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di Vincenzo Maddaloni
Da quando è entrato in vigore - 1 aprile - il regolamento che stabilisce le modalità di esercizio del diritto d’iniziativa dei cittadini europei, le lobby hanno un’arma in più, peraltro formidabile, per poter introdurre norme a loro favorevoli senza dovere laboriosamente intervenire per fare approvare, bloccare o modificare le proposte della Comunità europea e dei i suoi deputati. In termini di efficienza, se non altro è per costoro un bel progresso che non sarebbe stato possibile senza questa nuova norma introdotta dal trattato di Lisbona.
Infatti, il nuovo diritto d'iniziativa popolare riconosce a tutti i cittadini europei la facoltà di contribuire a determinare le politiche dell'UE. Esso consente a un gruppo di persone che condividono una stessa posizione di chiedere alla Commissione di proporre una nuova legislazione su un argomento specifico. La Commissione, alla quale spetta il compito di presentare le nuove proposte legislative in ambito europeo, è formalmente tenuta a prendere in esame qualsiasi richiesta che soddisfi i requisiti previsti. Beninteso, essa avrà tutti i poteri per respingerla entro i tre mesi successivi, a patto che si prenda la briga di spiegare pubblicamente il perché, il che molto difficilmente accade.
Naturalmente per obbligare la Commissione europea a prendere in considerazione una proposta di legge d’iniziativa popolare occorrerà raccogliere non meno di un milione di firme in almeno sette paesi UE e superare un lungo percorso a ostacoli burocratico. Se passerà indenne tutti gli esami, la proposta legislativa - recita il regolamento - sarà sottoposta al Consiglio dell'Unione europea (dove siedono i governi dei Paesi dell'UE) e, nella maggior parte dei casi, anche al Parlamento europeo. Se viene adottata, diventa una legge.
Ma chi dispone dell’apparato e dei fondi necessari per organizzare una campagna di sensibilizzazione di una tale vastità e nel contempo affrontare le complesse procedure richieste? Sicuramente le lobby finanziarie, le grandi multinazionali per esempio che dedicano un’attenzione speciale all’UE, poiché essa ha le leve di comando concentrate in poche e ben definite sedi, e poi perché nella quasi totalità dei casi il diritto comunitario prevale sul quello di ogni singola nazione che ne fa parte. Migliaia di lobbisti, centinaia di società di pubbliche relazioni e studi legali, dozzine di think tank e di “uffici d’affari europei” di centinaia di imprese si sono allocati a Bruxelles da quando hanno capito molto bene, che quello è il posto giusto per esercitare pressioni ottenendo dei risultati che rispondono alle aspettative.
Si tenga a mente poi, che la NATO e l’UE hanno entrambe la loro sede centrale a Bruxelles. Del resto la NATO, sebbene non si a tutti noto, ha tra le sue prerogative istituzionali quella di esercitare una diretta ingerenza nelle questioni economiche dei Paesi membri. Infatti, l'articolo 2 del Patto Atlantico prevede e sollecita l'integrazione economica tra i Paesi membri dell'alleanza o tra gruppi di essi: «Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte. Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte.» (Patto Atlantico, articolo 2).
Dunque la NATO si configura con un assetto nel quale i centri decisionali sono tanti e tutti in bella evidenza. Il loro é un lavoro minuzioso, a volte fino allo spasimo per fare in modo che molte delle direttive internazionali vengano spalmate in modo che appaiano come fatti di politica interna in quei Paesi che più di altri sono interessati a tener nascosta all’opinione pubblica la “dipendenza” dagli Stati Uniti. Il fatto - ad esempio - che Mario Monti sia addirittura un "advisor" del Consiglio Atlantico, l'organo supremo della NATO, la dice lunga su questa dipendenza che in diversa misura coinvolge tutti Paesi dell’UE.
