia. L’adesione ai programmi di screening non supera il 56% per dirla in un numero, e il Sud è il grande assente, rosso come il colore delle legende che evidenziano l’assenza di dati e di risposte della popolazione.

Esiste poi un altro tema ineludibile che è quello dei cosiddetti DRG e dei rimborsi delle prestazioni sanitarie che in una Regione come il Lazio, non proprio la provincia di Kampala, sono ad oggi rimasti fermi a procedure e tecniche operatorie in parte superate da altre, quali quelle della ricostruzione della mammella con tessuti autologhi, ancora non riconosciute dal Ministero della Salute. Un disallineamento che produce una pericolosa asimmetria tra quello che accade in alcune strutture di alta specializzazione e le carte che normano la sanità e i fondi che servono per tenerla in piedi.

Inutile chiedersi perché gli ospedali rischino la bancarotta e perche le liste diventino una specie di imbuto penoso verso il privato, con tutti i rischi del caso. Per non parlare dell’effetto boomerang sulla formazione dei medici.

Un modello virtuoso, in tema di screening, è quello di una Regione come l’Emilia-Romagna che ha decentrato verso il territorio e i cosiddetti centri spoke, allargando il ventaglio del piano di screening mammografico e prevedendo una fortissima  tutela per le persone con mutazione genetica ad alto rischio. Basterebbe copiare la circolare 21 del 2011 o il Dgr 220 dello stesso anno e magari la testa di chi le ha pensate, la mano della politica che le ha volute e attuate. Ma per tutto questo la parola è dei cittadini: il voto e la scelta degli uomini e delle donne al governo.

Gli stessi cittadini che sempre di più sono vittime di questa inefficienza e di questi tentativi, nemmeno troppo sotto traccia, che hanno indotto, per citare la più recente cronaca, il premier para-tecnico Monti a parlare di rivoluzione della sanità. Le eccellenze ci sono e i fondi pure, manca la volontà di far funzionare la macchina e la regia della spesa e non c’è affatto bisogno di rivoluzionare alcunché. Tantomeno la lezione, che non si apprende in banca o in borsa o in azienda, che recita che la salute è un diritto rispetto al quale siamo tutti uguali, quale che sia la latitudine del paese, il genere o più miseramente il conto in banca. Risolvere un problema cancellando un diritto invece che assumendosene la responsabilità non è una nobile operazione tecnica, ma un ignobile attentato alla giustizia.

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Chiediamocelo subito, meglio il capitalismo? La domanda incombe ad ogni istante visitando alla "Berlinische Galerie" la mostra sulla fotografia d’autore nella ex Germania dell’Est  (Künstlerische Fotografie in der DDR 1945-1989), nella quale quattro decenni di Storia sono riassunti in immagini che permettono uno sguardo approfondito su un mondo ancora non del tutto conosciuto. Infatti, quello che della mostra più attrae sono i ritratti della vita di tutti i giorni nell’ex DDR.

Si comincia con una serie di immagini impressionanti sulle condizioni in cui versava la Germania dopo la guerra, dalla fine del Terzo Reich nel 1945 alla nascita della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949. Si prosegue con una carrellata di fotografie quasi tutte non ufficiali che, soffermandosi sui vari aspetti del sociale e sui suoi protagonisti, offre uno scenario reale di quella che era la vita nella Germania socialista fino a crollo del Muro.

Meglio il capitalismo allora? Andrea, classe 1961 che aveva 28 anni quando il muro cadde, mi risponde di sì, che è meglio, ma arriccia il naso. Confida che molti tra coloro che oggi hanno più di sessant’anni ricordano quegli anni con nostalgia, non certo per il sistema oligarchico che vi governava, ma perché vi era l’illusione che le aspirazioni del popolo fossero in cima alle priorità. Beninteso, questa nostalgia diffusa è storia recente che rischia di diventare contagiosa da quando la parola “gente” - qui come altrove in Europa - ha preso il posto della parola popolo.

Lo scambio è avvenuto sull’onda della crisi economica che ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell'economia e benché i movimenti popolari abbiano denunciato da tempo la distanza dei sistemi occidentali dai loro cittadini, ben poco essi possono fare per invertire la tendenza. Sicché le rivendicazioni della società civile sono diventate nel panorama mediatico un fastidioso incidente di percorso, e quindi - quando è possibile - sono cassate dai programmi.

