di Rosa Ana De Santis

Era già accaduto qualche tempo fa che Erika, e ancor prima il suo fidanzatino correo di uno dei massacri più noti alla cronaca del Belpaese, utilizzassero i media per fugare pubblicamente i dubbi e le perplessità collettive sulla loro redenzione. Lui giardiniere e lei da poco segretaria assunta per una sostituzione maternità dall’imprenditore del reatino, Flavio Di Vittorio. La stampa anche allora era servita ad alimentare e proseguire il conflitto di colpe e responsabilità post prigionia con una lettera velenosa di Erika che lo invitava a non visitare sotto i riflettori le tombe della madre Susy e del fratellino Gianluca.

Oggi Erika vive in una villetta, ha un buon rapporto con il padre e la nuova compagna, frequenta la comunità Exodus di Don Mazzi che ha certificato la sua seconda vita e ha un nuovo lavoretto. Se è giuridicamente legittimo e persino segno di civiltà dare una seconda chanche a una ragazza che, da minorenne e per una manciata di giorni, è stata una spietata assassina, è molto poco utile - oltre che opportuno - che la stampa torni ad essere il megafono di una giovane donna un po’ troppo infastidita dal peso della memoria che la circonda e che le impedisce di accreditarsi in tutta fretta, come lei vorrebbe, come cittadina redenta.

Il peso della coscienza e forse anche della memoria pubblica di una delle più cruente ed efferate pagine di cronaca nera non è esattamente una pratica che si archivia con l’apertura dei cancelli del carcere o con il conseguimento di una laurea in filosofia. Deve aver pensato, Erika, che aver scontato una condanna, equivalesse all’assoluzione pubblica.

I due processi sono diversi ed eterogenei e magari sarebbero più facilmente sovrapponibili se la giovane De Nardo non manifestasse con tanta assiduità e disappunto il suo fastidio per essere riconosciuta e additata come quella delle 57 coltellate alla madre e al fratello di soli 11 anni. Lei non si nasconde e pretende di essere accettata come una persona diversa e nuova: l’assassina non c’è più e non può nuocere ad alcuno.

Così Erika si presenta ai suoi vicini di casa. Ma il padre spirituale don Mazzi dovrebbe magari spiegarle che questa trasformazione non può essere imposta per autocelebrazione, ma per riconoscimento, preferibilmente manifestato e testimoniato attraverso una rivoluzione che è più intima che pubblica, che è più tormento che imposizione verbale e che è, come dovrebbe essere la sua, il meno esibita possibile.

Non penserà Erika, che ingenua non può essere dopo una detenzione di anni e dei buoni studi filosofici, che l’estinzione di una colpa corrisponda alla cancellazione di un reato o della memoria. La stessa del resto che non ha perso nemmeno lei ogni volta in cui porta un fiore sulla tomba delle sue vittime. Non penserà Erika che la società riservi a lei il posto d’onore, dopo che fiumi di giovani preparati sono a piedi, raminghi tra quei lavoretti che lei definisce inadatti a vivere normalmente. Uno come quello che lei fortunatamente ha trovato grazie alla profondità d’animo di un imprenditore padre di famiglia.

Se la seconda vita di Erika fosse meno esibita e non cercasse scorciatoie mediatiche tutti saremmo più in grado di sentire un sentimento di umanità persino per quella tragica notte e per quell’adolescente che dell’umanità ha perduto tutto. La giustizia e il perdono hanno un loro linguaggio e la redenzione non è esattamente un titolo di giornale, ma una prova che forse durerà tutta la vita.

Magari è questo il tormento che Erika non ha messo nel conto, quello di sapere che nonostante qualcuno veda comunque e solo un’assassina, lei sappia di essere altro e diversa. Magari dovrebbe imparare dal silenzio del padre, rimasto a fare il padre senza esibire un perdono che sarebbe suonato spiacevole, amaro, inadatto per tutti: i morti e i sopravvissuti.

Magari Erika dovrebbe scegliere di andarsene altrove nell’illusione che il male del passato non la rincorra. O preferire finalmente il silenzio: l’ultima prova che manca a una nuova ragazza che nuova è proprio perché sa di essere lei quell’ Erika di Novi Ligure. E non c’è bisogno di dirlo più.

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