Un esempio tra i tanti è la spinta alle privatizzazioni a tappeto - imposte dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca Centrale Europea - sebbene esse non siano funzionali allo sviluppo industriale, bensì a quello finanziario. Le stesse lobby hanno declassato il liberismo a un semplice slogan per coprire l'assistenzialismo ai banchieri con il programma "Financial & Private Sector Development" della Banca Mondiale, la quale per evitare il panico tra i risparmiatori parla di privatizzazione invece tampona col rifinanziamento il settore.
Siccome con l’approvazione del “Diritto di iniziativa” i lobbisti aumentano il loro potere, di conseguenza anche Bruxelles accresce la sua fama di sede ideale per i giochi di potere, conquistandosi un posto di tutto rispetto nella costellazione dei gruppi di pressione. Come ha scritto Gabriela Anghel non senza ironia:«Funzionari, diplomatici, lobbisti e giornalisti si incontrano dalla mattina alla sera, pranzano nel quartiere Europe, cenano nel quartiere Des Sablons, partecipano a cocktail party, si frequentano la sera e durante i fine settimana, membri di uno stesso club dedito a una nobile causa: l’Europa e il suo benessere!». (http://www.romanialibera.ro/).
Infatti, è in uno scenario come questo descritto - tra i più ambiti dai rappresentanti dei poteri mondiali - che s’incontrano e si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bildelberg club e della Goldmann-Sachs, insomma dei reggitori dell’impero economico globale. Comunque essi siano, ne esce sempre una sorta di consorteria più o meno rabberciata, ma ricolma di danaro e di potere che vuole imporre la propria visione sui grandi fatti che fanno la storia del mondo. Una di queste mira a far apparire gli americani non più come gli imperialisti da combattere, bensì come i benefattori da amare.
Si tenga a mente che dopo l’aggressività della presidenza Bush, si è tornati con Obama alle tradizionali tattiche di understatement per “ricostruire” l’immagine di un Paese che di fronte a una Cina emergente si mostra pronto ad abdicare al ruolo di prima potenza economica mondiale, pur di scrollarsi di dosso l’imbarazzante nomea di potenza imperialistica per eccellenza. Sicché d’ora in avanti anche ai più avversi al drapeau a stelle e strisce si spiana la strada qualora volessero diventare filoamericani, poiché non avrebbero più motivi per sentirsi in colpa. Se questa strategia così sapientemente distillata dovesse diventare una realtà condivisa, le mille e una basi militari USA e NATO, che controllano capillarmente ogni spazio strategico d’ Europa, diventerebbero un dettaglio di scarsa importanza del paesaggio e potrebbero continuare ad operare del tutto indisturbate.
Insomma, la nuova norma voluta dal trattato di Lisbona giova non poco alle grandi multinazionali hanno a disposizione una sorprendente capacità di fuoco a sostegno di una guerra psicologica che per molti versi ha gli effetti devastanti delle bombe. Spiega Ajay Kapur, l’analista indiano autore di uno studio nel quale teorizza l'avvento di una “plutonomia”, cioé un sistema in cui i ricchi definiscono le leggi, scrivono le regole, dettano l'agenda ai leader del mondo. Gli Stati Uniti, Inghilterra e Canada sono per Ajay Kapur i "modelli" originari di plutonomie nel XXI secolo, come in passato lo furono la Spagna del XVI secolo, l'Olanda del XVII, e la stessa America nei ruggenti anni Venti alla vigilia della Grande Depressione.
Lo studio di Ajay Kapur che risale a qualche anno fa (l’analista indiano era allora lo stratega del colosso bancario Citygroup a Wall Street, mentre adesso decide le strategie della Deutsche Bank in Asia) rimane quanto mai attuale. Infatti, esempio classico di “plutonomia" è la Goldman Sachs che ha attivi superiori alla Banca Centrale Europea, la quale gestisce la moneta di diciassette Paesi. La sproporzione non cambia se si guarda al fondo d'investimento Blackrock di Wall Street che amministra un patrimonio (3.500 miliardi di dollari) superiore alle riserve di qualsiasi banca centrale al mondo, inclusa quella cinese. Insomma la gestione di maree di danaro ad opera di pochi avvaIora un’opinione diffusa secondo la quale chi ha i soldi centellina pure la democrazia.