Anche perché il Paese che tentasse di ostacolare le galoppate finanziarie del capitalismo liberista verrebbe punito dal mercato attraverso la fuga dei capitali, la svalutazione della moneta e l’abbassamento del rating del credito. E’ già accaduto nella storia dei Paesi industrializzati, sicché la grande impresa - con il pretesto dei rincari del costo del petrolio e delle materie prime, degli assilli della competizione globale - è sempre meno disposta a contrattare e sempre più propensa a indicare i lavoratori e le loro rivendicazioni contrattuali tra le maggiori cause del disastro economico.

Il risultato è che l’interesse collettivo che dovrebbe essere il principio ispiratore delle politiche pubbliche non è evidenziato dai media, come pure l’obbligo del governo di rendere conto del proprio operato ai cittadini. Pertanto la sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che esso non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo; anzi costoro sono accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire i propri interessi particolari.

Insomma, come già temeva lo scrittore Leonardo Sciascia: «Si è scavato un fossato tra le élites ed il popolo; un fossato ideologico e sociologico che non cessa di allargarsi». E’ un malessere che in Germania si manifesta anche con una pacata riflessione sulla qualità della vita dietro al Muro. Invece nell’Italia stravolta dalla crisi, esso rischia di rompere l’alleanza storica tra  capitalismo, stato sociale e democrazia, con il pericolo di trasformare definitivamente quest’ultima in un’oligarchia «formattata» dal «pensiero unico» sulla priorità assoluta dell’economia.

Insomma, i mercati asservendo i governi ai propri interessi gestiscono di fatto il potere con una determinazione, come mai era accaduto da sessant’anni e passa a questa parte. In Italia l’evento viene vissuto in una conflittualità a tutto tondo che la campagna elettorale aggrava, e che la scena mediatica amplifica piuttosto che analizzarla. Sicché, è già nata - ad esempio - una nuova sensibilità nell’interpretazione della miseria umana, intorno alla quale la Chiesa sta giocando un ruolo determinante poiché essa possiede lo straordinario potere, mettendo a nudo le disfunzioni della società, di condizionare le politiche dei governi.

Visto da Berlino lo svolazzar di tonache nel firmamento elettorale italiano non sorprende per nulla. Del resto è dal XIX secolo, da quando l’impero ottomano entrò nel suo pieno declino, che la cultura europea di matrice illuminista ha sollevato un muro tra l’Europa della laicità e l’Europa dell’arretratezza, includendo in questa Europa di “classe inferiore” insieme all’Islam anche la Chiesa cattolica romana. Pertanto da queste parti nemmeno ci si domanda perché quella che cinquant'anni fa si proclamava "la chiesa dei poveri" ora è una chiesa che opera per i poveri, ma parla sempre meno dei poveri, del popolo e tace sugli operai. Di converso, essa stigmatizza la politica perché “schiava della dittatura del relativismo", e sostiene i tecnici che la Chiesa assecondano sebbene essi parlino di gente invece che di popolo.

Infatti, sono oggi i teologi americani impegnati nel business ethics che stilano i documenti del magistero cattolico. Dai quali emerge che il problema principale è quello di formare dei business leaders e dei managers eticamente sensibili ad un'idea di "bene comune" assai vaga, e a una "solidarietà coi poveri" molto più vicina alle opere di carità individuale che alla giustizia sociale.

Stando così le cose, la laicità diventa la prova nodale per Monti, in un paese dove la Chiesa s'intromette nella politica pesantemente e dove l'egemonia ecclesiastica non è esercitata dagli eredi del Concilio, bensì  dall'onda lunga del reaganismo cattolico che negli Usa sostiene il Partito repubblicano, come ha spiegato sull’Huffington Post il professore di Storia del cristianesimo Massimo Faggioli. Tuttavia, ancora non conosciamo bene la visione che il Professore ha del mondo. Se egli sostiene il modello liberista che prevede una netta separazione tra lo Stato e le imprese private. Oppure, dopo l’esperienza di governo, egli predilige il mercantilismo, che offre una visione corporativa in cui lo Stato e le imprese private sono alleati e collaborano nel perseguimento di obiettivi comuni, come la crescita economica interna, l’equità sociale.

