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di Rosa Ana De Santis
Le linee guida emerse nell’ultimo convegno programmatico dell’Agesci lanciano una condanna, solo in superficie edulcorata di tolleranza, sull’omosessualità. Sarebbe un problema serio avere capi scout omosessuali, non è da incoraggiare alcun “coming out” tra i ragazzi che mostrassero tendenze di questo tipo, ma piuttosto convocare con codice rosso genitori e psicologo. Perché no un esorcista, verrebbe da concludere.
Il manifesto del perfetto scout cattolico non poteva che essere in linea con la posizione ufficiale della Chiesa di Roma. Nessuno scandalo se l’educazione sessuale e l’identità di genere vedono nella funzione procreativa e quindi nell’eterosessualità l’unica legittima maniera di amarsi come Dio comanda.
Padre Francesco Compagnoni, docente di teologia morale all’Università S. Tommaso, intervenuto tra i relatori, riconosce all’omosessualità doti intrinseche di sensibilità e preziose attitudini artistiche (un ritratto che rasenta lo stereotipo più abusato), ma per quanto vada sostenuto il valore della tolleranza, questo non può restituire pari dignità morale a tutti i comportamenti.
Rimane quindi in serie B l’identità sessuale di chi non è etero ed e’ soprattutto sconsigliabile che siano omosessuali i capi scout che, per la funzione educativa e formativa che svolgono, rappresentano un esempio a tutto tondo per i giovani lupetti. Poiché tutto il documento sgombra il campo da ogni confusione o sovrapposizione tra pedofilia e omosessualità, come giustamente è, non è ben chiaro quale sia il valore diseducativo dell’essere omosessuali se non la condizione in se stessa. Tutto cambia se il capo decide di tenere per sé la propria identità e non da mostra dei gusti sessuali. Una posizione a metà tra il comportamento ipocrita e l’ignoranza di credere che l’omosessuale sia una maschera folcloristica di vezzi femminili.
Tolleranza non è relativismo- recita il documento finale - e l’eguale dignità è delle persone non degli atti. Il parallelo, manco a dirlo, è con i criminali. Anche loro sono figli al cospetto di Dio. L’argomento non fa che riprendere la distinzione tra peccato e peccatore e tutta la potenza della misericordia di Dio che nell’enciclica Dives in Misericordia Giovanni Paolo II descrisse pensando proprio ai flagelli morali del disperato uomo contemporaneo.
Come metterla allora con tutti coloro che pur omosessuali volessero prendere i voti? E’ sufficiente la castità ad azzerare la peccaminosità del gusto sessuale considerato “deviato e non naturale”? Quindi è l’atto e non l’identità il vero imputato di tutto il ragionamento? Quindi è l’ipocrisia l’unico antidoto morale al male morale dell’anima?
All’Agesci va riconosciuta l’audacia, comunque preferibile al vuoto dell’omertà e della rimozione, di aver messo mano dentro le maglie complesse del rapporto con i giovani in una fase delicata della loro vita fisica ed affettiva. Sorprende però che non si parta dallo scandalo più grande che la Chiesa si porta dentro.
Quello dei preti molestatori, etero o omosessuali che siano non importa. La sciagura delle molestie, degli abusi subiti nella vita del seminario. Tutte quelle devianze che quando non sono il frutto di autentiche personalità disturbate, sembrano piuttosto l’effetto collaterale di una vita affettiva e sessuale negata.
Un dogma davvero difficile da coniugare con il teorema della morale secondo natura. Non sarà che sono più coerenti i pastori protestanti? Dogma difficile soprattutto per chi non svolge una vita di contemplazione recluso in un luogo di preghiera, ma vive nel mondo.
Scegliere di parlare di omosessualità e non di pedofilia è il primo vero errore di questo decalogo dell’Agesci che più di altre organizzazioni cattoliche si confronta con il mondo giovanile. Sembra che ci sia troppa voglia di archiviare le nefandezze che proprio i più piccoli hanno pagato duramente annacquando i veri peccati con le sottili dissertazioni sull’identità di genere e quella sessuale.
E’ così ovvio riconoscere che la libertà di essere quello che si è non può fare del male a nessuno e l’unico atto colpevole è quello con cui si fa del male a qualcuno. Il gusto sessuale non si impone come un timbro sulla personalità, se è questo il grande tormento dei professori dell’Agesci, altrimenti da genitori etero non potrebbero nascere mai figli omosessuali.