Ne è una riprova - ad Est come ad Ovest - quella strategia amplificata dai media che mira alla rivalutazione della funzione dei ricchi, fino a rappresentarla come ineludibile per l’evoluzione delle società del XXI secolo. E’ un’azione ben concertata con i grandi mezzi di comunicazione di massa con la quale si fa leva su una costante, quasi maniacale, denigrazione dei poveri. Il messaggio che si trasmette alle genti è quello dei ricchi impegnati a far crescere la società nel benessere, mentre i poveri con i loro momenti di disordine e disperazione frenano la realizzazione del grande progetto.
Così si spiega perché le iniziative dei sindacati - ad esempio - vengano fatte apparire come perniciose allo sviluppo della società e perciò l’invito che viene trasmesso è di ostacolarle, combatterle, fino all’annientamento totale di chi le propone e di coloro che le sostengono. E’ uno scenario che è diventato cronaca quotidiana ormai e non soltanto in Italia. Sicché ci vuol poco a capire che la semplice gestione di quel “diritto d’iniziativa” previsto dal trattato di Lisbona in termini di efficienza, se non altro, è un bel progresso. Per chi se lo agguanta per primo.
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di Rosa Ana De Santis
E’ accaduto mercoledi scorso alle porte di Roma, a Monterotondo. Un gruppetto di ragazzi prende a calci, schiaffi e spinte una donna tunisina. Le tirano il velo, la insultano, le gridano “kamikaze fatti scoppiare”, le ordinano di togliersi il chador e di tornarsene nel proprio paese. L’aggressione accade in pieno giorno, nel centro di una cittadina non molto grande a pochi chilometri dalla Capitale, e nessuno dei passanti muove un dito per difendere la donna.
E’ di sicuro questo il dato più aberrante di tutta la vicenda. Neila, questo il nome della vittima, è in Italia da oltre venti anni e questo è il primo episodio di violenza così brutale che le sia capitato. Segno che forse questo paese sta assumendo, ora in modo più evidente, tratti d’intolleranza e di razzismo preoccupanti.
Neila denuncia tutto ai carabinieri, e il comandante riferisce alla stampa che si è trattata di una rissa tra cittadini, degenerata solo poi in insulti e spinte di tipo razzista. Quale che sia stata la dinamica della lite, non c’è dubbio che Neila non abbia subito ingiurie neutre, ma che sia stata derisa e fisicamente impaurita con parole razziste e intimidazioni fisiche di ordine discriminatorio. L’aggravante è facilmente deducibile tanto che il reato contestato è di lesioni e non di rissa.
Diventa difficile far rientrare il caso nella banalità di un gruppetto di bulletti annoiati. Difficile perché tra questi ci sono ragazzi grandi, perché si é trattato di una vera e propria aggressione anti islam e perché nessuno è intervenuto per proteggere Neila, a parte sua sorella. Forse proprio per quel velo che disturba, ricordando agli occhi dell’ignoranza collettiva la non italianità di chi lo indossa. Ignoranza di chi non distingue la religione dall’appartenenza ad un paese, di chi crede che islamico significhi terrorista, di chi pensa che indossare il velo sia contro la legge italiana.
Non parliamo del burqa, infatti, che impedisce l’identificazione di chi lo indossa e che non è ammissibile per ragioni di sicurezza collettiva oltre che per principio di una democrazia che non può ammettere tale discriminazione di genere. Parliamo di un velo sul capo per coprire i capelli che nasce dalla libera adesione ad una fede religiosa.