Beninteso, sebbene Monti sembri godere della considerazione internazionale, non credo che le sue decisioni condizionino le scelte che il mondo si appresta a fare e dalle quali dipenderà il destino futuro di gran parte dell’umanità. Perché oggi il confronto non è più sul conflitto capitalismo - socialismo, bensì è nella lotta tra due opposte scuole di pensiero: il "liberismo" e il "mercantilismo". Il liberalismo economico, con la sua enfasi sul valore dell'imprenditoria privata ed il libero mercato, è la dottrina oggi dominante. Ma in realtà, come profetizza Dani Rodrik, docente di International Political Economy all’Università di Harvard, «il mercantilismo rimane vivo e vegeto, ed è probabile che il suo continuo conflitto con il liberalismo sia una delle forze più importanti nel determinare il futuro dell'economia globale».

Per supportare la sua ipotesi egli ricorda l’esempio cinese in quanto modello della "collaborazione governo-impresa" o dello "stato pro-impresa". Infatti la Cina è - spiega Dani Rodrik - il corifeo della nuova sfida mercantilista, anche se i leader cinesi non lo ammetteranno mai, poiché il termine stride in un contesto comunista. Tuttavia, la gran parte del miracolo economico della Cina è il prodotto di un governo socialista che ha sostenuto, stimolato e apertamente sovvenzionato i grandi imprenditori industriali sia nazionali che esteri.

Il professor Dani Rodrik esemplifica: «Anche se la Cina ha eliminato molte delle sovvenzioni esplicite all'esportazione, come condizione per l’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (a cui ha aderito nel 2001), il sistema di supporto mercantilistico resta ampiamente in atto. In particolare, il governo ha gestito il tasso di cambio per mantenere la redditività dei costruttori, determinando un consistente surplus commerciale (che è sceso da poco, ma in gran parte a causa del rallentamento economico mondiale). E tuttavia, le imprese esportatrici continuano a beneficiare di una serie di incentivi fiscali».

Perché mi sono dilungato sul significato della lotta tra le due scuole di pensiero, su questa esaltazione del mercantilismo? Perché meglio di qualsiasi altro esempio spiega come  la “crisi economica” sia diventata un sipario dietro il quale si nasconde e opera una nuova compagine di comando eletta dalla globalizzazione, che unisce dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti convinti della pericolosità del popolo ogni qualvolta esso constata che la politica è soffocata dall’economia, è affidata al governo degli esperti che penalizzano gli aspetti sociali.

Certamente tornando per un attimo ancora sullo scenario italiano, il Professore né si pone né  propone domande sul perché la “gente” ha preso il posto del popolo, o perché prevale il “politicamente corretto” piuttosto che la difesa degli interessi della classe operaia, come si continuano a chiedere seppure in un contesto economicamente migliore quei tedeschi che vissero di qua e di là del Muro. Ad onor del vero una risposta il professore l’ha data quando infastidito dalle tante, lente procedure della democrazia, aveva auspicato una società che tramite i suoi manager, o i suoi banchieri, o i suoi economisti, "educhi il Parlamento e la politica”, e li sorpassi. L’aveva detto il 5 agosto nell'intervista al settimanale tedesco Spiegel. Non so quanti in Italia se ne rammentino. Soprattutto a sinistra.

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di Silvia Mari

E’ una domenica pomeriggio quando incontro i genitori del piccolo Matteo.  Mi accolgono nella loro casa e non sono affatto restii a raccontare la storia di un figlio speciale. In un momento storico del paese in cui la politica esibisce, nelle sue forme più scadenti, le ricette elettorali anticrisi, parlare di salute e di malattie genetiche rare sembra quasi  una velleità, persino in questo ristretto circolo familiare di affetti.

Il racconto sembra quasi un affronto donchisciottesco per un sistema sanitario sbrodolato, a maglie larghe, fatto di sprechi e insieme di tagli orizzontali e scriteriati che hanno visto nel 2011 la spesa sanitaria scendere a 112 miliardi, ben 2,9 miliardi in meno rispetto al dato previsto e riconfermato nel quadro di preconsuntivo della Relazione al Parlamento. Per la prima volta, rispetto all’anno precedente, la spesa sanitaria ha ulteriormente ridotto la sua incidenza sul Pil: dal 7,3 % al 7,1%.

