di Mario Braconi

Essere punk in una democrazia occidentale può essere divertente: ribellione, anarchia, oltre alla sperimentata triade sesso, droga e rock and roll. Ci sono ovviamente eccezioni: muovendosi lungo la scena culturale punk, infatti, può capitare di incontrare gente davvero brutta (ala neonazista) o, all’estremo opposto, soggetti impregnati di un salutismo fisico e psicologico estremo (la cosiddetta subcultura “punk straightedge”, punk che scelgono di dire no alle seduzioni della democrazia capitalista rigando dritto: niente promiscuità sessuale, niente droga né alcol, niente caffè, dieta vegetariana o vegan).

Essere punk anarchici, anzi o meglio punk anarchiche nella Russia di Putin è tutt’altra cosa: esprimere in modo artistico la propria rabbia può significare mesi di galera. E’ quanto sta accadendo a tre ragazze del collettivo musicale anarco-femminista Pussy Riot, imprigionate in un carcere russo in seguito ad una loro performance artistica.

Ma andiamo con ordine: lo scorso 21 febbraio il collettivo femminile ha preso parte alle proteste popolari contro la rielezione di Putin alla carica di presidente. Il contributo delle Pussy Riot è stato un concerto flash di cinque minuti all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca.  Diverse “gattine in rivolta” nelle loro uniformi ufficiali (vestiti interi, passamontagna e calze sgargianti) si sono dapprima prodotto nell’imitazione satirica di una preghiera, per poi cantare, al suono di una chitarra elettrica, uno dei pezzi del loro repertorio. Una canzone davvero adatta al luogo, visto che si tratta di “Punk Prayer” (preghiera punk): un inno anti-Putin, impreziosito da un ritornello blasfemo. Con la loro preghiera sui generis le punk intendevano denunciare lo stato di polizia instaurato da Putin, come pure l’atteggiamento filo-governativo della chiesa ortodossa russa: “tutti i parrocchiani si affollano ad omaggiare / la tonaca nera e le spalline dorate / il fantasma della libertà è in paradiso / mentre il Gay Pride è spedito in Siberia in catene (...) / il Patriarca Gundyaev crede in Putin / farebbe meglio a credere in Dio, piuttosto / la cintura della Vergine non può sostituire assemblee di massa / Maria, madre di Dio, protesta assieme a noi”.

Ovviamente la performance non poteva però rimanere impunita. Il 5 marzo, sette persone sospettate di aver dato vita al concerto improvvisato nella cattedrale sono state prelevate dalla polizia, anche se solo due di loro, Nadezhda Tolokonnikova e Maria Alyokhi, sono state fermate. Il reato ipotizzato è quello di “teppismo”, per il quale in Russia si rischiano pene detentive fino a sette anni. Sin da subito è stato chiaro, inoltre, che le autorità russe intendevano tenere in prigione le due ragazze fino alla celebrazione del processo, inizialmente previsto per aprile: questa circostanza ha spinto le due giovani ad iniziare uno sciopero della fame. Il sedici marzo è stata arrestata una terza ragazza, Irin Loktina, inizialmente sentita come testimone dei fatti. E’ molto difficile per le autorità accusare qualcuno che durante i fatti contestati aveva il volto celato da un passamontagna, come nel caso delle tre musiciste- attiviste. Per questa ragione, tanto le accuse che la detenzione in attesa di processo sono palesemente illegittime.

Madeleine Kruhly di The Atlantic ha tentato di inquadrare da un punto di vista socio-culturale il reato di “teppismo” in Russia, interpellando Neil B. Weissman, autore di un saggio sui casi di “teppismo” registrati in Russia tra il 1905 al 1918. All’inizio del Novecento, spiega Wiessman,  “la polizia russa cominciò ad appioppare questa accusa a tutti i responsabili di reati di danneggiamento contro la élite (...) finché la classe dei poveri decise di commettere il suo atto di ‘teppismo’ più clamoroso, ovvero sbarazzarsi della sua élite una volta per tutte”. Corsi e ricorsi storici, dunque. Un tempo la classe degli oppressori (nobili e chiesa) ha inventato una fattispecie giuridica per garantirsi lo status quo e punire ogni forma di ribellione agli abusi perpetrati ai danni del popolo. Oggi, quello stesso reato viene usato, in modo molto simile, da una nuova élite, per le stesse ragioni: non si tratta più dell’aristocrazia, ma di una cricca di ex agenti segreti dal grilletto facile. E’ chiaro che oggi a protestare (in modo peraltro molto più blando di quanto accadesse oltre un secolo fa) sono le classi intellettuali: tuttavia, atti di “teppismo” come quelli perpetrati dalle Pussy Riot, allora come oggi, “rappresentano una forma di dissenso pubblico contro tirannide e leggi ingiuste. E oggi come ieri in Russia, il dissenso pubblico viene visto come qualcosa da temere e reprimere”.

In realtà, l’incarcerazione delle Pussy Riot serve come pro-memoria a tutte le donne e gli uomini russi: questo è il destino che attende chi contesta Putin. Dietro la burletta dell’accusa di teppismo, in effetti, si cela un processo poltico con tutte le situazioni farsesche che esso comporta. Come la presentazione, lo scorso 4 luglio, di un verbale di accusa di 2.800 pagine, cui le imputate sono state chiamate a replicare entro il 9 luglio. Non a caso, Amnesty International ha nel frattempo lanciato un’azione globale urgente finalizzata alla liberazione delle tre giovani “imprigionate per aver espresso pacificamente il proprio pensiero”.

La ONG sottolinea come agli imputati e i loro avvocati sia stato fornito un solo originale del faldone da tremila pagine (più dieci ore di registrazioni), da condividere, dal momento che non è stata messa a loro disposizione nemmeno una fotocopiatrice. Per non parlare dell’ennesima proroga dei tempi di carcerazione preventiva: in un primo momento essa era stata estesa fino al 24 luglio. Ma l’udienza preliminare del 20 luglio la ha riconfermata per ulteriori sei mesi: in altre parole, i cinque minuti di protesta stanno costando alle tre musiciste-attiviste quasi un anno di carcere (per un delitto d’opinione). Nella seconda sessione dell’udienza preliminare del 23 luglio, poi, il giudice ha concesso alle imputate altri quattro (quattro!) giorni per studiare le carte, respingendo al mittente le richieste dei loro avvocati, che avevano proposto un supplemento di indagine e l’avocazione di testimoni, tra cui Putin e il Patriarca della Chiesa Ortodossa. La corte, inoltre, si è riservata di valutare in un secondo momento le perizie linguistiche e psicologiche ordinate per verificare se nelle parole della canzone suonata nella cattedrale a febbraio si possano riscontrare gli estremi di un altro reato, l’incitazione all’odio razziale: un prendere tempo non giustificato, dal momento che già due dei tre esperti consultati hanno escluso tale possibilità.

In ogni caso, la protesta delle Pussy Riot sta creando una grande onda anomala dentro e fuori la Federazione. Grazie ad iniziative coraggiose come quelle delle Pussy Riot, l’autoritarismo di Putin sotto gli occhi del mondo, mentre in Russia perfino il fronte dei fedelissimi a Putin accusa qualche segno di cedimento: infatti, sotto i diversi appelli contro l’incriminazione della giovani russe, sono sorprendentemente comparse anche le firme di artisti considerati politicamente vicini a Putin. Nel frattempo diversi musicisti mainstream, tra cui Sting, i Red Hot Chili Peppers hanno “adottato” le Pussy Riot. Una cosa è sicura: Putin ha sottovalutato l’effetto boomerang della sua campagna di repressione del dissenso.

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