Il dibattito sul velo, va detto, è tutto tranne che semplice. Non molto tempo fa fu il governo francese ad occuparsene alla ricerca (vana) di un divieto liberale ad indossarlo. Sarà vero che la donna che lo porta non è spesso pienamente libera nei propri diritti civili, sarà che il più delle volte è indotta da abitudini familiari vessatorie ad indossarlo, fatto sta che imbarcarsi alla volta di una sorta di obbligo di legge a misurare la reale emancipazione delle donne ci porterebbe a dover entrare nelle case di tutti. Anche di tutti quegli italiani che massacrano di botte fino ad uccidere le proprie mogli (e le ultime statistiche fanno impallidire), senza il bisogno di essere islamici.
L’episodio di Neila non è nulla di tutto questo. Non ha a che vedere con le difficoltà di convivenza tra culture lontane, è più semplice e più profondo nello stesso tempo. Semplice come la stoltezza e il vuoto mentale di un mirato bombardamento mediatico che nasce spesso più dai telegiornali che dalle trasmissioni di contorno. Semplice come gli strilli dei quotidiani e come il commento domenicale al bar tra un goal e un altro. Profondo, instillato ormai in un rigurgito di ricorsi storici mai sedati; vige l’odio razziale tra le persone comuni, tra i più giovani soprattutto.
Nemmeno quello della vulgata che se la prende con chi arriva in Italia per mendicare o per spacciare o per rubare il lavoro agli italiani o con l’ubriaco al volante. Ma quello che arriva a scagliarsi contro una mamma che beve un caffè al bar e che toglie, come ha tolto, a ogni cittadino perbene il coraggio e l’onore di difenderla.
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di Mario Braconi
E’ un dato di fatto che le società che si occupano d’intrattenimento si stiano facendo sempre più aggressive nei confronti dei cittadini. Quando si tratta della tutela dei copyright, esse calpestano come niente fosse la legge e il buon senso pur di proteggere il conto economico delle loro società operative. In Europa, come noto, il Parlamento Europeo approverà a giugno lo ACTA, un trattato commerciale internazionale imposto dagli Stati Uniti al resto del mondo, il cui obiettivo esplicito è rendere gli Internet Service Provider responsabili per l’uso che della connessione internet fanno i loro clienti, possibilmente spiandoli e a buon bisogno censurandoli.
Il caso Golden Eye, assurto agli onori delle cronache a causa di un pronunciamento del giudice dell’Alta Corte britannica Arnold, è solo l’ultimo caso destinato a far discutere: infatti, in qualche modo segna un’altra importante sconfitta per i cittadini europei, ormai considerati solo consumatori da spremere.
Come noto, la pornografia è uno dei contenuti più fruiti in Rete. Operare in un settore praticamente esente da ciclicità e solo moderatamente impattato dalla volubilità che caratterizza il consumatore post-moderno del grasso Occidente è un vantaggio considerevole. Eppure anche le aziende dell’hard, come del resto quelle della musica e dell’intrattenimento “rispettabile”, sono ancorate ad un modello di business antiquato, destinato a soccombere alle nuove tecnologie.
Ed è così che la Golden Eye International Ltd (una casa di produzione pornografica britannica fondata nel 2009 dall’attore e produttore Ben Dover) ha intentato causa a migliaia di utenti internet che a suo dire hanno fruito illegalmente dei contenuti da essa prodotti scaricandoli da internet gratis. A quanto riporta il programma radiofonico BBC NewsBeat, la Golden Eye, che nel procedimento legale ha rappresentato anche altre dodici società del settore del porno, ha candidamente presentato in tribunale una lista di ben 9.124 indirizzi IP, sostenendo che da quelle macchine qualcuno aveva scaricato alcuni dei loro titoli senza pagare.
Una strana storia sin dall’inizio: non è infatti chiaro come abbiano fatto i pornografi a tracciare (legalmente) gli identificativi delle macchine presumibilmente utilizzate per fruire illegalmente dei filmati. A quanto risulta a Tom Espiner, senior reporter del sito britannico ZDNet UK, le società di produzione si sarebbero avvalse della consulenza di un tale Alireza Torabi. A dar credito al suo profilo professionale su Linkedin, Torabi è un ingegnere elettronico specializzato in reti, titolare di una società informatica, la NG3 Systems, produttrice tra le altre cose di un software per la gestione delle vendite di autoveicoli.