Sottrazioni che diventano ancora più crudeli quando davanti hai solo un bambino nato otto anni fa con la sindrome di Noonan. Una malattia giovane in letteratura medica, scoperta nel 1963 dalla cardiologa pediatrica Noonan. Tratti somatici caratteristici, corporatura esile, cardiopatia congenita o ipertrofica, iperattività sono i segni tipici di questa sindrome per molto tempo confusa con altre simili quali la Turner o la Leopard.

Forse meno rara di quello che si crede, Noonan interessa un bambino su 1.500 e può o essere trasmessa da un genitore affetto o essere il frutto di una mutazione nell’atto del concepimento. Il gene modificato nel 50% dei casi è il PTPN11, localizzato sul cromosoma 12, ma moltissime sono le casistiche che interessano altri geni e che hanno tratti parzialmente comuni con la Noonan.

Soltanto la ricerca e l’ulteriore classificazione delle mutazioni potrà consentire un pieno riconoscimento di tutte le forme cosiddette Noonan - like e consentire di studiare in modo completo i protocolli terapeutici del caso. Un atto di civiltà, assolutamente necessario - secondo i genitori intervistati - dal momento che dietro a quei codici freddi del DNA ci sono storie, c’è il diritto ad una vita felice, c’è un figlio come il loro.

Già dentro la pancia i consueti esami di screening avevano mostrato anomalie. Le ultime ecografie, prima della nascita di Matteo, fanno pensare ad un bambino idrocefalo, poi l’ecocardio mostra una lieve malformazione alla valvola polmonare. Forse il solito soffietto al cuore. Matteo nasce, e con sollievo di chi lo attende da nove mesi, sembra un neonato come tutti gli altri, ma i suoi primi mesi di vita sono funestati da continui ricoveri. Respira emettendo un suono che ricorda il fischio di uno strumento a fiato e all’inizio i medici sono certi e allineati nella diagnosi di una polmonite che si ripete però nel giro di pochissimo tempo. Troppo poco per essere credibile.

E’ la buona sorte dell’incontro giusto con il genetista del Gemelli di Roma, il Prof. Zampino, a portare finalmente i genitori di Matteo dall’incertezza diagnostica alla conoscenza della verità,  fortunatamente in tempi brevi. Quella che ad una madre e ad un padre suona sempre più come una condanna che non come una condizione di vita. Per paura, per infondato senso di colpa, per cronicità di una condizione inalterabile cui nessuno può riconoscere un barlume di senso.

Matteo ad un anno di vita patisce una condizione di regressione psico-motoria pesantissima, determinata da un’encefalite da mononucleosi. Sono giorni di paura e di disorientamento, ma pur nel suo fragile equilibrio supera anche questa prova e ricomincia daccapo la sua vita con la tenacia e la cura di una famiglia che ha fatto ormai i conti con la consapevolezza della sua malattia, ma che non per questo lo vuole lasciare indietro.

Da allora sono passati molti anni e la vita di Matteo è fatta di scuola, gioco, famiglia. I day hospital di controllo al Policlinico Agostino Gemelli sono diventati semestrali e il cuore di Matteo viene monitorato per valutare tempi e modalità di un possibile intervento chirurgico. Ogni settimana ha la sua terapia motoria e logopedistica, dalle 5 ore previste purtroppo ridotta alle 3 attuali, e le sue 22 ore di sostegno a scuola, recuperate solo dopo una clamorosa vittoria ottenuta dai suoi genitori in tribunale a fronte dei tagli imposti al sostegno - ridotto ad otto ore - per mancanza di fondi.

Un sciagura, quella dei tagli agli insegnanti di sostegno, che viene dritta dalla scuola targata Gelmini e che ha snaturato la scuola nella sua inestimabile funzione sociale, lasciando al proprio posto gli sprechi e le inefficienze tanto denunciate.

Servono 5 ore di terapia perché Matteo cresca nel migliore dei modi e la famiglia è disposta a pagare, ma l’arrivo di un nuovo terapista e un nuovo centro potrebbero essere un danno invece che un beneficio visto che quegli specialisti lavorano solo nel pubblico. E allora i genitori di Matteo decidono di rimanere in quel centro a sperare che i livelli di servizio tornino ad essere quello che erano. Lo sperano anche per tutte quelle famiglie che non hanno possibilità economiche adeguate.

