di Silvia Mari

E’ una domenica pomeriggio quando incontro i genitori del piccolo Matteo.  Mi accolgono nella loro casa e non sono affatto restii a raccontare la storia di un figlio speciale. In un momento storico del paese in cui la politica esibisce, nelle sue forme più scadenti, le ricette elettorali anticrisi, parlare di salute e di malattie genetiche rare sembra quasi  una velleità, persino in questo ristretto circolo familiare di affetti.

Il racconto sembra quasi un affronto donchisciottesco per un sistema sanitario sbrodolato, a maglie larghe, fatto di sprechi e insieme di tagli orizzontali e scriteriati che hanno visto nel 2011 la spesa sanitaria scendere a 112 miliardi, ben 2,9 miliardi in meno rispetto al dato previsto e riconfermato nel quadro di preconsuntivo della Relazione al Parlamento. Per la prima volta, rispetto all’anno precedente, la spesa sanitaria ha ulteriormente ridotto la sua incidenza sul Pil: dal 7,3 % al 7,1%.

Sottrazioni che diventano ancora più crudeli quando davanti hai solo un bambino nato otto anni fa con la sindrome di Noonan. Una malattia giovane in letteratura medica, scoperta nel 1963 dalla cardiologa pediatrica Noonan. Tratti somatici caratteristici, corporatura esile, cardiopatia congenita o ipertrofica, iperattività sono i segni tipici di questa sindrome per molto tempo confusa con altre simili quali la Turner o la Leopard.

Forse meno rara di quello che si crede, Noonan interessa un bambino su 1.500 e può o essere trasmessa da un genitore affetto o essere il frutto di una mutazione nell’atto del concepimento. Il gene modificato nel 50% dei casi è il PTPN11, localizzato sul cromosoma 12, ma moltissime sono le casistiche che interessano altri geni e che hanno tratti parzialmente comuni con la Noonan.

Soltanto la ricerca e l’ulteriore classificazione delle mutazioni potrà consentire un pieno riconoscimento di tutte le forme cosiddette Noonan - like e consentire di studiare in modo completo i protocolli terapeutici del caso. Un atto di civiltà, assolutamente necessario - secondo i genitori intervistati - dal momento che dietro a quei codici freddi del DNA ci sono storie, c’è il diritto ad una vita felice, c’è un figlio come il loro.

Già dentro la pancia i consueti esami di screening avevano mostrato anomalie. Le ultime ecografie, prima della nascita di Matteo, fanno pensare ad un bambino idrocefalo, poi l’ecocardio mostra una lieve malformazione alla valvola polmonare. Forse il solito soffietto al cuore. Matteo nasce, e con sollievo di chi lo attende da nove mesi, sembra un neonato come tutti gli altri, ma i suoi primi mesi di vita sono funestati da continui ricoveri. Respira emettendo un suono che ricorda il fischio di uno strumento a fiato e all’inizio i medici sono certi e allineati nella diagnosi di una polmonite che si ripete però nel giro di pochissimo tempo. Troppo poco per essere credibile.

E’ la buona sorte dell’incontro giusto con il genetista del Gemelli di Roma, il Prof. Zampino, a portare finalmente i genitori di Matteo dall’incertezza diagnostica alla conoscenza della verità,  fortunatamente in tempi brevi. Quella che ad una madre e ad un padre suona sempre più come una condanna che non come una condizione di vita. Per paura, per infondato senso di colpa, per cronicità di una condizione inalterabile cui nessuno può riconoscere un barlume di senso.

Matteo ad un anno di vita patisce una condizione di regressione psico-motoria pesantissima, determinata da un’encefalite da mononucleosi. Sono giorni di paura e di disorientamento, ma pur nel suo fragile equilibrio supera anche questa prova e ricomincia daccapo la sua vita con la tenacia e la cura di una famiglia che ha fatto ormai i conti con la consapevolezza della sua malattia, ma che non per questo lo vuole lasciare indietro.

Da allora sono passati molti anni e la vita di Matteo è fatta di scuola, gioco, famiglia. I day hospital di controllo al Policlinico Agostino Gemelli sono diventati semestrali e il cuore di Matteo viene monitorato per valutare tempi e modalità di un possibile intervento chirurgico. Ogni settimana ha la sua terapia motoria e logopedistica, dalle 5 ore previste purtroppo ridotta alle 3 attuali, e le sue 22 ore di sostegno a scuola, recuperate solo dopo una clamorosa vittoria ottenuta dai suoi genitori in tribunale a fronte dei tagli imposti al sostegno - ridotto ad otto ore - per mancanza di fondi.