La NG3 realizza anche XTrack 3.0, un programma in grado di identificare la fonte di un file trasmesso su internet su network peer-to-peer, ovvero sul network eDonkey (usato da eMule) o mediante il protocollo BitTorrent, identificando indirizzi macchina (IP), date e tempi di utilizzo. Un vero e proprio software spia, che ficca il naso nelle macchine dei cittadini.
E’ dunque più che probabile che le “prove” fornite dai querelanti siano state ottenute in modo illegale, utilizzando dei sistemi per effettuare analisi approfondite del contenuto del traffico degli utenti: considerando la nuova tendenza alla privatizzazione della polizia in materia di violazioni del copyright, fatta propria dal legislatore da una sponda come dall’altra dell’Oceano, i pornografi di Golden Eye si potrebbero quasi definire dei campioni.
A dire il vero, si è verificato in Gran Bretagna un precedente, che avrebbe dovuto dissuadere Golden Eye & Soci da simili iniziative. Si tratta del caso dello studio legale ACS: Law, che nel 2009, dopo essersi munito delle procure di produttori cinematografici e di videogiochi si diede all’invio massivo di lettere più o meno minatorie di richiesta risarcimento a persone che a loro modo di vedere avevano violato le leggi sul diritto d’autore.
Pare che alla ACS: Law, che tra i suoi clienti annovera anche l’infame società tedesca Digiprotect, il cui motto pare sia “trasformare la violazione del diritto d’autore in un profitto”, abbiano un tantino esagerato con le pretese economiche. Alle società dell’intrattenimento spettava un misero 30% del bottino recuperato dai solerti azzeccagarbugli della ACS: Law, i quali riservavano a sé stessi il 65%.
L’eccessiva ingordigia ha spacciato i furbetti dell’ACS: Law, che hanno perso il sostegno di cui inizialmente almeno godevano da parte dei produttori di intrattenimento: il lavoro sporco svolto da ACS: Law, non era più vantaggioso, per cui lo studio è stato abbandonato al suo destino. Il fondatore Andrew Crossley è stato sospeso dall’esercizio della professione di avvocato per due anni e condannato a pagare quasi 100.000 euro di costi giudiziari.
Il cartello dei magnifici tredici, non pago di aver messo in piedi una causa interamente basata su dati privati reperiti in modo per lo meno poco chiaro, si è spinto oltre, proponendo all’autorità giudiziaria una bozza di richiesta di indennizzo di 700 sterline a ristoro della violazione delle norme sul copyright, da recapitare ad ognuno degli oltre 9.000 presunti voyeur furbacchioni. Il 27 marzo è stata resa nota la decisione dell’Alta Corte, che nella persona del giudice Arnold, ha dato torto ai 12 produttori associati alla Golden Eye, accogliendo in parte le richieste di quest’ultima.
Da un lato il giudice ha rigettato la richiesta di rimborso di 700 sterline, ordinando al dante causa di agire singolarmente contro i singoli violatori per un importo commisurato al valore dell’effettivo danno provocato; dall’altro, Arnold ha obbligato l’internet Service Provider britannico O2 a fornire alla Golden Eye i dati personali delle persone titolari di un servizio di abbonamento il cui IP sia tra quelli scovati dai cani da caccia della società di produzione.
Cautamente soddisfatto Mike O’Connor, capo dell’associazione dei consumatori Consumer Focus: “Questo caso [...] stabilisce un importante precedente dal momento che la Corte ha riconosciuto che il titolare del contratto di connettività internet non è automaticamente colpevole solo perché il chi detiene i copyright ritiene di aver scoperto una violazione dei suoi diritti effettuata su quel collegamento.”