Perché in fondo, a pensarci bene, i numeri dei pazienti sono cosi ridotti che non può esserci verosimilmente un problema di sostenibilità finanziaria, ma semmai solo un’odiosa questione di affari. Un sistema sanitario pubblico ridotto a sopravvivere con sempre meno strumenti a disposizione procura nei pazienti non solo odiose diseguaglianze, ma, come il caso di Matteo può aiutare a comprendere, il rischio di veri e propri danni al percorso clinico di quanti si vedono costretti a cercare rimedi nelle strutture private, spesso alla cieca e senza alcuna misura di valutazione e selezione.

La spesa sanitaria, PIL alla mano, ha sempre restituito al Paese ben più di quello che è costata e basta partire da questi numeri per comprendere che è semmai una politica di investimento e controllo la strada che può rimettere in moto la sanità e non il suo saccheggio a favore delle spa della salute. Il tema del diritto alla salute e la cruda rendicontazione del PIL (restituzione del 13% a fronte di un costo del 7%) sono sufficienti a smentire la teoria dei tagli necessari dovuti alla crisi.

Matteo è un bambino che coglie benissimo le sue particolarità rispetto agli amichetti del quartiere e a quelli a scuola. Le sue maestre in più, la familiarità con i medici e gli ospedali, questa sigla Noonan che lo accompagna come un secondo nome e una carta d’identità. Quel nome clinico, magari sbattuto con freddezza e senza troppe spiegazioni sulle spalle di una famiglia che testimonia con emozione  quanto aiuto possa venire dalla condivisione con gli altri,  proprio in queste zone grigie di incertezza in cui si è sempre impreparati a reggere l’urto della vita e le sue sorprese.

“Abbiamo chiamato l’associazione perché ci sentivamo soli”. E’ questo senso di estraniazione dai genitori “normali”a spingere la ricerca su internet a caccia di altre storie simili fintanto che Noonan non è più il nome di una sindrome e l’identikit di un gene, non è il linguaggio della medicina attaccato come uno stemma, ma il secondo nome degli angeli. L’Associazione Angeli di Noonan entra così nella vita di Matteo e in quella della sua famiglia ed è in questo mondo di condivisione e similitudini che la differenza non è più un pregiudizio o un limite per una vita felice.

Angeli non come lo diremmo di tutti i bambini, pensando poeticamente alla loro naturale ingenuità. Angeli come sono solo loro. Altruisti, desiderosi di manifestare affetto,  quasi geneticamente portati ad accogliere e ad accudire chi si prende cura di loro. E’l’ esperienza del Dinamo Kamp infine, che gli occhi di una mamma, di un papà e di una sorella mi raccontano meglio che con le parole, a convincerli del loro sacrosanto diritto alla felicità, pur nella differenza che il loro bambino porta con sé.

Diagnosi precoce, assistenza e supporto alle famiglie, percorso terapeutico pienamente sostenuto dal sistema sanitario nazionale sono elementi fondamentali per la vita di un bambino Noonan su cui non possono esser fatti sconti. Né si può pensare che sia l’azione sociale delle sole famiglie coinvolte l’unico modo per suscitare attenzione e sensibilità su questo tipo di problematica.

Ancora oggi la famiglia di Matteo, nonostante abbia trovato la strada da percorrere, si interroga, non senza inquietudini, sull’identità e la giusta collocazione di un figlio affetto dalla sindrome di Noonan. Sulla sua vita nella comunità, nel sociale, nelle relazioni fuori da casa. Un bambino che allo sguardo di tutti sembra non avere nulla e che invece porta con sé quel  mondo di rarità e di speciale fragilità che la scienza medica deve ancora spiegarci del tutto e le istituzioni tutelare meglio e di più da ogni rischio di dimenticanza.