Per mutuare il ragionamento teologico al fondo di tutto il teorema antiomosessualità possiamo dire che per gli abusi e le violenze non c’è dignità morale. E forse non c’è nemmeno per le persone, o almeno sembra impossibile vederla se non si hanno gli occhi di quel famoso Dio della misericordia.
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di Rosa Ana De Santis
Alleato più che pubblicizzato di tutte le diete, protagonista di bevande e caramelle, snack dietetici e barrette di ogni tipo, l’aspartame è sempre più al centro di ricerche mediche che ne attesterebbero la pericolosità per la nostra salute. Ci ha pensato l’ultima puntata di Report a ricordare al pubblico gli inquietanti risultati dimostrati dall’Istituto Ramazzini nel corso dei suoi esperimenti su una colonia di ratti trattata in laboratorio con aspartame. Ricerche ed evidenze di cui nessuno sa - se non attraverso i siti della controinformazione - e che sono state tranquillamente riposte in un cassetto nell’imperturbabile silenzio delle autorità preposte alla tutela della salute pubblica che, va ricordato, in nulla hanno osteggiato la diffusione commerciale del prodotto rimasto a disposizione di tutti, grandi e piccini.
L’Istituto Ramazzini, con una ricerca mirata sul sucralosio, ha evidenziato nelle cavie decedute, attraverso i relativi rilievi autoptici, un incremento di linfomi e leucemie anche con un tasso di aspartame inferiore a quello previsto per gli uomini, ovvero 20 mg/kg di peso corporeo. La corrispondenza di aspartame e tumori maligni (responsabile anche le dosi di metanolo che sprigiona nell’organismo) è stata quindi rilevata anche a partire da dosi inferiori a quelle ritenute ammissibili per gli essere umani.
Questo avrebbe dovuto almeno destare un legittimo sospetto e indurre, se non ad un divieto che dovrebbe allora riguardare tanto altro cibo ingerito (come la carne agli estrogeni) ad un atteggiamento di prudenza e di cautela e, inevitabilmente, ad un programma di informazione ed educazione alimentare. Nulla di tutto questo è avvenuto se non una denuncia di terrorismo scientifico contro una delle maggiori Istituzioni di ricerca e studio dell’oncologia del nostro Paese. L’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro (IARC) dell'Organizzazione mondiale della Sanità ribadisce peraltro che tutti gli agenti considerati cancerogeni, anche quando sono presenti in dosi non alte, non possono mai essere considerati non dannosi per la salute dell’uomo.
Dopo la denuncia andata in onda su Rai3 nella commissione Affari Sociali della Camera, il PD ha posto al Ministro Balduzzi l’urgenza di fare chiarezza sulla sostanza che peraltro è presente anche in moltissimi prodotti farmaceutici, compresi quelli pediatrici. Il Ministro della Salute si è sempre interessato di altro. Non troppo tempo fa aveva proposto di super tassare le industrie che producono prodotti extra dolcificati con l’obiettivo di intervenire sulla patologia dell’obesità e in cambio di metterci a tavola l’incantesimo dei prodotti dolci, ma ipocalorici.
Una stranezza che meriterebbe qualche attenzione in più, visto che la formula magica del “dolce che non è zucchero” è proprio tutta concentrata sull’aspartame e i suoi parenti. La sola vaga possibilità di consegnare la popolazione tutta ad un rischio di cancro dovrebbe rappresentare un elemento sufficiente di analisi e di stop alla diffusione dei prodotti. Ma evidentemente la richiesta di prudenza viene ritenuta ormai solo il delirio di qualche integralista anti occidentale.La storia della commercializzazione dell’aspartame dalle sue origini è stata tutt’altro che semplice e il battesimo della sua non pericolosità arrivò con Reagan e il cambio del direttore della Food and drug administration. A beneficiarne fu Donald Rumsfeld, all'epoca amministratore delegato della casa produttrice di aspartame (e in seguito Segretario alla Difesa dell’Amministrazione Bush). Oggi in Europa torna con urgenza il bisogno di aprire un dossier di ricerca, per la pressione dei media e di molti parlamentari.