Vittoria di Pirro, verrebbe da dire. Più che buone notizie per i consumatori: qui abbiamo una società di intrattenimento dotata di polizia privata che passa al setaccio il traffico dei privati cittadini e, se trova qualcosa che non gradisce, può rivolgersi ad un tribunale che obbliga lo ISP a rivelare gli estremi dell’abbonato. Davvero, poco di cui essere soddisfatti.
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di Rosa Ana De Santis
La recente sentenza della Cassazione è destinata a scuotere, come già accaduto su altri fronti, l’inerzia della politica sulla questione dei diritti delle coppie omosessuali. La Suprema Corte ha stabilito infatti, alla fine dell’iter giudiziario affrontato da una coppia gay residente a Roma e sposatasi all’Aja che chiedeva la trascrizione delle nozze in Italia, che non possono esserci trattamenti disomogenei rispetto alle coppie etero coniugate.
Il verdetto recepisce appieno le linee della Corte Europea in materia ed espressioni analoghe sulla libertà di vivere la propria condizione sessuale ricavate dalla nostra stessa Carta Costituzionale. La legge quindi, come riconosce con soddisfazione l’Arcigay, ha fatto un significativo passo avanti che va ben oltre il perimetro della giurisprudenza e annuncia quella che dovrà essere una rivoluzione culturale e di costume.
Gli episodi di violenta omofobia registrati nel nostro paese (anche in grandi città come Roma) e le espressioni della politica sull’argomento, sembrano già la preistoria di una società che dovrà cambiare, abbandonando l’idea che lo stato legale del matrimonio sia proprio della sola condizione eterosessuale.
L’errore di questo ragionamento sta tutto nella consequenzialità, infondata, per cui essere sposati significhi sic et simpliciter procreare: possibilità naturalmente negata alle coppie omosessuali e legalmente impedita anche sul piano delle adozioni allo stato attuale. In verità con il contratto matrimoniale si assumono molti altri diritti la cui perdita per la potenzialità della procreazione rappresenta un’aporia concettuale oltre che un’incoerenza giuridica. A meno che non decidessimo di togliere altrettanti diritti anche a tutte quelle coppie etero che decidessero o non potessero avere figli.
Soltanto pochi giorni fa tanti rappresentanti delle istituzioni si erano lanciati in una gara di affermazioni, tutte tese a voler stigmatizzare la differenza tra unioni gay e unioni etero, Pd compreso. La stessa Rosy Bindi, pur credendo nella battaglia del riconoscimento di pari diritti, aveva tenuto a rafforzare l’unicità del matrimonio per le sole coppie eterosessuali. Quella che all’apparenza può sembrare una banale questione nominalistica tradisce invece, anche nell’area della sinistra, la resistenza di un retaggio a metà tra il diritto naturale e la concezione cattolica della famiglia.
Se non possiamo dire che la Corte abbia esteso la nozione di matrimonio alle coppie gay, il riconoscimento normativo dell’eguaglianza dei diritti rispetto alle coppie eterosessuali, è come dire quasi la stessa cosa, svuotando, a questo punto senza dubbio, la diatriba matrimonio e non, di ogni sostanza giuridica e traducendola, in questo modo certamente, in un sofisma solo terminologico.
Nell’esplicitazione della parola matrimonio e nel rifiuto di estenderla a chi è “diverso” c’è tutto il simbolo di un paese che, colori politici a parte, non riesce fino in fondo a staccare il diritto da una concezionale culturale e morale della vita che è plasmata sulla storia cattolica della società italiana. Nel momento in cui i diritti delle coppie omosessuali saranno codificati e riconosciuti e sarà finalmente colmato il vuoto legislativo che finora ha lasciato tanti cittadini a vivere come fantasmi, non ci sarà nemmeno più bisogno di scomodare i termini e le parole. Saremo tutti cittadini, senza differenze di diritti e doveri e, per questo, tutto uguali.