Un sciagura, quella dei tagli agli insegnanti di sostegno, che viene dritta dalla scuola targata Gelmini e che ha snaturato la scuola nella sua inestimabile funzione sociale, lasciando al proprio posto gli sprechi e le inefficienze tanto denunciate.

Servono 5 ore di terapia perché Matteo cresca nel migliore dei modi e la famiglia è disposta a pagare, ma l’arrivo di un nuovo terapista e un nuovo centro potrebbero essere un danno invece che un beneficio visto che quegli specialisti lavorano solo nel pubblico. E allora i genitori di Matteo decidono di rimanere in quel centro a sperare che i livelli di servizio tornino ad essere quello che erano. Lo sperano anche per tutte quelle famiglie che non hanno possibilità economiche adeguate.

Perché in fondo, a pensarci bene, i numeri dei pazienti sono cosi ridotti che non può esserci verosimilmente un problema di sostenibilità finanziaria, ma semmai solo un’odiosa questione di affari. Un sistema sanitario pubblico ridotto a sopravvivere con sempre meno strumenti a disposizione procura nei pazienti non solo odiose diseguaglianze, ma, come il caso di Matteo può aiutare a comprendere, il rischio di veri e propri danni al percorso clinico di quanti si vedono costretti a cercare rimedi nelle strutture private, spesso alla cieca e senza alcuna misura di valutazione e selezione.

La spesa sanitaria, PIL alla mano, ha sempre restituito al Paese ben più di quello che è costata e basta partire da questi numeri per comprendere che è semmai una politica di investimento e controllo la strada che può rimettere in moto la sanità e non il suo saccheggio a favore delle spa della salute. Il tema del diritto alla salute e la cruda rendicontazione del PIL (restituzione del 13% a fronte di un costo del 7%) sono sufficienti a smentire la teoria dei tagli necessari dovuti alla crisi.

Matteo è un bambino che coglie benissimo le sue particolarità rispetto agli amichetti del quartiere e a quelli a scuola. Le sue maestre in più, la familiarità con i medici e gli ospedali, questa sigla Noonan che lo accompagna come un secondo nome e una carta d’identità. Quel nome clinico, magari sbattuto con freddezza e senza troppe spiegazioni sulle spalle di una famiglia che testimonia con emozione  quanto aiuto possa venire dalla condivisione con gli altri,  proprio in queste zone grigie di incertezza in cui si è sempre impreparati a reggere l’urto della vita e le sue sorprese.

“Abbiamo chiamato l’associazione perché ci sentivamo soli”. E’ questo senso di estraniazione dai genitori “normali”a spingere la ricerca su internet a caccia di altre storie simili fintanto che Noonan non è più il nome di una sindrome e l’identikit di un gene, non è il linguaggio della medicina attaccato come uno stemma, ma il secondo nome degli angeli. L’Associazione Angeli di Noonan entra così nella vita di Matteo e in quella della sua famiglia ed è in questo mondo di condivisione e similitudini che la differenza non è più un pregiudizio o un limite per una vita felice.

Angeli non come lo diremmo di tutti i bambini, pensando poeticamente alla loro naturale ingenuità. Angeli come sono solo loro. Altruisti, desiderosi di manifestare affetto,  quasi geneticamente portati ad accogliere e ad accudire chi si prende cura di loro. E’l’ esperienza del Dinamo Kamp infine, che gli occhi di una mamma, di un papà e di una sorella mi raccontano meglio che con le parole, a convincerli del loro sacrosanto diritto alla felicità, pur nella differenza che il loro bambino porta con sé.

Diagnosi precoce, assistenza e supporto alle famiglie, percorso terapeutico pienamente sostenuto dal sistema sanitario nazionale sono elementi fondamentali per la vita di un bambino Noonan su cui non possono esser fatti sconti. Né si può pensare che sia l’azione sociale delle sole famiglie coinvolte l’unico modo per suscitare attenzione e sensibilità su questo tipo di problematica.

Ancora oggi la famiglia di Matteo, nonostante abbia trovato la strada da percorrere, si interroga, non senza inquietudini, sull’identità e la giusta collocazione di un figlio affetto dalla sindrome di Noonan. Sulla sua vita nella comunità, nel sociale, nelle relazioni fuori da casa. Un bambino che allo sguardo di tutti sembra non avere nulla e che invece porta con sé quel  mondo di rarità e di speciale fragilità che la scienza medica deve ancora spiegarci del tutto e le istituzioni tutelare meglio e di più da ogni rischio di dimenticanza.

Perché nel mondo del mercato che domina ogni spazio di vita sono soprattutto i numeri dei pazienti delle cosiddette malattie rare a non fare gola a nessuno e la scusa della crisi serve solo a trasformare in comodi fantasmi anche questi pochi piccoli che, come Matteo, sono solo angeli di una generazione chiamata Noonan.

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