In Italia abbiamo di più. Abbiamo i risultati apprezzabili di un centro di ricerca da sempre apprezzato e considerato di riferimento assoluto che ha deciso di rifare e aggiornare le ricerche eseguite troppi anni fa per essere considerate attendibili oggi. L’atteggiamento delle autorità di fronte a queste evidenze è stato assolutamente superficiale, se non sconsiderato. Già nel 2005, ai con Storace Ministro della Salute, una lettera al Consiglio Superiore di Sanità chiedeva di occuparsi del problema aspartame, nonostante l’Europa fosse contraria ad ogni misura restrittiva sul prodotto. Da allora ad oggi niente è stato fatto e anzi la moda dei prodotti Light è incontenibile.
Sarebbe già molto realizzare una campagna di educazione alimentare che invitasse a ridurre gli zuccheri, piuttosto che fiancheggiare un mercato che premia l’acqua senza l’acqua e il dolce senza zucchero mettendoci nel piatto distillato di pesticidi e chimica industriale.La società occidentale deve fare i conti con un aumento impressionante, anche in età giovanile, di tumori maligni. La malattia è espressione di diversi fattori: non una sola è la causa, neppure nelle forme di origine genetica.
Non c’è dubbio che ambiente e cibo sono i grandi elementi che sono cambiati nel corso del tempo. Inquinamento e cibo drogato di ormoni, colture transgeniche, antibiotici e pesticidi stanno attaccando la nostra incolumità.
Teorizzava Feuerbach, nel suo anti idealismo e materialismo radicale, che l’uomo è ciò che mangia. Il filosofo non voleva certo teorizzare un’operazione di banale equazione al minimo o di riduzionismo della natura umana. Per capirlo basta osservare l’istantanea su quello che siamo diventati.
Una cultura che non riconosce i germi del proprio suicidio collettivo neppure quando l’ipersviluppo e il business si siedono alla nostra tavola, ci tolgono il pane e riempiono il piatto e la pancia dei nostri figli con il cartone e la vernice dell’ultima pubblicità. Che uccidono noi per fare ricche le corporations.
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di Vincenzo Maddaloni
Se le tante sinistre facessero il loro mestiere, che è anche quello di correlare i meriti e i demeriti all’assetto sociale, sicuramente vivremmo la trasformazione del mondo lavoro con qualche speranza in più. Che non è poco se si pensa che in questo Paese tre lavoratori al giorno muoiono a causa delle condizioni nelle quali si trovano a svolgere la propria attività; e nel silenzio pressoché totale. «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», scriveva nei "Quaderni dal carcere" Antonio Gramsci, del quale ricorre il settantacinquesimo anniversario della morte, (Roma, 27 aprile 1937).
Eppure i fatti di cronaca non mancano. Ogni giorno ci sono spunti per riaccendere la discussione sull’argomento. Basti pensare che a livello nazionale nei primi quattro mesi di quest’anno ci sono stati 105 morti sul lavoro, dei quali quindici soltanto in Lombardia e addirittura sei a Brescia. Vuol dire che gli operai sono disattenti? Che il lavoro è male organizzato? O peggio ancora che si debba morire lavorando? Lavorando per salari bassi, talvolta perfino indecenti. Insomma, si deve disseppellire il concetto di egemonia culturale inventato da Gramsci? Secondo il quale per egemonia culturale s’intende l’imposizione, attraverso le pratiche quotidiane e le credenze condivise, delle rappresentazioni e della visione culturale di un gruppo egemone (quello borghese) agli altri gruppi sociali, fino alla loro interiorizzazione.
Succede perché le istituzioni egemonizzate come la scuola dell'obbligo, i mass media, la cultura popolare, i tecnocrati indottrinano le masse dei lavoratori verso una falsa coscienza, con l’ acquisizione di falsi valori, come lo sono il consumismo ed il nazionalismo. Insomma la classe egemone «attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise», crea «i presupposti per un complesso sistema di controllo», avvertiva Gramsci.
Come oggi sta accadendo col governo tecnico di Monti? Oppure il monito di Gramsci è al giorno d’oggi esagerato? Credo di no, perché il mondo del lavoro sta vivendo uno dei suoi momenti più neri. Infatti, i salari italiani sono i più bassi tra quelli dei paesi fondatori dell’Unione europea, e diversamente da quanto è avvenuto in Francia, Germania e Inghilterra, in termini reali quelli italiani sono rimasti pressoché fermi se si tiene a mente che sono saliti dell'1,2 per cento su base annua. E' la crescita tendenziale più bassa dall'inizio delle serie storiche ricostruite, cioè si è tornati al 1983. Lo dichiara l’Istat, che sottolinea che la forbice tra stipendi e inflazione è al top, a far data dal 1995. E il governo che fa? Tace e aumenta le tasse mantenendo le motivazioni sul vago.