Perché nel mondo del mercato che domina ogni spazio di vita sono soprattutto i numeri dei pazienti delle cosiddette malattie rare a non fare gola a nessuno e la scusa della crisi serve solo a trasformare in comodi fantasmi anche questi pochi piccoli che, come Matteo, sono solo angeli di una generazione chiamata Noonan.

di Rosa Ana De Santis

Era già accaduto qualche tempo fa che Erika, e ancor prima il suo fidanzatino correo di uno dei massacri più noti alla cronaca del Belpaese, utilizzassero i media per fugare pubblicamente i dubbi e le perplessità collettive sulla loro redenzione. Lui giardiniere e lei da poco segretaria assunta per una sostituzione maternità dall’imprenditore del reatino, Flavio Di Vittorio. La stampa anche allora era servita ad alimentare e proseguire il conflitto di colpe e responsabilità post prigionia con una lettera velenosa di Erika che lo invitava a non visitare sotto i riflettori le tombe della madre Susy e del fratellino Gianluca.

Oggi Erika vive in una villetta, ha un buon rapporto con il padre e la nuova compagna, frequenta la comunità Exodus di Don Mazzi che ha certificato la sua seconda vita e ha un nuovo lavoretto. Se è giuridicamente legittimo e persino segno di civiltà dare una seconda chanche a una ragazza che, da minorenne e per una manciata di giorni, è stata una spietata assassina, è molto poco utile - oltre che opportuno - che la stampa torni ad essere il megafono di una giovane donna un po’ troppo infastidita dal peso della memoria che la circonda e che le impedisce di accreditarsi in tutta fretta, come lei vorrebbe, come cittadina redenta.

Il peso della coscienza e forse anche della memoria pubblica di una delle più cruente ed efferate pagine di cronaca nera non è esattamente una pratica che si archivia con l’apertura dei cancelli del carcere o con il conseguimento di una laurea in filosofia. Deve aver pensato, Erika, che aver scontato una condanna, equivalesse all’assoluzione pubblica.

I due processi sono diversi ed eterogenei e magari sarebbero più facilmente sovrapponibili se la giovane De Nardo non manifestasse con tanta assiduità e disappunto il suo fastidio per essere riconosciuta e additata come quella delle 57 coltellate alla madre e al fratello di soli 11 anni. Lei non si nasconde e pretende di essere accettata come una persona diversa e nuova: l’assassina non c’è più e non può nuocere ad alcuno.

Così Erika si presenta ai suoi vicini di casa. Ma il padre spirituale don Mazzi dovrebbe magari spiegarle che questa trasformazione non può essere imposta per autocelebrazione, ma per riconoscimento, preferibilmente manifestato e testimoniato attraverso una rivoluzione che è più intima che pubblica, che è più tormento che imposizione verbale e che è, come dovrebbe essere la sua, il meno esibita possibile.

Non penserà Erika, che ingenua non può essere dopo una detenzione di anni e dei buoni studi filosofici, che l’estinzione di una colpa corrisponda alla cancellazione di un reato o della memoria. La stessa del resto che non ha perso nemmeno lei ogni volta in cui porta un fiore sulla tomba delle sue vittime. Non penserà Erika che la società riservi a lei il posto d’onore, dopo che fiumi di giovani preparati sono a piedi, raminghi tra quei lavoretti che lei definisce inadatti a vivere normalmente. Uno come quello che lei fortunatamente ha trovato grazie alla profondità d’animo di un imprenditore padre di famiglia.

Se la seconda vita di Erika fosse meno esibita e non cercasse scorciatoie mediatiche tutti saremmo più in grado di sentire un sentimento di umanità persino per quella tragica notte e per quell’adolescente che dell’umanità ha perduto tutto. La giustizia e il perdono hanno un loro linguaggio e la redenzione non è esattamente un titolo di giornale, ma una prova che forse durerà tutta la vita.

Magari è questo il tormento che Erika non ha messo nel conto, quello di sapere che nonostante qualcuno veda comunque e solo un’assassina, lei sappia di essere altro e diversa. Magari dovrebbe imparare dal silenzio del padre, rimasto a fare il padre senza esibire un perdono che sarebbe suonato spiacevole, amaro, inadatto per tutti: i morti e i sopravvissuti.

Magari Erika dovrebbe scegliere di andarsene altrove nell’illusione che il male del passato non la rincorra. O preferire finalmente il silenzio: l’ultima prova che manca a una nuova ragazza che nuova è proprio perché sa di essere lei quell’ Erika di Novi Ligure. E non c’è bisogno di dirlo più.


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