Come sempre in Italia sono i fatti a spingere i pensieri e le contingenze a scatenare le rivoluzioni del costume. Per questo la legge e i tribunali anticipano la politica e le istituzioni. Per questo serve sempre il caso particolare al pensiero generale. Segno che, vuoi o non vuoi, il paese sarà già cambiato da un pezzo quando avremo la forza di scriverlo.
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di Rosa Ana De Santis
Sulla famiglia non mancano mai le lezioni non richieste. Dalle gerarchie ecclesiali ai partiti che ne portano il verbo nelle istituzioni, é spesso un fiorire ipocrita e retorico sulla famiglia. Una volta tanto, quindi, é bene leggere dati scientifici piuttosto che litanìe interessate. I numeri dell’indagine condotta dal Censis, in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, ritraggono un paese in nostalgia che torna, o non si separa, dai modelli di una volta. Sarà la spinta dei forti cambiamenti, la depressione economica e una nuova geografia sociale e culturale, ma gli italiani sembrano rimasti quelli di sempre.
Vincono i valori classici: la famiglia prima di tutto, poi la tradizione religiosa in cui si riconosce la maggioranza della popolazione, la moralità e l’onestà. Più ambigua la considerazione dei rapporti con gli altri. Se più del 50% definisce “belli” i rapporti interpersonali con persone sconosciute, la lealtà e la fiducia sono sentimenti circoscritti alla cerchia delle conoscenze più prossime.
La collettività rimane un’identità poco chiara e densa di sospetto e, questo forse il portato storico più desolante, la maggioranza degli italiani non crede al senso di responsabilità degli stessi italiani verso il bene comune. E’ tutto questo a produrre una scarsa coesione sociale e a rendere la comunità nazionale un’idea molto debole nella percezione culturale e identitaria della popolazione.
Emerge con numeri significativi il bisogno di averi modelli di riferimento. Se nel 1988 il 63,2% degli italiani intervistati dichiarava di non avere “maestri di vita”, oggi questa percentuale scende al 40% circa.
La crisi della soggettività e forse anche della stessa famiglia tradizionale, sopraffatta dalla crisi dei matrimonio e delle famiglie allargate, contribuisce ad alimentare la necessità di trovare proprio in casa le muse della propria vita. Padre e madre rappresentano per le nuovissime generazioni un paradigma assoluto, vincente rispetto alle relazioni interpersonali pubbliche. Il 22% riconosce nel padre il proprio maestro e il 13% la madre.
Se i valori nelle loro forme archetipe vanno in crisi, se il ruolo genitoriale cambia forme e modalità, si può stare comunque tranquilli, stando a quando dimostrano i numeri, che i modelli non sono scomparsi e anzi piuttosto conoscono un inaspettato rilancio nella crescita dei figli.
Aumenta anche la quota di quanti si professano credenti: se negli anni Ottanta era del 45,1% oggi arriva al 65,1% e se questo non sempre coincide con la veste dogmatica della pratica religiosa corrisponde invece, almeno formalmente, ad un atteggiamento conservatore e restrittivo rispetto alle nuove questioni dell’etica. Nel dubbio, per semplificare, si preferisce difendere lo status quo e non stravolgere convincimenti o forse solo costumi ormai consolidati nella vita sia pubblica che privata.
Il bilancio dell’indagine ritrae un paese con la faccia all’indietro e a guadar bene anche il rinverdire delle tradizioni svela più che un autentico recupero dei valori tradizionali, la paura di guardare avanti. Soccorre la sociologia a spiegare questa incoerenza tra i modelli riferiti e la metamorfosi di fatto che caratterizza i costumi sociali diffusi, soprattutto tra i figli.
Tanto più i valori del passato sembrano tornare con forza, tanto più questi sono scollati dallo stato reale delle cose. Bastano le chiese vuote, su tutto, a mostrarlo con maggiore evidenza. Agganciarsi al bastone del valore di una volta non funzione più realmente come canale educativo e formativo. Funziona piuttosto come un muro oltre il quale si ha paura di andare.