Eppure una delle cause, la più macroscopica è l’aumento massiccio del lavoro precario dovuto al fatto che le imprese tendono sempre di più a sostituire porzioni di forza lavoro stabile e qualificata con forza lavoro precaria e atipica. Sono quest’ultime figure contrattuali, tutte debolissime, quelle che puntano non ad elevare la condizione del lavoratore, ma ad aggredire la condizione del lavoratore stabile. Si tenga a mente pure - lo sottolinea sempre l’Istituto di Statistiche - che la media dei mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto è aumentata rispetto ad aprile del 2011. Oggi essa supera ampiamente i due anni. La ministra Fornero tutte queste cose le sa?
Certo che lo sa, tuttavia - per la prima volta in Italia e nonostante i tecnocrati al governo - coloro che lavorano rischiano di ritrovarsi in condizioni economiche non diverse da quelle del disoccupato assistito. Inoltre, chiunque abbia superato i quarant’anni è consapevole che ai primi segni di crisi il suo posto di lavoro è a rischio, e che in caso di licenziamento sarà molto difficile trovarne un altro di pari livello professionale e a parità di retribuzione.
Infine, l’allungamento dell’età pensionabile rende particolarmente critica la condizione di tale fascia delle forze di lavoro. Ma non va bene nemmeno per i giovani, anzi. Secondo i dati sulla disoccupazione giovanile pubblicati dall’Istat, tra il 2008 e il 2011 il numero degli occupati tra i 15 e i 34 è calato di un milione e 54 mila unità, passando dai 7 milioni e 110 mila di quattro anni fa ai 6 milioni e 56 mila dello scorso anno. Le giovani generazioni sono dunque quelle che scontano più di ogni altro gli effetti della crisi economico-finanziaria.
Tuttavia al di là della crisi c’è pure una rivoluzione in atto con protagonista la tecnologia che oggi non è più un mezzo nelle mani dell’uomo, ma per effetto della globalizzazione è diventata la vera protagonista del mondo dell’economia e del lavoro. La tecnologia non conosce il sociale, sa soltanto ottimizzare l’ impiego minimo delle risorse umane per conseguire il massimo dell’utile. Progetti a lunga durata se ne fanno sempre di meno per il semplice motivo che, la nuova tecnologia agisce in un arco di tempo compreso tra il recente passato e l’immediato futuro preferendo soprattutto l’immediato. E dunque alla progettazione di lungo periodo è subentrata quella di breve periodo, il che vuol dire la ricerca spasmodica per inserirsi in circostanze favorevoli tendenti a sfruttare tutte opportunità che esse possono offrire.
In un contesto del genere quel che si richiede al lavoratore è la capacità di cambiare tattica e stile nel breve periodo con la cosidetta flessibilità, che naturalmente deve essere a basso costo, di alta efficienza e di perfetta funzionalità poiché è la macchina, e soltanto essa che determina la tempistica di produzione e quindi ancora rimane - come nel più cupo fordismo - il modello che incanala e impone all’operaio il ritmo alla corsa.
Sicché Gramsci aveva visto giusto quando scriveva che il dominio di un gruppo su altri gruppi, con o senza la coercizione della forza, viene esercitato finché i modelli culturali del gruppo dominante si impongono agli altri, i quali si adattano e favoriscono il gruppo egemone. Il fatto è che in questo confronto i lavoratori partono svantaggiati poiché tra essi e le imprese non vi è (nemmeno vi è mai stata) una normale relazione di scambio, bensì un rapporto strutturalmente asimmetrico. Infatti, i lavoratori partono da posizioni di estrema debolezza ogni volta che debbono contrattualizzare la propria forza lavoro, poiché chi sa soltanto lavorare e possiede soltanto il “bene” lavoro non ha altre alternative di scambio da proporre.
