di Rosa Ana De Santis

E’ agosto, il 14 per l’esattezza. La calura dell’Africa brucia la Capitale e per i moltissimi romani rimasti a casa la vita scorre lentissima. Peggio del solito. E’ in arrivo un pacco firmato Poste Italiane in un quartiere della periferia nord della Capitale. Si tratta di un delizioso regalo di compleanno partito da Sarzana con Posta Celere 1.

Il corriere arriva alle 12.35. Lo manco per 5 minuti, dopo averlo aspettato ai domiciliari per due mattine, date come possibili senza indicazioni di orario,  e solo dopo, troppo dopo , trovo la ricevuta color arancio della mancata consegna, attaccata con adesivo sul citofono del mio palazzo. Sembrava un cartoncino pubblicitario buttato tra tanti e ancora oggi mi domando perché non gli sia stata preferita la mia cassetta della posta, in teoria adibita proprio a questo uso.

L’uomo delle consegne ha avuto la premura di lasciare il suo numero cellulare, ma di non riportare il numero della spedizione. E’ così che inizia un’avventura investigativa a pagamento con il numero verde,  gratuito solo per chi chiama da telefono fisso. Alla fine del disco, delle attese e delle conversazioni con gli operatori, capaci di dare tre versioni diverse nel giro di mezz’ora, scopro che sono in ritardo per chiamare il corriere sul cellulare, ma soprattutto per fermare il secondo tentativo di consegna che avverrà nel giorno in cui so già di non essere reperibile a casa.

La procedura è irreversibile, dicono. Il fatto assume sembianze quasi fantascientifiche. La Posta non può parlare con i suoi corrieri e per concordare un altro appuntamento devo attendere la mattina del giorno seguente, quando avrò in mano la seconda bolla color arancio, o chiamare la sera dello stesso giorno, poco prima delle 20, quando i terminali riporteranno la sigla ufficiale che dice a Poste quello che io provo a dire da due giorni: ovvero che non mi avrebbero trovata nel mio domicilio.

La macchina della burocrazia avvitata su se stessa è partita e non c’è nessuno, nemmeno io che dichiaro che non sono in casa, che può fermarla. Soldi, tempo, lavoro di tutti buttato al vento.

L’ennesima telefonata mi svela l’ultima delle sorprese, finora strategicamente celata. Non è possibile concordare un terzo appuntamento e sarà mia onere ritirare il pacco nell’ufficio postale designato. Sono tre giorni che lavoro per Poste al recupero di un mio oggetto e, a quanto pare, completerò l’opera con un degno self service.  Chissà se avrò un compenso a fine progetto.

La ciliegina sulla torta è che l’ufficio postale che custodisce il mio regalo non è però la mia filiale, il luogo più vicino, per intenderci, dove pago le mie bollette e ritiro le mie raccomandate. Ne ho vinto uno molto più distante. Mi indicano la sede SDA che si trova in Via Corcolle, oltre l’anello del Raccordo Anulare sulla Tiburtina e solo per un mio eccesso di zelo e un’altra telefonata scopro che non ho bisogno di uscire dalla città, ma che basta andare all’ufficio postale sito in Viale Adriatico. Un altro piccolo errore del numero verde.

E’ qui che vado la mattina di venerdi 17 agosto. E scopro, leggendo un confuso avviso cartaceo inchiodato al cancello,  che quest’ ufficio è chiuso per lavori e le sue competenze sono smistate in altre due filiali di due diversi quartieri. Mi allontano con una domanda che infittisce il giallo del mio recupero: in quale dei due sarà il mio regalo? In quello dei pacchi e raccomandate o in quell’altro che smaltisce le giacenze di quello chiuso per lavori in corso? Per non parlare degli orari diversi, con differenza di una manciata di 5 minuti e e delle mille eccezioni di festivi e feriali e dei giorni festivissimi di ferragosto e dintorni. Quante combinazioni dovrò seguire sabato mattina alla ricerca del mio pacco, tenuto conto che il sabato è un prefestivo e che nessuno risponderà mai al telefono?

Il rebus mi appare da subito troppo complicato e mi rivolgo testarda e forse anche troppo ingenua di nuovo al call center. L’operatore cerca di placare le mie intemperanze e prova a difendere, timidamente a dire il vero,  la correttezza di Poste Italiane che “le sue cose” le comunica. Magari con un pizzino di carta che mi ha obbligato ad arrivare in faccia ad un ufficio chiuso, perdendo una mattina di lavoro, ma l’ha fatto. Mi precisa che loro peraltro non sono dipendenti di Poste e non parlano con le Poste, ma consultano dei terminali.

Mi chiedo allora se non sia più economico mettere dei risponditori automatici, visto che il metodo è quello di appaltare all’esterno per risparmiare. Misuro con rassegnazione quanto poco possano importare le rimostranze dei cittadini se non si lavora più in seno ad un’azienda e non si ha più alcuna responsabilità diretta nel merito dei servizi erogati. Ma se prendessi i loro quattro spiccioli e rispondessi da un garage adibito ad ufficio, farei lo stesso, penso.

Mi rendo conto infine di quanto sia frustrante e vessatorio vivere sottomessi all’odiosità di procedure, burocrazie e avvitamenti insensati di un sistema di regole e cavilli obeso e privo di senso. Tenuto in vita apposta per azzerare i diritti, senza il disturbo di annunciarne l’estinzione. Una vecchia e nota malattia nazionale del sistema Italia.

La burocrazia, le procedure senza testa, di cui questa banale storia è solo una prova minima e senza dolorose conseguenze, sono diventate lo specchio migliore di un paese arretrato, lontanissimo dagli standard della cosiddetta civiltà.

I cittadini e gli utenti sono affidati a società fantasma che prendono due lire per mantenere indisturbata l’inefficienza dei servizi all’apparenza accessibili ai cittadini. Devi conoscere il direttore di turno e chiamarlo sul cellulare: è l’unico metodo efficace per sfangare un diritto in Italia. Così recita la vulgata al bar o alla pensilina degli autobus. E mentre ci penso su, mi rendo conto che non ne conosco nessuno e che per il prossimo compleanno spero di farmi recapitare il pacco molto più  a Nord delle Alpi. La sensazione è che oltreconfine arriverà sicuramente prima.

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