Gli imprenditori, invece, possono essere meno «impazienti» nell’acquistare la forza lavoro, poiché possono sopravvivere consumando il proprio capitale. Inoltre, soltanto gli acquirenti della forza lavoro possono perseguire strategie dirette ad indebolire la controparte, vuoi ricorrendo a tecnologie risparmiatrici di manodopera, vuoi spostando gli investimenti da un Paese all’altro, vuoi modificando i requisiti professionali richiesti. E così da un’asimmetria strutturale nasce una prevaricazione di potere delle imprese sui lavoratori. Gramsci, aveva visto giusto? Settantacinque anni dopo la sua scomparsa il suo pensiero è ancora valido?
In Italia quel che più preoccupa sono i rapporti di lavoro non standard, quelli che fanno temere una maggiore instabilità del posto e tragitti lavorativi più discontinui, tanto più che il centro-destra aveva aggiunto un armamentario di impieghi flessibili alle modalità già introdotte dal centro-sinistra. Va anche detto che i vari tipi di contratti a termine hanno sostituito il tradizionale periodo di prova, sia perché certi imprenditori li sfruttano per dilazionare al massimo l’assunzione stabile, o per evitarla, sia perché molti ritengono insufficiente il periodo previsto dai contratti.
Spiega il segretario confederale della Cgil Vincenzo Scudiere : «La credibilità e l’efficacia delle politiche economiche del governo si misura esattamente dalle politiche per la crescita, rispetto alle quali si registra un grave ritardo. Se da una parte si contano un milione di under 35 occupati in meno in tre anni», continua Scudiere, «dall’altra parte abbiamo tre miliardi di ore di cassa integrazione relative allo stesso periodo: uno scenario che raffigura la pesantezza di una crisi che si abbatte prevalentemente sulle fasce più deboli, i giovani».
Infatti sempre l’Istat rileva che tra il 2010 e il 2011 il numero dei giovani occupati (15-34 anni) si è ridotto di 233 mila unità. Ancor più drammatica la situazione dei giovanissimi (fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni), la cui quota di occupati è crollata del 20,5 per cento tra il 2008 e il 2011 (303 mila unità in meno). Per completare il quadro va aggiunto che sebbene rappresentino un’opportunità di ingresso nel mondo lavoro, i rapporti a termine creano la «ghettizzazione» professionale e l’emarginazione sociale quando il lavoratore vi rimane intrappolato. Infatti, è risaputo che chi ha un contratto a termine stenta a ottenere prestiti e ad affittare appartamenti. Così diventa comunque difficile costruirsi un percorso, formulare previsioni e progetti di una certa portata in campo professionale e spesso anche in campo esistenziale e familiare.
Come si fa di fronte a tanta evidenza, a non capire che il problema del lavoro con tutte quelle morti bianche, assieme ai suicidi dei tanti piccoli imprenditori è un problema prioritario? Dire che non si risolve commemorando le vittime degli incidenti nei cantieri e nelle fabbriche, o predicando che è tutta colpa della crisi economica che stiamo vivendo è storia vecchia, troppo vecchia ormai.
Le sinistre, come detto, dovrebbero ritornare a farsene carico adeguando le strategia ai nuovi tempi, ma finché continuano a sbranarsi, compagno contro compagno sul partito di sinistra ideale da fondare o sulle alleanze da fare, non s’inquadrano i problemi nuovi del mondo del lavoro. Sicché o sbagliano quando intervengono poiché non hanno proposte adeguate da presentare o, nel peggiore dei casi, addirittura non le presentano affatto. Insomma, una catastrofe.
Intanto, la grande impresa - con il pretesto dei rincari del costo del petrolio e delle materie prime, degli assilli della competizione globale - è sempre meno disposta a contrattare e sempre più disposta a indicare i lavoratori e le loro rivendicazioni contrattuali come tra le maggiori cause del disastro economico. Così vivendo il rischio è che prevarrà nella società civile la convinzione secondo la quale “è giusto” “è bello” soltanto la conquista dell’utile economico. Sicché le rivendicazioni operaie non possono essere considerati che un fastidioso incidente di percorso, e quindi vanno cassate. Gramsci, aveva visto giusto, almeno così pare.
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di Vincenzo Maddaloni
Da quando è entrato in vigore - 1 aprile - il regolamento che stabilisce le modalità di esercizio del diritto d’iniziativa dei cittadini europei, le lobby hanno un’arma in più, peraltro formidabile, per poter introdurre norme a loro favorevoli senza dovere laboriosamente intervenire per fare approvare, bloccare o modificare le proposte della Comunità europea e dei i suoi deputati. In termini di efficienza, se non altro è per costoro un bel progresso che non sarebbe stato possibile senza questa nuova norma introdotta dal trattato di Lisbona.
Infatti, il nuovo diritto d'iniziativa popolare riconosce a tutti i cittadini europei la facoltà di contribuire a determinare le politiche dell'UE. Esso consente a un gruppo di persone che condividono una stessa posizione di chiedere alla Commissione di proporre una nuova legislazione su un argomento specifico. La Commissione, alla quale spetta il compito di presentare le nuove proposte legislative in ambito europeo, è formalmente tenuta a prendere in esame qualsiasi richiesta che soddisfi i requisiti previsti. Beninteso, essa avrà tutti i poteri per respingerla entro i tre mesi successivi, a patto che si prenda la briga di spiegare pubblicamente il perché, il che molto difficilmente accade.
Naturalmente per obbligare la Commissione europea a prendere in considerazione una proposta di legge d’iniziativa popolare occorrerà raccogliere non meno di un milione di firme in almeno sette paesi UE e superare un lungo percorso a ostacoli burocratico. Se passerà indenne tutti gli esami, la proposta legislativa - recita il regolamento - sarà sottoposta al Consiglio dell'Unione europea (dove siedono i governi dei Paesi dell'UE) e, nella maggior parte dei casi, anche al Parlamento europeo. Se viene adottata, diventa una legge.
Ma chi dispone dell’apparato e dei fondi necessari per organizzare una campagna di sensibilizzazione di una tale vastità e nel contempo affrontare le complesse procedure richieste? Sicuramente le lobby finanziarie, le grandi multinazionali per esempio che dedicano un’attenzione speciale all’UE, poiché essa ha le leve di comando concentrate in poche e ben definite sedi, e poi perché nella quasi totalità dei casi il diritto comunitario prevale sul quello di ogni singola nazione che ne fa parte. Migliaia di lobbisti, centinaia di società di pubbliche relazioni e studi legali, dozzine di think tank e di “uffici d’affari europei” di centinaia di imprese si sono allocati a Bruxelles da quando hanno capito molto bene, che quello è il posto giusto per esercitare pressioni ottenendo dei risultati che rispondono alle aspettative.
Si tenga a mente poi, che la NATO e l’UE hanno entrambe la loro sede centrale a Bruxelles. Del resto la NATO, sebbene non si a tutti noto, ha tra le sue prerogative istituzionali quella di esercitare una diretta ingerenza nelle questioni economiche dei Paesi membri. Infatti, l'articolo 2 del Patto Atlantico prevede e sollecita l'integrazione economica tra i Paesi membri dell'alleanza o tra gruppi di essi: «Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte. Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte.» (Patto Atlantico, articolo 2).
Dunque la NATO si configura con un assetto nel quale i centri decisionali sono tanti e tutti in bella evidenza. Il loro é un lavoro minuzioso, a volte fino allo spasimo per fare in modo che molte delle direttive internazionali vengano spalmate in modo che appaiano come fatti di politica interna in quei Paesi che più di altri sono interessati a tener nascosta all’opinione pubblica la “dipendenza” dagli Stati Uniti. Il fatto - ad esempio - che Mario Monti sia addirittura un "advisor" del Consiglio Atlantico, l'organo supremo della NATO, la dice lunga su questa dipendenza che in diversa misura coinvolge tutti Paesi dell’UE.
Un esempio tra i tanti è la spinta alle privatizzazioni a tappeto - imposte dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca Centrale Europea - sebbene esse non siano funzionali allo sviluppo industriale, bensì a quello finanziario. Le stesse lobby hanno declassato il liberismo a un semplice slogan per coprire l'assistenzialismo ai banchieri con il programma "Financial & Private Sector Development" della Banca Mondiale, la quale per evitare il panico tra i risparmiatori parla di privatizzazione invece tampona col rifinanziamento il settore.
Siccome con l’approvazione del “Diritto di iniziativa” i lobbisti aumentano il loro potere, di conseguenza anche Bruxelles accresce la sua fama di sede ideale per i giochi di potere, conquistandosi un posto di tutto rispetto nella costellazione dei gruppi di pressione. Come ha scritto Gabriela Anghel non senza ironia:«Funzionari, diplomatici, lobbisti e giornalisti si incontrano dalla mattina alla sera, pranzano nel quartiere Europe, cenano nel quartiere Des Sablons, partecipano a cocktail party, si frequentano la sera e durante i fine settimana, membri di uno stesso club dedito a una nobile causa: l’Europa e il suo benessere!». (http://www.romanialibera.ro/).
Infatti, è in uno scenario come questo descritto - tra i più ambiti dai rappresentanti dei poteri mondiali - che s’incontrano e si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bildelberg club e della Goldmann-Sachs, insomma dei reggitori dell’impero economico globale. Comunque essi siano, ne esce sempre una sorta di consorteria più o meno rabberciata, ma ricolma di danaro e di potere che vuole imporre la propria visione sui grandi fatti che fanno la storia del mondo. Una di queste mira a far apparire gli americani non più come gli imperialisti da combattere, bensì come i benefattori da amare.
Si tenga a mente che dopo l’aggressività della presidenza Bush, si è tornati con Obama alle tradizionali tattiche di understatement per “ricostruire” l’immagine di un Paese che di fronte a una Cina emergente si mostra pronto ad abdicare al ruolo di prima potenza economica mondiale, pur di scrollarsi di dosso l’imbarazzante nomea di potenza imperialistica per eccellenza. Sicché d’ora in avanti anche ai più avversi al drapeau a stelle e strisce si spiana la strada qualora volessero diventare filoamericani, poiché non avrebbero più motivi per sentirsi in colpa. Se questa strategia così sapientemente distillata dovesse diventare una realtà condivisa, le mille e una basi militari USA e NATO, che controllano capillarmente ogni spazio strategico d’ Europa, diventerebbero un dettaglio di scarsa importanza del paesaggio e potrebbero continuare ad operare del tutto indisturbate.
Insomma, la nuova norma voluta dal trattato di Lisbona giova non poco alle grandi multinazionali hanno a disposizione una sorprendente capacità di fuoco a sostegno di una guerra psicologica che per molti versi ha gli effetti devastanti delle bombe. Spiega Ajay Kapur, l’analista indiano autore di uno studio nel quale teorizza l'avvento di una “plutonomia”, cioé un sistema in cui i ricchi definiscono le leggi, scrivono le regole, dettano l'agenda ai leader del mondo. Gli Stati Uniti, Inghilterra e Canada sono per Ajay Kapur i "modelli" originari di plutonomie nel XXI secolo, come in passato lo furono la Spagna del XVI secolo, l'Olanda del XVII, e la stessa America nei ruggenti anni Venti alla vigilia della Grande Depressione.
Lo studio di Ajay Kapur che risale a qualche anno fa (l’analista indiano era allora lo stratega del colosso bancario Citygroup a Wall Street, mentre adesso decide le strategie della Deutsche Bank in Asia) rimane quanto mai attuale. Infatti, esempio classico di “plutonomia" è la Goldman Sachs che ha attivi superiori alla Banca Centrale Europea, la quale gestisce la moneta di diciassette Paesi. La sproporzione non cambia se si guarda al fondo d'investimento Blackrock di Wall Street che amministra un patrimonio (3.500 miliardi di dollari) superiore alle riserve di qualsiasi banca centrale al mondo, inclusa quella cinese. Insomma la gestione di maree di danaro ad opera di pochi avvaIora un’opinione diffusa secondo la quale chi ha i soldi centellina pure la democrazia.
Ne è una riprova - ad Est come ad Ovest - quella strategia amplificata dai media che mira alla rivalutazione della funzione dei ricchi, fino a rappresentarla come ineludibile per l’evoluzione delle società del XXI secolo. E’ un’azione ben concertata con i grandi mezzi di comunicazione di massa con la quale si fa leva su una costante, quasi maniacale, denigrazione dei poveri. Il messaggio che si trasmette alle genti è quello dei ricchi impegnati a far crescere la società nel benessere, mentre i poveri con i loro momenti di disordine e disperazione frenano la realizzazione del grande progetto.
Così si spiega perché le iniziative dei sindacati - ad esempio - vengano fatte apparire come perniciose allo sviluppo della società e perciò l’invito che viene trasmesso è di ostacolarle, combatterle, fino all’annientamento totale di chi le propone e di coloro che le sostengono. E’ uno scenario che è diventato cronaca quotidiana ormai e non soltanto in Italia. Sicché ci vuol poco a capire che la semplice gestione di quel “diritto d’iniziativa” previsto dal trattato di Lisbona in termini di efficienza, se non altro, è un bel progresso. Per chi se lo agguanta per primo.
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di Rosa Ana De Santis
E’ accaduto mercoledi scorso alle porte di Roma, a Monterotondo. Un gruppetto di ragazzi prende a calci, schiaffi e spinte una donna tunisina. Le tirano il velo, la insultano, le gridano “kamikaze fatti scoppiare”, le ordinano di togliersi il chador e di tornarsene nel proprio paese. L’aggressione accade in pieno giorno, nel centro di una cittadina non molto grande a pochi chilometri dalla Capitale, e nessuno dei passanti muove un dito per difendere la donna.
E’ di sicuro questo il dato più aberrante di tutta la vicenda. Neila, questo il nome della vittima, è in Italia da oltre venti anni e questo è il primo episodio di violenza così brutale che le sia capitato. Segno che forse questo paese sta assumendo, ora in modo più evidente, tratti d’intolleranza e di razzismo preoccupanti.
Neila denuncia tutto ai carabinieri, e il comandante riferisce alla stampa che si è trattata di una rissa tra cittadini, degenerata solo poi in insulti e spinte di tipo razzista. Quale che sia stata la dinamica della lite, non c’è dubbio che Neila non abbia subito ingiurie neutre, ma che sia stata derisa e fisicamente impaurita con parole razziste e intimidazioni fisiche di ordine discriminatorio. L’aggravante è facilmente deducibile tanto che il reato contestato è di lesioni e non di rissa.
Diventa difficile far rientrare il caso nella banalità di un gruppetto di bulletti annoiati. Difficile perché tra questi ci sono ragazzi grandi, perché si é trattato di una vera e propria aggressione anti islam e perché nessuno è intervenuto per proteggere Neila, a parte sua sorella. Forse proprio per quel velo che disturba, ricordando agli occhi dell’ignoranza collettiva la non italianità di chi lo indossa. Ignoranza di chi non distingue la religione dall’appartenenza ad un paese, di chi crede che islamico significhi terrorista, di chi pensa che indossare il velo sia contro la legge italiana.
Non parliamo del burqa, infatti, che impedisce l’identificazione di chi lo indossa e che non è ammissibile per ragioni di sicurezza collettiva oltre che per principio di una democrazia che non può ammettere tale discriminazione di genere. Parliamo di un velo sul capo per coprire i capelli che nasce dalla libera adesione ad una fede religiosa.
Il dibattito sul velo, va detto, è tutto tranne che semplice. Non molto tempo fa fu il governo francese ad occuparsene alla ricerca (vana) di un divieto liberale ad indossarlo. Sarà vero che la donna che lo porta non è spesso pienamente libera nei propri diritti civili, sarà che il più delle volte è indotta da abitudini familiari vessatorie ad indossarlo, fatto sta che imbarcarsi alla volta di una sorta di obbligo di legge a misurare la reale emancipazione delle donne ci porterebbe a dover entrare nelle case di tutti. Anche di tutti quegli italiani che massacrano di botte fino ad uccidere le proprie mogli (e le ultime statistiche fanno impallidire), senza il bisogno di essere islamici.
L’episodio di Neila non è nulla di tutto questo. Non ha a che vedere con le difficoltà di convivenza tra culture lontane, è più semplice e più profondo nello stesso tempo. Semplice come la stoltezza e il vuoto mentale di un mirato bombardamento mediatico che nasce spesso più dai telegiornali che dalle trasmissioni di contorno. Semplice come gli strilli dei quotidiani e come il commento domenicale al bar tra un goal e un altro. Profondo, instillato ormai in un rigurgito di ricorsi storici mai sedati; vige l’odio razziale tra le persone comuni, tra i più giovani soprattutto.
Nemmeno quello della vulgata che se la prende con chi arriva in Italia per mendicare o per spacciare o per rubare il lavoro agli italiani o con l’ubriaco al volante. Ma quello che arriva a scagliarsi contro una mamma che beve un caffè al bar e che toglie, come ha tolto, a ogni cittadino perbene il coraggio e l’onore di difenderla.